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CLASSIC'/ D.

ELLA POLIT/C"'A

COLLEZIONE FONDATA DA

LUIGI FIRPO

CLASSICI'{$_1JJ!
�UTET
LO SPIRITO
DELLE LEGGI

di

Charles de Seconda!
barone di Montesquieu

A CURA DI

SERGIO COTTA

Volume primo

UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE TORINESE


PARTE SECONDA
LIBRO NONO

LE LEGGI NEL LORO RAPPORTO


CON LA FORZA DIFENSIVA

CAPO I. Come le repubbliche provvedono alla loro sicurezza.

Se una repubblica è piccola, sarà distrutta da una po­


tenza straniera; se è grande, perirà per vizi interni 1.
Questo doppio inconveniente colpisce in egual misura le
democrazie e le aristocrazie, siano esse buone o cattive.
Il male è nella sostanza stessa delle cose: non esiste alcuna
forma di rimedio.
Di conseguenza, è da ritenersi che gli uomini sarebbero
stati costretti alla fine a vivere per sempre sotto il governo
di un solo, se non avessero studiato una forma di costitu­
zione, che possiede tutti i vantaggi interni del regime repub­
blicano e tutti quelli esterni del regime monarchico. Mi
riferisco alla repubblica federativa.
Questa forma di governo ha origine da una convenzione
m base alla quale numerosi corpi politici consentono a dive-

I . La citazione figura anche in Pmsées, II, fol. 1 8, n. 940 ( r 8o6), dove


osserva: « Ogni repubblica troppo piccola non può venir considerata libera "•

affermando quindi la necessità per esse di una associazione federale.


L'affermazione del testo sembra escludere la possibilità di vita di qual­
siasi repubblica che non sia federativa, dato che nel cap. VIII, 16 aveva
affermato che, dal punto di vista della politica interna, una repubblica
per sussistere deve avere un territorio piccolo. Era questa del resto anche
l'opinione di MACHIAVELLI, il quale nei Discorsi sopra la prima deca di
Tito Livio cosi scriveva: « È impossibile che ad una republica riesca lo
stare quieta, e godersi la sua libertà e gli pochi confini: perchè, se lei non
molesterà altrui, sarà molestata ella; e dallo essere molestata le nascerà
la voglia e la necessità dello acquistare; e quando non avessi il nimico
fuora, lo troverebbe in casa: come pare necessario intervenga a tutte le
gran cittadi... E bisogna o ampliare per via di leghe, o ampliare come i
Romani » (II, 19) . Nello stesso senso si esprimerà RoussEAU, cfr. Du
contrat social, III, 15 e Considérations sur le gouvernement de Pologne, cap. 5·
PARTE SECONDA

nire p arti di uno Stato più grande che tutti insieme inten­
dono formare. È questa una società di società che ne creano
una nuova, la quale può ingrandirsi grazie a nuovi asso­
ciati t , che si sono Ùniti.
Furono queste · associazioni a render fiorente per così
lungo tempo la Grecia 2. Grazie ad esse i Romani attacca­
rono il mondo intero, e grazie ad esse sole il mondo intero
si difese contro di loro. Quando Roma raggiunse il massimo
della propria grandezza, fu per mezzo di simili associazioni
poste oltre il Danubio ed il Reno, e sorte per effetto della
paura, che i barbari poterono resisterle.
È per questo che l'Olanda la Germania 1, le leghe sviz­
a,

zere, sono considerate in Europa quali repubbliche eterne.


Le associazioni tra città erano in altri tempi più neces­
sarie di quanto non lo siano oggi. Una città mal difesa cor­
reva rischi gravissimi. Essere conquistata significava la
perdita non soltanto del potere esecutivo e legislativo, come
avviene oggi, ma anche di tutte le proprietà individuali h,
Questo tipo di repubblica, capace di resistere alle potenze
straniere, può mantenersi nella sua grandezza senza corrom­
persi all'interno. La forma di questa società previene tutti
gli inconvenienti.

a. È formata infatti da circa cinquanta repubbliche 4, tutte


diverse le une dalle altre. État [présent de la République] des
Provinces Unies [L'Aia, 1729-1730, 2 voli .] del signor jANISSON
[ma Janiçon] .
b. Libertà civile, beni, mogli, figli, templi e persino sepolture.

1. In A segue: « fino a che la sua potenza non basta alla sicurezza di


coloro che si sono uniti ».

2. Cfr. Lettres Persanes, CXXXI, dove, parlando delle repubbliche


greche, usa una espressione quasi identica.
3 · In Lettres Persanes, CXXXVI, parlando dell'Impero germanico si.
stupiva che potesse sussistere nonostante le divisioni, appunto perchè
non lo considerava come uno Stato federale.
4· In realtà, come dirà poi egli stesso nel cap. 3. la repubblica d'Olanda
era costituita di sette province. Montesquieu intendeva evidentemente
alludere al fatto che nell'àmbito di ogni provincia si avevano più città
con diritto di voto nell'assemblea della provincia, di moda che l'Olanda
appariva come una federazione di province federate, cfr. quanto scriveva
in proposito nei suoi Voyages, I I , 227-8. L'inesattezza era già stata rile­
vata da VoLTAIRE, cfr. Commentaire sur l'Esprit des Lois, art. 36.
Una pagina autografa dell 'Esprit des Lois
(vol. II, fol. go; Parigi, B iblioteca Nazionale).
LIBRO NONO 239

Chi volesse usurpare il potere non potrebbe godere del


medesimo credito presso tutti gli Stati confederati. Se,
infatti, costui si rendesse troppo potente in uno, allarmerebbe
tutti gli altri; se ne soggiogasse una parte, quella rimasta
libera potrebbe resistergli con forze indipendenti da quelle
da lui usurpate, e annientarlo prima che potesse consolidare
il proprio potere.
Se si verifica qualche sollevazione presso uno dei membri
confederati, gli altri possono placarla. Se qualche abuso si
introduce in una parte della confederazione, viene corretto
dalle altre, rimaste sane. Questo tipo di Stato può perire
da una parte, senza perire dall'altra; la confederazione può
sciogliersi, rimanendo sovrani i confederati. Composta di
piccole repubbliche, essa gode della bontà del governo in­
terno di ciascuna; rispetto all'esterno, poi, possiede, grazie
alla forza dell'associazione, tutti i vantaggi delle grandi
monarchie.

CAPO II. Che la costituzione federativa deve esser formata


da Stati della medesima natura, soprattutto da Stati
repubblicani.

I Cananei furono distrutti, perchè erano piccole monarchie


non confederate, e che non si difesero in comune 1, Ciò
perchè la natura delle piccole monarchie non porta alla
confederazione.
La repubblica federativa germanica è composta di libere
città, e di piccoli Stati sottoposti a dei prìncipi. L'esperienza
dimostra che essa è meno perfetta di quella olandese e di
quella svizzera.
Lo spirito della monarchia è la guerra e il desiderio di
ingrandirsi; lo spirito della repubblica è la pace e la mode­
razione. Questi due tipi di governo non possono sussistere
insieme in una repubblica federativa, che in maniera forzata.

I. Frase che incorse nella censura della Sorbona, cfr. Appendice II.
vol. II, pp. 547-9·
PARTE SECONDA

Noi vediamo nella storia romana che, quando i Veienti 1 si


scelsero un re, tutte le piccole repubbliche etrusche li abban­
donarono. Tutto andò perduto in Grecia quando i re di
Macedonia ottennero un posto tra gli anfizioni z.
La repubblica federativa germanica, composta di prìncipi
e di libere città, si regge perchè ha un capo J che è in certo
senso il magistrato della unione, e in certo senso il monarca.

CAPO I I I . A ltri requisiti richiesti nella repubblica federativa·

Nella repubblica olandese, una provincia non può con­


trarre alleanze senza il consenso delle altre. Questa legge è
assai buona, e persino necessaria in una repubblica fede­
rativa. Essa manca nella costituzione germanica, ove evite­
rebbe le sciagure che possono colpire tutti i membri, a causa
dell'imprudenza, dell'ambizione o della avidità di uno solo
di essi. Una repubblica che si è unita a una confederazione
politica si è data internamente, e non ha più nulla da dare.
È difficile che gli Stati associati abbiano la stessa esten­
sione, e possiedano una potenza uguale. La repubblica di
Licia a era un'associazione di ventitre città: le grandi ave­
vano tre voti nel consiglio comune, le medie due, le piccole
uno. La repubblica olandese è composta di sette provincie,
grandi o piccole, le quali hanno ciascuna un voto.
Le città della Licia b pagavano i tributi secondo la pro­
porzione dei suffragi. Le province olandesi non possono
seguire questa proporzione: bisogna che seguano quella
della loro potenza.
In Licia i giudici ed i magistrati delle città venivano
c,

a. STRABONE, lib. XIV [cap. 3].


b. Ibid.
c. Ibid.

I . TITO LIVIO, V, I .
2. Nel 346, dopo l a conclusione della guerra contro i Focesi, Filippo
di Macedonia ottenne la partecipazione del suo regno, con diritto a due
voti, al consiglio della Anfizionia pilaico-delfica; cfr. PAUSANIA, X, 3, § 3
e DIODORO, XVI, 6o, che rilevano il fatto riportato da Montesquieu.
3 . L'imperatore.
LIBRO NONO

eletti dal consiglio comune, e secondo la proporzione di cui


abbiamo fatto cenno. Nella repubblica olandese, essi non
sono eletti dal consiglio comune, e ciascuna città elegge i
suoi magistrati. Se si dovesse offrire un modello di buona
repubblica federativa, io prenderei quello della repubblica
di Licia.

CAPO IV. Come gli Stati dispotici provvedono alla propria


szcurezza.

Se le repubbliche provvedono alla propria sicurezza


unendosi, gli Stati dispotici lo fanno separandosi, e tenen­
dosi, per così dire, isolati. Essi sacrificano una parte della
nazione, devastano le frontiere, e le rendono deserte: il
nucleo dell'impero diviene inaccessibile 1 .
È noto in geometria che più i corpi sono estesi, e più
la loro circonferenza è relativamente piccola. L'uso di deva­
stare le frontiere è quindi maggiormente tollerabile nei
grandi Stati che in quelli medi.
Lo Stato reca quindi a se stesso il male che potrebbe
fargli un nemico crudele, un nemico, però, che non si po­
tesse arrestare.
Lo Stato dispotico si conserva con un altro tipo di sepa­
razione, che si attua affidando le province più lontane nelle
mani di un principe feudatario 2 • Il Mogol, la Persia, gli
imperatori della Cina, hanno i loro feudatari, e i Turchi
hanno tratto molto profitto dall'aver posto tra sè ed i propri
nemici i Tartari, i Moldavi, i Valacchi, e in altri tempi i
Transilvani l ,

1 . Cfr. V, 14. Il RYCAUT (Histoire de l'état présent de l'Empire Ottoman,


cit., cap. 15, pp. 168-71) osservava già che « le distruzioni che i Turchi
praticano nelle province asiatiche che loro appartengono e nelle altre
regioni lontane dalla sede del loro Impero, sono una delle cause della sua
conservazione •· E fin dalla antichità Cesare notava come questa abitudine
fosse praticata dai Germani (De bello Gallico, VI, 23) .
2. Cfr. X, 1 7 .
3· Cfr. RYCAUT, o p . cit., p p . 1 45-5 1 , i l quale parla di questi popoli
vassalli dei Turchi.
PARTE SECONDA

CAPO V. Come la monarchia provvede alla propria sicurezza.

La monarchia non si distrugge da sè come lo Stato dispo­


tico, ma uno Stato di media grandezza potrebbe essere
facilmente invaso. Essa ha dunque delle piazzeforti che ne
difendono le frontiere, e degli eserciti per difendere le piaz­
zeforti. Il più piccolo territorio viene conteso con arte, con
coraggio, con tenacia. Gli Stati dispotici si invadono a vi­
cenda: non ci sono che le monarchie che sappian fare la
guerra.
Le piazzeforti sono proprie delle monarchie; gli Stati
dispotici temono di averne; non osano affidarle a nessuno,
perchè nessuno in essi ama lo Stato e il principe.

CAPO VI. Della forza difensiva degli Stati in generale.

Perchè 1 uno Stato sia forte, bisogna che la sua gran­


dezza sia tale che esista un preciso rapporto tra la rapidità
con la quale si può mettere in atto contro di esso un'azione
aggressiva, e la prontezza che esso può usare nel mandarla
a vuoto. Poichè l'aggressore può subito spuntare dovunque,
è necessario che chi si difende possa fare altrettanto, e, di
conseguenza, che l'estensione dello Stato non sia grande,
perchè possa essere in proporzione al grado di velocità che
la natura ha dato agli uomini per spostarsi da un luogo ad
un altro.
La Francia e la Spagna sono esattamente della grandezza
richiesta. Le forze sono in così buona comunicazione tra di
loro, che possono spostarsi rapidamente ove è necessario;
gli eserciti possono riunirvisi e passare tosto da una fron­
tiera all'altra; non c'è da temervi nessuna di quelle cose
che hanno bisogno di un certo tempo per essere eseguite 2.

I . I primi tre cpvv. del presente capitolo sono tratti dal cap. 20 delle
Réfiexions sltr la monarchie universelle.
2. Sul rapporto fra le dimensioni della Francia e la sua forza militare
e sul:a sua differenza dalla Persia e dagli altri Stati dispotici, cfr. Pensées,
LIBRO NONO 243

In Francia, per una ammirevole congiuntura, la capitale


si trova più vicina alle differenti frontiere proprio in pro­
porzione della loro debolezza; e il principe da essa può con­
trollare meglio ogni parte del paese a seconda che viene a
trovarsi più esposta.
Ma 1 quando un vasto Stato, quale la Persia, viene at­
taccato, ci vogliono molti mesi perchè le truppe disperse
possano riunirsi, ed è impossibile far eseguire loro marce
forzate per un così lungo periodo di tempo, come si po­
trebbe fare per quindici giorni. Se l'esercito che si trova
sulla frontiera viene sconfitto, esso si disperde sicuramente
perchè le sue linee di ritirata sono lontane; l'esercito vitto­
rioso, il quale non incontra più resistenza, si avvicina a
grandi tappe, giunge nei pressi della capitale, la circonda
d'assedio, quando appena i governatori delle provincie sono
stati avvertiti che c'è bisogno di aiuti. Quelli che ritengono
prossima la rivoluzione, la affrettano non obbedendo. Poichè
certi individui, fedeli unicamente se la punizione è vicina,
non lo sono piji se essa è lontana: si occupano soltanto dei
loro interessi particolari. L'impero si dissolve, la capitale
viene espugnata, e il conquistatore disputa le provincie ai
governatori.
La 2 vera potenza di un principe non risiede tanto nella
facilità ch'egli ha di fare delle conquiste, ma nella difficoltà
che si ha ad attaccarlo, e, se mi si consente di dirlo, nel­
l'immutabilità della sua condizione. Ma l'ingrandimento
degli Stati fa sì ch'essi mostrino nuovi lati da dove possono
essere conquistati.
Così, come i monarchi devono avere della saggezza per
aumentare la propria potenza, non devono avere meno
prudenza per !imitarla. Facendo cessare gli inconvenienti
della piccolezza, devono tenere sempre gli occhi aperti su
quelli della grandezza.

I, p. 287, n. 271 (1 770), di cui varie parti erano destinate in origine alle
Considéralions, come rivelano note marginali poi cancellate.
r . Il cpv. è tratto dal cap. 21 delle Réfiexions sur la monarchie universelle.
2. Il cpv. è tratto dal cap. 19 delle Réfiexions sur la monarchie universelle.
244 PARTE SECONDA

CAPO VII. Riflessioni •.

I nemici di un gran principe 2 che ha lungamente regnato


lo hanno le mille volte accusato, piuttosto badando, credo,
alle loro paure che a giuste ragioni, di aver formato e cer­
cato di attuare un progetto di monarchia universale. Se vi
fosse riuscito, nulla sarebbe stato più fatale all'Europa, ai
suoi antichi sudditi, a lui, alla sua famiglia. Il cielo, che
conosce ciò che realmente è vantaggioso, lo ha meglio servito
procurandogli delle sconfitte di quanto non avrebbe fatto
con delle vittorie. Invece di renderlo unico re d'Europa, lo
favorì maggiormente rendendolo il più potente di tutti J.
Il suo popolo, che, nei paesi stranieri, non è mai tocco
se non da ciò che ha abbandonato; che, partendo dalla
patria, considera la gloria come il sommo dei beni, e, nei
paesi lontani, come un ostacolo al suo ritorno; che indispone
per le sue stesse buone qualità, poichè pare aggiungervi
un'ombra di disprezzo; che può sopportare le ferite, i pericoli
e le fatiche, ma non la perdita dei suoi piaceri; che nulla
ama di più della allegria, e si consola per la perdita di una
battaglia con una canzonetta sul generale 4, non avrebbe
mai potuto condurre a buon fine un'impresa che non può
fallire in un paese senza fallire in tutti gli altri, nè perdere
un'opportunità senza fallire per sempre.

1. L'intero cap. è tratto dal cap. 17 delle Réfle:rions sur la monarchie


universelle.
2. Luigi XIV.
3· Nelle Réflexions cit. era qui inserito il seguente cpv.: " Ma quan­
d'anche egli avesse vinta la famosa battaglia nella quale ricevette la
prima sconfitta [la battaglia di Hochstaedt, vinta nel 1 704 dal duca di
'Marlborough, come Montesquieu esplicitamente scrive in Pensées, I.
fol. 438 v0, n. 362 ( 1 621)], la sua impresa, !ungi dall'essere compiuta,
sarebbe stata appena cominciata; sarebbe stato necessario estender ancor
più le sue forze e le sue frontiere. La Germania, che partecipava alla
guerra quasi unicamente fornendo dei mercenari, l'avrebbe fatta diret­
tamente; il Nord si sarebbe sollevato; tutte le Potenze neutrali si sarebbero
dichiarate e gli interessi dei suoi alleati sarebbero mutati ».
4· Cfr., per questo giudizio sulla Francia, X I X, 5·
LIBRO NONO 245

CAPO VIII. Caso nel quale la forza difensiva di uno Stato


è inferiore a quella offensiva.

Disse una volta il sire di Coucy t al re Carlo V <( che gli


Inglesi non sono mai così deboli nè così facili ad esser scon­
fitti come in casa loro •>. È quel che si diceva dei Romani;
è quel che esperimentarono i Cartaginesi; è quel che accadrà
ad ogni potenza che abbia inviato lontano i suoi eserciti
per rappacificare, con la forza della disciplina e del potere
militare, quelli che in patria sono divisi da interessi politici
o civili. Lo Stato si trova indebolito a causa del male che
continua a restar vivo, ed è indebolito inoltre dal rimedio.
La massima del sire di Coucy è una eccezione alla regola
generale, la quale vuole che non si intraprendano mai delle
guerre lontane; e questa eccezione conferma la regola, poichè
vale soltanto contro coloro 2 i quali proprio hanno violato
la regola.

CAPO IX. Della forza relativa degli Stati.

Ogni grandezza, ogni forza, ogni potenza è relativa.


Bisogna badare, quando si cerca di aumentare la grandezza
effettiva, a non ridurre quella relativa.
Verso la metà del regno di Luigi XIV, la Francia rag­
giunse il punto più alto della sua grandezza relativa J. La
Germania non aveva ancora i grandi monarchi che ha avuto
in seguito. L'Italia si trovava nella medesima situazione.
La Scozia e l'Inghilterra non formavano una monarchia
unica. L'Aragona non ne formava una con la Castiglia; le

I . Enguerrand VII, sire di Coucy, uno dei più potenti feudatari


franceSI del nord, morto in Ungheria nel 1397 dove si era recato per com­
battere i Turchi.
2. In A B si ha la seguente lezione: • contro coloro che le hanno
intraprese anch'essi >.
3· Tuttavia il giudizio che Montesquieu dava di Luigi XIV era assai
severo, cfr., per quanto riguarda la politica estera, Pensées, II, fai. 1 4 1 ,
n. 1302 ( I , p. 369, n . 595), frammento che f a parte dei Morceaux de ce
que je voulois écrire sur l' histoire de France.
PARTE SECONDA

parti in cui era divisa la Spagna erano deboli, e la indebo­


livano. La Moscovia non era più nota in Europa della Crimea.

CAPO X. Della debolezza degli Stati confinanti 1 .

Quando si ha per paese confinante uno Stato che si


trova in decadenza, bisogna guardarsi bene dall'affrettarne
la rovina, poichè ci si trova, in questo caso, nella situazione
migliore che si possa desiderare, dal momento che non c'è
nulla di più comodo, per un principe, che trovarsi vicino
ad un altro che riceve per lui tutti i colpi e gli oltraggi della
avversa fortuna. Ed è raro che, con la conquista di un simile
Stato, si guadagni in potenza effettiva quanto si è perduto
in potenza relativa.

I . Il testo del cap. è identico. salvo lievissime varianti formali. a


Pensées, I, p. 472, n. 689 ( 1 78 1 ) , in cui manca però l'ultima frase. Nello
stesso senso cfr. Pensées, I, p. 333. n. 3 1 8 (1 780): " Un principe crede di
diventare più potente grazie alla rovina di uno Stato vicino. Al contrario!
In Europa le cose sono cosi disposte che tutti gli Stati dipendono gli uni
dagli altri. La Francia ha bisogno dell'opulema della Polonia e della
Moscovia, come la Guienna ha bisogno della Bretagna e la Bretagna del­
l' Angiò. L'Europa è uno Stato composto da molte province »; cfr. anche
Réflexions sur la monarchie univcrselle, cap. 18: " Lo Stato che crede di
aumentare la propria potenza grazie alla rovina dello Stato che gli è
confinante, si indebolisce di solito con esso •· Tuttavia in seguito (X, 4)
Montesquieu metterà in evidenza i vantaggi che un popolo infiacchito
può trarre dall'esser conquistato.
L IBRO D ECIMO

DELLE LEGGI NEL LORO RAPPORTO


CO� LA FORZA OFFENSIVA

CAPO I. Della forza offensiva.

La forza offensiva è regolata dal diritto delle genti, che


è la legge politica delle nazioni, considerate nel rapporto
che esse hanno le une con le altre.

CAPO Il. Della guerra.

La vita degli Stati è simile a quella degli uomini: questi


hanno il diritto di uccidere per legittima difesa, quelli hanno
il diritto di muover guerra per la propria conservazione 1.
Nel caso della legittima difesa, io ho il diritto di ucci­
dere perchè la mia vita mi appartiene, come la vita di chi
mi assale appartiene a lui; analogamente, uno Stato fa la
guerra perchè la sua conservazione è giusta, come qualunque
altra conservazione 2.
Tra cittadini, il diritto di legittima difesa non implica
la necessità dell'attacco. Invece di attaccare, essi non hanno
che da ricorrere ai tribunali 3. Non possono quindi esercitare

1 . Cfr. Lettres Persanes, XCV in cui è già affermato il parallelo fra


giustizia interna e guerra come atto di giustizia internazionale; cfr. pure
il frammento Della natura delle cose che dipendono dal diritto delle genti,
in Pensées, III, foll. 83-85, n. 1 8 1 4 (390), in cui tra l'altro è detto: « La
guerra presuppone la difesa naturale •.
2. Cfr. FÉNELON, Examen de conscience sur les devoirs de la royaulé,
art. XIII, § 27, dove si afferma che la guerra è giusta quando è fatta per
difendersi dagli attacchi di un nemico ingiusto.
J. Cfr. LocKE, Two treatises of Government, II, cap. 3, § 20.
PARTE SECONDA

questo diritto di difesa che nei casi subitanei, nei quali


sarebbero perduti se attendessero l'aiuto della legge. Ma,
tra le società, il diritto di legittima difesa implica qualche
volta la necessità di attaccare, quando un popolo si rende
conto che una pace più lunga darebbe a un altro Stato la
possibilità di distruggerlo, e che l'attacco è in quel deter­
minato momento l'unico mezzo per impedire siffatta di­
struzione.
Ne deriva che le piccole società hanno più spesso il
diritto di fare la guerra che non le grandi, perchè più sovente
si trovano nella condizione di dover temere la propria
distruzione.
Il diritto di guerra deriva pertanto dalla necessità e da
un rigido rispetto del giusto. Se coloro che dirigono la co­
scienza o i consigli dei principi non si attengono a queste
norme, tutto è perduto; e, se ci si vorrà fondare su principi
arbitrari di gloria, di benessere, di utilità, fiotti di sangue
inonderanno la terra.
Non si parli, soprattutto, della gloria del principe: la
sua gloria sarebbe il suo orgoglio, una passione, e non un
diritto legittimo.
È verò che la fama della sua potenza potrebbe aumentare
le forze del suo Stato; ma la fama della sua giustizia le
aumenterebbe del pari.

CAPO III. Del diritto di conquista.

Dal diritto della guerra deriva quello di conquista t, che


ne è la conseguenza 2: ne deve quindi seguire lo spirito.

1 . Si noti che nella prima edizione delle Lettres Persanes, Montesquieu


aveya scritto: • Il diritto di conquista non è un diritto. Una società non
può essere fondata che sulla volontà degli associati. Se essa è distrutta
dalla conquista il popolo ridiventa libero: non si ha più una nuova società,
e, se il vincitore vuoi formarne una, fa opera tiran'lica (lett. XCV) . Nel

testo definitivo, comparso nel Supplément all'ediz. del 1754, questa rigida
posizione è attenuata e Montesquieu si accosta allo schema dell'Esprit
des Lois, pur mantenendo la condanna per quei casi in cui si annienti o
si disperda il popolo vinto.
2. Cfr. I, 3·
LIBRO DECIMO 249

Quando un popolo è conquistato, il diritto che il con·


quistatore ha sopra di esso segue quattro tipi di legge: la
legge di natura, la quale fa sì che tutto tende alla conserva­
zione della specie; la legge del lume naturale, la quale vuole
che noi facciamo ad altri ciò che vorremmo fosse fatto a
noi stessi; la legge che forma le società politiche, le quali
sono tali che la natura non ne ha limitata la durata; infine
la legge ricavata dalla cosa stessa. La conquista è una acqui­
sizione; lo spirito di acquisizione porta con sè quello di
conservazione e di uso, e non quello di distruzione.
Uno Stato che ne ha conquistato un altro lo tratta in
una delle quattro maniere seguenti: continua a governarlo
secondo le sue leggi, e non assume che l'esercizio del governo
politico e civile; gli impone un nuovo governo politico e
civile; ne distrugge la struttura sociale e la disperde in
mezzo ad altre; infine ne stermina tutti i cittadini.
La prima maniera è conforme al diritto delle genti che
noi seguiamo oggi; la quarta è più conforme al diritto delle
genti seguìto dai Romani 1 : sul quale argomento io lascio
giudicare in qual misura noi siamo divenuti migliori. Bisogna
rendere qui omaggio ai nostri tempi moderni, alla ragione
presente, alla religione di oggi, alla nostra filosofia, ai nostri
costumi.
Gli scrittori del nostro diritto pubblico, fondati sulla
storia antica, essendo usciti da casi rigidi, sono caduti in
gravi errori. Sono finiti nel campo dell'arbitrio; hanno sup­
posto nei conquistatori un diritto, che io ben non com­
prendo, di uccidere: ciò che ha fatto trarre loro delle con­
seguenze terribili come il principio, e stabilire massime che
gli stessi conquistatori, quando hanno avuto un minimo di
buon senso, non hanno mai attuato. È chiaro che, quando
la conquista è avvenuta, il conquistatore non ha più alcun

1. Nelle Considérations, cap. 6, è di opinione diversa., vi afferma infatti


che i Romani non imponevano nessuna legge genera.le ai popoli vinti,
accontentandosi di toglier loro ogni forza. militare; cfr. però quanto dirà
nel cap. 6 e nel cap. XI, 19 dell Esprit des Lois, sui diversi indirizzi poli­
'

tici dei Romani a.! riguardo.


PARTE SECONDA

diritto di uccidere, perchè non si trova più nel caso di legit­


tima difesa, nè in quello della propria conservazione.
Ciò che li ha portati a queste posizioni, è che essi hanno
creduto che il conquistatore avesse il diritto di distruggere
la società; dal che hanno concluso che avesse pure il diritto
di distruggere gli uomini che la compongono: falsa conse­
guenza derivata da un falso principio 1 . Poichè, quand'anche
la società dovesse essere annientata, non ne deriverebbe
affatto che dovessero essere annientati anche gli uomini
che la formano. La società è l'unione degli uomini, e non
gli uomini stessi; il cittadino può perire, e l'uomo soprav­
vivere.
Dal diritto di uccidere durante la conquista, i politici
hanno ricavato il diritto di ridurre in schiavitù; ma la con­
seguenza è altrettanto mal fondata che il principio 2.
N�n si ha il diritto di ridurre in schiavitù che quando
ciò è necessario per il mantenimento della conquista. L'obiet­
tivo della conquista è la conservazione J; la schiavitù non
è mai l'obiettivo della conquista, ma può accadere che essa
sia un mezzo necessario per assicurare la conservazione.
In questo caso, è contro la natura delle cose che questa
schiavitù sia perpetua. Bisogna che il popolo da schiavo
possa divenire suddito. La schiavitù nella conquista è un
fatto accidentale. Quando •, dopo un certo lasso di tempo,
tutte le parti dello Stato conquistatore si sono legate con
quelle dello Stato conquistato per mezzo dei costumi, dei
matrimoni, delle leggi, delle associazioni, e di una certa
conformità di spirito, la schiavitù deve cessare: poichè i

I. Già BoDIN (De la République, I, 5) si era dimostrato contrario al


diritto di uccidere i prigionieri e alla pretesa di farli schiavi.
2. È l'opinione di GROZIO (De iu1'e belli ac pacis, III, 7), di PUFENDORF
(De officio hominis et civis, II, 1) e di LOCKE (Two treatises of Govemment,
II, capi 4 e 7). ma l'origine di questa concezione è ben più lontana, essendo
già affermata nell'antica Grecia, secondo quanto riferisce ARISTOTELE
(Politica, I, 1 255 a) . Alla tesi di Montesquieu si uniformerà poi RoussEAU
(Du contrai social, I, 4). Contro questa derivazione della schiavitù dal
diritto di uccidere i prigionieri, Montesquieu si eleverà ancora nel cap. XV, 2.
3· Cfr. I, 3·
4· Il testo di questo periodo è quasi identico a quello di Pensées, II,
fai. 99 v0 n. 1 227 (1885) riportato alla nota I del cap. 6.
LIBRO DECIMO 2) 1

diritti del conquistatore non sono fondati che sul fatto che
queste cose non esistono, e che vi è una frattura tra le due
nazioni, tale che una non può fidarsi dell'altra.
Cosi il conquistatore che riduce il popolo in schiavitù
deve sempre riservarsi dei mezzi (i quali sono innumerevoli)
per farnelo uscire 1 .
Non affermo qui delle cose vaghe. I nostri padri, che
conquistarono l'impero romano, agirono in questo modo.
Le leggi che essi fecero nell'ardore, nell'azione, nell'impeto,
nell'orgoglio della vittoria, le mitigarono in seguito: le loro
leggi erano dure, ed essi le resero imparziali. I Burgundi,
i Goti ed i Longobardi volevano sempre che i Romani fossero
un popolo vinto; le leggi di Eurico, di Gundobaldo e di
Rotari resero concittadini i Barbari e i Romani •.
Carlo Magno z, per domare i Sassoni, tolse loro la qualità
di liberi e la proprietà dei beni. Ludovico il Bonario J li
affrancò b: fu questo il miglior atto di tutto il suo regno.
I tempi e la schiavitù avevano addolcito i costumi: quei
popoli gli furono sempre fedeli.

CAPO IV. A lcuni vantaggi dei popoli conquistati.

Invece di ricavare dal diritto di conquista delle conse­


guenze così funeste, gli scrittori politici avrebbero fatto

a. Si veda il codice delle leggi dei barbari e il lib. XXVIII


qui in seguito 4•
b. Si veda l'autore incerto della vita di Ludovico il Bonario,
nella raccolta del DucHESNE [Historiae Francorum scriptores
coetanei, Parigi, r636-r649, 5 voll.], tomo II, p. 296.

1. Il Ms. (II, fol. 1 24 v0) cosi continua: « La leggenda ci narra che


Circe, dopo aver cambiato gli uomini in bestie, trasformava ancora le
bestie in uomini "• frase passata in parte nel cap. XII, 27. Nel Ms. il
capitolo aveva termine dopo questa frase.
2. In A B manca l'ultimo cpv. e la nota relativa.
3· Già Carlo Magno aveva mitigato le sue prime severe disposizioni:
con il Capitulare Saxonicum, del 797, aveva concesso ai Sassoni la parità
giuridica con i Franchi.
4· Capi r -6. In A si ha soltanto il rinvio alle leggi barbariche e non
al libro xxnn.
2)2 PARTE SECONDA

meglio a parlare dei vantaggi che questo diritto può conce­


dere talvolta al popolo vinto. Avrebbero avuto modo di
intenderli meglio se il nostro diritto delle genti fosse seguìto
esattamente, e se fosse stabilito in tutta la terra.
Gli Stati che vengono conquistati non sono, ordinaria­
mente, nel fiorire delle loro istituzioni: la corruzione vi si è
introdotta; le leggi hanno cessato dall'esser rispettate, il
governo è divenuto oppressivo. Chi può dubitare che uno
Stato simile non guadagnerebbe e non trarrebbe qualche
vantaggio dalla conquista stessa '• se essa non avesse per
fine la distruzione? Un governo giunto al punto in cui non
può più riformarsi da sè, cosa avrebbe da perdere ad essere
rifatto ? Un conquistatore che invada una nazione dove,
tra mille astuzie e mille artifizi, il ricco si è insensibilmente
assicurato una infinità di strumenti di usurpazione; dove
l'infelice che geme, vedendo quelli che egli credeva abusi
divenire leggi, si sente oppresso, e crede persino di aver
torto accorgendosene; un conquistatore, dunque, può mutare
violentemente tutto, e la sorda tirannide è la prima a subire
le conseguenze.
Si son visti, per esempio, degli Stati oppressi dagli appal­
tatori delle imposte venir liberati dai conquistatori, i quali
non avevano gli impegni e le necessità del principe legittimo.
Gli abusi si trovarono corretti senza che il conquistatore li
correggesse nemmeno 2.
Talvolta la frugalità della nazione conquistatrice l'ha
posta nella possibilità di lasciare al vinto il necessario, che
gli era stato tolto sotto il principe legittimo.
Una conquista può distruggere pregiudizi nocivi e porre,
se mi è concesso dirlo, una nazione in condizioni migliori.
Quanto bene avrebbero potuto fare gli Spagnoli ai Mes­
sicani! Avrebbero potuto dar loro una religione mite: vi
portarono invece una superstizione furiosa. Avrebbero po-

I . Cfr. IX, 10, nota I .


2. Cfr. Xl, 19 e XIII, 1 6 . Nello stesso senso si esprimerà anche HUME
nel saggio Of taxes, in Political Discourses, Edimburgo, 1 752 (ediz. cit.,
I, pp. 358-g).
LIBRO DECIMO

tuto liberare gli schiavi, e resero schiavi gli uom1m liberi.


Avrebbero potuto illuminarli sull'abuso dei sacrifici umam,
e invece li sterminarono. Non concluderei mai se volessi
riferire tutte le cose buone che essi non fecero, e le cattive
che fecero '·
Spetta al conquistatore por rimedio ad una parte dei
mali che ha fatto. Io definisco in questo modo il diritto di
conquista: un diritto necessario, legittimo e infelice, che
lascia sempre da saldare un debito immenso per sdebitarci
verso la natura umana.

CAPO V. Gelone, re di Siracusa.

Il più bel trattato di pace del quale la storia abbia par­


lato è, io credo, quello che Gelone concluse con i Cartaginesi.
Egli volle che essi abolissero l'usanza di immolare i fan­
ciulli •. Cosa ammirevole! Dopo aver sconfitto trecentomila
Cartaginesi, egli esigeva una condizione che non era utile
che a loro, o piuttosto stipulava il trattato a favore del
genere umano.
I Battriani 2 facevano divorare i loro vecchi da grossi
cani J: Alessandro lo proibì b, e fu un trionfo riportato sulla
superstizione.

a. Si veda la raccolta del signor di Barbeyrac, art. nz 4•


b. STRABONE, lib. Xl [cap. II).

I . Cfr. il riassunto rimastoci del Traité des devoirs (Oeuvres complètes,


VII, p. 68) in cui è già espressa una severa condanna della colonizzazione
spagnola. Sullo stesso argomento cfr. Pensées, II, fol. 1 2 3 , n. r268 (617) :
« Gli Spagnoli dimenticarono i doveri dell'umanità ad ogni passo che
fecero nella loro conquista delle Indie ecc. •; vedi inoltre Lettres Persanes,
CXXI; Considérations, cap. 6 e Esprit des Lois, XV, 4·
2. Sia nel Ms. che in A B manca l'ultimo cpv.
3· Strabone riferisce che vittime di questa usanza erano, oltre ai
vecchi, anche i malati.
4· È l' Histoire des anciens traités, Amsterdam, 1 739.
PARTE SECONDA

CAPO VI. Di una repubblica che conquista.

È contro la natura delle cose che, in una costituzione


federale 1, uno Stato confederato ne conquisti un altro, come
abbiamo visto ai nostri giorni in Svizzera Nelle repub­
•.

bliche federative miste, ove l'associazione è tra piccole


repubbliche e piccole monarchie, ciò stupisce meno.
È pure contro la natura delle cose che una repubblica
democratica conquisti delle città non desiderose di entrare
nella sfera della sua democrazia 2. Bisogna che il popolo
conquistato possa godere dei privilegi della sovranità, così
come stabilirono i Romani agli inizi. Si deve limitare la
conquista al numero dei cittadini che si stabilirà per la
democrazia 3.
Se una democrazia conquista un popolo per governarlo
come suddito, essa pone in pericolo la propria libertà, perchè

a. Per il Tockembourg 4•

1 . Cfr. Pensées, II, fol. 99 v0, n. I227 ( I 88s): È contro la natura della

cosa stessa che, in una costituzione federale come quella svizzera, i Cantoni
facciano conquiste gli uni a scapito degli altri, come è accaduto ultima­
mente (per i Protestanti nei riguardi dei Cattolici) . È contro la natura
d'una buona aristocrazia che i cittadini tra cui vengono eletti i magistrati,
il Senato, i Consigli, siano in numero cosi esiguo da costituire una pic­
colissima parte del popolo, come a Berna: poichè in tal caso si viene ad
avere una monarchia a molte teste. È pure contro le leggi naturali che
una repubblica che ha conquistato un popolo lo tratti sempre come sud­
dito e non come alleato, quando, dopo un notevole periodo di tempo,
tutte le categorie si sono amalgamate fra loro, attraverso matrimoni,
consuetudini, leggi, legami intellettuali: infatti le leggi del conquistatore
non sono buone e tollerabili se non in quanto queste cose non esistono,
e in quanto vi è un tal distacco fra i due popoli da non permettere all'uno
di aver fiducia nell'altro ,; dopo il riferimento alla Svizzera vi è la nota
• Messo nelle Leggi ».

2. L'argomento era già stato ampiamente trattato nello stesso senso


da HUME nel saggio That Politics may be reduced lo a Science, in Essays
Moral and Politica/, Edimburgo, I 74I (ediz. cit., tomo l, pp. IOI-3) .
3· Cfr. II, 2.
4· Allude alla valle di Toggenbourg, nel cantone di San Gallo. Nel I 7 I 2,
i valligiani del Toggenbourg, dopo una lunga serie di conflitti iniziati
nel I 7o6, sostennero una guerra con l'abate di San Gallo loro signore,
per ottenere il riconoscimento della loro libertà. �ei Voyagcs (I, pp. I 82-4}
Montesquieu riferisce di aver conosciuto a Firenze (quindi tra il I o dicem­
bre I 728 e il I5 gennaio I 729) un signor di Bezenval, svizzero, con il quale
si intrattenne appunto di questa guerra e delle altre vicende politiche
svizzere di quel periodo.
LIBRO DECIMO 255

sarà costretta a conferire una troppo grande autorità ai


magistrati che invierà nello Stato conquistato t .
In quale pericolo si sarebbe trovata Cartagine se Anni­
bale avesse conquistato Roma! Cosa non avrebbe egli fatto
nella propria città dopo la vittoria, lui che vi causò tanti
sommovimenti dopo essere stato sconfitto •!
Annone non avrebbe mai potuto pei"suadere il senato
che non si dovevano inviare ulteriori aiuti ad Annibale se
avesse fatto parlare soltanto la sua gelosia 2. Questo senato,
che Aristotele J afferma esser stato così saggio (affermazione
che la prosperità di quella repubblica non può che confermare)
non poteva esser convinto che da ragioni sensate. Avrebbe
dovuto essere troppo stupido per non capire che un esercito,
a trecento leghe dalla patria, subiva necessariamente delle

perdite che dovevano essere colmate.


Il partito di Annone voleva che si abbandonasse Anni­
.
bale b ai Romani. In quel momento i Romani non erano
temibili: si temeva dunque Annibale.
Non si poteva credere, si afferma, ai successi di Annibale;
ma come dubitarne ? I Cartaginesi, sparsi in tutto il mondo,
potevano ignorare ciò che stava accadendo in Italia? È
appunto perchè non lo ignoravano che non si volevano
inviare aiuti ad Annibale.
Annone divenne più tenace dopo la battaglia della
Trebbia, dopo quella del Trasimeno, dopo Canne: non era
dunque la sua incredulità che aumentava: era la sua paura 4.

a.Egli era a capo di una fazione.


b. Annone voleva che si consegnasse Annibale ai Romani,
come Catone voleva che si consegnasse Cesare ai Galli.

1. Cfr. però quanto affermerà al cap. XI, 19, che cioè una repubblica
conquistatrice non può trasmettere la propria forma di governo. Hume,
nel saggio citato, per dimostrare che le conquiste delle democrazie sono
oppressive e dannose, citava proprio l'esempio dei governatori romani
(op. cit., p. I O I ) .
2. In Considérations, cap. 5 , Montesquieu afferma più semplicistica­
mente che Annibale non ricevette aiuti dalla patria per gelosia del par­
tito avverso e per troppa fiducia dei suoi fautori.
J. Cfr. VIII, 1 4 , nota 2, p. 223.
4 · Cfr. SAINT-EVREMOND, Réfiexions sur les divers génies du peupli!
PARTE SECONDA

CAPO VII. Continuazione del medesimo argomento.

Un altro inconveniente hanno le conquiste fatte dalle


democrazie. Il loro governo è sempre odioso per gli Stati
assoggettati. Esso è monarchico apparentemente; ma, in
realtà, è più duro, come ha dimostrato l'esperienza di tutti
i tempi e di tutti i paesi r.
I popoli conquistati si trovano in una triste condizione;
essi non godono dei vantaggi della repubblica nè di quelli
della monarchia.
Ciò che ho detto dello Stato popolare si può applicare
anche a quello aristocratico.

CAPO VIII. Continuazione del medesimo argomento.

Così, quando una repubblica tiene qualche popolo sotto


il proprio dominio, bisogna ch'essa cerchi di riparare gli
inconvenienti che nascono dalla natura della cosa, dandogli
un buon diritto politico e buone leggi civili.
Una repubblica italiana 2 teneva dei popoli insulari sotto
la sua dominazione, ma il suo diritto politico e civile nei

romain dans les différents temps de la République, in Oeuvres meslées,


tomo VIII, Parigi, 1684.
1. Cfr. MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca, II, 2.
2 . Nel Ms. (II, fol. 135 r<>-v0) si ha la seguente lezione: « I Genovesi
tenevano la Corsica nella soggezione, ma nulla era più corrotto del loro
diritto politico e più violento del loro diritto civile. È noto quel trattato
nel quale il senato promette di non far più mettere a morte nessuno in
base alla " informata coscienza " del governatore. Si soil visti spesso,
dei popoli domandare dei privilegi: in questo caso il popolo domanda, e
il sovrano accorda, il diritto naturale stesso ». Dopo la parola • coscienza "
si ha la seguente nota: e;; informata conscientia, nota che si trova pure
in A B che hanno lezioni lievemente diverse dall'attuale. La correzione
fu apportata a stampa già avvenuta sostituendo il foglio. Si osservi che
già HUME, nel saggio That Politics ecc. citato, aveva indicato la Corsica
come un esempio del malgoverno delle democrazie nei paesi loro sotto­
messi (Essays cit., p. 1 03).
Per l'interesse che Montesquieu nutriva verso la Corsica, cfr. Spicilège,
p. 199, dove riporta la Costituzione còrsa redatta nel gennaio 1 735 dal·
l'avvocato Sebastiano Costa.
LIBRO DECIMO 25 7

loro riguardi era difettoso. È noto quell'atto • di amnistia


in base al quale nessuno sarebbe più stato condannato a
pene afflittive << sulla informata coscienza del governatore t.
Si sono visti spesso dei popoli chiedere qualche privilegio:
qui il sovrano accorda il diritto di tutte le nazioni 1•

CAPO IX. Di una monarchia che conquista all'intorno z.

Se una monarchia può agire a lungo prima che l'ingran­


dimento l'abbia indebolita, diventerà temibile, e la sua

a. Del r8 ottobre 1738, pubblicato a Genova presso Fran­


chelli. « Vietiamo al nostro generai-governatore in detta isola
di condanare [sic] in avenire [sic] solamente ex informata con­
scientia persona alcuna nazionale in pena afflittiva. Potrà ben
si far arrestare ed incarcerare le persone che gli saranno sospette;
salvo di renderne poi a noi [conto] sollecitamente n. Art. 6 3.

1 . Cfr. Pensées, II, fol. 222 v0, n. 1 490 ( 1 5 7 1 ) :� " Chi avrebbe detto
che le più crudeli massime del dispotismo sarebbero state applicate ai
suoi infelici sudditi da un popolo che si vanta di essere libero ? I Còrsi
sono stati obbligati a stipulare nei loro trattati il diritto naturale, e la
Repubblica di Genova ha firmato il trattato che la copre di vergogna,
con esso si impegna infatti a non far più mettere a morte i Còrsi senza
processo, nè in base alla coscienza informata del governatore ».
2. Nel Ms. (II, fol. 1 36 ro-vo) , il cap. 9, intitolato Della soggezione
dell'Irlanda, ha il seguente tenore: " L'Inghilterra si è comportata meglio.
Essa ha conquistato l'Irlanda, verso la · quale nutre gelosia a causa della
sua posizione, della bontà dei suoi porti, della natura delle sue ricchezze.
Essa le impone delle leggi da nazione a nazione, le quali son tali- che la
sua prosperità sembra esser soltanto precaria e unicamente in deposito
per un padrone. Ma sebbene la opprima mediante il diritto delle genti,
le ha dato un buon reggimento politico e un buon reggimento civile: lo
Stato è schiavo e i cittadini sono liberi >. Il capitolo è passato poi, a un
dipresso, tolti i nomi dei due paesi, nel cap. XIX, 27. Si noti che Hume,
nel citato saggio That Politics ecc., parlava anch'egli della soggezione
dell'Irlanda all'Inghilterra, e la considerava come un esempio del fatto
che " le province delle monarchie assolute sono sempre meglio trattate
di quelle degli Stati liberi. Si paragonino i Pais conquis di Francia con
l'Irlanda, e ci si convincerà di questa verità • · Tuttavia anche Hume
ammetteva già, implicitamente, la distinzione praticata da Montesquieu
fra condizione degli abitanti e soggezione dello Stato, poichè affermava
che l'Irlanda « essendo in larga misura abitata da Inglesi, possiede tanti
diritti e privilegi che potrebbe, naturalmente, reclamare un miglior trat­
tamento di quello di una provincia conquistata » (Essays, cit., p. 103) .
J. La nota manca nel Ms. e in A B; in queste si ha invece la seguente
nota: u Si veda anche la " Gazette d'Amsterdam " del 23 dicembre 1 738 •·
PARTE SECONDA

forza durerà fino a quando sarà premuta dalle monarchie


vicine.
Essa non deve dunque conquistare che fino a quando
rimane nei limiti naturali alla sua forma di governo. La
prudenza vuole che si arresti non appena quei limiti sono
stati sorpassati 1.
In questa sorta di conquista, bisogna lasciare le cose
come sono state trovate; gli stessi tribunali, le stesse leggi,
gli stessi costumi, gli stessi privilegi: non deve essere cam­
biato che l'esercito e il nome del sovrano.
Quando la monarchia ha allargato i suoi confini con la
conquista di qualche provincia vicina, bisogna che tratti i
territori conquistati con grande mitezza 2.
In una monarchia che per lungo tempo ha fatto delle
conquiste J, le province del suo antico dominio sono gene­
ralmente molto danneggiate. Esse 4 devono sopportare i
nuovi e gli antichi abusi, e spesso una grande capitale '•
che tutto divora, le spopola. Ora, se dopo aver conquistato
nuovi territori intorno al vecchio dominio si trattassero i

1 . Cfr. VIII, 1 7 e Pensées, III, fol. 5 1 , n. 1 734 (275): • Allorchè la


conquista è mediocre, lo Stato può restare o diventare monarchico ». E
in Pensées, III, fol. 282, n. 1987 (625) ribadisce che l'ideale del monarca
dovrebbe essere la moderazione e non l'ambizione di conquiste.
2. Il pensiero di Hume non era sostanzialmente molto diverso: « Quando
un monarca estende i suoi domini mediante conquista, impara ben presto
a considerare i suoi antichi e nuovi sudditi sullo stesso piano; poichè in
realtà tutti i suoi sudditi sono eguali per esso, eccetto quei pochi amici
e favoriti con i quali è personalmente legato. Egli non deve pertanto fare
nessuna distinzione fra di essi nelle sue leggi " generali "; e, al tempo
stes�g. deve preoccuparsi di impedire ogni " particolare " atto di oppres­
sione sia sugli uni che sugli altri » (Essays cit., pp. 101-2). Nel cpv. seguente
Montesquieu sembra contraddire l'opinione di Hume, tuttavia Montesquieu
vi tratta di un caso particolare, mentre, nel cap. 14, confermerà, parlando
di Alessandro, che bisogna unire vinti e vincitori facendo scomparire ogni
distinzione.
3· L'allusione alla Francia è evidente.
4: In A B si ha la seguente lezione: « Bisogna che esse debbano sop­
portare e i nuovi e gli antichi abusi, e che una vasta capitale, che tutto
divora, le spopoli ».
5· Sulla grandezza delle capitali cfr. Pensées, III, foll. 86-87, n. 1 8 1 6
(31 1), in cui Montesquieu osserva che nelle repubbliche una capitale
grande è fonte di corruzione, ed esamina quindi i motivi dell'ingrandi­
mento della capitale nelle monarchie.
LIBRO DECIMO 259

popoli vinti come gli antichi sudditi, lo Stato sarebbe per­


duto: le somme inviate alla capitale come tributo dalla
province conquistate non verrebbero mai più restituite; le
terre di frontiere sarebbero rovinate, e quindi più deboli;
i loro abitanti sarebbero mal disposti; la sussistenza delle
truppe che devono risiedere od operare colà sarebbe più
precaria.
Questa è infatti la condizione necessaria di una monarchia
conquistatrice: un lusso incredibile nella capitale, la miseria
nelle province che se ne allontanano, l'abbondanza nelle
regioni periferiche. È la stessa condizione del nostro pianeta:
il fuoco si trova al centro, la vegetazione alla superficie,
una terra arida, fredda e sterile occupa lo spazio inter­
medio.

CAPO X. Della monarchia che conquista un'altra monarchia.

Talvolta una monarchia ne conquista un'altra. Più


quest'ultima sarà piccola, meglio la si potrà tenere con delle
fortezze 1; più sarà grande, meglio la si conserverà per mezzo
di colonie 2,

CAPO XI. Dei costumi dd popolo vinto.

In questo genere di conquiste, non è sufficiente lasciare


alla nazione vinta le sue leggi; è forse più necessario !asciarle
i suoi costumi, perchè un popolo conosce, ama e difende
sempre più i propri costumi che le proprie leggi ...
I Francesi sono stati cacciati nove volte dall'Italia, a

1 . Nel passo delle Pensées citato alla nota r della pagina precedente,
Montesquieu si soflerma ad analizzare l'utilità delle fortezze nei paesi
conquistati, affermando, tra l'altro che le fortezze. . . sono più proprie

del governo monarchico ».


2. È il parere di MACHIAVELLI, cfr. Il Principe, cap. 3·
wo PARTE SECONDA

causa, dicono gli storici della loro insolenza nei riguardi


a,

delle donne e delle fanciulle 1. È troppo per una nazione


dover subire la tracotanza del vincitore e per di più la sua
incontinenza, la sua indiscrezione, senza dubbio più spia­
cevoli, perchè moltiplicano gli oltraggi all'infinito.

CAPO XII. Di una legge di Ciro.

Io non considero una buona legge quella che Ciro pro­


mulgò, perchè i Lidi potessero esercitare soltanto professioni
vili o infami. Ci si occupa del problema più urgente; si pensa
alle rivolte, e non alle invasioni. Ma le invasioni verranno
ben presto; i due popoli si uniscono, si corrompono entrambi.
Preferirei mantenere con le leggi la rudezza del popolo vin­
citore, che conservare con lo stesso mezzo la mollezza del
popolo vinto.
Aristodemo, tiranno di Cuma b, cercò di infiacchire il
coraggio della gioventù. Egli ordinò che i giovani si lascias­
sero crescere i capelli come le fanciulle, che li ornassero
con i fiori, e portassero vestiti di variopinti colori, lunghi
fino ai piedi; che, quando si recavano dai loro maestri di
danza e di musica, delle donne portassero loro parasoli,
profumi e ventagli; che, nel bagno, offrissero loro pettini
e specchi. Questa educazione durava fino ai vent'anni d'età.
Un sistema simile non può esser utile che a un tirannello
il quale mette a repentaglio la propria sovranità per difen­
dere la sua vita.

a. Si scorra la Storia dell'universo del signor P UFENDORF.


b. DIONIGI n'ALICARNASSO, lib . VII [cap. g] .

I. Cfr. Pensées, I, p. 345, n. 354 (1 393) in cui rileva lo stesso fatto,


e Pensées, I, fol. 630, n. 380 (1626) in cu1, basandosi su Pufendorf, rife­
risce che sono sta ti cacciati nove voi te.
LIBRO DECIMO

CAPO XIII. Carlo XII '·

Questo principe 2, che non fece uso che delle sole sue
forze, causò la propria caduta col formare dei progetti i
quali potevano essere attuati soltanto con una lunga guerra,
che il suo reame non poteva sostenere.
Egli non tentò di rovesciare uno Stato che si trovasse
in decadenza, ma un impero nascente. I Moscoviti si servi­
rono della guerra ch'egli faceva loro come di una scuola.
Ad ogni disfatta, essi si avvicinavano alla vittoria, e, scon­
fitti al di là dei confini, imparavano a difendersi in patria.
Carlo si credeva il padrone del mondo nei deserti della
Polonia, ove errava, e nei quali la Svezia era come dispersa,
mentre il suo nemico più importante si fortificava contro
di lui, lo stringeva da presso, si attestava sul mar Baltico,
distruggeva o conquistava la Livonia.
La Svezia era simile a un fiume al quale si togliessero
le acque alla sorgente, mutandole al tempo stesso nel loro
corso.
Non fu affatto Poltava J a perdere Carlo: se egli non
fosse stato sbaragliato in quel luogo, lo sarebbe stato in un
altro. Gli accidenti della fortuna si rimediano facilmente,

r. In A B è il cap. 1 4, tiene dietro cioè a quello su Alessandro Magno.


Il cap. si trova, con qualche differenza formale, anche in Pensées, I,
p. 504, n . 774 ( 1 705), dove è preceduto dalle seguenti frasi: " La Svezia
ha fatto, da circa un secolo, grandi cose. Ma le sue risorse si esauriscono
facilmente: la povertà le impedisce di por rimedio alle sue perdite. I suoi
vicini la temono e i suoi aperti nemici sono sempre incoraggiati da nemici
segreti. Essa non è adatta che a servire ai piani di un qualche grande
Stato. Ma se ottiene dei successi è ben presto fermata da quella stessa
Potenza che la fa agire ».
2. Su Carlo XII, cfr. Lettres Persanes, CXXVII; nelle Réfiexions sur
les caractères de quelques Princes, § 1 (in Mélanges inédits, p. 1 7 1 ) lo para­
gona a Carlo il Temerario, duca di Borgogna; cfr. anche Pensées, I, p. 492,
n. 744 (1 704): " Si potrebbe paragonare Carlo XII, re di Svezia, a quel
ciclope della mitologia che aveva una grandissima forza ma era cieco.
Quel medesimo re, dopo aver a lungo abusato dei suoi successi, fu meno
che uomo nella sventura, cioè in quella condizione di vita in cui bisogne­
rebbe essere più che uomini. Egli rimase sempre nel miracoloso, e mai
nel vero; fu enorme e non grande "· Per alcune fonti d'informazione di
Montesquieu su Carlo X I I cfr. V, q, nota 2, p. 1 37.
J . Città dell'Ucraina dove Carlo XII fu sconfitto nel 1 709 da Pietro
il Grande.
PARTE SECONDA

ma non ci si può difendere da circostanze che nascono con­


tinuamente dall'ordine delle cose t .
Ma nè la natura nè la fortuna furono mai così accaniti
contro di lui, quanto lui stesso.
Egli non si regolava mai secondo la disposizione presente
delle cose, ma secondo un certo modello che aveva preso:
e per di più lo seguì assai male. Non era affatto Alessandro 2,
ma sarebbe stato il miglior soldato di Alessandro.
Il progetto di Alessandro riuscì unicamente perchè era
sensato. Gli insuccessi dei Persiani nelle invasioni che essi
fecero in Grecia, le conquiste di Agesilao, e la ritirata dei
diecimila, avevano fatto chiaramente conoscere la superiorità
dei Greci in fatto di maniera di combattere e in fatto di
armi; e si sapeva bene che i Persiani erano troppo grandi
per correggersi.
I Persiani non potevano indebolire la Grecia con le
divisioni: essa si trovava allora riunita sotto un capo che
non poteva avere mezzo migliore per nasconderle la sua
schiavitù che di stupirla con la distruzione dei suoi eterni
nemici, e con la speranza della conquista dell'Asia.
Un impero coltivato dalla nazione più industriosa del
mondo, e che lavorava la terra per un principio religioso,
fertile ed abbondante in ogni cosa, offriva a un nemico ogni
comodità di potervi sussistere.
Si poteva giudicare dall'orgoglio dei suoi re, sempre
vanamente mortificati dalle loro sconfitte, che essi avrebbero
affrettato la propria caduta ingaggiando sempre battaglia,

I. Cfr. Considérations, cap. 18: « Non è la fortuna che domina il mondo:


si può chiederlo ai Romani, che ebbero una serie continua di eventi pro­
speri finchè si governarono secondo un dato schema, ed un susseguirsi
ininterrotto di rovesci allorchè si comportarono secondo un altro schema.
Vi sono delle cause generali, sia morali che fisiche, che agiscono in ogni
monarchia, la innalzano, la mantengono, o la fanno precipitare; tutti gli
incidenti sono sottoposti a queste cause; e se il fatto di una battaglia,
cioè una causa particolare, ha mandato in rovina uno Stato, è segno che
vi era una causa generale in forza della quale quello Stato doveva perire
a causa di una sola battaglia. In una parola, l'andamento principale
trascina con sè tu tti gli incidenti particolari ».
2. Nelle Réfle;rions sur les caractères de quelques Princes (op. cit., p. 172)
lo definisce « una brutta copia di Alessandro •·
LIBRO DECIMO

e che l'adulazione non avrebbe mai permesso loro di dubi­


tare della propria grandezza.
Non solamente, dunque, il progetto era sensato, ma fu
saggiamente attuato. Alessandro, nella rapidità delle sue
azioni, nell'ardore delle sue stesse passioni, aveva, se mi si
concede di usare questa espressione, dei lampi di ragione
che lo guidavano, e quelli che han voluto fare della sua
storia un romanzo, e che avevano lo spirito più guasto di
lui, non hanno potuto ingannarci. Parliamone 1 con tutto
nostro agio.

CAPO XIV. A lessandro 2.

Egli 3 non partì che dopo aver garantito la sicurezza della


Macedonia contro i popoli confinanti, ed aver .terminato di
domare i Greci; non si servì di questa loro disfatta che per
l'esecuzione della sua impresa; rese impotente la gelosia
degli Spartani; attaccò le province marittime; fece seguire
al suo esercito terrestre le coste del mare, per non rimaner
separato dalla flotta; si servì in modo ammirevole della
disciplina contro il numero; non mancò mai dei mezzi di
sussistenza, e, se è vero che la vittoria gli diede tutto,
si deve riconoscere che egli fece di tutto per guada­
gnarsela.
All'inizio 4 della sua impresa, vale a dire in un periodo nel
quale uno scacco poteva riuscirgli fatale, si affidò poco al

r. La frase manca in A B dato che il cap. su Alessandro precede


quello su Carlo XII.
2. Per l'ammirazione che Montesquieu nutriva nei confronti di Ales­
sandro cfr. XXI, 8; in Pensées, I, p. 5 18, n. 8 r o (1 228) considera invece
vana la gloria di Alessandro in base a criteri moralistici.
J. In A B si ha la seguente lezione: a Alessandro fece una grande con­
quista. Vediamo come si comportò. Si è parlato abbastanza del suo valore,
parliamo della sua prudenza. Le misure che egli prese furono giuste. Non
parti che dopo aver terminato di domare i Greci; egli non si servi di
questa loro disfatta che per l'esecuzione della sua impresa; dietro di sè
non lasciò niente che gli fosse contrario; attaccò le province marittime ecc.
•·

-4· I tre cpvv. seguenti mancano in A B.


PARTE SECONDA

caso: quando la fortuna lo pose al disopra degli avvenimenti.


la temerità fu talvolta uno dei suoi strumenti. Quando,
prima della partenza, marcia contro i Triballi e gli Illirici,
si vede un tipo di guerra quale quella che fece più tardi
a

Cesare nelle Gallie. Quando è di ritorno in Grecia b, quasi


suo malgrado prende e distrugge Tebe: accampato nei pressi
della città, attende che i Tebani stabiliscano di fare la pace,
sono essi stessi a precipitare la loro rovina. Quando si tratta
di combattere • contro le forze marittime dei Persiani, è
Parmenione che ha dell'audacia, ed Alessandro che ha della
saggezza. Il suo obiettivo fu di separare i Persiani dalle
coste, e di costringerli ad abbandonare essi stessi la loro
flotta, nella quale erano superiori. Tiro era per principio
legata ai Persiani, che non potevano fare a meno del suo
commercio e della sua marina; Alessandro la distrusse.
Conquistò l'Egitto, che Dario aveva lasciato sguarnito di
truppe mentre raccoglieva annate innumerevoli in un altro
continente.
Il passaggio del Granico fece sì che Alessandro si impa­
dronisse delle colonie greche; la battaglia d'Isso gli diede
Tiro e l'Egitto; la battaglia di Arbela lo rese signore del
mondo intero.
Dopo la battaglia d'Isso, lascia fuggire Dario, e non si
occupa che di rinsaldare e disciplinare le proprie conquiste:
dopo la battaglia di Arbela lo insegue così da presso d che
non gli lascia alcuna via di ritirata nel suo impero. Dario
non entra nelle città e nelle provincie che per uscirne: le
marce di Alessandro sono così rapide che sembra di vedere
l'impero universale prezzo piuttosto della corsa, come nei
giochi dei Greci, che della vittoria.
È così che egli fece le sue conquiste: vediamo come le
conservò.

a. Si veda ARRIANO, De expedit. Alexandri, lib. I [cap. 1].


b. Ibid. [I, 7] .
c. Ibid. [I, zo].

d. Ibid., lib. III [cap. r6].


LIBRO DECIMO

Resistette a coloro che volevano che trattasse i Greci a

come padroni, e i Persiani come schiavi; non si preoccupò


che di unire le due nazioni, e di far scomparire le distinzioni
tra popolo conquistatore e popolo vinto; abbandonò dopo
la conquista tutti i pregiudizi che gli erano serviti per effet­
tuarla; prese i costumi dei Persiani, per non spiacer loro,
facendo loro prendere quelli dei Greci; è questo che lo in­
dusse ad usare tanto rispetto per la moglie e per la madre
di Dario, e tanta continenza '· Qual mai è questo conqui­
statore rimpianto da tutti i popoli sottomessi z ? Qual mai è
questo usurpatore alla cui morte la famiglia di cui rovesciò
il trono ha versato lacrime? È questa una sua caratteristica,
della quale, a quanto ci dicono gli storici, nessun altro con­
quistatore può vantarsi.
Nulla rinsalda maggiormente una conquista che l'unione
creata tra i due popoli con i matrimoni. Alessandro si unì
con donne appartenenti alla nazione che egli aveva vinto J:
volle che i membri della sua corte b facessero altrettanto;
il resto dei Macedoni seguì il suo esempio. I Franchi ed i
Burgundi • permisero questo genere di matrimoni: i Visigoti
li proibirono d in Spagna, ed in seguito li permisero; i Lon-

a. Era questo il consiglio di Aristotele. PLUTARCO, Opere


morali, Della fortuna di A lessandro [1, 6] 4.
b. Si veda ARRIANO, · De exped. A lex., lib. VII [cap. 4] .
c. Si veda la Legge dei Burgundi, tit. XII, art. 5 ·

d . S i veda l a Legge dei Visigoti, lib. I I I , tit. V , § r, che abroga

1. In A B si ha quindi la seguente frase: « ciò Io fece rimpiangere


molto dai Persiani ».

2. Cfr. Pensées, I, pp. go- I , n. 99 ( 1 519) in cui ricorda Io stupore che


colpi il mondo alla notizia della morte di Alessandro e il lutto che ne por­
tarono i popoli vinti. In nota è dP.tto • messo nell Esprit des Lois •·
'

3· Alessandro sposò infatti nel 327 a. C. Rossana, figlia di Ossiarte


satrapo della Bactriana, e nel 324, a Susa, Statira, figlia di Dario, e
Parisatide, figlia di Ochos, mentre ottanta ufficiali macedoni sposavano
altrettante nobili persiane; cfr. ARRIAN O, op. cit., IV, rg.
4· II testo esatto di Plutarco è: Neque enim secutus est A ristotelis con­
silium, qui eum iubebat GYaecis se tanquam principem (f)yEJ.10VLxiìlç;), bar­
baris ut dominum prae'b ere, et illorum quidem ut amicorum et domesticorum
curam gerere, his tamquam brutis aut stirpibus uti.
PARTE SECONDA

gobardi non solo li permisero, ma li favorirono •; quando i


Romani vollero indebolire la Macedonia, vi stabilirono che
non si potessero contrarre matrimoni tra i popoli delle
provincie.
Alessandro, che cercava di unire i due popoli, si preoc­
cupò di stabilire in Persia un gran numero di colonie greche:
costruì un'infinità di città, e seppe cementare cosi bene
tutte le parti del nuovo impero che, dopo la sua morte,
nei torbidi e nella confusione delle guerre civili più terribili,
dopo che i Greci si furono, per così dire, annientati con le
proprie mani, nessuna provincia della Persia si ribellò.
Per non spossare 1 la Grecia e la Macedonia, egli inviò
ad Alessandria una colonia di Ebrei h: non gli importava
quali costumi avessero quei popoli, purchè gli rimanessero
fedeli z.
Non soltanto lasciò ai popoli vinti i loro costumi; lasciò
loro anche le leggi civili, e spesso persino i re ed i governatori
che vi aveva trovato. Poneva dei Macedoni • alla testa delle
truppe, e gente del posto a capo dei governi, poichè preferiva
<:orrere il rischio di qualche infedeltà particolare (ciò che
talvolta gli accadde) che di una rivolta generale. Rispettò
le antiche tradizioni, e tutti i monumenti della gloria o
della vanità dei popoli. I re di Persia avevano distrutto i
templi dei Greci, dei Babilonesi e degli Egiziani: egli li fece

la legge antica che aveva maggior riguardo, come vi è detto,


per la differenza delle nazioni che delle condizioni.
a. Si veda la Legge dei Longobardi, lib. II, tit. VII, §§ r e 2.
b. I re di Siria, abbandonando il sistema seguito dai fonda­
tori dell'impero, vollero costringere gli Ebrei a prendere i costumi
dei Greci, ciò che fu causa di terribili scosse all'assetto del loro
Stato.
c. Si veda ARRIANO, De exped. A lex., lib. III ed altri.

1. In A B si ha Per non spossare troppo •·


2. In A B il testo cosi seguita: «I re di Siria, abbandonando il piano


del fondatore dell'Impero, vollero obbligare gli Ebrei a prendere i costumi
dei Greci: ciò che arrecò al loro Stat:a delle terribili scosse •; i cpvv. seguenti
mancano e il capitolo ha termine qui.
LIBRO DECIMO

ricostruire •. Poche furono le nazioni che a lui si sottomisero


e sulle cui are egli non fece dei sacrifici. Sembrava che egli
non si fosse fatto conquistatore che per divenire il monarca
particolare di ciascuna nazione, e il primo cittadino di cia­
scuna città. I Romani conquistarono tutto per tutto di­
struggere t ; egli volle tutto conquistare per tutto conservare
e, in ogni paese che attraversò, le sue prime idee, i suoi
primi progetti furono sempre di farvi qualche cosa che
potesse aumentarne la prosperità e la potenza. Ne trovò i
primi mezzi nella grandezza del suo genio; i secondi nella
sua frugalità ed economia personale b; i terzi nella sua im­
mensa prodigalità per le grandi cose. La sua mano era
chiusa per le spese private, ma si apriva per quelle pubbli­
che. Se si trattava di regolare la sua casa, egli era un Ma­
cedone; se si trattava di pagare i debiti dei soldati, di far
parte della sua conquista ai Greci, di preparare la fortuna
di ciascun componente il suo esercito, egli era Alessandro.
Commise due cattive azioni: bruciò Persepoli, ed uccise
Clito. Le rese celebri per il suo pentimento, cosicchè le sue
azioni criminali vennero dimenticate, per ricordare invece
il suo rispetto per la virtù, tanto che esse vennero conside­
rate piuttosto come disgrazie che come azioni che gli fossero
proprie; così che la posterità ritrova la bellezza del suo
animo quasi a fianco dei suoi trasporti e delle sue debolezze:
fu quindi necessario compiangerlo, ed impossibile odiarlo.
Voglio confrontarlo con Cesare. Quando Cesare volle
imitare i re asiatici, esasperò i Romani per pura ostenta­
zione; quando Alessandro volle imitare i re asiatici, fece
una cosa che rientrava nel suo piano di conquista.

a. Ibid.
b. Ibid., lib. VII [cap. z8] .

I. Cfr. X, 3·
PARTE SECONDA

CAPO XV. Nuovi mezzi per conservare la conquista.

Quando un monarca conquista un grande Stato, può


seguire un sistema ammirevole, adatto tanto a moderare il
dispotismo quanto a conservare la conquista: i conquista­
tori della Cina l'hanno attuato.
Per non esasperare il popolo vinto e non inorgoglire il
vincitore, per impedire che il governo divenga militare, e
per contenere i due popoli nel terreno del dovere, la dinastia
tartara che regna attualmente in Cina ha stabilito che ciascun
corpo di truppe, nelle province, sia composto metà di Cinesi
e metà di Tartari t, affinchè la rivalità dei due popoli li
mantenga nel dovere. I tribunali sono anch'essi metà cinesi
e metà tartari 2. Ciò produce molti buoni effetti: I0 i due
popoli si frenano reciprocamente; zo essi conservano en­
trambi la loro potenza militare e civile, e l'uno non distrugge
l'altro; 3° il popolo conquistatore può spargersi dappertutto
senza indebolirsi e perdersi: diventa capace di resistere alle
guerre civili o straniere. È questa una istituzione così sen­
sata che è stata proprio la sua assenza a perdere quasi tutti
quelli che, nel mondo, hanno fatto delle conquiste 3.

CAPO XVI . Di uno Stato dispotico che conquista.

Quando la conquista è immensa, essa presuppone il


dispotismo 4 . In questo caso l'esercito, sparso nelle province,

1 . Nella sua Relazione, Laurent Lange (in Recueil de voyages au Nord,


Amsterdam, 1 7 1 5 , tomo VIII, p. 234) afferma invece che quasi tutte le
milizie sono tartare perchè gli imperatori (di stirpe tartara) non si fidano
dei cinesi.
2. Il DuHALDE (Desc7iption de la Chine cit., tomo II, p. 7) parla di
un simile provvedimento attuato dall'imperatore Canghi.
3· In Pensées, III, fol. 72 v0, n. 1785 (325) osserva: I Tartari, senza
«

nulla mutare alla foggia dell'antico governo dei Cinesi, li hanno obbligati
a uniformarsi a quella delle loro vesti. Ciò perchè non apparisse la diffe­
renza del numero • ; la notizia è tratta dal DuHALDE, op. cit., tomo II,
p. 89.
4· Cfr. VIII, 19 e il passo delle Pensées ivi citato alla nota I di p. 229
e XVII, 6.
LIBRO DECIMO

non è sufficiente. Bisogna che esista sempre presso il prin­


cipe un corpo di milizie particolarmente fidato, sempre
pronto a piombare su quella parte dell'impero che minaccia
di sollevarsi. Questa milizia deve contenere le altre r, e far
tremare tutti coloro ai quali si è stati costretti a lasciare
qualche autorità nell'impero. C'è, attorno all'imperatore della
Cina, un grosso corpo di Tartari 2, sempre pronto per ogni
occorrenza. Presso il Mogol, presso i Turchi 3, in Giappone 4,
c'è un corpo al soldo del principe, indipendèntemente da
quello che è costituito nel paese. Queste forze particolari
tengono a bada quelle generali.

CAPO XVII . Continuazione del medesimo argomento.

Abbiamo già detto s che gli Stati conquistati dalla mo­


narchia dispotica devono diventare vassalli. Gli storici non
lesinano gli elogi per la generosità dei conquistatori che
hanno restituito la corona ai principi da loro sconfitti. Erano
dunque ben generosi i Romani, che creavano ovunque dei
re per avere degli strumenti di schiavitù •! Una azione simile
è un atto necessario. Se il conquistatore conserva lo Stato
conquistato, i governatori che invierà non saranno capaci

a. Ut haberent instrumenta servitutis et reges 6•

1. Cfr. Pensées, III, fol. 42 v0, n. 1709 (243), evidentemente poste­


riore a questo capitolo, in cui dice: « Quanto ho detto intorno ai despoti
che hanno un'esercito proprio per contenere i Timarioti, può dirsi anche
di Roma che aveva un esercito nel suo seno, che era il suo popolo, per
contenere le truppe delle città alleate ».
2. Cfr. DuHALDE, op. cit., tomo I, p. ug.
3· Il RvcAUT (Histoire de l'état présent de l'Empire ottoman, Amsterdam,
r67o, p. 408) parla di una milizia « che viene pagata sulla cassetta del
Gran Sultano ».
4· Il p. LUIGI CHARLEVOIX (Histoire et description générale du japon,
Parigi, 1 736, tomo I, p. 83) parla di una milizia personale dell'imperatore
del Giappone.
5· Cfr IX, 4·
.

6. Il passo è tratto da TACITO, Agricola, cap. 14; in realtà Tacito dice


soltanto che i Romani si servirono dei re come strumenti, non già che
ne creassero. Sulla politica di conquista dei Romani, cfr. Considérations,
cap. 6.
2}0 PARTE SECONDA

di frenarne i sudditi, nè il conquistatore sarà capace di


tenere a freno i governatori. Sarà così costretto a sguarnire
le truppe del suo dominio più antico per garantire il nuovo.
Tutte le disgTazie di due Stati saranno comuni: la guerra
civile dell'uno sarà la guerra civile dell'altro. Se, al contrario,
il conquistatore restituisce il trono al principe legittimo,
avrà un alleato necessario che, con le forze che gli sono
proprie, aumenterà le sue. Abbiamo visto ai nostri giorni
lo Scià Nadir 1 conquistare i tesori del Mogol, e !asciargli
l'Indostan.

I. Re di Persia, detto anche Kouli Khan (1688- 1 747). salito al trono


nel 1 736; nel 1 739, dopo aver sconfitto a Karnal il Gran Mogol, entra in
Delhi. Nelle Considérations (cap. 5), Montesquieu ne elogia la condotta
nei confronti dei suoi soldati dopo la conquista delle Indie; dalla nota
appostavi ( Histoire de sa vie, Paris, 1742 ) si può rintracciare la fonte
« "

di informazione di Montesquieu, che è l'Histoire dP. Thomas Kouli Khan,


roi de Perse, dell'abate de Claustre, pubblicata a Parigi nel 1 743. In
Spicilège, p. 204 è riportato u n ritaglio della Gazette d'Amsterdam »
«

del 2 settembre 1735 relativo alla battaglia di Erivan (1735), in cui Nadia
vinse i Turchi.
LIBRO UNDICESIMO

DELLE LEGGI CHE FORMANO LA LIBERTÀ POLITICA,


NEL SUO RAPPORTO CON LA COSTITUZIONE

CAPO l. Principio generale.

Io faccio una distinzione tra le leggi che formano la


libertà politica nel suo rapporto con la costituzione, e quelle
che la formano nel suo rapporto con il cittadino. Le prime
saranno il soggetto di questo libro; tratterò delle altre nel
libro successivo.

CAPO I I . Diversi significati dati alla parola libertà.

Non c'è parola che abbia ricevuto maggior numero di


significati diversi, e che abbia colpito gli spiriti in tante
diverse maniere, come quella di libertà 1. Gli uni l'hanno

I . Cfr. Pensées, II, foll. 6-7, n. 884 (63 1 ) : • Il termine libertà in poli­
tica è ben lontano dal significato che gli attribuiscono gli oratori e i poeti.
Questo termine non esprime propriamente che un rapporto e non può
servire a differenziare i vari tipi di governo, giacchè lo Stato popolare
consiste nella libertà dei poveri e dei deboli e nella schiavitù dei ricchi
e dei potenti; e la monarchia consiste nella libertà dei grandi e nella
schiavitù degli umili •. Cfr. pure il seguente passo delle Notes sur l'An­
gleterre: A Londra, libertà e eguaglianza. La libertà di Londra è la

libertà della gente per bene e in ciò differisce da quella di Venezia che
è la libertà di vivere oscuramente e con delle meretrici, e di sposarle:
l'eguaglianza di Londra è anch'essa l'eguaglianza della gente per bene,
e in ciò differisce dalla libertà dell'Olanda che è la libertà della canaglia •·
Le Notes sur l'Angleterre sono di data incerta, comunque in parte con­
temporanee e in parte immediatamente posteriori al soggiorno inglese
di Montesquieu (novembre 1 729-1731 ?). La valutazione spregiativa della
libertà come è intesa a Venezia, è una delle prime osservazioni che Mon­
tesquieu fece arrivandovi, cfr. Voyages, I, p. 24.
272 PARTE SECONDA

scambiata per la facilità di deporre colui al quale avevano


conferito un potere tirannico; gli altri per la facoltà di eleg­
gere colui al quale essi devono obbedire; altri, per il diritto
di portare le armi, e di esercitare la violenza; altri ancora,
per il privilegio di non esser governati che da un membro
della loro nazione, o dalle loro leggi Un certo popolo ha
a.

scambiato per lungo tempo la libertà con l'uso di portare


una lunga barba h. Certuni hanno riferito questo termine a
una determinata forma di governo, escludendone le altre.
Coloro che avevano apprezzato il regime repubblicano,
l'hanno posta in questo governo; quelli che avevano profit­
tato del governo monarchico, l'hanno posta nella monar­
chia In sostanza, ciascuno ha chiamato libertà il tipo di
c.

governo che era consono ai suoi costumi o alle sue inclina­


zioni; e, siccome in una repubblica non si hanno sempre
davanti agli occhi, in una maniera immediata, gli strumenti
dei mali di cui ci si lamenta, e le leggi sembra parlino di
più, e gli esecutori delle leggi di meno, si pone di solito la
libertà nelle repubbliche, e la si esclude dalle monarchie.
Infine, poichè nelle democrazie pare che il popolo possa
fare quasi tutto ciò che vuole, si è attribuita la libertà a
questo tipo di governo, confondendo il potere del popolo
con la libertà del pop<1lo.

a. « Ho copiato - dice Cicerone - l'editto di Scevola che

permette ai Greci di risolvere le loro controversie in base alle


loro leggi: ciò che fa si che essi si considerino come popoli liberi ll.
[Ad Atticum, VI, 1] .
b. I Moscoviti non potevano tollerare che lo zar Pietro gliela
facesse tagliare '·
c. Gli abitanti della Cappadocia rifiutarono l'assetto repub­
blicano che i Romani offrirono loro z.

I. Cfr. XIX, 14 dove dà una interpretazione meno paradossale di


questa resistenza dei Russi ai voleri di Pietro il Grande; il fatto è ripor­
tato anche in Lettres Persanes, LI e fonte ne è PERRY, L'état présent de la
Grande Russie, L' Aja, 1 7 1 7, pp. 1 87-I9I.
2. Cfr. Lettres Persanes, CXXXI, dove però a questo titolo bolla i
Cappadociani col titolo di • popolo vile •·
LIBRO UNDICESIMO 273

CAPO III. Che cos'è la libertà.

È vero che nelle democrazie il popolo sembra fare cw


che vuole, ma la libertà politica non consiste affatto nel
fare ciò che si vuole '· In uno Stato, vale a dire in una so­
cietà nella quale esistono delle leggi, la libertà non può
consistere che nel poter fare ciò che si deve volere e nel
non essere costretti a fare ciò che non si deve volere 2.
Bisogna mettersi bene in mente che cosa sia l'indipen­
denza, e che cosa sia la libertà J. La libertà è il diritto di
fare tutto ciò che le leggi permettono; e se un cittadino
potesse fare ciò che esse proibiscono, non sarebbe più libero,
poichè tutti gli altri avrebbero anch'essi questo stesso potere 4•

I . Cfr. LocKE, Two treatises of Government, II, cap. 4. § 22: • La


libertà dell'uomo in società consiste nel non sottostare ad altro potere
legislativo che a quello stabilito per consenso nello Stato, nè al dominio
di altra volontà o alla limitazione di altra legge che ciò che questo potere
legislativo stabilirà conformemente all a fiducia riposta in lui. La libertà
non è dunque ciò che Sir Robert Filmer ci dice (Osservazioni, p. 55): " la
libertà per ciascuno di fare ciò che gli pare, di vivere come gli piace, senza
esser vincolato da alcuna legge "; ma la libertà degli uomini sotto un
governo consiste nell'avere una norma fissa secondo cui vivere, comune
a ciascun membro di quella società e fatta dal potere legislativo in essa
istituito; cioè a dire la libertà di seguire la mia propria volontà in tutto
ciò in cui la norma non dà precetti, senza esser soggetto alla volontà
incostante, incerta, sconosciuta e arbitraria di un altro, allo stesso modo
che la libertà di natura consiste nel non sottostare ad altra limitazione
che la legge di natura • (mi valgo, qui come in seguito, dell'edizione
italiana a cura di Luigi Pareyson, Torino, 1948) . Il libro del Filmer cui
accenna Locke sono le Observations upon Mr. Hobbes's Leviathan, Mr.
Milton against Salmasius, and H. Grotius De iure belli et pacis, concerning
the originali of government, del 1652.
2 . Cfr. XXVI, 20.
3 · La distinzione passerà anche in RoussEAU, cfr. Lettres de la Mon­
tagne, VIII: « Si ha un bel voler confondere l'indipendenza e la libertà,
queste due cose sono anzi cosi diverse che si escludono a vicenda. Quando
ciascuno fa ciò che gli piace, si fa spesso anche ciò che spiace ad altri, e
non è questo quel che si chiama uno Stato libero. La libertà consiste non
tanto nel fare la propria volontà, quanto nel non esser sottomesso a quella
altrui; essa consiste inoltre nel non sottomettere l'altrui volontà alla
propria. Chiunque è padrone non può esser libero, e regnare significa
obbedire •; cfr. inoltre Contrai Social, I, 8.
4· Cfr. il passo delle Pensées citato nel capitolo precedente: • Un
popolo libero non è quello che ha questa o quella forma di governo; ma
è il popolo che gode della forma di governo istituita dalla legge e non si
può mettere in dubbio che i Turchi si crederebbero schiavi se venissero
sottomessi dalla Repubblica di Venezia e che i popoli delle Indie reputinc
una crudele schiavitù il fatto di esser governati dalla Compagnia d'Olanda•.
274 PARTE SECONDA

Capo VI. Continuazione del medesimo argomento.

La democrazia e l'aristocrazia non sono Stati liberi per


loro natura. La libertà politica si trova nei governi mode­
rati 1. Ma essa non è sempre negli Stati moderati: non vi
rimane che quando non vi è abuso di potere. È però una
espenenza eterna, che ogni uomo, il quale ha in mano il
potere, è portato ad abusarne, procedendo fino a quando
non trova dei limiti. Chi lo direbbe ? La virtù stessa ha
bisogno di limiti.
Perchè non si possa abusare del potere, bisogna che,
per la disposizione delle cose, il potere freni il potere. Una
costituzione può essere tale che nessuno sia costretto a
compiere le azioni alle quali la legge non lo costringe, e a
non compiere quelle che la legge gli permette.

CAPO V. Del fine dei diversi Stati.

Per quanto tutti gli Stati abbiano in generale lo stesso


fine, che è quello di conservarsi, ciascuno è portato a
desiderarne uno particolare. L'ingrandimento era il fine di
Roma; la guerra, quello degli Spartani 2; la religione, quello
delle leggi ebraiche; il commercio, quello dei Marsigliesi; la

Si noti come il concetto di libertà espresso in questo passo nelle Pensées


venga a giustificare tutte le forme di governo, anche quella dispotica
(la Turchia), sinora considerata da Montesquieu come una forma corrotta,
purchè siano in accordo con le leggi, poichè queste, come si vedrà in
seguito, sono espressione della natura di un popolo. Nello stesso senso
cfr. Pensées, I, p. 35, n. 32 ( 1802).
1. Il passo citato dalle Pensées cosi continua: Bisogna quindi con­

cludere che la libertà politica concerne sia le monarchie moderate che le


repubbliche, e non è più lontana dal trono che da un senato; e ogni uomo
è libero quando abbia giusto motivo di credere che la violenza di un solo
o di molti non gli toglierà la vita o il possesso dei beni >>.
2. È quanto Platone fa dire al cretese Clinia e allo spartano Megillo
(Leges, I, 625 d-626 d) . Nel cap. VIII, 1 6 Montesquieu aveva detto invece
che unico obiettivo di Sparta era la libertà, ora poichè essa aveva finora
rappresentato per Montesquieu la democrazia ideale, ciò non si accorda
più con il nuovo concetto di Stato libero.
LIBRO UNDICESIMO 275

tranquillità pubblica, quello delle leggi cinesi •; la naviga�


zione, quello delle leggi dei Rodiesi; la libertà naturale è
lo scopo dell'ordinamento dei selvaggi; in generale, le delizie
del principe, quello degli Stati dispotici; la gloria personale
e quella dello Stato, lo scopo delle monarchie 1; l'indipen�
denza di ciascun individuo è lo scopo delle leggi polacche e,
di conseguenza, l'oppressione generale b.
C'è anche una nazione che ha per scopo diretto della
sua costituzione la libertà politica. Esamineremo ora i prin�
cìpi sui quali essa la fonda. Se sono buoni, la libertà vi farà
la sua comparsa come in uno specchio.
Per scoprire la libertà politica nella costituzione, non
ci vuole molto sforzo. Se si può vederla ove essa è, se la
si è trovata, perchè cercarla ?

CAPo VI. Della costituzione d'Inghilterra 2,

Esistono, in ogni Stato, tre sorte di poteri: il potere


legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal
diritto delle genti, e il potere esecutivo di quelle che dipen�
dono dal diritto civile l,

a . È lo scopo naturale di uno Stato che non ha nemici esterni,

o che crede di averli fermati con delle muraglie.


b. Inconveniente del liberum veto.

I. Cfr. XI, 7·
2. Il titolo ha subito molte variazioni nel Ms. (II, fol. 163), quello che
dalla calligrafia mi sembra il primitivo era cosi concepito: • Principi della
libertà politica e che la Costituzione d'Inghilterra è fondata su tali prin­
cìpi "· Sulla favorevole accoglienza che questa illustrazione della costitu­
zione inglese ebbe in Inghilterra cfr. Corr., II, pp. 1 3 5 e 195.
3· Di parere nettamente contrario, in nome dell'unità del potere
sovrano, era invece HoBBES (cfr. De Cive, capi 7. § 4 e 12, § 5) che sarà
seguito anche da RoussEAU (cfr. Du Contrai social, II, 2). Montesquieu
segue invece l'opinione di LocKE (cfr. Two treatises of Government, II,
cap. 12). Si noti come questa prima divisione di poteri tracciata da Mon­
tesquieu, che segue la divisione lockiana in potere legislativo, esecutivo
e federativo, scompaia quasi sùbito per dar luogo all'altra, diventata
classica, fra esecutivo, legislativo e giudiziario. Sul valore e sulla fortuna
di questa formula cfr. B. MIRKINE-GUETZÉVITCH, Quelques réfl.exions sur
PARTE SECONDA

In base al primo di questi poteri, il principe o il magi­


strato fa delle leggi per sempre o per qualche tempo, e cor­
regge o abroga quelle esistenti. In base al secondo, fa la
pace o la guerra, invia o riceve delle ambascerie, stabilisce
la sicurezza, previene le invasioni 1. In base al terzo, punisce
i delitti o giudica le liti dei privati. Quest'ultimo potere
sarà chiamato il potere giudiziario, e l'altro, semplicemente,
potere esecutivo dello Stato.
La libertà politica, in un cittadino, consiste in quella
tranquillità di spirito che proviene dalla convinzione, che
ciascuno ha, della propria sicurezza 2; e, perchè questa
libertà esista, bisogna che il governo sia organizzato in modo
da impedire che un cittadino possa temere un altro cittadino.
Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magi­
stratura il potere legislativo è unito al potere esecutivo,
non vi è libertà, perchè si può temere che lo stesso monarca
o lo stesso senato facciano leggi tiranniche per attuarle
tirannicamente J .
Non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato
dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se esso fosse
unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà
dei cittadini sarebbe arbitrario, poichè il giudice sarebbe al
tempo stesso legislatore. Se fosse unito con il potere esecu-

'Esprit des Lois, I, in « La République française "•VI, 1949, pp. 20-52 ,


con u n esame della più recente dottrina in proposito.
I . In Pensées, III, fol. 149 v0, n. 1924 (332) vi è il seguente fram­
mento interrotto con la seguente annotazione: Non ho messo tutto ciò
u

nell 'Esprit des Lois nei capitoli dell'Inghilterra "• che si riferisce a questo
potere: Potrebbe darsi che negli affari esteri e lontani, i ministri del
u

potere esecutivo non svelino loro [evidentemente ai rappresentanti) che


ciò che vogliono. Non era cosi ad Atene, dove riservandosi il popolo in
un certo qual modo il potere esecutivo, gli oratori erano sempre al corrente
delle questioni. Ma non si stava meglio per questo; nel primo caso i decla­
matori sarebbero degli ingannati e nel secondo delle canaglie ».

2 . Cfr. XII, 2. Si noti come questa definizione della libertà politica,


che è uno sviluppo in senso soggettivo della definizione oggettiva della
libertà come rispetto della legge, contenuta nel precedente cap. 3, sia una
definizione relativistica contrastante con l'ideale di libertà assoluta con­
tenuto nelle Lettres Persanes.
3· Cfr. Notes sur l' Angleterre: « L'Inghilterra è attualmente il paese
più libero del mondo, senza eccettuarne alcuna repubblica: lo chiamo
libero perchè il sovrano non ha il potere di fare qualsiasi torto gli piaccia
a chicchessia, dato che il suo potere è controllato e limitato da una legge •.
LIBRO UNDICESIMO 277

tivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore.


Tutto sarebbe perduto se la stessa persona, o lo stesso
corpo di grandi, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi
tre poteri : quello di fare le leggi, quello di eseguire le pub­
bliche risoluzioni, e quello di giudicare i delitti o le liti dei
privati.
Nella maggior parte dei regni d'Europa il governo è
moderato, perchè il principe, che detiene i primi due poteri,
lascia ai suoi sudditi l'esercizio del terzo t. Presso i Turchi,
ove questi tre poteri sono riuniti nella persona del Sultano,
v1 regna un terribile dispotismo z.

Nelle repubbliche italiane, ove i tre poteri sono riuniti,


la libertà si trova in misura minore che nelle nostre mo­
narchie. Così il governo ha bisogno, per mantenersi in vita,
di mezzi altrettanto violenti di quelli in uso in Turchia:
ne fanno fede gli inquisitori di Stato e la cassetta ove
•,

ogni delatore può, in qualunque momento, gettare con un


biglietto la sua accusa l.
Si consideri quale può essere la situazione di un citta­
dino in queste repubbliche. Lo stesso corpo di magistratura
detiene, come esecutore delle leggi, tutto il potere che si è
conferito come legislatore. Può quindi mettere a sacco lo
Stato con le sue volontà generali; e, poichè detiene anche
il potere di giudicare, può annientare qualunque cittadino
con le sue volontà particolari.
Tutto il potere vi è riunito, e, benchè non esista la pompa

a. A Venezia 4.

L Cfr. VI, 5· Si veda invece quanto scriveva Fénelon, che pure era
contrario all'assolutismo regio: « Il re è il primo giudice del suo Stato,
è lui che fa le leggi; è lui che all'occorrenza le interpreta; è lui c):�e spesso
giudica nel suo consiglio secondo le leggi che ha emanate o trovate già
stabilite prima del suo regno; è lui che deve correggere tutti gli altri
giudici » (Examen de conscience, art. I, § 7) .
2. Cfr. la fine del cap. V, 1 4 . Già Locke aveva osservato che la sepa­
razione dell'esecutivo dal legislativo era propria delle " monarchie tem­
perate e dei governi ben costituiti » (Two treatises of Govcrnment, II,
cap. 14, § 1 59).
J . Cfr. V, 8, nota b e nota 4 di p. 1 30.
4· Sulla natura e i poteri degli inquisitori a Venezia Montesquieu si
era già soffermato nel cap. II, J.
PARTE SECONDA

esteriore che denota un principe dispotico, lo si intuisce


ad ogni istante.
I prìncipi che hanno voluto rendersi tiranni hanno
sempre cominciato col riunire nella loro persona tutte le
magistrature, e molti re d'Europa, addirittura tutte le
cariche dello Stato.
Sono convinto che la pura aristocrazia ereditaria delle
repubbliche italiane non corrisponda perfettamente al regime
dispotico dell'Asia. La moltitudine dei magistrati rende
talvolta più mite l'esercizio della magistratura; tutti i nobili
non si adoperano sempre per gli stessi disegni: vi si formano
parecchi tribunali, che si moderano a vicenda. Così, a Vene­
zia, il Gran Consiglio ha il potere legislativo; il consiglio
dei pregadi, quello esecutivo; le quarantie, quello giudiziario.
Ma il male sta nel fatto che questi differenti tribunali sono
formati da magistrati dello stesso corpo, dal che risulta
sempre un potere unico.
Il potere giudiziario non deve essere attribuito a un
senato permanente, ma deve essere esercitato da persone
scelte tra il popolo •, in determinati periodi dell'anno,
secondo la maniera prescritta dalla legge, per formare un
tribunale il quale rimanga in vita soltanto per il periodo
che la necessità richiede.
In questo modo il potere giudiziario, così terribile tra
gli uomini, non essendo legato nè a una determinata condi­
zione nè a una determinata professione, diviene, per così
dire, invisibile e nullo r. Non si hanno continuamente dei
giudici davanti agli occhi; si teme la magistratura, e non i
magistrati.
Bisogna inoltre che nei casi di accusa più grave l'impu-

a. Come ad Atene 2•

r. Questa affermazione appare in contrasto con gli interessi della


classe parlamentare francese del tempo, di cui pure Montesquieu aveva
difeso e difenderà la pretesa di costituire un corpo indipendente attraverso
la venalità delle cariche, cfr. V, 19.
2. Cfr. ARISTOTELE, Politica, II, 1 274 a, e Pensées, II, fol. 1 2 vo,
n. go8 ( rg61) in cui Montesquieu afferma: • Pericle dette al popolo tutto
il potere giudiziario ecc. •·
LIBRO UNDICESIMO 279

tato, conformemente alla legge, possa scegliersi dei giudici,


o per lo meno possa rifìutarne un numero così elevato che
quelli che rimangono possano esser considerati come di
sua scelta 1.
I due altri poteri potrebbero essere conferiti a magi­
strati o a dei corpi permanenti, perchè non vengono eser­
citati nei riguardi di alcun singolo, non essendo, uno, che
la volontà generale dello Stato, e l'altro l'esecuzione di
questa volontà generale.
Ma, se i tribunali non devono essere fissi, i giudizi devono
esserlo a tal punto da non essere altro che un testo preciso
della legge 2. Se fossero il frutto delle opinioni particolari
dei giudici, si vivrebbe in una società senza sapere con
precisione quali impegni vi si contraggono.
Bisogna poi che i · giudici siano della stessa condizione
dell'accusato, o suoi pari, perchè egli non possa sospettare
di esser caduto nelle mani di persone inclini ad usargli
violenza 3.
Se il potere legislativo lascia a quello esecutivo il diritto
di imprigionare i cittadini che possono dare cauzione della
loro condotta, non c'è più libertà, a meno che essi non
vengano arrestati per rispondere senza indugio a una accusa

1 . Cfr. XI, r8.


2. Cfr. VI, r e 3·4· Analoga esigenza era stata sentita da Locke, il
quale aveva affermato: « ••. L'autorità legislativa o suprema non può assu·
mersi il potere di governare con decreti estemporanei ed arbitrari, ma è
tenuta a dispensare la giustizia e a decictere intorno ai diritti dei sudditi,
con leggi promulgate e fisse e giudici autorizzati e conosciuti (Two trealises
»

of Governmenl, I I , cap . II, § 1 36) . Si noti tuttavia come Locke ricerchi


una garanzia nei confronti del legislativo, mentre Montesquieu la ricerca
nei confronti del giudiziario, ciò che è dovuto alla diversa tripartizione
dei poteri nei due autori.
3· Cfr. le Remarques sur l'Histoire [de l'ancien gouvernement de la
France, L' Aja, 1 727] du comte de Boulainvilliers, in Pensées, II. fol. 84,
n . r r 84 (593), in cui riferisce: •Sembra che l'usanza inglese, secondo la
quale ognuno deve esser giudicato dai suoi pari, chiamati giurati, e tutto
l'ordinamento giudiziario fosse eguale in Francia "• segue quindi un esame
di alcune leggi medievali francesi. Da questo passo si può desumere che
a influire sul pensiero di Montesquieu non sia stato soltanto l'esempio
dell'Inghilterra ma anche la conoscenza delle istituzioni medievali fran·
cesi; per questo sarebbe assai importante poter conoscere la data di com­
posizione delle Remarques per determinare se siano anteriori o meno alla
stesura del presente capitolo.
PARTE SECONDA

che la legge ha reso passibile di pena capitale, nel qual caso


sono realmente liberi, non essendo sottomessi che al potere
della legge.
Ma se il potere legislativo si credesse in pericolo per
qualche congiura segreta contro lo Stato, o per qualche
rapporto con i nemici esterni, potrebbe, per un periodo di
tempo breve e limitato, permettere al potere esecutivo di
far arrestare i cittadini sospetti l, i quali non perderebbero
la loro libertà per un periodo di tempo che per conservarla
per sempre.
È questo il solo mezzo ragionevole per supplire alla
tirannica magistratura degli èfori, e agli inquisitori di Stato 2
di Venezia, che sono altrettanto dispotici.
Poichè in uno Stato libero ogni uomo, che si suppone
possieda uno spirito libero, deve guidarsi da sè, bisogne­
rebbe che il corpo del popolo avesse direttamente il potere
legislativo; ma poichè ciò è impossibile nei grandi Stati,
ed è soggetto a molti inconvenienti nei piccoli, bisogna che
il popolo faccia per mezzo dei suoi rappresentanti tutto ciò
che non può compiere direttamente.
Si conoscono molto meglio le esigenze della propria
città che quelle delle altre, e si giudica meglio della capacità
dei vicini che di quella degli altri compatrioti J, Non bisogna
dunque che i membri del corpo legislativo provengano in
generale da tutta la nazione, ma conviene che, in ciascun
luogo importante, gli abitanti si scelgano un rappresentante.
Il grande vantaggio di avere dei rappresentanti, è che
essi sono capaci di discutere i pubblici affari. Il popolo non
ne è affatto in grado, e questo costituisce uno degli incon­
venienti principali della democrazia 4,
Non è necessario che i rappresentanti, che hanno rice­
vuto da chi li ha scelti delle istruzioni generali, ne ricevano

I. Cfr. XII, 19.


2. Nel Ms. (II, fol. 169 v0) invece di • inquisitori di Stato • si aveva
in un primo tempo " il Consiglio dei Dieci •·
3· Cfr. II, 2.
4 · Nel Ms. (II, fol. 1 70 vo) si ha quindi la seguente frase cancellata:
" pertanto dovunque vi sono dei rappresentanti non si ha una cattiva
democrazia •·
LIBRO UNDICESIMO

anche di particolari su ciascuna questione, come avviene


nelle diete in Germania. È vero che in questo modo, la
parola dei deputati sarebbe più diretta espressione della
voce della nazione, ma ciò porterebbe ad infinite lungaggini,
renderebbe ciascun deputato padrone di tutti gli altri e,
nei casi più urgenti, tutta la forza della nazione potrebbe
venire arrestata da un capriccio.
Quando i deputati, come dice molto bene il signor
Sidney t, rappresentano un corpo di popolo, come in Olanda,
essi devono rendersi gli interpreti dei loro elettori, ma è
un'altra cosa quando sono designati dai borghi, come in
Inghilterra.
Tutti i cittadini, nei diversi distretti, devono avere il
diritto di dare il loro voto per scegliere il rappresentante,
eccettuati quelli che sono in così bassa condizione che si
ritiene non abbiano volontà propria z.
Vi era un gran difetto nella maggior parte delle antiche
repubbliche: il popolo, cioè, aveva il diritto di prender delle
risoluzioni attive, le quali richiedono una esecuzione, mentre
ne è totalmente incapace. Esso non deve aver parte al
governo che per scegliere i rappresentanti, ciò che si trova
alla sua portata 3 , Poichè, se sono poche le persone che
conoscono il grado preciso della capacità degli uomini,
ognuno è tuttavia capace di sapere in generale se quello
che sceglie è più illuminato della maggior parte degli altri.
Il corpo rappresentativo non deve essere neppur esso
scelto per prendere risoluzioni attive, cosa che non farebbe
bene, ma per fare delle leggi, o per controllare se quelle
che ha fatte sono state ben attuate, cosa che può fare assai
bene, e che, anzi, è solo a poter far bene.
Esistono sempre, in uno Stato, delle persone illustri per
nascita, ricchezze od onori; se venissero confuse tra il po­
polo, e non avessero che una voce come quella degli altri,

I. Discours, cit., tomo III, pp. 406-8, ediz. francese.


2. Cfr. IV, 2 e XV, 1 8, dove afferma che • persino nel governo popo­
lare, il potere non deve cadere nelle mani della plebe n.

3 · Cfr. II, 2. Era l'opinione anche di MACHIAVELLI, cfr. Discorsi, I, j8.


PARTE SECONDA

la libertà comune sarebbe la loro schiavitù, e non avrebbero


alcun interesse a difenderla, perchè la maggior parte delle
risoluzioni sarebbe contro di loro. La parte che essi hanno
nella legislazione deve dunque essere proporzionata agli
altri vantaggi che essi godono nello Stato: ciò accadrà se
formeranno un corpo che abbia il diritto di arrestare le
iniziative del popolo, come il popolo ha diritto di arrestare
le loro.
Pertanto il potere legislativo sarà affidato e al corpo
dei nobili, e al corpo che verrà scelto per rappresentare il
popolo, ed entrambi avranno ciascuno le sue riunioni e le
sue deliberazioni a parte, e punti di vista e interessi separati 1 •
Dei tre poteri dei quali abbiamo parlato, quello giudi­
ziario è in certo senso nullo. Non ne restano che due, e,
dal momento che abbisognano di un potere regolatore che
li moderi, la parte del corpo legislativo composta di nobili
è adattissima a questo scopo.
Il corpo dei nobili deve essere ereditario. Lo è innanzi­
tutto per sua natura, e poi perchè bisogna che abbia un
grande interesse a conservare le proprie prerogative, odiose
di per sè, che, in uno Stato libero, devono sempre essere
in pericolo.
Ma, poichè un potere ereditario potrebbe esser indotto
a seguire i suoi interessi particolari e a dimenticare quelli
del popolo 2, bisogna che nelle cose ove si ha sommo inte­
resse a corromperlo - come nelle leggi che concernono
l'imposizione dei tributi - esso prenda parte alla legisla­
zione soltanto con la sua facoltà di impedire, e non con
quella di statuire.
Io chiamo facoltà di statuire il diritto di ordinare da sè,
o di correggere quello che è stato ordinato da un altro.
Chiamo facoltà di impedire il diritto di render nulla una

1 . Il modello inglese è evidente, cfr. del resto LocKE, Two lrealises


of Government, II, cap. 19, § 2 1 3 .
2 . Già Locke aveva visto (op. cit., II, cap. I I , § 1 3 8 ) i l pericolo che
l'assemblea pensasse " di avere interessi distinti dagli altri membri della
comunità "· qualora fosse un'a5semblea sempre in funzione, come è appunto
il ca5o dell'as5emblea ereditaria prevista da Montesquieu.
LIBRO UNDICESIMO

ri.>oluzione presa da qualcun altro. Era questo il potere dei


tribuni romani. Per quanto chi ha la facoltà di impedire
possa avere anche il diritto di approvare, questa approva­
zione non è altro che la dichiarazione di non uso della
facoltà di impedire e deriva da questa facoltà.
Il potere esecutivo deve essere nelle mani di un monarca,
perchè questa parte del governo, che ha quasi sempre biso­
gno di una azione subitanea, è meglio amministrata da uno
che da molti, mentre ciò che dipende dal potere legislativo
è spesso meglio ordinato da molti che da uno solo.
Se non ci fosse monarca, e il potere esecutivo fosse affi­
dato a un certo numero di persone scelte dal corpo legi­
slativo 1, non ci sarebbe più libertà, perchè i due poteri si
troverebbero riuniti, le stesse persone avendo talvolta parte
- e potendo prenderla in ogni momento - all'una e all'al­
tra attività.
Se il corpo legislativo non fosse convocato per un lungo
periodo di tempo, non ci sarebbe più libertà. Perchè si
verificherebbe una di queste due cose: o non ci sarebbero
più risoluzioni legislative, e lo Stato cadrebbe nell'anarchia;
o queste risoluzioni sarebbero prese dal potere esecutivo,
ed esso diverrebbe assoluto.
Sarebbe inutile che il corpo legislativo fosse sempre
riunito z. Ciò sarebbe scomodo per i rappresentanti, e occu­
perebbe inoltre troppo il potere esecutivo, che non si cure-

I. Il c. d. governo convenzionale o d'assemblea. Cfr. LocKE, op. cit.,


II, cap. 12, § 143: « E poichè, data la debolezza umana, propensa ad im­
possessarsi del potere, le stesse persone, che hanno il potere di far leggi,
possono esser fortemente tentate di avere fra le mani anche il potere di
eseguirle sl da dispensarsi dall'obbedienza alle leggi che si fanno e acco­
modare la legge, sia nel farla che nell'eseguirla, al loro proprio vantaggio
privato, e così giungere ad avere un interesse distinto dagli altri membri
della comunità, contrario al fine della società e del governo, perciò, dunque,
nelle società ben ordinate, in cui si ha il dovuto riguardo al bene della
totalità, il potere legislativo è posto nelle mani di diverse persone, le
quali, regolarmente adunate, hanno, di per sè o congiuntamente con altre,
il potere di far leggi, e quando le abbiano fatte e si siano di nuovo sepa­
rate, sono soggette alle leggi ch'esse stesse hanno fatte, il che è un nuovo
e stretto impegno ad aver cura a farle per il pubblico bene "·
2 . Cfr., oltre al passo precedente, cap. 13, § 153: « Non è necessario,
e neppur conveniente, che il legislativo sia sempre in funzione . .. •·
PARTE SECONDA

rebbe di eseguire, ma di difendere le prerogative e il diritto


che ha di eseguire.
Inoltre, se il corpo legislativo fosse continuamente riu­
nito, potrebbe accadere che senz'altro si supplisse con nuovi
deputati a quelli morti nel frattempo. In questo caso, se
mai il corpo legislativo fosse corrotto, non ci sarebbe più
rimedio. Quando diversi corpi legislativi si succedono l'uno
all'altro, il popolo, che ha cattiva opinione del corpo legi­
slativo in carica, ripone giustamente le speranze in quello
che lo seguirà, ma, se il corpo fosse sempre lo stesso, il
popolo, vedendolo corrotto, non spererebbe più nulla dalle
sue leggi: diverrebbe preda del furore, o cadrebbe nel­
l'apatia.
Il corpo legislativo non deve riunirsi di propria inizia­
tiva r , perchè si suppone che un corpo abbia una volontà
soltanto quando è riunito. Se non si riunisse per decisione
unanime, non si saprebbe dire quale parte compone real­
mente il corpo legislativo, se quella riunita o l'altra. Se
avesse poi il diritto di aggiornarsi da sè, potrebbe accadere
che non si aggiornasse mai, ciò che sarebbe pericoloso, nel
caso in cui volesse attentare al potere esecutivo. D'altronde,
esistono periodi più convenienti l'uno rispetto all'altro per
la riunione del corpo legislativo: bisogna dunque che sia il

I. Di parere contrario era invece Hobbes il quale afferma che l'opi­


nione " che la legge pubblica non ha altro sindacato che il parlamento . . .
è vera soltanto l à dove i l parlamento ha il potere sovrano e può riunirsi
e sciogliersi a sua discrezione, perchè se qualche altro ha il potere di scio­
glierlo, ha anche il diritto di sindacare, e per conseguenza di sindacare
il loro sindacato, e se non l'ha, allora chi esercita il sindacato sulle leggi
non è il parliamenlum, ma il rex in parliamenlo » (Leviatano, II, XXVl. 6) .
Anche Locke (op. cit., cap. 13, § 153) aveva sostenuto che il legislativo
" può radunarsi e esercitare la sua legislatura nei tempi stabiliti dalla sua
costituzione originaria o dal suo proprio aggiornamento, oppure, se non
si è stabilito il tempo in nessuno di questi due modi, e non è stato pre­
scritto alcun altro modo di convocazione, a suo piacimento, perchè il
potere supremo, essendo collocato nel legislativo dal popolo, contmua a
trovarsi in esso ed esso può esercitarlo quando vuole ecc. » . Tuttavia,
contro l'opinione di Hobbes, Locke sosteneva che quando il potere di
convocare e sciogliere il legislativo spettasse all'esecutivo, questo conti­
nuava ad essere sottoposto a quello (loc. cii., §§ 154 e 1 56). Come si vede
il problema che preoccupa i due filosofi inglesi è un probiema di sovranità,
mentre Montesquieu si propone di regolare positivamente il funziona­
mento dei poteri onde assicurare la libertà del cittadino.
LIBRO UNDICESIMO

potere esecutivo a regolare il periodo e la durata di queste


assemblee, in rapporto alle circostanze che gli son note 1 •
Se il potere esecutivo non ha il diritto di arrestare le
iniziative del corpo legislativo 2, -J.Uest'ultimo diverrà dispo­
tico; poichè, dal momento che potrà conferirsi tutto il potere
che vorrà, annienterà tutti gli altri poteri. Ma non bisogna
che il potere legislativo abbia reciprocamente la facoltà di
arrestare quello esecutivo, poichè, avendo già l'esecuzione
dei limiti per sua natura, è inutile frenarla; senza contare
che il potere esecutivo si esercita sempre J su oggetti mo­
mentanei. Il potere dei tribuni romani era difettoso appunto
perchè arrestava non solo la legislazione, ma anche l'esecu­
zione, e ciò causava grandi mali.
Ma se, in uno Stato libero, il potere legislativo non deve
avere il diritto di arrestare quello esecutivo, ha però il
diritto, e deve avere la facoltà di esaminare in qual maniera
le leggi che ha promulgato sono state eseguite; vantaggio
che ha un governo di questo tipo su quello di Creta e di
Sparta, ove i cosmi 4 e gli efori s non rendevano conto della
loro amministrazione.
Ma, quale che sia questo esame, il corpo legislativo non
deve avere il potere di giudicare la persona 6, e di consc�

1 . Cfr. Lo c K E , loc. cit., § I 56 .


2. Nel Ms. (II, fol. I 77 v0) si ha la seguente nota: « È l'inconveniente
delle leggi della Polonia ».
3· Sia il Ms. (II, fol. 1 78) che A B hanno « quasi sempre ».
4 · Cfr. ARISTOTELE, Politica, Il, I 2]2 a-b.
5 · Cfr. ARISTOTELE, Politica, II, 1 270 b.
6. Nel Ms. (II, fol. 1 79) si ha la seguente nota cancellata, passata poi
in parte ,nel cpv. seguente: « A Cnido gli A mymones non potevano esser
chiamati in giudizio nemmeno dopo la loro amministrazione. Essi erano
come i Re d'Inghilterra ». Di parere nettamente contrario era invece Locke,
il quale dedica gran parte degli ultimi due capitoli della sua opera ( 1 7 e I 8)
a giustificare il diritto di resistenza, affermando anzi esplicitamente (cap. I 8,
§ 240) che il potere di giudicare « se il principe o il legislativo agiscono in
modo contrario alla fiducia posta in loro » spetta al popolo (cfr. anche
§ 2 4 2). Anche nei confronti della prerogativa regia, Locke aveva affermato
che il popolo aveva il diritto di ritirarla qualora fosse male esercitata
(cap. 1 3, § I64) e di resistervi qualora fosse esercitata abusivamente
(ibid., § 168). L'atteggiamento di Locke è strettamente legato alla realtà
storica del suo paese, mira ad una giustificazione filosofico-politica delle
due rivoluzioni che spezzarono l'assolutismo degli Stuarts, mentre Mon­
tesquieu afferma il principio strettamente giuridico della irresponsabilità
286 PARTE SECONDA

guenza la condotta di chi esegue. La sua persona deve essere


sacra, perchè, essendo egli necessario allo Stato affinchè il
corpo legislativo non divenga tirannico, se fosse accusato o
giudicato, non vi sarebbe più libertà.
In simili casi lo Stato non sarebbe affatto una monarchia,
ma una repubblica non libera. Dal momento che chi esegue
non può agir male se non ha dei cattivi consiglieri e che
odiano le leggi come ministri, benchè queste li favoriscano
come uomini, questi ultimi possono esser ricercati e puniti.
È questo il vantaggio del tipo di governo esaminato su
quello di Cnido, ove, non permettendo la legge di chiamare
in giudizio gli amimoni •, anche dopo che avevano terminato
il loro periodo di amministrazione b , il popolo non poteva
mai farsi rendere conto dei torti che gli venivano fatti.
Benchè, in generale, il potere giudiziario non debba
essere unito ad alcuna parte di quello legislativo, questa
regola è soggetta a tre eccezioni fondate sull'interesse parti­
colare di chi deve essere giudicato.
I grandi sono sempre esposti all'invidia, e, se fossero
giudicati dal popolo, potrebbero trovarsi in pericolo, e non
godrebbero del privilegio, che ha ogni cittadino anche umile
in uno Stato libero, di essere giudicati da un loro pari.
Bisogna dunque che i nobili siano fatti comparire non din­
nanzi ai tribunali ordinari della nazione, ma davanti alla
parte del corpo legislativo che è composta di nobili.
Potrebbe accadere che la legge, la quale è al tempo
stesso chiaroveggente e cieca, fosse, in certi casi, troppo

a. Erano dei magistrati che il popolo eleggeva ogni anno.


Si veda Stefano di Bisanzio 1 •
b. Si potevano accusare i magistrati romani dopo lo scadere
della loro magistratura. Si veda l'affare del tribuno Genuzio in
DIONIGI n'AucARNASSO, lib. IX [cap. 37].

(politica) del capo dell'esecutivo, che sarà accolto dal diritto costituzionale
moderno.
1 . Amymoni, dal greco &:[1Uf1WV, senza rimprovero. PLUTARCO (Quae­
stiones Graecae, IV) li chiama amnemones, id est imntemores ed afferma
che erano nominati a vita, in numero di sessanta ed erano scelti fra gli
ottimati.
LIBRO UNDICESIMO

rigorosa. Ma i giudici non sono, come abbiamo già detto,


se non la bocca che pronunzia le parole della legge, degli
esseri inanimati che non ne possono moderare nè la forza
nè la rigidezza. È dunque quella parte del corpo legislativo
che, come abbiamo or ora detto, è, in altra occasione, un
tribunale necessario, che deve esserlo pure in questo caso:
spetta alla sua autorità suprema moderare la legge in favore
della legge stessa, pronunziandosi meno rigorosamente di
essa.
Potrebbe anche accadere che qualche cittadino violasse,
negli affari pubblici i diritti del popolo, e commettesse dei
delitti che i magistrati costituiti, non sapessero o non voles­
sero punire. Ma, in generale, il potere legislativo non può
giudicare, e lo può ancor meno in questo caso particolare,
ove esso rappresenta la parte interessata, cioè il popolo:
non può essere quindi che accusatore. Ma davanti a chi
accuserà? Si abbasserà di fronte ai tribunali della legge,
che gli sono inferiori, e composti da altri individui che,
essendo anch'essi popolo, sarebbero influenzati dall'autorità
di un così grande accusatore ? No: bisogna, per conservare
l'autorità del popolo e la sicurezza del singolo, che la parte
legislativa del popolo accusi di fronte alla parte legislativa
dei nobili, la quale non ha gli stessi suoi interessi nè le
stesse passioni.
È il vantaggio che ha questo governo sulla maggior
parte delle repubbliche antiche, ove si verificava l'abuso
che il popolo era al tempo stesso giudice ed accusatore '·
Il potere esecutivo, come abbiamo detto, deve prendere
parte alla legislazione in base alla sua facoltà di impedire,
senza di che sarebbe presto spogliato delle sue prerogative.
Ma se il potere legislativo prende parte all'esecuzione, il
potere esecutivo sarà egualmente perduto.
Se il monarca prendesse parte all'attività legislativa
con la facoltà di statuire, non ci sarebbe più libertà. Ma dal

I. Nel Ms. (II, fol. 1 8 1 vo) si ha quindi il seguente cpv. cancellato:


"E questa disposizione costituisce la via più moderata che sia al mondo
per supplire alla magistratura degli efori e al Consiglio dei Dieci di Venezia
•·
PARTE SECONDA

momento che è però necessario che prenda parte all'attività


legislativa per difendersi, bisogna che ne partecipi cc ·1 la
facoltà di impedire.
La causa del cambiamento del governo di Roma risiede
nel fatto che il senato, il quale aveva una parte del potere
esecutivo, e i magistrati, che detenevano l'altra, non posse­
devano, come il popolo, la facoltà di impedire.
Ecco dunque la costituzione fondamentale del governo
di cui parliamo. Essendovi un corpo legislativo diviso in
due parti, l'una terrà a freno l'altra grazie alla reciproca
facoltà di impedire. Entrambe saranno vincolate dal potere
esecutivo, il quale lo sarà a sua volta da quello legi:;lativo.
Questi tre poteri dovrebbero restare in riposo o nel­
l'inazione. Ma, poichè per il movimento necessario delle cose
sono costretti a funzionare, saranno costretti a farlo di
concerto 1 .
Il potere esecutivo, non facendo parte di quello legisla­
tivo che per la sua facoltà di impedire, non può entrare
nel dibattito degli affari 2. Non è neppure necessario che

1. Cfr. le osservazioni che in proposito fece Hume a Montesquieu nella


sua lettera del IO aprile 1749: " I nostri compatrioti sono molto orgogliosi
dell'approvazione da voi data alla loro forma di governo, di cui sono, e
con qualche ragione, cosi innamorati. Ma si potrebbe osservare che, se
le forme semplici di governo sono per loro natura soggette all'abuso,
perchè in esse non vi è alcun contrappeso, d'altro canto le forme com­
plicate nelle quali una parte reprime l'altra, sono, come le macchine com­
plicate, facili a guastarsi a causa del contrasto e dell'opposizione delle
parti » (Corr., Il, p. 1 76) . Già lo storico ugonotto Rapin-Thoyras (I66I­
I 725) aveva osservato che le prerogative del sovrano, dei grandi e del

popolo vi sono [in Inghilterra) cosi temperate le une dalle altre che si
sostengono vicendevolmente. Al tempo stesso ciascuna di queste tre
potenze, che partecipano al governo, può frapporre degli ostacoli invin­
cibili alle iniziative che una delle altre due, o persino tutte e due insieme,
volessero prendere per rendersi indipendenti » (Dissertation sur les Whigs
et les Torys, L'Aja, 1717, p. 4).
2. In questo caso l'esempio inglese non veniva in soccorso a Montc­
squieu, anche Locke infatti, riferendosi all'Inghilterra, affermava che il
sovrano aveva parte nel legislativo (op. cit., cap. 1 3 , § 151) ed ammet­
teva anzi che, indipendentemente dal legislativo, godesse della prerogativa,
cioè del " potere di deliberare, secondo discrezione, per il pubblico bene
senza la prescrizione della legge, e talvolta anche contro di essa (op. ci t.,

cap. 14, § 160), pur ammettendo che la prerogativa fosse subordinata


al volere del popolo. Montesquieu invece non fa parola della prerogativa
e limita l'intervento dell'esecutivo nella funzione legislativa ad un semplice
diritto di veto.
LIBRO UNDICESIMO

proponga delle risoluzioni, perchè, potendo sempre disap­


provarle può respingere le decisioni delle proposizioni che
non avrebbe voluto fossero avanzate.
In qualche repubblica antica, ove al popolo in corpo
toccava il dibattito degli affari, era naturale che il potere
esecutivo li proponesse e li dibattesse insieme; senza di che
si sarebbe verificata, nelle risoluzioni, una strana confusione.
Se il potere esecutivo delibera sulla imposizione dei
tributi diversamente che col suo consenso, non ci sarà più
libertà, perchè legifererà proprio nella parte più importante
della legislazione 1 •
Se il potere legislativo delibera, non di anno in anno,
ma per sempre, sulla imposizione dei tributi, corre il rischio
di perdere la propria libertà, perchè il potere esecutivo non
ne dipenderà più, e quando si detiene un diritto simile per
sempre, è indifferente che sia il proprio o quello di un altro.
Lo stesso accade se esso delibera, non di anno in anno, ma
per sempre, sulle forze di terra e di mare che deve affidare
al potere esecutivo.
Affìnchè chi detiene il potere esecutivo non possa tiran­
neggiare, bisogna che le forze armate che gli sono affidate
provengano dal popolo, ed abbiano lo stesso spirito del

I. Cfr. LocKE, op. cit., cap. I I , § I4o: « È vero che il governo non
può sostenersi senza gravi spese, ed è opportuno che chiunque partecipi
della sua protezione paghi, dei propri averi, una parte proporzionale per
il suo mantenimento. Ma ciò deve sempre aver luogo col suo consenso,
cioè a dire col consenso della maggioranza, dato o direttamente dai
membri della società o dai loro rappresentanti da essi eletti; perchè se
uno pretende il potere di imporre e levare tasse sul popolo di sua propria
autorità e senza il consenso del popolo viola con ciò la fondamentale legge
della proprietà, e sovverte il fine del governo Anche in Francia del resto
».

la teoria che le tasse dovessero essere votate dai rappresentanti della


nazione era assai diffusa. Fénelon aveva scritto in proposito: • Voi sapete
che un tempo il re non prendeva nulla dai suoi popoli in virtù della sua
sola autorità: era il Parlamento, cioè l'assemblea della nazione, che gli
accordava i fondi necessari per le esigenze straordinarie dello Stato.
All'infuori di questo caso il re viveva dei suoi domini. Che cos'è stato a
mutare tutto ciò se non l'autorità assoluta che i re si sono arrogata ? •

(Examen de conscience, art. III, § I 8 ) . Su questo stesso fatto aveva attirato


l'attenzione di Montesquieu anche Boulainvilliers, come chiaramente
mostrano le citate Remarques (Pensées, cit.) ; del BoULAINVILLIERs si veda
inoltre in proposito il Mémoire sur la convocation d'une Assemblée d' E.tats
Généraux (in Mémoires présentés à Mgr. le due d'Orléans, L'Aja e Amster­
dam, I ]2], tomo I, p. 1 2 ) .
2<f0 PARTE SECONDA

popolo, come avveniva a Roma ai tempi di Mario. Perchè


ciò avvenga, non ci sono che due maniere: o che coloro i
quali vengono reclutati possiedano a sufficienza per rispon­
dere della propria condotta di fronte agli altri cittadini, e
che non siano arruolati che per un anno, come avveniva a
Roma; o che il potere legislativo possa sciogliere l'esercito
se esso è formato di truppe permanenti, o se i soldati sono
una delle classi più basse della nazione. È necessario pure
che i soldati abitino con i cittadini, e che non esistano
accampamenti separati, nè caserme, nè piazze d'armi.
Una volta formato l'esercito, esso non deve dipendere
direttamente dal corpo legislativo, ma dal potere esecutivo,
e ciò per la natura delle cose, perchè il suo còmpito consiste
nell'agire, e non nel deliberare.
È proprio dell'abito mentale degli uomini che si faccia
più caso del coraggio che della timidità, della prontezza
all'azione che della prudenza, della forza che dei ragiona­
menti. L'esercito disprezzerà quindi sempre un senato, ma
rispetterà i suoi ufficiali, non si preoccuperà degli ordini
inviati da parte di un corpo di persone che riterrà timorose,
e quindi indegne di comandarlo. Così, non appena l'esercito
dipenderà unicamente dal corpo legislativo, il governo di­
verrà militare. Se il contrario si è mai verificato, è per effetto
di qualche circostanza straordinaria, perchè l'esercito è
sempre separato, perchè è composto di parecchi corpi che
dipendono ciascuno dalla loro particolare provincia, perchè
le città importanti sono piazze eccellenti, che possono difen­
dersi grazie alla sola loro posizione, e ove non esistono
truppe.
L'Olanda è ancora più sicura di Venezia: sommergerebbe
le truppe in rivolta, le farebbe morire di fame. Esse non si
trovano nelle città che possono offrire loro da vivere, il
loro sostentamento è quindi precario 1.

r . Il Ms. (II, fol. 186) cosi continua: " Infine si è abituato l'esercito
di questo paese ad accogliere dei deputati del Corpo legislativo i quali,
con il pretesto di provvedere alla sua sussistenza o con altri pretesti, lo
dirigono sebbene non lo comandino. È questo un sistema moderato: le
LIBRO UNDICESIMO

Se 1, nel caso che l'esercito sia guidato dal corpo legi­


slativo, particolari circostanze impediscono al governo di
divenire militare, esso cadrà in altri inconvenienti. Delle
due l'una: o l'esercito distruggerà il governo, o il governo
dovrà indebolire l'esercito.
E questo indebolimento avrà una causa fatale: nascerà
dalla debolezza stessa del governo.
Chi legge l'ammirevole opera di Tacito sui costumi dei
Germani vedrà che è da loro che gli Inglesi hanno tratto
•,

l'idea del loro governo politico. Questo bel sistema è stato


trovato nei boschi z.
Poichè tutte le cose umane hanno un termine, lo Stato
del quale parliamo perderà la sua libertà 3. Roma, Sparta e
Cartagine sono pur perite. Questo Stato perirà quando il
potere legislativo sarà più corrotto di quello esecutivo 4•
N on spetta a me di esaminare se gli Inglesi godano
attualmente della libertà, o no. Mi basta affermare che
essa è stabilita dalle loro leggi: a me non interessa altro.

a. De minoribus rebus principes consultant, de maioribus omnes;


ita tamen ut ea quoque, quorum penes plebem arbitrium est, apud
principes pertractentur. [Germ., cap. II].

truppe vedono alla loro testa un uomo d i guerra, m a n e vedono pure la


dipendenza e vi restano anch'esse ». Cfr. in proposito VIII, 14, nota 5,
p. 223.
1. I due cpvv. che seguono mancano in A B; probabilmente causa
del loro inserimento fu l'osservazione seguente fatta a Montesquieu da
Hume nella sua lettera del IO aprile 1749: « Nel 1 646, il Lungo Parlamento
fece un'ordinanza, che fu detta di rinuncia [self denying] in virtù della
quale essi stessi si escludevano da ogni comando nel loro proprio esercito;
la conseguenza immediata di questa ordinanza fu la separazione dell'eser­
cito dal Parlamento e la perdita totale delle nostre libertà » (Corr., Il,
p. 1 7 1 ) . L'ord; nanza di self denying fu approvata il 3 aprile 1 646.
2. È l'opinione già di RAPIN-THOYRAS, cfr. Histoire d'Angleterre,
Amsterdam, 1 723-1 736, 1 3 volumi, tomo I, pp. 475-524.
3 · Cfr. la lettera del 22 luglio 1749 di Montesquieu a Domville nella
quale, a quest'ultimo che lamentava la degenerazione della libertà inglese
a licenza e prevedeva una prossima e rapida decadenza del suo paese,
cosi rispondeva: « Credo tuttavia che in Europa l'ultimo anelito di libertà
verrà da un inglese; credo persino che voi ritarderete la rapidità della
caduta intera delle altre nazioni » (Corr., II, 208; per la lettera del Dom­
ville, ibid., p. 195).
4· Già Rapin-Thoyras aveva detto che due sono le vie per soffocare
la libertà: « la prima è quella di sopprimere il Parlamento, la seconda
quella di corromperne i membri " (Histoire d'Angleterre, prefazione) .
PARTE SECONDA

Non pretendo certo con questo di disprezzare gli altri


governi, nè di affermare che questa libertà politica estrema
debba mortificare chi gode soltanto di una moderata. Come
potrei dire questo proprio io, convinto come sono che l'ec­
cesso della ragione non è sempre desiderabile, e che gli
uomini si adattano quasi sempre meglio alle soluzioni inter­
medie che a quelle estreme ?
Harrington t, nella sua Oceana, ha esaminato egli pure
quale sia il livello più alto di libertà cui possa esser portata
la costituzione di uno Stato. Ma si può dire di lui che non
ha cercato questa libertà che dopo averla misconosciuta,
e che ha costruito Calcedonia, avendo la riva di Bisanzio
dinnanzi agli occhi z.

CAPO VII. Delle monarchie che conosciamo.

Le monarchie che noi conosciamo 3 non hanno, come


quelle di cui abbiamo parlato, la libertà per scopo imme­
diato; esse non mirano che alla gloria dei cittadini, dello
Stato e del principe 4. Ma da questa gloria risulta uno spirito
di libertà che in certi Stati, può produrre cose altrettanto
grandi, e può contribuire alla felicità quanto la stessa
libertà.

I. GIACOMO HARRINGTON (r6r r-r677) scrittore politico inglese, autore


del Commonwealth of Oceana (Londra, 1656) nel quale si dimostra favo­
revole al governo misto composto da un senato aristocratico con il còmpito
di preparare e proporre le leggi, da un'assemblea popolare con il còmpito
di votarle e infine da un organo esecutivo per attuarle, secondo la nota
formula the senale proposing, the people resolving, the magistracy executing
" n

(Oceana, I, p. 48, cito dalla 3a ediz., Londra, 1 747). Montesquieu, in


questo suo giudizio sull'opera del pensatore inglese, si è lasciato fuorviare
dalla forma utopistica che essa ha, la quale in realtà non è che mera
forma letteraria, essendo l'Oceana strettamente legata ai problemi e alle
dottrine politiche inglesi del '6oo.
2. Allude alla frase di Megabise, riportata in ERODOTO, Historiae,
IV, 144.
3· Allude in particolare alla Francia.
4· Cfr. XI, j, ed inoltre Lettres Persanes, LXXXIX: " Si può stabilire
la seguente massima che, in ogni Stato, il desiderio della gloria cresce
con la libertà dei sudditi e diminuisce con essa: la gloria non è mai com·
pagna della schiavitù ecc. •.
LIBRO UNDICESIMO 293

I tre poteri non sono distribuiti e fusi sul modello della


costituzione della quale abbiamo parlato. Essi hanno, in
questi Stati, una distribuzione particolare, a seconda della
quale si avvicinano più o meno alla libertà politica; e, se
non ci si avvicinassero, la monarchia degenererebbe in
dispotismo.

CAPO VIII. Perchè gli antichi non avevano un'idea ben chiara
della monarchia.

Gli antichi 1 non conoscevano il governo fondato su un


corpo di nobili, e ancora meno quello fondato su un corpo
legislativo, formato dai rappresentanti di una nazione. Le
repubbliche della Grecia e dell' Italia erano costituite da
città che possedevano ciascuna il suo governo, e che rac­
chiudevano i loro cittadini entro la cerchia delle mura.
Prima che i Romani inghiottissero tutte le repubbliche, non
c'erano re quasi in nessun paese, in Italia, in Gallia, in
Spagna e in Germania 2. In questi paesi non si avevano
che piccoli popoli o piccole repubbliche; l'Africa stessa era
sottomessa a una grande repubblica, e l'Asia minore era
occupata dalle colonie greche. Non esistevano dunque
esempi di rappresentanti di città o di assemblee di Stati:
bisognava andare fino in Persia per trovare il governo di
un solo.
È vero che esistevano repubbliche federative, e molte

1. Nel Ms. si ha soltanto: " Gli antichi non conoscevano il governo


fondato su un corpo legislativo ecc. "· A questa aggiunta probabilmente
si riferisce Jacob Vernet nella sua lettera del 13 novembre 1 747 a Mon­
tesquieu, là dove dice: Le vostre due piccole correzioni per il libro XI,
«

cap. 8, sono giunte fortur>.atamentc in tempo: siamo giunti a quel punto •


(Corr., II, p. 1 3 ) . In realtà la correzione è avvenuta mediante sostituzione
del foglio.
2. Cfr. Lettres Persanes, CXXXI, dove afferma che questa diffusione
del governo repubblicano in Occidente era dovuta allo influsso della civiltà
greca, ma aggiunge, con maggiore esattezza che non nell'Esprit des Lois,
che " ciò si svolgeva in Europa, poichè, per quanto riguarda l'Asia e
I' Africa, esse sono state sempre dominate dal dispotismo se si eccettuano
qualche città dell'Asia Minore, di cui abbiamo parlato, e la repubblica
di Cartagine in Africa •·
PARTE SECONDA

città inviavano dei rappresentanti a una assemblea. Ma io


dico che non esistevano monarchie del tipo di cui ho parlato.
Ecco come si formò il primo schema di monarchie che
noi conosciamo 1. Le nazioni germaniche che conquistarono
l'impero romano erano, come si sa, molto libere 2: non c'è
che da leggere in proposito l'opera di Tacito Sui costumi
dei Germani. I conquistatori si sparsero nel paese; vi abi­
tarono le campagne e, in misura minore, le città. Quando
erano in Germania, tutta la nazione poteva riunirsi in as­
semblea; quando si trovarono dispersi sul territorio con­
quistato, la cosa si rese impossibile. Ciononostante, era
necessario che la nazione deliberasse sui suoi affari, come
aveva fatto prima della conquista: Io fece quindi per mezzo
di rappresentanti. Ecco l'origine del governo gotico presso
di noi. Dapprima, esso fu insieme aristocratico e monar­
chico. Aveva come inconveniente che la plebe 3 era schiava:
era 4 un buon governo che aveva in se stesso la capacità
di divenire migliore. Venne s poi l'uso di accordare lettere
di affrancamento, e ben presto la libertà civile del popolo,

x. Cfr. Lettres Persanes, ibid.


2. Cfr. Voyages, II, p. 215: « I barbari che conquistarono l'Impero
romano non si preoccuparono di stabilire il governo dispotico: non ne
avevano ancora nemmeno l'idea. Secondo quanto ci narra Tacito, tutto
si svolgeva nel consiglio comune della nazione o della famiglia. La paura
dei Romani fece si che si riunissero al riparo delle loro foreste "·
3· Nel Ms. (II, fol. 191 v0) invece che « la plebe" si aveva in un primo
tempo « la più grande parte della nazione "• lezione poi sostituita con
l'attuale. Forse è questa l'altra correzione cui allude Vernet nella lettera
citata.
4 · Sia nel Ms. che in A B la frase è in nota.
5· Nel Ms. (Il, foll. 1 9 1 vo - 193 v0) si possono leggere due precedenti
stesure della fine di questo capitolo, poi cancellate e sostituite con l'attuale
lezione.
I. - « l re trovarono il modo di risollevare i popoli che erano caduti
nell'avvilimento, e per ottenere ciò cominciarono con l'affrancare coloro
che dipendevano immediatamente da loro. Concessero quindi dei privilegi
alle principali città, ciò che significava toglierle dalla schiavitù, poichè
in uno Stato soltanto i cittadini possono avere il diritto di radunarsi in
assemblea e di far parte del corpo politico ».
Il. - « Venne quindi la consuetudine di accordare delle lettere di
affrancamento. Non appena il popolo fu libero nell'àmbito del governo
gotico, questo governo pervenne alla sua perfezione poichè vi si dette
l'anima a quella considerevole parte dei sudditi che fino a quel momento
erano stati nell'avvilimento •.
LIBRO UNDICESIMO 295

le prerogative della nobiltà e del clero, la potenza dei re,


si trovarono in tale armonia che non credo sia esistito al
mondo un governo così ben temperato come lo fu questo,
in ogni parte d'Europa, fintanto che si mantenne in vita.
È ammirevole che la corruzione del governo di un popolo
conquistatore abbia formato il tipo migliore di reggimento
politico che gli uomini abbiano potuto immaginare.

CAPO IX. Modo di pensare di Aristotele.

L'incertezza di Aristotele appare chiara quando egli


tratta della monarchia •. Egli ne stabilisce cinque tipi, che
non distingue per la forma della costituzione, ma per fatti
accidentali, come la virtù o i vizi del principe, o per cause
esterne, come l'usurpazione o la successione della tirannide.
Aristotele pone tra le monarchie l'impero persiano e il
regno di Sparta. l\Ia chi non si accorge che il primo era
uno Stato dispotico, e l'altro una repubblica 1?
Gli antichi, che non conoscevano la distribuzione dei
tre poteri nel governo di un solo, non potevano farsi un'idea
giusta della monarchia.

a. Politica, lib. III, cap. I4 [r284 b-r285 b].

I. In realtà Aristotele considera i regni asiatici tirannici, ma... tut­


cc

tavia solidi per esser fondati sull'eredità e sulla legittimità» (op. cit.,
1285 a). e la forma di governo spartana come un principato sui generis
o meglio «come un potere militare vitalizio» (op. cit., 1285 a). La dif·
ferenza tra :.VIontesquieu e Aristotele è dovuta al fatto che per il primo
la monarchia è quella forma di governo in cui vige una certa separazione
dei poteri (di tipo inglese o di tipo gotico), in contrapposto con il dispo­
tismo in cui tale separazione non vige, mentre per il secondo è quel governo
in cui un capo - ereditario o elettivo - legittimo detiene la somma dei
poteri, distinguendosi così dalla tirannide in cui i poteri sono usurpati.
PARTE SECONDA

CAPO X. Modo di pensare degli altri autori politici.

Per temperare il governo di un solo, Arriba •, re del­


l'E piro, non immaginò che una repubblica. I Molossi, non
sapendo come limitare il medesimo potere, crearono due re b:
in questo modo indebolirono lo Stato più che la carica; si
volevano dei rivali, e si ebbero dei nemici.
Due re non erano ammissibili che a Sparta: essi non ne
costituivano la costituzione, ma solo una parte.

CAPO XI. Dei re del periodo eroico presso i Greci.

Presso i Greci, nel periodo eroico, si stabilì una specie


di monarchia che non resistette a lungoc. Quelli che avevano
inventato delle arti, fatta la guerra per il popolo, riunito
uomini dispersi, o che avevano dato loro delle terre, otte­
nevano il trono per sè, e lo trasmettevano ai loro figli. Erano
re, sacerdoti e giudici. È questa una delle cinque specie di
monarchie delle quali parla Aristotele d, ed è l'unica che

a. Si veda GIUSTINO, lib. XVII [cap. 3] '·


b. ARISTOTELE, Politica, lib. V, cap. 9 [1313 a] 2.
c. ARISTOTELE, Politica, lib. III, cap. I4 [r285 b] 3,

d. Ibid .

I. Il passo di Giustino suona cosi: "Primus [Arriba] leges et senatum,


annuosque magistratus, et reipublicae formam composuit», dove "respublica »

non vale • repubblica» in senso moderno ma, come intendevano gli antichi,
Stato ordinato secondo le leggi, come aveva già rilevato il D1.IPIN nelle
sue Observations sur tm livre intitulé "De l'Esprit des Lois », 3 voli.,
Parigi, 1757-58, osservazione riferita dal PARRELLE neUa sua edizione
delle Oeuvres complètes de Montesquieu, Parigi, r839, tomo I, p. 202,
nota J. Infatti l'Epiro fu retto a monarchia fino alla conquista romana.
2. In realtà Aristotele non dice che i Molassi avessero due re come
gli Spartani ma che «il regno dei Molassi dura ancora da molto tempo,
e similmente il regno dei Lacedemoni, perchè fin da principio la sovranità
fu divisa, avendola Teopompo temperata con altre costituzioni, soprattutto
con la magistratura degli efori».
J. • Questa è per cosi dire tirannide elettiva che differisce dalla bar­
barica non per non essere legittima, ma per non essere ereditaria i suoi

re erano detti • esimneti», nel Ms. infatti il titolo che Montesquieu dà


a questo capitolo è proprio Degli esimneti.
LIBRO UNDICESIMO 297

ha qualche somiglianza con la costituzione monarchica. Ma


lo schema di questa costituzione è opposto a quello delle
nostre monarchie di oggi.
I tre poteri vi erano distribuiti in modo che il popolo
aveva il potere legislativo •, ed il re quello esecutivo e quello
giudiziario, mentre, nelle monarchie che noi conosciamo, il
principe ha il potere esecutivo e quello legislativo, o per
lo meno una parte di quest'ultimo, ma non esercita quello
giudiziario.
Nel governo dei re del periodo eroico, i tre poteri erano
mal distribuiti. Queste monarchie non potevano reggersi,
poichè, dal momento che il popolo deteneva il potere di
legiferare, poteva, al minimo capriccio, distruggere la mo­
narchia, come fece ovunque 1.
Presso un popolo libero, che detenga il potere legislativo;
presso un popolo chiuso in una città, ave tutto ciò che vi
è di odioso diventa più odioso ancora, il capolavoro della
legislazione consiste nel saper ben sistemare il potere giudi­
ziario. Ma questo potere non poteva esser peggio affidato
che a chi già aveva il potere esecutivo. Da quel momento,
il monarca diventava terribile, ma al tempo stesso, poichè
non aveva il potere legislativo, non poteva difendersi contro
quest'ultimo: il monarca aveva troppo potere, e non ne
aveva abbastanza.
Non si era ancora scoperto che la vera funzione del
principe è di nominare i giudici, e non di giudicare di per­
sona. La politica opposta rese intollerabile il governo di
uno solo: tutti quei re furono cacciati. I Greci non conosce­
vano la vera distribuzione dei tre poteri, nel governo di

a. Si veda quanto dice in proposito PLUTARCO, Vita di Teseo


[capi 24-25] . Si veda anche TucmmE, lib. I.

r. Nel Ms. (II, fol. 199 vo) si hanno quindi i due seguenti cpvv. can­
cellati: • L'unica monarchia che ai nostri giorni sia paragonabile alle
monarchie greche è quella polacca, nella quale il sovrano ha il potere di
giudicare e non partecipa del potere legislativo, ciò che rende necessa­
riamente la condizione della monarchia del tutto precaria. Ma ben più
precaria essa era sotto gli esimneti, poichè, essendo essi sovrani soltanto
di una città, era facile .
. . (la frase è interrotta).
»
PARTE SECONDA

una sola persona: non la compresero che in quello di molte,


e chiamarono questa sorta di costituzione politia •.

CAPO XII. Del governo dei re di Roma, e come i tre poteri


vi erano distribuiti 1 .

Il governo dei re di Roma aveva qualche rapporto con


quello dei re del periodo eroico in Grecia. Esso cadde, come
gli altri, per il suo difetto generale, benchè in se stesso e
nella sua natura particolare fosse ottimo.
Per far conoscere questo tipo di governo, distinguerò
quello dei primi cinque re, quello di Servio Tullio e quello
di Tarquinia.
La corona era elettiva e, sotto i primi cinque re, il
senato ebbe la parte più importante nella loro elezione.
Dopo la morte del re, il senato esaminava se fosse il
caso di mantenere la forma di governo stabilita. Se conclu­
deva in senso affermativo, nominava un magistrato b, eletto
dal suo seno, che eleggeva un re z. Il senato doveva appro­
vare questa elezione, il popolo confermarla, gli aruspici
garantirla. Se una di queste tre condizioni veniva a mancare,
era necessario fare un'altra elezione.
La costituzione era monarchica, aristocratica e popolare,
e tale fu l'armonia tra i poteri che, sotto i primi regni, non

si videro nè gelosie nè dispute. Il re comandava gli eserciti,


ed aveva la sovrintendenza ai sacrifici; aveva il potere di

a. Si veda ARISTOTELE, Politica, lib. IV, cap. 8 [L293 b-1294 b] .


b. DIONIGI n'ALICARNASSO, lib. Il, [capi 57-58), p. 1 20; e
lib. IV, [cap . 40] , pp. 242-3.

1. Nel Ms. i capi I 2-I8 dedicati alla divisione dei poteri in Roma,
costituiscono un solo capitolo, la cui redazione ha subìto numerosi rima­
neggiamenti, vi si riscontrano infatti tre stesure principali, di cui la prima
(II, foll. 202 r0 - 210 v0) e la terza (II, foll. 250 ro - z68 v0) parziali e la
seconda (II, foll. 21 I r0 - 249 ro) sostanzialmente eguale alla lezione attuale.
2. È I'interrex, in genere però si avevano più interreges, ciascuno dei
quali durava in carica cinque giorni e poi, tratti gli auspici, passava il
potere all'altro.
LIBRO UNDICESIMO 299

giudicare gli affari civili • e penali b, convocava il senato.


riuniva in assemblea il popolo, gli sottoponeva taluni affari,
e gli altri li sbrigava in collaborazione col senato c.
Il senato aveva una grande autorità. I re sceglievano
spesso dei senatori per giudicare insieme con loro; non por­
tavano davanti al popolo affari che non fossero già stati
discussi d al senato.
Il popolo aveva il diritto di eleggere • i magistrati, di
approvare le nuove leggi, e quando il re lo permetteva, il
diritto di dichiarar guerra e di fare la pace. Non aveva il
potere giudiziario. Quando Tullo Ostilio rinviò il giudizio
di Orazio al popolo, lo fece per ragioni particolari, che sono
esposte da Dionigi di Alicarnasso r.
La costituzione mutò sotto g Servio Tullio t. Il senato
non prese alcuna parte alla sua elezione: egli si fece procla­
mare dal popolo 2. Si spogliò dei giudizi h civili, non riser­
vandosi che quelli penali; sottopose direttamente al popolo
tutti gli affari: lo sollevò da determinate tasse, che pose a

a. Si veda il discorso di Tanaquilla in TITo LIVIO, lib. I


[cap. 41]; e le disposizioni di Servio Tullio in DIONIGI o' ALI­
CARNASSO, lib. IV, [cap. 25), p. 229.
b. Si veda DIONIGI o'ALICARNASSO, lib. II, [cap. 56], p. rr8;
e lib. III, [cap. 30], p. 171.
c. Fu in forza di un senato - consulto che Tullo Ostilio fece

distruggere Alba. DIONIGI o'ALICARNASSO, lib. III, [cap. 27],


p. r67 e [cap. 31], p. 172.
d. DIONIGI o'ALICARNASSO, lib. IV, [cap. 75], p. 276J.
e. Ibid., lib. II [cap. 12] .
f . Lib. III, [cap. 22], p. I 59·
g. Lib. IV.
h. " Si privò della metà della potestà regia», afferma DIONIGI
n'ALICARNAsso, lib. IV, [cap. 25], p. 229.

r. Cfr. Considérations. cap. 1: " Alla stessa stregua di Enrico VII,


re d'Inghilterra. che aumentò i poteri dei comuni per abbassare i grandi,
Servio Tullio, prima di lui aveva esteso i privilegi del popolo per abbas­
sare il senato. Ma il popolo diventato dapprima più audace, rovesciò l'una
e l'altra monarchia », dove il paragone fra la rivoluzione inglese del 1688
e la cacciata dei re da Roma, appare per lo meno un po' forzato.
2. Cfr. DIONIGI o' ALICARNASSO, Antiquitates Romanae, IV, 12 e 40.
3· Nello stesso senso cfr. anche DIONIGI o' ALICARNASSO, VII, 38.
PARTE SECONDA

carico dei patrizi. Così, a mano a mano che indeboliva il


potere regio e l'autorità del senato, aumentava quello del
popolo •.
Tarquinia non si fece eleggere nè dal senato nè dal po­
polo. Egli considerò Servio Tullio un usurpatore, e cinse
la corona come per diritto ereditario 1; sterminò la maggior
parte dei senatori, non consultò più quelli che rimasero,
nè li chiamò a partecipare ai suoi giudizi b. La sua potenza
aumentò, ma ciò che in essa vi era di odioso divenne più
odioso ancora; usurpò il potere del popolo, fece delle leggi
senza consultarlo, ne promulgò altre contro di esso Avrebbe e.

riunito i tre poteri nella sua persona, ma il popolo si sov­


venne a un certo punto di esser lui il legislatore, e Tarquinia
non fu più.

CAPO XIII. Riflessioni generali sullo Stato di Roma dopo la


cacciata dei re.

Non si possono mai abbandonare i Romani: allo stesso


modo che ancor oggi nella loro capitale si trascurano i nuovi
palazzi per cercare delle rovine; allo stesso modo che l'occhio,
dopo essersi riposato sullo smalto delle praterie, ama rive­
dere le roccie e le montagne.
Le famiglie patrizie avevano goduto, da sempre, di
grandi prerogative 2. Queste distinzioni, grandi sotto i re,
divennero ben più importanti dopo la loro cacciata. Ciò

a. Si credeva che, se non fosse stato prevenuto da Tarquinio,

egli avrebbe stabilito il governo popolare. DIONIGI n'ALICAR­


NASSO, lib. IV, [cap. 40], p. 243·
b. DIOè'<IGI n'AucARNASSO, lib. IV [cap. 41].
c. lbid.

I. Cfr. Considérations, cap. r: • Tarquinio prese la corona senza esser


stato eletto nè dal senato nè dal popolo. Il potere diventava ereditario:
egli lo rese assoluto •·
2. Nella prima stesura del Ms. (II, fol. 202) si aveva la seguente lezione:
« I re avevano dato delle prerogative a talune famiglie che furon dette
patrizie "·
LIBRO UNDICESIMO 301

causò la gelosia dei plebei, che vollero abbassare quelle


famiglie. Le contestazioni colpivano la costituzione senza
indebolire il governo, in quanto, purchè le magistrature
conservassero la loro autorità, era abbastanza indifferente
a quale famiglia appartenessero i magistrati.
Una monarchia elettiva, come quella di Roma, presup­
pone necessariamente una potente aristocrazia che la so­
stenga, senza di che essa si muta tosto in tirannide o in
Stato popolare: ma uno Stato popolare non ha bisogno di
queste distinzioni di famiglia per sostenersi. È per questo
che i patrizi, parti necessarie della costituzione al tempo dei
re, ne divennero elemento superfluo al tempo dei consoli:
il popolo potè !imitarne i poteri senza distruggerli, e mutare
la costituzione senza corromperla.
Quando Servio Tullio ebbe avvilito i patrizi, Roma fu
costretta a cadere dalle mani dei re in quelle del popolo.
Ma il popolo, abbassando i patrizi, non dovette temere di
ricadere nelle mani dei re.
Uno Stato può mutare in due maniere: o perchè la costi­
tuzione si corregge, o perchè si corrompe. Se ha conservato
i suoi principi, e la costituzione muta, è segno che si còr­
regge; se ha perduto i suoi principi, quando la costituzione
muta, è segno che si corrompe.
Roma, dopo la cacciata dei re, doveva divenire una
democrazia. Il popolo aveva già il potere legislativo: era il
suo suffragio unanime che aveva cacciato i re, e, se non
avesse insistito in questa determinazione, i Tarquini avreb­
bero potuto tornare ad ogni istante. Pretendere che li avesse
voluti cacciare per cadere sotto la schiavitù di qualche
famiglia, non era ragionevole. La situazione delle cose esi­
geva quindi che Roma diventasse una democrazia, e cio­
nonostante essa non lo era. Fu necessario temperare il potere
dei notabili e che le leggi tendessero verso la democrazia.
Spesso gli Stati prosperano di più 'nel passaggio insen­
sibile da una costituzione all'altra, di quanto non avvenisse
sotto l'una o l'altra di queste costituzioni. È in simile periodo
che sono tesi tutti i congegni del governo, che tutti i cit­
tadini hanno delle pretese, che ci si attacca o ci si unisce,
302 PARTE SECONDA

e che c'è una nobile emulazione tra coloro che difendono


la costituzione in declino e coloro che sostengono quella che
ha il sopravvento.

CAPO XIV. Come la distribuzione dei tre poteri cominciò a


mutare dopo la cacciata dei re.

Quattro cose principalmente erano contrarie alla libertà


di Roma: i patrizi ottenevano essi soli tutte le cariche reli­
giose, politiche, civili e militari; si era attribuito al conso­
lato un potere eccessivo; si perpetravano oltraggi ai danni
del popolo, e infine non gli si lasciava alcuna influenza nei
suffragi. Furono questi quattro abusi che il popolo corresse.
I. Esso fece stabilire che i plebei avrebbero potuto
aspirare a determinate magistrature, e ottenne, poco a poco,
che potessero giungere a tutte quelle esistenti, eccettuata
quella di interrè.
2. Si suddivise il consolato, formandone numerose
magistrature. Si crearono dei pretori a, ai quali venne con­
ferito il potere di giudicare gli affari privati; si nominarono
dei questori b per giudicare i delitti pubblici; si stabilirono
degli edili ai quali venne affidata la polizia; si fecero dei
tesorieri che detenevano l'amministrazione del danaro

pubblico 1; infine, con la creazione dei censori, si tolse ai


consoli quella parte del potere legislativo che regola i costumi
dei cittadini e la sorveglianza momentanea dei diversi corpi
dello Stato. Le prerogative principali che rimasero loro
furono di presiedere le grandi assemblee d del popolo, di
convocare il senato, e di comandare gli eserciti.

TITo LIVIO, prima deca, lib. VI [cap. 42] .


a.
b. Quaestores parridicii. PoMPONIUS, leg. Il, § 23 Dig. [l, 2].
,

De orig. iur.
c. PLUTARCO, Vita di Publicola [103 c-d].

d. Comitiis centuriatis.

1. I quaestores propriamente detti.


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·chez S,IMAai, ::rue ·saint Jatques-t,
· a.u Dauphin. · :
. M.--· D. C C.- X X V.
�'Pec .Approb�ttie1t (7 Privilige du Roi� .•

La seconda opera pubblicata da Montesquieu

(prim� edizione in volume, Parigi� li25).


LIBRO UNDICESIMO

3· Le leggi sacre stabilirono dei tribuni che potevano


in ogni istante arrestare le iniziative dei patrizi, e non im­
pedivano soltanto le offese particolari, ma anche quelle
generali.
4· I plebei infine accrebbero la loro influenza nelle
decisioni pubbliche. n popolo romano era diviso in tre
maniere: per centurie, per curie e per tribù; e, quando dava
il suo suffragio, era riunito e costituito in una di queste
tre maniere.
Nella prima, i patrizi, i notabili, i ricchi, il senato, vale
a dire più o meno la stessa cosa, detenevano quasi tutta

l'autorità; nella seconda ne avevano di meno, nella terza,


meno ancora.
La divisione per centurie era piuttosto una divisione
per censo e per mezzi anzichè per persone. Tutto il popolo
era suddiviso in cento novantatre centurie •, che avevano
ciascuna un voto. I patrizi e i notabili formavano le prime
novantotto centurie; il resto dei cittadini era sparso nelle
rimanenti novantacinque. I patrizi erano dunque, in questa
forma· di divisione, padroni dei suffragi.
Nella divisione per curie b, i patrizi non godevano degli
stessi vantaggi, ma ne conservavano ancora. Bisognava
trarre gli auspici, di cui eran padroni i patrizi; non vi si
potevano fare proposte al popolo che non fossero state in
precedenza presentate al senato e approvate con un senato
consulto. Ma nella divisione per tribù, non vi era più que­
stione nè di auspici, nè di senato consulto, e i patrizi non
vi erano ammessi.
Ora, il popolo cercò sempre di fare per curie le assemblee
che si facevano di abitudine per centurie, e di fare per tribù
quelle che si usavano fare per curie: ciò che fece passare
gli affari dello Stato dalle mani dei patrizi a quelle dei
plebei.
Così, quando i plebei ebbero ottenuto il diritto di giu-

a. Si veda in proposito Tno LIVIO, li b. I [cap. 43] e DIONIGI

o'ALICARNASSO, lib. IV [capi IS-7] e lib VII [cap. sgJ.


.

b. DIONIGI o'ALICARNASSO, lib. IX [cap. 41] , p. sg8.


PARTE SECONDA

dicare i patrizi, ciò che cominciò con l'affare di Coriolano •,

vollero giudicarli riuniti per tribù b, e non per centurie; e


quando furono stabilite, in favore del popolo, le nuove
magistrature c di tribuno e di edile, esso ottenne di riunirsi
per curie per designarle; e, quando la sua potenza fu rin­
saldata, ottenne d che sarebbero state assegnate in un'as­
semblea per tribù.

CAPO XV. Come, nel fiorire della repubblica, Roma perdette


d'improvviso la libertà.

Nell'ardore della disputa tra patrizi e plebei, questi


ultimi chiesero la promulgazione di leggi fisse, perchè i
giudizi non fossero più l'effetto di una volontà capricciosa
o di un potere arbitrario. Dopo molte resistenze, il senato
aderì. Per stabilire queste leggi, furono nominati dei decem­
viri 1• Si credette di dover accordar loro un grande potere,
dappoichè dovevano preparare leggi per dei partiti pres­
sochè inconciliabili. Fu sospesa la nomina di quasi tutti i
magistrati e, nei comizi, essi vennero eletti soli amministra­
tori della repubblica; si trovarono pertanto investiti della
potestà consolare e di quella tribunizia. La prima dava
loro il diritto di convocare il senato, la seconda, quello di
convocare il popolo, ma essi non convocarono nè il senato
nè il popolo. Dieci uomini nella repubblica ebbero in mano
da soli tutto il potere legislativo, tutto il potere esecutivo,
tutto il potere giudiziario. Roma si vide sottomessa ad una
tirannide crudele come quella di Tarquinia. Quando Tar­
quinia compiva le sue vessazioni, Roma era indignata del

a. Ibid., lib. VII [cap. 59).


b. Contro l'antica usanza, come appare da DIONIGI o'Au­
CARNASSO, lib. V [cap. 57], p. 320.
c. Lib. VI [capi 8g-go], pp. 410-rr,

d. Lib. IX [cap. 4:rj, p. 6 os.

1. Nel 45I a. C.
LIBRO UNDICESIMO

potere da lui usurpato; quando i decemviri esercitarono le


loro, Roma fu stupita del potere che aveva conferito t.
Ma qual'era mai questo sistema di tirannide creato da
persone che avevano ottenuto il potere politico e militare
unicamente per la conoscenza degli affari civili e che, in
quelle circostanze, avevano bisogno all'interno della viltà
dei cittadini per poterli governare, e, all'esterno del loro
coraggio per difenderli ?
Lo spettacolo della morte di Virginia, sacrificata da suo
padre al pudore e alla libertà, fece svanire la potenza dei
decemviri. Ciascuno si trovò libero, perchè ciascuno fu
offeso; tutti divennero cittadini, perchè tutti si sentirono
padri. Il senato e il popolo ripresero una libertà che era
stata affidata a dei tiranni da burla.
Il popolo romano, più di ogni altro, si commoveva per
gli spettacoli: quello del corpo insanguinato di Lucrezia
pose termine alla monarchia; il debitore comparso nel Foro
coperto di piaghe fece mutare la forma della repubblica 2;
la vista di Virginia fece cacciare i decemviri. Per far con­
dannare Manlio, si dovette allontanare il popolo dalla vista
del Campidoglio J; la veste insanguinata di Cesare ripiombò
Roma nella schiavitù 4.

CAPO XVI. Del potere legislativo della repubblica romana

Sotto i decemviri non vi erano diritti da disputarsi; ma


quando fu tornata la libertà, si videro rinascere le gelosie:
i plebei non cessarono dal combattere contro i privilegi dei
patrizi fìnchè non li ebbero aboliti tutti.
Il male sarebbe stato piccolo se i plebei si fossero accon­
tentati di privare i patrizi delle loro prerogative, e se non
li avessero offesi nella loro qualità stessa di cittadini. Quando

I. Sulla tirannide decemvirale cfr. Considérations, cap. r.


2. Cfr. XII, 21.
3· L'episodio è tratto da PLUTARCO, Camillus, 148 b-e, cfr. XII, 21.
4· L'argomento dell'intero capoverso è più ampiamente trattato in
Pensées, II, fol. 228, n. 1507 (1525).
3o6 PARTE SECONDA

il popolo era riunito per curie o per centurie, era composto


di senatori, di patrizi e di plebei. Nelle dispute, i plebei
ottennero • di poter fare, da soli, senza l'intervento dei
patrizi e del senato, delle leggi dette plebisciti, mentre i
comizi, ove le si fecero, vennero chiamati comizi tributi.
Così si ebbero dei casi nei quali i patrizi b non prendevano
parte al potere legislativo, e furono sottomessi al potere

legislativo di un'altra classe: fu un delirio della libertà. Il


popolo, per stabilire la democrazia, colpì i principi stessi
della democrazia. Sembrava che un potere così esorbitante
avrebbe dovuto distruggere l'autorità del senato, ma Roma
aveva delle istituzioni ammirevoli. Due soprattutto: per
mezzo della prima, il potere legislativo del popolo era rego­
lato; con la seconda, limitato.
I censori, e prima di loro i consoli d, costituivano e crea­
vano, per così dire, il corpo popolare ogni cinque anni; essi
esercitavano la legislazione proprio sulla classe che deteneva
il potere legislativo. (( Tiberio Gracco, censore - dice Cice­
rone t trasferì gli schiavi affrancati nelle tribù urbane,
-

non per la forza della sua eloquenza, ma con una parola


ed un gesto; e, se non lo avesse fatto, questa repubblica,
che noi oggi siamo appena in grado di sostenere, non
l'avremmo più t.

a. DIONIGI n'ALICARNASSO, lib. XI [cap. 45] , p. 725.


b. Grazie alle leggi sacre i plebei poterono fare dei plebisciti
da soli e senza che i patrizi fossero ammess1 nelle loro assemblee.
DIONIGI n' ALICARNASSO, li b. VI [cap. 8g], p. 410 e lib. VII,
[cap. 16] , p. 430.
c. I n virtù della legge fatta dopo l'espulsione dei decemviri,

i patrizi furono sottoposti ai plebisciti, sebbene non avessero


potuto dare il loro voto. TITo LIVIO, lib. III [cap. 55] e DIONIGI
n'ALICARNASSO, lib. XI [cap. 45], p. 725. Questa legge venne
confermata da quella di Publilio Filone dittatore, nell'anno 416
della fondazione di Roma. TITo L1v10, lib. VIII [cap. 12] .
d. Nell'anno 312 di Roma, i consoli facevano ancora il censo,
come risulta da DIONIGI n'ALICARNASSO, lib. XI [cap. 63].

I. De oratore, I, g.
LIBRO UNDICESIMO

D'altra parte, il senato aveva il potere di togliere, per


così dire, la repubblica dalle mani del popolo, con la crea­
zione di un dittatore, davanti al quale il sovrano piegava la
testa, e le leggi più popolari restavano silenziose •.

CAPO XVII. Del potere esecutivo nella medesima repubblica.

Se il popolo fu geloso del suo potere legislativo, lo fu


meno di quello esecutivo. Lo lasciò quasi completamente al
senato e ai consoli, e non si riservò che il diritto di eleggere
i magistrati e di confermare gli atti del senato e dei generali.
Roma, la cui passione era il comandare, la cui ambizione
era di sottomettere ogni cosa, che aveva sempre usurpato,
che ancora usurpava, aveva continuamente grossi problemi
da affrontare; i suoi nemici congiuravano contro di lei, o
essa stessa congiurava contro i suoi nemici.
Costretta ad agire da una parte con coraggio eroico, e
dall'altra con consumata saggezza, lo stato delle cose esigeva
che il senato avesse la direzione degli affari. Il popolo dispu­
tava al senato tutti i rami del potere legislativo, perchè
era geloso della propria libertà; non gli disputava affatto i
rami del potere esecutivo, perchè era geloso della propria
gloria.
La parte che il senato prendeva al potere esecutivo era
così grande, che Polibio b dice che gli stranieri pensavano
tutti che Roma fosse una aristocrazia. Il senato disponeva
delle finanze pubbliche e dava in appalto le imposte, era
l'arbitro degli affari degli alleati, decideva della guerra e
della pace, guidando a questo riguardo i consoli; fissava il
numero delle truppe romane ed alleate; distribuiva le pro­
vince e gli eserciti ai consoli o ai pretori e, spirato l'anno
di comando, poteva dar loro un successore; decretava i
trionfi; riceveva e inviava ambascerie; nominava i re, li

a. Come quelle che permettevano di appellarsi al popolo


contro le ordinanze di tutti i magistrati.
b. Lib. VI [cap. IJ].
PARTE SECONDA

ricompensava, li puniva, li giudicava, conferiva o toglieva


loro il titolo di alleati del popolo romano t.
I consoli chiamavano sotto le armi le truppe che dove­
vano poi guidare in guerra; comandavano gli eserciti di
terra e di mare; disponevano degli alleati; godevano nelle
province di tutto il potere della repubblica; accordavano
la pace ai popoli vinti, imponendone le condizioni, o rinvia­
vano la decisione al senato.
Nei primi tempi, quando il popolo prendeva parte alla
discussione dei problemi della guerra e della pace, esso
esercitava piuttosto il suo potere legislativo che quello
esecutivo: non faceva che confermare ciò che i re o, dopo di
loro, i consoli e il senato avevano deciso. Il popolo era ben
lungi dall'essere l'arbitro della guerra, vediamo infatti che
i consoli o il senato la facevano spesso nonostante l'opposi­
zione dei tribuni. Pertanto esso finì col creare direttamente a

i tribuni delle legioni, che sino allora erano stati nominati


dai generali; e, qualche tempo avanti la prima guerra punica,
stabilì che avrebbe avuto esso solo il diritto di dichiarare
la guerra b.

CAPO XVIII. Del potere giudiziario nel governo di Roma.

Il potere giudiziario fu conferito al popolo, al senato, ai


magistrati, a determinati giudici. Bisogna vedere come fu
distribuito. Cominciamo dagli affari civili.

a. Nell'anno 444 di Roma. TITO LIVIO, prima deca, lib. IX


[cap. 30]. Sembrando fonte di pericoli la guerra contro Perseo,
un senato-consulto stabilì la sospensione di questa legge, e il
popolo vi consentì. TITo LIVIO, quinta deca, li b. II [cap. 31] .
b. Strappò questo diritto al senato, dice Freinshemius 2,
seconda deca, lib. VI.

1. Sui poteri e sulla politica del senatb romano cfr. Considérations,


cap. 6 .
2 . Giovanni Freinsheim (16o8-I66o), detto latinamente Freinshemius.
erudito tedesco, fu professore di storia ad Upsala, storiografo e biblio-
LIBRO UNDICESIMO 309

I consoli giudicarono, dopo i re, come i pretori dopo


a

i consoli . Servio Tullio si era spogliato del giudizio delle


cause civili t; anche i consoli non se ne occuparono, se non
in rarissimi casi b, che appunto vennero chiamati <( straor­
dinari l> o. Si accontentarono di nominare i giudici, e di for­
mare i tribunali. Sembra, dal discorso di Appio Claudio
riportato da Dionigi di Alicarnasso d, che, nell'anno 259 di
Roma, ciò fosse considerato usanza ormai stabilita presso i
Romani, e non è farla risalire troppo l'attribuirla a Servio
Tullio.
Ogni anno il pretore formava una lista • o albo di coloro
che egli sceglieva come giudici per l'anno della sua magi­
stratura: se ne assumeva un numero sufficiente per ciascuna
causa. La stessa usanza esiste, più o meno, in Inghilterra.
E per di più, fatto molto favorevole alla libertà r, il pretore
sceglieva i giudici col consenso g delle parti. Il gran numero

a. Non vi è dubbio che i consoli, prima della creazione dei


pretori, avessero avuto la competenza di giudicare le cause
civili. Si veda TITo Livr o, prima deca, lib. II [cap. r], p. rg;
Dro!\IIGI o'ALICARNASSO, lib. X [cap. r], p. 627; e stesso libro
[cap. rg], p. 645.
b. Spesso i tribuni giudicarono da soli; nulla li rese più
odiosi. DIONIGI o'ALICARNASSO, lib. XI [cap. 46], p. 709.
c. ludicia extraordinaria. Si veda le Istituzioni, lib. IV
[tit. 4, § ro] .
d. Lib. VI [cap. 24] , p. 360.
e. Album iudicium [ma iudicum].
f. u I nostri antenati non hanno voluto afferma CrcERONE,
-

Pro Cluentio [cap. 43] - che un uomo sul quale le parti non si
sono accordate potesse essere giudice non soltanto della riputa­
zione di un cittadino, ma nemmeno della più piccola contro­
versia pecuniaria 11.
g. Si veda nei frammenti della legge Servilia, della legge
Cornelia e di altre leggi, in qual maniera queste leggi davano
dei giudici nei delitti che esse si proponevano di punire. Spesso
venivano nominati per scelta, talvolta a sorte, oppure infine
unendo l'elezione per sorte con quella per scelta.

tecario di Cristina di Svezia. Scrisse dei supplementi a Tito Livio di cui


Montesquieu si è valso di frequente.
I. Cfr. cap. 12.
3 10 PARTE SECONDA

di ricusazioni che si può fare oggi m Inghilterra equivale


all'incirca a questa usanza 1.
Questi giudici non decidevano che questioni di fatto •:
per esempio, se una somma era stata pagata o no, se una
azione era stata commessa o no 2. Ma le questioni di diritto b,
poichè richiedevano una certa capacità, erano deferite al
tribunale dei centumviri c.
I re si riservarono il giudizio delle cause penali, e i con­
soli succedettero loro in questo còmpito. Fu grazie a questa
autorità che il console Bruto fece morire i suoi figli e tutti
coloro che avevano congiurato per i Tarquini. Questo potere
era esorbitante. I consoli, avendo già il potere militare, ne
portavano l'esercizio anche negli affari della città, e i loro
procedimenti, privi delle forme della giustizia, erano azioni
violente più che giudizi. Questo fatto costrinse a promulgare
la legge Valeria, che permetteva di appellarsi al popolo contro
tutte le ordinanze dei consoli che ponessero in pericolo la
vita di un cittadino 3. I consoli non poterono più pronunciare
sentenze capitali contro i cittadini romani che per volontà
del popolo d.
Si vede, nella prima congiura per il ritorno dei Tarquini,

a.
SENECA, De benef., lib. III, cap. 7, in fine.
b. Si veda QuiNTILIANO [Orator. Instit.] , lib. IV [cap. 2],
p. 54, ediz. in folio di Parigi, 1541 .
c. Leg. II, § 24, Dig. [I, 2] , De orig. iur. Dei magistrati chia­

mati decemviri presiedevano al giudizio, sotto la direzione del


pretore.
d. Quoniam de capite civis romani iniussu populi romani
non erat permissum consulibus ius dicere. Si veda PoMPONIO,
leg. II, § r6, Dig. [I, 2] , De orig. iur.

1 . Cfr. quanto sull'uso inglese ha già detto nel cap. XI, 6; vedi inoltre
Spicilège, p. 53: In talune occasioni si è assai imbarazzati in Inghilterra
«

a trovare dei giudici per punire i criminali, tanto più che ogni criminale
può ricusare trentasei giudici senza dare alcuna ragione e altri cento con
una buona ragione», passo che risale probabilmente al 1716, essendo
preceduto e seguito da passi che portano l'indicazione di quell'anno.
2. Cfr. VI, J.
J. A questa disposizione, con tutta probabilità, aveva inteso alludere
Montesquieu nella vaga lezione del I cpv. del cap. VI, 3·
LIBRO UNDICESIMO 3I I

che il console Bruto giudica i colpevoli; nella seconda, si


convocano invece il senato e i comizi per giudicare •.
Le leggi che si usò chiamare << sacre )) diedero ai plebei
dei tribuni i quali formarono un organo il quale ebbe, dap­
prima, immense pretese. Non si sa se fu più grande nei
plebei la vile sfacciataggine nel chiedere, o nel senato la
condiscendenza e la facilità nell'accordare. La legge Valeria
aveva permesso di appellarsi al popolo, vale a dire al popolo
composto di senatori, di patrizi e di plebei. I plebei stabi­
lirono che gli appelli dovessero essere rivolti solo a loro.
Ben presto si cominciò a discutere se un plebeo poteva
giudicare un patrizio: questo fu il soggetto di una disputa
che nacque ed ebbe fine con il processo di Coriolano. Questi,
accusato dai tribuni davanti al popolo, sosteneva, contro
lo spirito della legge Valeria, che, essendo patrizio, lo pote­
vano giudicare soltanto i consoli; i plebei, contro lo spirito
della medesima legge, pretesero che dovesse venir giudicato
soltanto da loro, e lo giudicarono 1.
La legge delle dodici tavole 2 modificò queste disposi­
zioni. Essa stabilì che non si poteva decidere della vita di
un cittadino che nelle grandi assise del popolo b. Così il
corpo dei plebei o, ciò che è la stessa cosa, i comizi tributi,
non giudicarono più che i delitti la cui pena era costituita
da un'ammenda pecuniaria. Era necessaria una legge per
infliggere la pena capitale; per condannare a una pena pecu­
niaria bastava un plebiscito.
Questa disposizione della legge delle dodici tavole fu
assai saggia. Essa portò a un ammirevole accordo tra il
corpo dei plebei e il senato. Poichè la competenza degli
uni e degli altri dipendeva dalla gravità della pena e dalla

a. DIONIGI D'ALICARNASSO, lib. V [cap. 57], p. 322.


b. I comizi centuriati. Manlio Capitolino fu infatti giudicato
in questi comizi. TITo LIVIO, prima deca, lib. VI [cap. 20], p. 68.

I . Cfr. DIONIGI o" ALICARNASSO, VII, 41 e 52. Dal racconto di Dionigi


risulta che non fu Coriolano ad invocare la lex ValeYia per esser giudicato
dal senato, ma Appio Claudio in difesa di Coriolano.
2. Lex XII tab., IX, 1, in C ICE R ONE De legibus, III, 4·
,
3 12 PARTE SECONDA

natura del delitto, bisognava che si concertassero preven­


tivamente.
La legge Valeria tolse a Roma ogni vestigio di quel
governo che aveva qualche rapporto con quello dei re greci
del periodo eroico. I consoli si trovarono senza alcun potere
per la punizione dei delitti. Benchè tutti i delitti siano
pubblici, bisogna tuttavia distinguere quelli che interessano
più i cittadini in sè e quelli che interessano lo Stato nei
suoi rapporti con i cittadini. I primi vengono chiamati
privati, i secondi pubblici 1. Il popolo giudicava lui stesso i
delitti pubblici; per quelli privati, nominava per ciascun
delitto, attraverso una particolare commissione, un questore
incaricato di perseguirli. Si trattava spesso di un magistrato,
talvolta di un privato, che il popolo sceglieva. Lo si chia­
mava << questore dei parricidi •> z. Se ne fa menzione nella
legge delle dodici tavole 8•

Il questore nominava quello che veniva chiamato il


giudice della causa, che tirava a sorte i nomi dei giudici,
formava il tribunale e presiedeva sotto di lui al giudizio b.
È bene far rilevare qui la parte che aveva il senato nella
nomina del questore, perchè si veda come i poteri erano,
per questo rispetto, bilanciati. Talvolta il senato faceva
eleggere un dittatore per esercitare le funzioni di questore c;

a. A detta di POMPONIO, nella legge II, § 23, nel Digesto


[I, 2], De orig. iur.
b. Si veda un frammento di Ulpiano, che ne riporta un altro
della legge Cornelia: detto frammento si trova nella Collezione
delle leggi mosaiche e romane [lib. 1], tit. I, De sicariis et homi­
cidiis [casu vel voluntate, art. 3] 3•
c. Ciò avveniva soprattutto nei casi di delitti commessi m
Italia, dove il senato aveva Wl potere speciale di ispezione. Si

I. La distinzione è già praticata, quasi con le stesse parole. nel


cap. III. 5·
2. Nel cap. 14 aveva affermato che al quaestor parricidii era affidata
la giurisdizione sui reati pubblici.
3· In realtà nella Mosaicarum et Romanarum legum collatio non è
detto che il praetor iudexve quaestionis elegga a sorte i giutlici per formare
un tribunale da lui presieduto, ma si stabilisce soltanto che egli quaerat
cum iudicibus, qui ei ex lege sorte obvenerint de capite eius qui ecc.
LIBRO UNDICESIMO

m altri casi ordinava che il popolo fosse convocato da un


tribuno, per eleggere un questore a; infine il popolo nominava
in qualche caso un magistrato che facesse al senato il suo
rapporto su un determinato delitto, e che chiedesse la no­
mina di un questore, come si vede nel caso del giudizio di
Lucio Scipione b, in Tito Livio •.

Nell'anno 604 di Roma alcune di queste commissioni


furono rese permanenti d. Si divisero a poco a poco tutte
le materie penali in diverse parti, che vennero chiamate
(< questioni perpetue l>. Si crearono diversi pretori, e si attribuì
a ciascuno una sola di queste questioni. Si conferì loro per
la durata di un anno il potere di giudicare i delitti che vi
erano connessi, dopodichè essi andavano a governare la
loro provincia.
A Cartagine il senato dei cento era composto di giudici
a vita Ma a Roma i pretori erano eletti per un anno, e i
•.

giudici per un periodo ancor più breve; poichè li si chiamava


in carica per ciascuna causa. Si è visto nel capitolo sesto
di questo libro come, sotto certi governi, questa disposi­
zione favorisse la libertà.
I giudici furono scelti nell'ordine dei senatori fino ai
tempi dei Gracchi. Tiberio Gracco 1 fece ordinare che fossero
presi tra i cavalieri: mutamento così considerevole che il
tribuna si vantò di aver spezzato le reni all'ordine dei sena­
tori grazie ad una sola rogazione.

veda TITo Lrvw, prima deca, lib. IX [cap. z6], sulle congiure
di Capua.
a. Così si fece per le indagini relative alla morte di Postumio,

nell'anno 340 di Roma. Si veda TITO Lr vro [IV, so] .


b. Questo giudizio fu tenuto nell'anno 567 di Roma.
c. Lib. VIII [ma XXXVIII, 54] .

d . CICERONE, in Bruto [cap 27] . .

e. Come risulta da TITo LrviO, lib. XXXIII [cap. 46], il


quale dice che Annibale rese la loro magistratura annuale.

1. Fu in realtà Caio Gracco a 1ar approvare, nel secondo anno del


suo tribunato (123 a. C.), questa legge, in base alla quale le liste dei giurati
per i processi civili e le quaestiones penali straordinarie fossero formate
di cavalieri.
PARTE SECONDA

Bisogna rilevare come i tre poteri possano essere ben


distribuiti in rapporto con la libertà della costituzione,
benchè non lo siano altrettanto in rapporto con la libertà
del cittadino. A Roma, dato che il popolo deteneva la mag­
gior parte del potere legislativo, una parte del potere esecu­
tivo e una parte del potere giudiziario, si trattava di con­
trobilanciare un grande potere con un altro. Il senato aveva
sì una parte del potere esecutivo, qualche ramo del potere
legislativo •, ma questo non era sufficiente per controbilan­
ciare il popolo. Era necessario che il senato prendesse parte
al potere giudiziario, cosa che avveniva quando i giudici
erano scelti tra i senatori. Quando i Gracchi privarono i
senatori del potere giudiziario b, il senato non potè più
resistere al popolo. Essi colpirono dunque la libertà della
costituzione per favorire la libertà del cittadino, ma questa
si perdette con quella.
Ne risultarono infiniti mali. Si mutò la costituzione in
tempi nei quali, nell'ardore delle discordie civili, esisteva
appena una costituzione. I cavalieri non costituirono più
quell'ordine medio che univa il popolo col senato, e la catena
della costituzione fu spezzata.
Esistevano anche delle ragioni particolari che dovevano
impedire di trasferire l'esercizio del potere giudiziario ai
cavalieri. La costituzione di Roma era fondata sul principio
che essi dovevano essere soldati, i quali possedevano so­
stanze a sufficienza per rispondere della propria condotta di
fronte alla repubblica 1• I cavalieri, essendo i più ricchi,
formavano la cavalleria delle legioni z. Quando la loro dignità
venne accresciuta, essi non vollero più servire in questa

a. I senato-consulti avevano efficacia per un anno, quan­


d'anche non fossero stati confermati dal popolo. DIONIGI n'Au­
CARNASSO, lib. IX [cap. 37], p. 595, e lib. XI [cap. 5 4] , p. 735 3.
b. Nell'anno 630.

x. Cfr. Xl, 6.
2. Ma non essi soli, cfr. TITo LrviO, Historiae, V, 7·
3· Cfr. II, 2 .
LIBRO UNDICESIMO

milizia; fu necessario reclutare una cavalleria: Mario prese


ogni sorta di gente nelle legioni, e la repubblica fu perduta •.
Inoltre, i cavalieri erano gli appaltatori delle imposte
della repubblica; erano avidi, seminavano le disgrazie nelle
disgrazie, e facevano nascere i pubblici bisogni dai pubblici
bisogni. Lungi dal conferire a simili individui il potere giu­
diziario, sarebbe stato necessario porli continuamente sotto
gli occhi dei giudici. Bisogna dire, a tutta lode delle antiche
leggi francesi, che esse hanno stabilito nei confronti delle
persone d'affari delle norme ispirate alla stessa diffidenza
che si serba ai nemici. Quando a Roma i giudizi furono
attribuiti ai cavalieri, non ci furono più virtù, più ordine,
più leggi, più magistratura, più magistrati.
Si trova una descrizione ben sincera di ciò in qualche
frammento di Diodoro Siculo t e di Dione: << Muzio Scevola 2 -
scrive Diodoro b - volle richiamare in vita i costumi antichi,
e vivere dei propri beni con frugalità e semplicità, poichè
i suoi predecessori, avendo fatto lega con i pubblicani, che
avevano allora il còmpito di giudicare a Roma, avevano
riempito quella provincia con ogni sorta di delitti. Ma Sce­
vola fece giustizia dei pubblicani, e fece mettere in prigione
quelli che vi trascinavano gli altri )). Dione ci dice c che
Publio Rutilio, suo luogotenente, che non era meno odiato
dai cavalieri, fu accusato, al suo ritorno, di aver ricevuto
-dei doni, e venne condannato ad una ammenda. Fece subito
cessione dei suoi beni. La sua innocenza apparve chiara,

a. Capite censos plerosque. SALLUSTIO, Guerra di Giugurta


[cap. 84] .
b. Frammento di questo scrittore, lib. XXXVI [ma XXXVII,
5] , nella raccolta di COSTANTINO PORFIROGENITO, Delle virtù e
dei vizi.
c. Frammento [97] della sua Storia, tratto dall'estratto Delle
virtù e dei vizi.

r . Il Ms. (Il, foll. 246 v0, 247, 248) ha erroneamente, sia qui che nella
citazione successiva, " Polibio " invece di " Diodoro "·

2. Allude a Quinto Muzio Scevola, pretore e governatore dell'Asia


dal 1 20 al 1 19 a . C.
PARTE SECONDA

in quanto gli si trovarono beni per un valore assai inferiore


a quello che lo si accusava di aver rubato, e mostrò i titoli
della sua proprietà. Egli non volle più rimanere nella città
in compagnia di gente simile.
<< Gli Italici - scrive ancora Diodoro a acquistavano
-

in Sicilia torme di schiavi per lavorare i campi ed aver cura


del bestiame, e rifiutavano loro il sostentamento. Quegli
infelici erano costretti a fare i }adroni sulle strade, armati
di lancia e di mazza, coperti di pelli ferine, circondati da
grossi cani. Tutta la provincia venne devastata, e le genti
del luogo non potevano più considerare al sicuro che i loro
possessi all'interno delle città. Non c'era proconsole o pretore
che potesse o volesse arginare il disordine, o che osasse
punire gli schiavi, perchè essi appartenevano ai cavalieri,
dai quali dipendevano a Roma i giudizi b, Fu questa, in
ogni modo, una delle cause della guerra servile. Non dirò
qui che una parola: una professione che non ha, nè può
avere per oggetto che il guadagno, una professione che
induce sempre a chiedere, e alla quale non si chiedeva nulla,
una professione sorda ed inesorabile, che impoveriva i ricchi
e persino i miseri, non doveva detenere a Roma il potere
giudiziario.

CAPO XIX '· Del governo delle province romane.

È così che i tre poteri furono distribuiti nella città; ma


nelle province non avveniva certo la stessa cosa. La libertà
era al centro, e la tirannide alle estremità.
Fino a che Roma esercitò il suo dominio soltanto in

a. Frammento del lib. XXXIV [cap. 2], nell'estratto Delle


virtù e dei vizi.
b. Penes quos Romae tum iudicia erant, atque ex equestri ordine
solerent sortito iudices eligi in causa praetorum et proconsulum,
quibus post administratam provinciam dies dieta erat.

I . Nel Ms. porta l'indicazione: " capitolo 1 4 , 13 "• il tutto cancellato.


LIBRO UNDICESIMO

Italia, i popoli furono governati come confederati: furon


seguite le leggi di ciascuna repubblica t . Ma quando le con­
quiste si spinsero più lontano, quando il senato non potè
avere direttamente l'occhio sulle province, e i magistrati
residenti a Roma non potef"ono più governare l'impero, fu
necessario inviarvi pretori e proconsoli. Da quel momento,
l'armonia dei tre poteri non esistette più. Gli inviati avevano
una potenza che riuniva quelle di tutte le magistrature
romane; che dico ? , quella del senato stesso, e del popolo •.
Erano magistrati dotati di un potere dispotico, che si adattava
alla lontananza del luogo ove erano stati inviati. Essi eser­
citavano i tre poteri; erano, se posso servirmi di questo
termine, i pascià della repubblica.
Abbiamo 2 detto altrove b che i medesimi cittadini, nella
repubblica, ricoprivano, per la natura delle cose, le cariche
civili e militari. Ciò fa sì che una repubblica conquistatrice
non può comunicare la sua forma di governo, e reggere lo
Stato conquistato secondo le forme della sua costituzione 3 .
In effetti, il magistrato che essa invia per governare, dete­
nendo il potere esecutivo civile e militare, deve avere neces­
sariamente anche quello legislativo; poichè chi potrebbe
far leggi senza di lui ? Bisogna pure che abbia il potere
giudiziario; poichè chi potrebbe giudicare indipendentemente
da lui ? Bisogna dunque che il governatore abbia i tre poteri,
come avvenne appunto nelle province romane.
Una monarchia può più facilmente comunicare il suo
governo, perchè gli ufficiali che invia hanno gli uni il potere
esecutivo civile, e gli altri il potere esecutivo militare, ciò
che non reca con sè il dispotismo.

a. Essi facevano i loro editti entrando nelle province.


b. Lib. V, cap. 19. Si vedano anche i lib. II, III, IV e V.

1. Cfr. X, 6.
2. In A B la frase suona cosi: • Abbiamo detto altrove che, nella
repubblica, lo stesso magistrato deve mantenere il potere esecutivo, sia
civile che mtlitare "·
3· Ma cfr. X, 6, nota I, p. 255. È quanto aveva già. detto HARRINGTON,
cfr, Oceana, ed. cit., p. 43·
PARTE SECONDA

Era un privilegio di grande importanza per il cittadino


romano quello di non poter essere giudicato che dal popolo.
Senza di esso, egli sarebbe stato in balìa, nelle province,
del potere arbitrario di un proconsole o di un propretore.
L'urbe non soffriva la tirannide, la quale non veniva eser­
citata che ai danni delle nazioni soggette.
Così, nel mondo romano, come a Sparta, coloro i quali
erano liberi lo erano senza limitazione, e coloro che erano
schiavi lo erano essi pure senza limitazione.
Fino a che i cittadini pagarono tributi, questi erano
distribuiti con grande equità. Si seguiva la suddivisione di
Servio Tullio, che aveva distribuito i cittadini in sei classi,
a seconda delle loro ricchezze, e fissato il carico delle imposte
in proporzione alla parte che ciascuna classe aveva al go­
verno. Ne derivava che si sopportava l'onerosità del tributo
in cambio della maggiore importanza politica di cui si godeva,
e che ci si consolava della poca importanza politica con la
tenuità del tributo che si doveva pagare.
C'era poi un'altra cosa ammirevole. Infatti, poichè la
divisione di Servio Tullio per classi era, per così dire, il
principio fondamentale della costituzione, accadeva che
l'equità nella imposizione dei tributi era legata al principio
fondamentale della costituzione, e non poteva essere sop­
pressa che insieme ad esso.
Ma, mentre l'urbe pagava i tributi senza difficoltà, o
non ne pagava affatto le province erano spogliate dai
•,

cavalieri, che erano gli appaltatori delle imposte della repub­


blica. Abbiamo parlato delle loro vessazioni, tutta la storia
ne è piena.
<c Tutta l'Asia mi attende come un liberatore 1 - diceva

Mitridate b tanto odio hanno suscitato contro i Romani


-

a. Dopo la conquista della Macedonia, i tributi cessarono


a Roma.
b. Discorso tratto da Trogo Pompeo, riferito da GIUSTINO,
lib. XXXVII I [cap. 4].

I. Cfr. X, 4. p. 252, nota 2.


LIBRO UNDICESIMO

le rapine dei proconsoli •, le esazioni t degli affaristi, le


calunnie 2 dei tribunali �> b.
Ecco perchè la forza delle province non ne aggiunse a
quella della repubblica: anzi, la indebolì. Ecco perchè le
province considerarono la perdita della libertà a Roma
come l'inizio della loro.

CAPO XX. Conclusione del presente libro 3.

Vorrei ricercare, in tutti i governi moderati che nm


conosciamo, quale sia la distribuzione dei tre poteri, e cal­
colare in base ad essa il grado di libertà del quale ciascuno
di essi può godere. Ma non bisogna mai esaurire un argo­
mento in modo da non lasciar più niente da fare al lettore.
Non si tratta di far leggere, ma di far pensare.

a. Si vedano le orazioni contro Verre.


b. È noto che fu il tribunale di Varo a provocare la rivolta
dei Germani.

1 . A B invece di " esazioni • hanno esecuzioni


« Giustino dice: sectio
»,

publicanorum.
2. Nel testo di Giustino si ha calumniae litium, che Montesquieu
stesso altrove ( XIX, 2) traduce " formalità della giustizia •·

3· L'intero capitolo manca nel Ms.

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