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La filosofia analitica del linguaggio

a cura di Marco Santambrogio


Bari Laterza 1992

La filosofia del linguaggio ordinario

Paolo Leonardi

1. La filosofia del linguaggio ordinario.


1.1. Il metodo filosofico di Austin.

2. La teoria degli atti linguistici.


2.1. Atti locutivi, illocutivi e perlocutivi.
2.2. Una prima caratterizzazione degli atti illocutivi.
2.3. La forza come un livello distinto nella teoria del
significato.
2.4. Contenuto (proposizionale) e forza. Impliciti e espliciti.
2.5. Un esempio di illocuzione: la domanda.
2.6. Criteri grammaticali e ipotesi performativa.
2.7. La tassonomia degli atti illocutivi.
2.8. Alcuni punti che non sono stati discussi nei paragrafi
precedenti.
3. La teoria del significato.
3.1. Alcuni raffinamenti minori di (S-I).
3.2. Per S-intendere bastano tre intenzioni, per così dire,
costruite una sull'altra, o ce ne vogliono di più?
3.3. L'articolazione complessiva della teoria del significato
basata sulla nozione di intenzione.
3.4. Logica e conversazione.
3.5. Peculiarità della teoria del significato basata sul
concetto di intenzione.

Tra il dire e il fare c'è una differenza proverbiale. Sì, però, un momento: parlando facciamo
sempre delle cose, ad esempio emettiamo suoni. Anche il proferire frasi italiane è fare qualcosa di
diverso dal fischiettare o dal fare rumore. Inoltre, anche parlando riusciamo a volte a convincere o a
spaventare o a tranquillizzare, ad annoiare o a divertire. Il proverbio è dunque fuorviante: dire è
fare, anche se è fare particolari tipi di cose. Oltre all'emettere suoni, al proferire frasi di una lingua,
frasi italiane ad esempio, e al produrre degli effetti parlando, c'è una quarta classe di azioni
linguistiche assai interessanti: parlando affermiamo, giudichiamo, consigliamo, richiediamo,
promettiamo, ci scusiamo, ecc. Di questa classe di atti linguistici s'era già in qualche misura occupato
Frege, quando, già nell'Ideografia del 1879, aveva cercato di caratterizzarne un tipo particolare, le
asserzioni,1 introducendo fra l'altro uno specifico simbolo per la forza assertiva. La scrittura |– α
sta ad indicare che l'enunciato α è da intendersi come asserito. (Vedi --> XXX.)
La dottrina degli atti linguistici è il primo argomento trattato dai cosiddetti "filosofi del
linguaggio ordinario" di cui ci occuperemo. Oltre a presentare una trattazione di un importante
livello di analisi semantica solitamente trascurato, quello della forza, la dottrina degli atti linguistici è
una dottrina del giudizio in abiti moderni.
Com'è che la parola poltrona, in italiano, significa poltrona? Perché possiamo dire, di un
assessore, 'È molto attaccato alla poltrona', nel senso che è molto attaccatto alla sua carica? Perché
possiamo dire anche di una pietra che è una poltrona? Perché possiamo dire di una rgazza che è una
poltrona? Ecc. Com'è insomma che si genera il significato delle espressioni (linguistiche), e come si
modifica? Questo è il secondo argomento trattato dai filosofi del linguaggio ordinario di cui ci
occuperemo. Il terzo, e ultimo argomento che tratteremo, strettamente connesso al secondo, è se
quanto intendiamo dire è sempre identico, o meno, a ciò che letteralmente diciamo. Specificamente
ci occuperemo di alcuni principî e massime che si sostiene varrebbero negli scambi linguistici
quotidiani, e che sono stati proposti per spiegare appunto la differenza che sembra esserci fra quanto
intendiamo dire e quanto letteralmente diciamo.

1. La filosofia del linguaggio ordinario.

Dopo la seconda guerra mondiale, a Oxford, lavorarono diversi filosofi che vengono spesso
collettivamente chiamati "filosofi del linguaggio ordinario". John L. Austin, che divenne il più
famoso di essi, organizzava degli incontri il sabato mattina, cui partecipavano, abbastanza
stabilmente, anche H. Paul Grice, Stuart Hampshire, David Pears, Peter F. Strawson, James O.
Urmson, e Geoffrey Warnock. A Oxford, oltre a costoro, c'erano altri filosofi, come Gilbert Ryle e
Richard M. Hare, interessati al linguaggio ordinario.
Nonostante l'etichetta comune è difficile trovare una tesi positiva che riscuotesse universale
consenso, anche limitandosi al gruppo più vicino a Austin. Quasi tutti, in quel gruppo, credevano
che come prima mossa in filosofia convenisse esaminare con attenzione i dettagli del discorso

1
Frege elenca anche altri tipi di atti linguistici di questo genere, come le interrogative, gli imperativi, le esclamative, le ottative e
un particolare tipo di richiestive (le preghiere). Prima di Frege, molti altri (Aristotele e Peirce fra questi) avevano, seppure con
minor chiarezza teorica, distinto forme di discorso diverse dalle asserzioni. Una teoria per molti versi assai completa degli atti
linguistici è stata già elaborata da Reinach [1913]. Reinach parla di 'atti sociali'. Il nome ha poca importanza, ma indica la
differenza principale fra Reinach e Austin: Austin infatti, e non Reinach, studia gli atti linguistici come parte di una teoria del
linguaggio. Sul lavoro di Reinach si veda Mulligan [1987].
ordinario; benché questo non bastasse a fargli condividere un metodo filosofico. Quel gruppo ha
comunque prodotto un complesso di studi rilevante su alcuni aspetti del linguaggio, ad esempio la
dottrina degli atti linguistici di Austin e la teoria delle implicazioni conversazionali di Grice, nonché
un'analisi delle condizioni di possibilità del linguaggio ordinario, ad esempio nella teoria, ancora di
Grice, del significato basata sul concetto di intenzione.
La filosofia del linguaggio ordinario, Grice a parte, è stata molto influenzata da Moore e da
Wittgenstein, in particolare dal cosiddetto secondo Wittgenstein (vedi --> XXX). Seppure oggi
propriamente nessuno faccia più filosofia del linguaggio ordinario, questi metodi, forse perché sono
semplicemente un raffinamento di metodi in uso da sempre, sono oggi parte del mestiere di tutti. La
filosofia del linguaggio ordinario ha difeso l'idea dell'irrinunciabilità delle nostre intuizioni
linguistiche quotidiane, e, soprattutto con Grice, è arrivata, negli anni '60, a una posizione
convergente con quella di altri filosofi appartenenti a tradizioni diverse, come Davidson e Montague
(vedi --> XXX e YYY), per cui i linguaggi naturali e quelli artificiali non richiedono nella sostanza
teorie (in specie teorie semantiche) diverse.

1.1. Il metodo filosofico di Austin. Spesso quando si parla del metodo della filosofia del
linguaggio ordinario, si parla in realtà del metodo di Austin, che lo descrive con una certa cura in "In
difesa delle scuse", del 1956. Posti di fronte a un problema (filosofico) dobbiamo esaminare,
secondo Austin, che cosa diciamo quando, cioè che cosa diciamo e in quali situazioni o in
riferimento a quali situazioni lo diciamo. Mettiamo di voler indagare il tema delle scuse.
Preliminarmente, dobbiamo fare una lista delle parole rilevanti, a cominciare da 'scusarsi' e
'dispiacersi' -- un'operazione che, servendosi di quell'importante risorsa che sono i dizionari, può
essere fatta in due modi: (i) possiamo prendere un dizionario e fare la lista sfogliandolo dalla prima
all'ultima pagina, cosa che richiede meno sforzo e meno tempo di quanto non si creda; oppure, (ii),
possiamo fare a memoria una prima lista delle parole rilevanti, controllando sul dizionario le voci
corrispondenti. Possiamo ricavare da queste voci un secondo gruppo di parole rilevanti da
aggiungere alla nostra lista, e, controllando sul dizionario le voci corrispondenti alle parole di questo
secondo gruppo, ricavare un terzo gruppo di parole da aggiungere alla lista, e ... e continuare così a
listare nuove parole e a controllarne le voci sul dizionario, finché riusciamo ad aggiungere nuovi
gruppi di parole alla nostra lista, finché cioè non troviamo che ripetizioni.
Una volta in possesso di una buona lista di parole rilevanti (idealmente della lista completa), il
metodo del cosa dire quando entra in azione. Vediamo allora se ci sono corrispondenze lessicali fra
nomi, verbi, aggettivi e avverbi (cioè se da una stessa radice si producono un nome, un verbo, un
aggettivo e un avverbio); controlliamo suffissazioni e prefissazioni, e quali preposizioni ammettono i
diversi sintagmi; costruiamo frasi rilevanti a partire da quelle parole, e facciamo delle variazioni su di
esse, ad esempio inserendo avverbi, controllando quali avverbi vanno con quali verbi, quali aggettivi
vanno con quali nomi, ecc. (gli avverbi e gli aggettivi che ci servono a costruire variazioni non
saranno sempre, e forse neppure spesso, la nostra lista di parole); verifichiamo se quelle frasi
possono essere usate come conseguente di un condizionale, e di quale, ecc. Nel fare tutto questo
guardiamo alle parole -- che cosa diciamo -- ma prendiamo in considerazione nello stesso tempo
anche le situazioni nelle quali e quelle per parlare delle quali usiamo le parole -- quando diciamo
quello che diciamo. Molte volte scopriamo che quelli che crediamo essere usi linguistici diversi sono
in realtà usi in circostanze diverse. Se ci imbattiamo in usi linguistici effettivamente diversi, niente
paura: il disaccordo, ma soprattutto la spiegazione del disaccordo -- perché siamo in disaccordo? -- si
rivelano illuminanti.
"In tre modi di versare inchiostro", proprio esaminando le scuse, Austin contrasta l'uso di alcuni
avverbi e locuzioni avverbiali, 'volontariamente', 'intenzionalmente', 'con l'intenzione di' e 'di
proposito', immaginando situazioni in cui useremmo l'uno ma non l'altro. Ho sottratto dei soldi
dalla cassa del negozio in cui lavoro, per scommettere su un cavallo. L'ho fatto con l'intenzione di
restituirli, ma non potrei dire che l'ho fatto di proposito, per restituirli. In questo stesso saggio e in
"In difesa delle scuse", cioè nelle sue ricerche sulle giustificazioni e sulle scuse -- che sono
probabilmente l'esempio più famoso e più completo dell'applicazione del suo metodo -- Austin
indaga anche su molti altri avverbi, come 'volontariamente' e 'involontariamente', 'spontaneamente',
'impulsivamente', 'inconsapevolmente', 'volutamente', 'inavvertitamente', 'accidentalmente,
'incidentalmente', 'automaticamente', 'per errore', 'erroneamente', 'di proposito, 'apposta',
'intenzionalmente', la differenza fra l'usare un prefisso per negare come 'in-' o l'usare la negazione
'non' o preposizioni come 'senza', ecc.
Se il nostro problema filosofico nasceva da un equivoco, dopo aver usato il metodo del che cosa
diciamo quando, l'equivoco sarà probabilmente risolto; se il nostro problema invece sussiste, ne
conosceremo almeno quasi tutti gli elementi. Seguendo il processo appena descritto, infatti, usiamo
una consapevolezza affinata delle parole per affinare la nostra percezione dei fenomeni, e arriviamo
a una mappa linguistica del problema. Se il problema sussiste, comunque, dovremo ricorrere ad altri
mezzi per risolverlo: dopotutto, il linguaggio ordinario non dice l'ultima parola; semmai la prima, nel
modo che s'è appena indicato.
Oltre al dizionario, Austin ci suggerisce di servirci di volta in volta di altre risorse. Nella sua
indagine sulle scuse si serve anche del diritto e della psicologia. Austin offre delle giustificazioni per
il metodo che abbiamo appena illustrato: (a) dato che le parole sono i nostri strumenti, ci serve
avere degli strumenti puliti; (b) le parole non sono strettamente fatti o cose, cosicché abbiamo
bisogno di tirarle da parte, e tenerle separate per così dire dal mondo, per realizzarne le
inadeguatezze e l'arbitrarietà, e guardare di nuovo al mondo senza paraocchi; (c) il nostro comune
assortimento di parole incorpora tutte le distinzioni e le connessioni che gli uomini di molte
generazioni hanno considerato meritasse tracciare o mettere in evidenza: quelle sicuramente sono
probabilmente più numerose, più valide (dato che hanno superato il lungo esame della
sopravvivenza del più adatto) e più sottili, almeno in tutte le questioni pratiche ordinarie, di altre che
si abbia la possibilità di pensare stando il pomeriggio in poltrona -- che è il metodo alternativo di
gran lunga preferito dai filosofi. In realtà, il cosiddetto metodo della filosofia del linguaggio
ordinario sembra un raffinamento di un metodo filosofico -- l'analisi del linguaggio ordinario e la
discussione di famiglie di casi -- cui si è sempre fatto ricorso.

2. La teoria degli atti linguistici.

2.1 Atti locutivi, illocutivi e perlocutivi. La teoria degli atti linguistici studia ciò che facciamo
parlando. Distinguiamo diversi tipi di atti linguistici: gli atti locutivi, e cioè l'emettere suoni (atto
fonetico), il pronunciare frasi (atto fàtico) e il proferire enunciati (atto retico o proposizionale, atto
quest'ultimo che comprende a sua volta due atti, quello di far riferimento a qualcosa e quello di predicare
qualcosa di ciò cui si fa riferimento); gli atti illocutivi, come l'affermare, il giudicare, il consigliare, ecc.;
gli atti perlocutivi, come il convincere, lo spaventare, ecc., quando questi effetti sono conseguenza di
quanto qualcuno ha detto.
Proviamo innanzitutto a chiarire brevemente cosa sono gli atti locutivi e quelli perlocutivi; poi
distingueremo, altrettanto brevemente, fra illocuzioni e perlocuzioni. I diversi tipi di atti locutivi ci
mostrano l'ambiguità di loqui, parlare, i diversi modi in cui possiamo intendere, cosa si dice quando si
dice che qualcuno ha parlato. Un atto fonetico, parlare 'foneticamente', consiste, più precisamente,
nell'emissione di suoni o nel tracciare una serie di grafemi. Scrivere 'Roma' è, dunque, innanzitutto
compiere un atto del genere. Ma anche fare uno scarabocchio, del tipo di ······, è scrivere, compiere
cioè un atto fonetico.
"Gigi, quando ti fermi a Roma?" è una frase interrogativa. "Gigi, fermati a Roma!", è una frase
imperativa. Entrambe sono frasi grammaticalmente ben formate. "A Gigi, Roma ti quando?" e "A
Gigi, Roma ti quando fermi?", invece, non lo sono. Pronunciando una delle prime due frasi
compiamo un atto fàtico, parliamo 'faticamente'; pronunciando una delle altre due no, perché sono
frasi malformate.
Se nella frase interrogativa e in quella imperativa che abbiamo appena viste interpretiamo i nomi
'Gigi' e 'Roma' come nomi rispettivamente di Gigi e di Roma, e il verbo 'fermarsi' come riferentesi al
fermarsi, allora pronunciando queste frasi proferiamo rispettivamente un enunciato interrogativo e
un enunciato imperativo, parliamo 'reticamente'.
Un atto perlocutivo può essere l'obiettivo che perseguiamo parlando: convincere la nostra
interlocutrice è di solito un obiettivo del nostro darle dei consigli. Ma una perlocuzione può essere
un effetto secondario o accidentale di quanto diciamo: lei può restare indifferente ai nostri consigli,
laddove un'informazione datale per caso e en passant, invece, può convincerla.
Con 'illocuzione' s'intende ciò che si fa nel parlare (dal latino in+loqui). Con 'perlocuzione',
invece, s'intende gli effetti che si producono in chi ci ascolta con il parlare (per+loqui).
La teoria degli atti linguistici si è occupata degli atti illocutivi piuttosto che di quelli locutivi o
perlocutivi. Continueremo la tradizione occupandoci, in quanto segue, solo di questi.

2.2. Una prima caratterizzazione degli atti illocutivi. Un atto illocutivo è, da un lato, appunto
un atto, e come tale oggetto di studio della teoria dell'azione. Dall'altro lato, è un atto linguistico, e
come tale è oggetto di studio delle scienze del linguaggio. Sotto questo aspetto può essere
considerato un argomento proprio della semantica o della pragmatica o di entrambe. In questa
sezione descriveremo le illocuzioni, senza privilegiare nessuna delle due prospettive.

Perché proferendo un enunciato si compia un'illocuzione, deve essere soddisfatte una serie di
condizioni, che sono chiamate condizioni di felicità. La felicità indica una dimensione generale di
valutazione dell'atto che solo limitatamente richiama l'uso comune: di solito, infatti, si dice che
un'azione è felice più perché ha delle conseguenze felici che perché è compiuta nelle condizioni
appropriate. Le condizioni di felicità di un'illocuzione sono le seguenti:

(A) (i) Ci deve essere una procedura convenzionale accettata con determinati effetti
convenzionali, che ha come caratteristica centrale il proferimento di certe catene verbali.
(Condizione essenziale.)
(ii) Chi invoca la convenzione deve avere titolo a farlo, deve cioè specificatamente
soddisfare i requisiti previsti dalla convenzione per potervi fare ricorso; inoltre le
circostanze particolari in cui invoca la convenzione devono essere quelle appropriate, cioè
del tipo previsto dalla convenzione. (Condizione preparatoria.)
(B) (i) La procedura deve essere eseguita correttamente e
(ii) completamente.
(Condizioni linguistico-proposizionali.)
(Γ) Chi invoca la procedura deve essere sincero, deve avere cioè i sentimenti e le intenzioni
richieste. (Condizione di sincerità.) (Cfr. Austin [1962] lezione II e Searle [1969] capitolo 3.)

Le condizioni (A) e (B) sono, per così dire, condizioni oggettive. Un atto che non soddisfi una
di queste condizioni fa cilecca, in termini legali diremmo che è un atto nullo. In particolare, un atto
che non soddisfi le condizioni (B) ha un vizio di forma. La condizione (Γ) è, invece, una condizione
soggettiva. Un atto che non soddisfi questa condizione è un abuso.
Compiuta un'illocuzione oggettivamente felice, si hanno certe responsabilità e un
comportamento incongruo espone chi lo tiene al rischio di sanzioni.
Facciamo un esempio. Per sposarci bisogna che nella comunità che vogliamo riconosca il nostro
matrimonio viga l'istituzione del matrimonio, (Ai), che prevederà fra l'altro chi può sposare chi, e
come può farlo. Quando ci vogliamo sposare, bisogna che noi, i promessi sposi, soddisfiamo i
requisiti richiesti, (Aii). Bisogna, ad esempio, che entrambi non siamo ancora, o non siamo più,
sposati. Dobbiamo poi pronunciare la formula rituale (Bi) per intero (Bii). Dobbiamo rispondere
"Sì" al momento opportuno, ciascuno al suo turno, non lei quando tocca a me o viceversa, e non
dobbiamo dire "Certo!" al posto di "Sì", e dobbiamo dire "Sì" tutti e due. (Se Lucia nei Promessi sposi
avesse detto sì anche lei, cosa sarebbe successo dopo il capitolo 8? Sarebbe stato un altro romanzo.)
Dobbiamo dirlo rispondendo alla domanda dell'ufficiale civile, durante la cerimonia, e non
rispondendo a un amico, o rispondendo al parroco mentre lo accompagniamo in canonica.
Quando ci sposiamo, (Γ), dobbiamo farlo sinceramente, con le intenzioni e i sentimenti corretti.
Una violazione di (Γ) è cosa ben diversa da una violazione di (A) o (B): solo qualche volta il non
soddisfacimento di (Γ) è una ragione per annullare il matrimonio. Ad esempio, lo è per il diritto
canonico della Chiesa Cattolica Romana.
La felicità è una nozione diversa da quella di verità (che in semantica e in filosofia è usata, di
solito, per trattare del contenuto di un atto, ad esempio di ciò che un'asserzione dice). Un'asserzione
potrebbe essere infelice, anche se quello che dice potrebbe essere vero: chi la fa potrebbe, infatti,
non credere a quello che dice, anche se dice il vero.

La forza come un livello distinto della teoria del significato. La caratterizzazione degli atti
illocutivi che abbiamo appena fornita -- che è una piccola variante di quella fornita da Austin [1961]
-- ne indica sia alcuni tratti che hanno in quanto atti, sia alcuni tratti che hanno in quanto atti
linguistici. I primi sono: la condizione (Ai) parla di una convenzione (socialmente?) accettata con
effetti convenzionali; la condizione (Aii) parla dei requisiti che deve soddisfare chi si appella alla
convenzione; la condizione ( ) parla delle intenzioni che deve avere chi si appella alla convenzione.
I secondi sono: la condizione (Ai) richiede che la procedura per compiere l'atto preveda
convenzionalmente il proferimento di catene verbali; le condizioni (B) parlano di forma corretta e
completa della procedura, e dunque di forma corretta e completa delle catene verbali impiegate in essa.
Si potrebbe pensare che gli atti illocutivi siano costruiti sulla lingua, per così dire, e cioè
semplicemente che utilizzino la lingua -- fonetica, grammatica, significato o contenuto e riferimento.
Certo, gli uomini e le donne si sposano, e per farlo, seguono un complesso rituale, che comporta
degli scambi linguistici con un ufficiale civile davanti a testimoni; ma questo è, si potrebbe sostenere,
un uso della lingua che non ci rivela alcunché d'intrinseco ad essa. Che l'aspetto illocutivo non sia
estrinseco lo si vede meglio però discutendo un'illocuzione meno rituale del matrimonio.
Prendiamo un enunciato di cui consideriamo fissati tutti gli aspetti linguistici e supponiamo che
non ne sia (stato) determinato, fissato, l'aspetto illocutivo.
Supponiamo che (1) sia questo enunciato.

(1) Romeo e Giulietta si sposano

Supponiamo cioè che (1) non sia stato determinato, ad esempio, né come affermazione, né come
domanda o esclamazione. Ora, se Marco proferisse (1), cioè un enunciato indeterminato rispetto
alla forza, non potremmo riportare quanto ha detto con

(2) Marco ha detto che Romeo e Giulietta si sposano.

Infatti, (2) riporta un'affermazione. Potremmo invece chiedere a Marco cosa intende fare con
(1): è un'affermazione, una domanda o un'esclamazione? Ci comporteremmo cioè come se ciò che è
stato detto non fosse completo. Facciamo un caso leggermente diverso. Supponiamo che qualcuno
ci chiedesse:

(3) Cosa ha detto Marco?

A una domanda del genere, sarebbe appropriato rispondere, a seconda del caso, "Marco ha
affermato che Romeo e Giulietta si sposano", oppure "Marco ha chiesto se Romeo e Giulietta si
sposano", "Marco ha esclamato 'Romeo e Giulietta si sposano!'". Se rispondessimo "Marco ha detto
che Romeo e Giulietta si sposano", lo si intenderebbe come una variante di "Marco ha affermato
che Romeo e Giulietta si sposano". Sarebbe appropriato anche rispondere "Marco ha detto: 'Romeo
e Giulietta si sposano'", col che però non si intenderebbe che Marco ha proferito un enunciato
indeterminato rispetto alla forza, ma semplicemente non ci si vorrebbe impegnare circa quale ne è la
forza, lasciando all'ascoltatore di deciderlo da sé, se può. In ogni modo, assumeremmo che se
Marco ha detto qualcosa, l'ha detto con una forza.
Che un enunciato privo di forza sia linguisticamente incompleto lo mostra il fatto stesso che in questa
discussione abbiamo privato (1) di alcuni tratti linguistici, come l'intonazione, ovvero la punteggiatura
visto che stiamo scrivendo, tratti che avrebbero completamente determinato la situazione.
Infatti, (1a) è un'affermazione, (1b) una domanda, e (1c) un'esclamazione.
(1a) Romeo e Giulietta si sposano.
(1b) Romeo e Giulietta si sposano?
(1c) Romeo e Giulietta si sposano!

Più esattamente l'incompletezza consiste in questo: (1) parlerebbe di uno stato di cose, e non
sarebbe determinato «come ne parla: dice che le cose stanno così? Chiede se stanno così? Commenta
il fatto che stanno così?
Per tutto ciò, sosteniamo che la forza, ciò che determina l'illocutività di un enunciato, coglie un
aspetto strutturale della lingua. Siccome il come si parla è distinto da ciò di cui si parla, come si vedrà
meglio nel §§ 2.4 e 2.6, sosteniamo anche che la forza appartiene a un livello semantico distinto da
quello del contenuto.
La forza è insomma una caratteristica linguistico-strutturale di un enunciato, che ha di per sé una
forza, indipendentemente dall'essere proferito; ed appunto perché ha quella forza, proferendolo, si
compie un atto illocutivo.
Se la forza è una caratteristica linguistico-strutturale di un enunciato, è cruciale sapere come si
distingua da altri aspetti linguistico-strutturali. La discussione s'è incentrata soprattutto su come la si
distingua dal contenuto (proposizionale).

2.4. Contenuto (proposizionale) e forza. Impliciti e espliciti. Facciamo un passo indietro e


torniamo all'esempio (1). Perché, piuttosto che disambiguarlo con (1a), (1b) e (1c), come abbiamo
proposto, non l'abbiamo determinato, rispettivamente, con (4), (5) e (6)?

(4) Affermo che Romeo e Giulietta si sposano


(5) Domando se Romeo e Giulietta si sposano
(6) Che meraviglia: Romeo e Giulietta si sposano

Se (4) è un po' pomposo, ci sono forme simili che non lo sono, come "Dico che Romeo e
Giulietta si sposano".
Una prima osservazione è che (1) e (4), ad esempio, non parlano della stessa cosa, hanno
contenuti diversi: (1) parla dello sposarsi di Romeo e Giulietta; (4) parla del mio dire che Romeo e
Giulietta si sposano. Una seconda osservazione è che (4) è ambiguo a sua volta, e potrebbe essere
disambiguato, ricorrendo all'intonazione, ad esempio in uno dei tre modi seguenti:

(4a) Affermo che Romeo e Giulietta si sposano.


(4b) Affermo che Romeo e Giulietta si sposano?
(4c) Affermo che Romeo e Giulietta si sposano!

In (4), cioè, non è stato ancora determinato se si afferma che si afferma che Romeo e Giulietta si
sposano; se ci si chiede se si afferma una cosa del genere (una domanda un po' strana, forse, ma uno
potrebbe porla per vedere se ha commesso un lapsus); se ci si stupisce di affermare una cosa del
genere.
Quando parliamo della forza di un enunciato, come facciamo in (4a), (4b) e (4c), per farlo
produciamo un enunciato che ha a sua volta una forza. Se il parlare della forza determinasse la forza
della illocuzione che si proferisce, (4b) e (4c) dovrebbero essere inaccettabili. Ma non è così, anzi: si
può sostenere che nessun enunciato parla della sua propria forza. Una conseguenza di questo è che
gli indicatori di forza linguistici, come l'intonazione, non si compongono con gli indicatori di
contenuto. Anche se quando è 'attiva' la forza non è parte del contenuto, può però essere
'disattivata' e divenire parte del contenuto.2

Che il livello illocutivo sia semanticamente distinto, come abbiamo già ricordato, era già stato
riconosciuto e sostenuto da Frege. Come si è visto nel Capitolo 1, infatti, egli distingue tre
componenti nel significato di un'espressione: il senso, la forza e il tono. In quel capitolo è stata
discussa soprattutto la prima componente, il senso. In questo capitolo piuttosto che di 'senso'
abbiamo parlato di 'contenuto (proposizionale)'. Il tono indica quelle sfumature che distinguono fra
loro espressioni che hanno lo stesso senso. Tra 'mamma' e 'madre', o tra 'e' e 'ma', ad esempio, ci
sono, per Frege, solo differenze di tono, che hanno solo un valore psicologico-soggettivo. 'Ma'
suggerisce la delusione di un'aspettativa, che 'e' non suggerisce. 'Mamma' ha una sfumatura
affettuosa che 'madre' non ha. Due enunciati uno formato dall'altro sostituendo nel primo
un'espressione con un'altra che si distingue da essa solo per tono hanno lo stesso senso e le stesse
condizioni di verità. 'Sua mamma è uscita' e 'Sua madre è uscita' sono veri esattamente negli stessi
casi.
La forza è una caratteristica semantica propria degli enunciati. La forza stabilisce come parliamo
di ciò di cui parliamo. (1a), (1b) e (1c) hanno, in termini fregeani, lo stesso senso, ma hanno forze
diverse -- come abbiamo visto, hanno rispettivamente forza assertiva, interrogativa e esclamativa.
Frege offre una discussione breve, ma molto chiara, della distinzione fra forza e contenuto
(proposizionale), sulla quale abbiamo mimato quella presentata poco fa. Egli sostiene che

2
Contrariamente a quanto è stato sostenuto da Stenius [1967], da Lewis [1972], da Davidson [1979], e da altri. Più difficile è
stabilire cosa esattamente sostiene Searle [1968] e [1969].
7+5=12 (dove '|–' è un indicatore di forza assertiva) non è equivalente a 7+5=12. Quest'ultimo è
un contenuto giudicabile e il primo è un giudizio circa quel contenuto, un giudizio che lo giudica
vero. |– 7+5=12 non è equivalente neppure a È vero che 7+5=12. Quest'ultimo è ancora solo un
contenuto giudicabile, che viene giudicato vero da |– È vero che 7+5=12. Trattando di formulazioni
di giudizi piuttosto che direttamente con giudizi, la discussione sul giudizio si trasforma in una
discussione sull'asserzione. Allora, riformulando la tesi appena vista come una tesi che riguarda il
linguaggio, le precedenti non equivalenze bloccano la nostra inclinazione a dire che "Asserire che
7+5=12" equivale a "È vero che 7+5=12": l'enunciato e l'asserzione non sono equivalenti perché il
segno di asserzione appartiene a un livello semantico differente da quello cui appartiene il predicato
'è vero'. Il segno di asserzione rende esplicita la forza, il fatto che parliamo di 7 +5=12 come vero; il
predicato 'è vero' appartiene invece al livello del senso, specificamente esprime il fatto che qualcosa è
vero, ma non parla di questo essere vero come vero. Perciò, per Frege, il segno di giudizio, o di
asserzione, |– , non ha un senso, non contribuisce al senso dell'intera espressione.3
Austin ha una posizione nettamente simile a quello di Frege (cfr. Austin [1962] ad esempio
p.100). Si noti che il segno di asserzione è, per Frege, un segno della lingua, ad esempio della sua
ideografia, e non un segno metalinguistico; comunque è un segno che non si compone al livello del
senso con gli altri segni della lingua, come mostra il fatto che non può essere usato per costruire
un'espressione funzionale. 'Padre' e 'cugina' sono espressioni dotate di senso. 'Il padre della cugina
di x' è un'espressione funzionale, che al variare di x assume valori diversi: mio zio, tuo zio, suo zio,
ecc. '.' è un grafema che indica un'intonazione assertiva, è un indicatore di forza assertiva. Per
semplicità facciamo finta che sia l'unico indicatore di forza assertiva. '.' non si compone con le
espressioni dotate di senso per formare un'espressione funzionale ancora dotata di senso. Se
proferisco "Ha telefonato lo zio di Maria.", non si può raccontare ciò che ho fatto dicendo 'Il tuo .
che ha telefonato lo zio di Maria..." -- semmai dovremo usare un nome che parla dell'atto
dell'asserire, come 'affermazione' che come abbiamo visto non è però un indicatore di forza
assertiva, e dire, ad esempio, "La tua affermazione che ha telefonato lo zio di Maria..." (Frege [1891]
34) (Cfr. Picardi [1988].)
Forme come quelle di (1a), (1b) e (1c) sono dette illocuzioni implicite, mentre forme come quelle
di (4a), (4b) e (4c) sono dette esplicite. La nostra discussione mostra che nessun enunciato può essere
esplicito circa la propria stessa forza. Se riconsideriamo (1a) e (4a)

3
Cf. G. Frege [1891, 118, nota]; "A proposito de Die logischen Paradoxien der Mengenlehre» di Schoenflies", in Frege [1969, 371-2].
(1a) Romeo e Giulietta si sposano.
(4a) Affermo che Romeo e Giulietta si sposano.

possiamo dire che entrambe sono illocuzioni assertive. Ma non sono affatto la stessa illocuzione
assertiva, perché asseriscono due contenuti diversi: (4a), in particolare, asserisce che afferma il
contenuto di (1a), che invece asserisce semplicemente il proprio contenuto. Inoltre, si può sostenere
che possiamo parlare della forza perché abbiamo, fin dall'inizio, un certo numero di tipi di forza
primitivi. Possiamo immaginare bene la differenza di forza, immaginando che dopo che Marco ha
detto (1a) qualcuno gli chieda "Cosa?", al che lui aggiunga (4a). Avrebbe potuto aggiungere invece
benissimo una qualunque delle forme seguenti:

(4aa) Ti informo che Romeo e Giulietta si sposano.


(4ab) Romeo e Giulietta si sposano, indovino.
(4ac) Ipotizzo che Romeo e Giulietta si sposino.
(4ad) Credo che Romeo e Giulietta si sposino.
(4ae) Concludo che Romeo e Giulietta si sposano.
(4af) Constato che Romeo e Giulietta si sposano.

Qualunque di questi seguiti avrebbe articolato diversamente l'assertività primitiva di (1a),


precisando diversamente l'impegno che ci si prende con ciò che si dice, e lo status epistemico di ciò
che si dice, oltre, almeno in alcuni casi, alle assunzioni fatte sullo stato di conoscenze di chi ascolta.
Che gli enunciati (4a) abbiano una forza diversa da quella di cui parlano, e che si possa parlare
della forza dà origine a due problemi diversi, seppure non del tutto disgiunti. Da un lato, un
problema circa gli indicatori di forza linguistici: in base a cosa si distinguono (1a) da (1b), da (1c) ecc.?
Inoltre, problema strettamente connesso, quanti tipi primitivi di forza ci sono? Dall'altro lato, come
si possono articolare i tipi di forza primitivi, che forme hanno le illocuzioni esplicite e come
funzionano? Alcune di queste questioni le vedremo nella prossima sezione.

Frege parla della forza di un enunciato come del nostro riconoscerlo vero. La dottrina di cui
parliamo noi è una dottrina degli atti linguistici, un soggetto che, magari sotto altro nome, ha avuto
una parte in altri studi filosofici e linguistici; ad esempio quando s'è parlato delle funzioni del
linguaggio, che secondo Jakobson (che amplia una precedente classificazione di Bühler) sarebbero
sei: referenziale, espressiva, conativa, metalinguistica, poetica e fàtica. Qui, abbiamo cercato di
separare l'aspetto psicologico (suggerito dal parlare di riconoscimento) e quello linguistico-
antropologico-sociologico (suggerito forse dal parlare di funzioni», e certamente dal parlare di atti) da
quello più strettamente semantico. (1) è, come si è visto, semanticamente incompleto, laddove (1a)
non lo è. (1) è semanticamente incompleto perché non si sa come metterlo in relazione allo stato
delle cose in cui si parla: se fosse un'affermazione pretenderebbe (probabilmente) di corrispondervi; se
fosse una domanda pretenderebbe di vedere se vi corrisponde o meno; se fosse un'esclamazione
pretenderebbe che ci fosse qualcosa di sorprendente per chi parla in ciò che è accaduto o manifesterebbe
la sua gioia o il suo dispetto per lo stato di cose citato; se fosse un imperativo, pretenderebbe che si
producesse uno stato di cose corrispondente, ecc. (1a), essendo un'affermazione, è invece semanticamente
completo. Cose che non riguardano la semantica sono chiedersi se chi proferisce (1a) si rende conto
di quello che fa, se crede a quello che afferma, ecc., che sono questioni psicologiche, l'ultima delle
quali coinvolge la sua sincerità, mentre la prima concerne le sue responsabilità. L'azione sociale
dell'asserire, nel nostro quadro, dipende dall'esserci, nella semantica, la forza assertiva.
Naturalmente, questo non esclude che ci siano problemi specifici circa il compiere atti illocutivi, e
problemi anche sistematici circa l'attribuzione della forza agli enunciati, che non sono semantici, e il
cui studio spetta, nella suddivisione istituzionale e un po' burocratica degli studi, ad altre discipline,
come la sociologia e l'antropologia, o a campi interdisciplinari come la pragmatica. Ad esempio, qual
è la forma della richiesta può essere semanticamente stabilito, ma chi in un particolare (tipo di)
contesto può fare una richiesta può dipendere da qual è lo status sociale dei partecipanti o il ruolo
che essi ricoprono nell'occasione sociale.

2.5. Un esempio di illocuzione: la domanda. Per discutere degli indicatori di forza linguistici
soffermiamoci su un esempio di illocuzione, le domande. Una domanda può essere fatta non
verbalmente, servendosi di gesti simbolici (come la mano a cucchiaio, il pollice contro le altre
quattro dita, che oscilla a polso fermo avanti e indietro) e sfruttando elementi contestuali (come un
gesto di indicazione, magari fatto con gli occhi). Una domanda, però, è per lo più fatta verbalmente,
e noi esamineremo solo questo caso.
Una domanda è un'illocuzione di un particolare tipo (più avanti vedremo i diversi tipi di
illocuzioni, comunque è di tipo esercitivo o direttivo). Promettere, scommettere, protestare,
congratularsi, scusarsi, affermare, fare un resoconto, descrivere, ecc. sono illocuzioni di altri tipi.
Una frase presenta sempre alcuni indicatori di forza linguistici, quali l'intonazione, le caratteristiche
morfologiche del verbo, l'ordine dei costituenti dell'enunciato, eventualmente l'occorrere di
particolari tipi di pronomi, particolari tipi di avverbi, particolari tipi di aggettivi. Gli indicatori di
forza mostrano qual è il tipo di frase. I tratti di una frase interrogativa, in italiano, sono l'intonazione
marcata ascendente, il modo indicativo o quello condizionale, e eventualmente il ricorrere di
pronomi, aggettivi o avverbi interrogativi. Proferendo una frase interrogativa si fa una domanda.
Più precisamente, una domanda è fatta proferendo una frase interrogativa interpretata, cioè un
enunciato interrogativo.
La frase interrogativa "Gigi, quando ti fermi a Roma?" presenta l'intonazione marcata ascendente
(rappresentatata convenzionalmente per iscritto dal punto interrogativo), il modo indicativo,
l'avverbio interrogativo 'quando'. Se assumiamo che parli del mio amico Gigi e di Roma, e se
interpretiamo il verbo 'fermarsi' come riferentesi al fermarsi, l'enunciato interrogativo parla del
fermarsi di Gigi a Roma, e chiede quando questo avverrà.
Alcune di queste caratteristiche, come l'intonazione ascendente, si trovano anche in tipi marcati
(non canonici), come le domande coda, cioè le domande fatte attaccando alla fine di un'asserzione
un No?, o le domande parentetiche, cioè quelle fatte inserendo in mezzo a una frase di tipo
eventualmente diverso cose come Vero?, Giusto?, o ancora un No?, Marco?, ecc. Così come potrebbe
andare bene anche per domande-eco, cioè quelle fatte ripetendo, con intonazione interrogativa,
parte o tutto quanto è stato appena detto, come facciamo dicendo ad esempio Andare a Rimini? per
replicare a chi ci ha detto Dopo potremmo andare a Rimini. Il fatto che queste forme interrogative siano
caratterizzate da un minore numero di tratti le contraddistingue, ed è appunto ciò che le rende
marcate ovvero non canoniche. In effetti, servono a fare domande particolari. (Un'analisi di questo
genere delle frasi interrogative e delle domande è stata proposta da Fava [1984] e [1987] e le
conclusioni sono chiaramente tracciate a p. 46 di quest'ultimo saggio.)
Ma non facciamo forse domande anche proferendo frasi diverse: ad esempio, non possiamo fare
una domanda quando diciamo "Ti domando quando vai a Roma.", "Ti prego di dirmi quando vai a
Roma.", ecc.? Certo! Queste, abbiamo detto, non sono affatto letteralmente delle domande. Ma
certo sono forme che possono essere usate anche per fare domande. Il ricorrere a queste forme
indica che il contesto in cui facciamo la domanda è di un tipo particolare -- che c'è rumore e che
l'intonazione interrogativa potrebbe non essere colta, che si sta ripetendo una domanda perché
un'intonazione interrogativa non era stata colta, che la domanda è delicata, ecc. (Cfr. Brown e
Levinson [1978]). Altre forme non interrogative come "Non so quando vai a Roma" indicano
magari solo delicatezza. Un'interrogativa invece serve a fare una domanda indipendentemente da
qualsiasi particolarità del contesto in cui viene proferita.4
Il caso che ci pare più problematico di frasi interrogative che servono a fare domande è quello
delle forme esplicite, come "Ti domando quando vai a Roma." Casi problematici per più ragioni:

4
Così come si può fare una domanda senza usare un'interrogativa, un'interrogativa può essere usata per fare anche qualcosa di
diverso da una domanda. Ad esempio Ne vuoi un altro po'? può evidentemente servire per fare un'offerta, o Sei libera stasera? per
fare un invito. Vale che queste sono sempre domande e che solo in certi tipi di contesto possono svolgere altri ruoli.
(a) perché la ricerca della forma tipica delle illocuzioni è stata quasi sempre un tentativo di
caratterizzarne le forme esplicite; (b) perché queste forme articolano tipi primitivi di forza.

2.6. Criteri grammaticali e ipotesi performativa. Prima abbiamo dato delle motivazioni
filosofiche per l'irriducibilità del livello della forza a quello del contenuto. Adesso vediamo alcune
motivazioni linguistiche, connesse alla discussione su illocuzioni esplicite e implicite.
La forma grammaticale delle illocuzioni, o performativi, sembra essere paradigmaticamente
quella dell'indicativo attivo, presente, nella prima persona. "Ti chiedo di non fumare adesso",
"Giudico che sia troppo tardi per continuare", "Prometto che domani ti compro il disco", ecc.
Questa è infatti la controparte italiana dell'indicativo attivo, presente (non progressivo), prima
persona che Austin [1962] discute come la forma propria delle illocuzioni esplicite (di contro a quella
delle illocuzioni implicite, o primitive): l'illocuzione esplicita dovrebbe rendere lessicalmente, e dunque
tematizzare, trattare come parte del contenuto, gli indicatori di forza propri delle illocuzioni
implicite, e cioè il modo, l'intonazione e gli altri elementi soprasegmentali, le avverbiazioni, le
particelle connettive, i comportamenti non verbali di accompagnamento e le circostanze del
proferimento.
Austin [1962, 91] nega però che vi sia, dopotutto, una forma grammaticale distintiva per le
illocuzioni. Ciononostante, la presunta forma canonica è rimasta sempre al centro degli studi sugli
atti linguistici. Searle [1968] utilizza la presunta forma canonica delle illocuzioni esplicite per
criticare la distinzione austiniana fra atti locutivi retici e atti illocutivi. In quello stesso saggio e di
nuovo in [1969], Searle propone la presunta forma canonica come la forma fondamentale da
analizzare per spiegare gli atti illocutivi, introducendo fra l'altro il principio di esprimibilità per cui
tutto ciò che può venir significato può venir detto. La fortuna della presunta forma grammaticale
delle illocuzioni esplicite è stata tale che alla fine degli anni '60 Lakoff e Ross (cfr. Ross [1970])
hanno avanzata l'ipotesi performativa, per cui qualunque enunciato è, almeno nella struttura
sottostante, un'illocuzione esplicita nella presunta forma canonica.5 "Comprami le sigarette,
per favore" è, nell'ipotesi performativa, una variante superficiale della forma sottostante "Ti chiedo
di comprarmi, per favore, le sigarette". Naturalmente, alla forma sottostante corrisponde anche,
come altra variante, un'identica forma superficiale, e cioè di nuovo "Ti chiedo di comprarmi, per
favore, le sigarette".

5
L'ipotesi performativa è stata criticata radicalmente in Anderson [1971] e Fraser [1974].
Indichiamo qui due problemi, uno semantico e uno sintattico, dell'ipotesi performativa. Un
problema semantico. Sostenendo che "Oggi Luisa ha comprato una gonna" è equivalente a
"Affermo che oggi Luisa ha comprato una gonna" si viene a sostenere che le condizioni di verità di
questi due enunciati sono le stesse. Il che è evidentemente falso, perché se così fosse, se qualcosa
fosse vero sarebbe affermata da qualcuno, e se qualcuno affermasse qualcosa felicemente,
nell'accezione austiniana, allora ciò che afferma sarebbe vero. Ma evidentemente ci sono cose vere
che non sono affermate da nessuno e ci sono affermazioni false. Un problema sintattico. Molte
delle presunte prove a favore dell'ipotesi performativa vengono da avverbi e pronomi.
'Francamente', ad esempio, in "Francamente, mi sono divertito", non sembra modificare 'divertire'
ma un implicito 'dire', che potrebbe essere fatto emergere, come in "Ti dico francamente che mi
sono divertito". Ora, se così fosse, 'francamente' potrebbe ricorrere sempre. Ma ci sono casi in cui
risulta strano. "Francamente, oggi Luisa ha comprato una gonna" è strano, così come lo è
"Francamente, ieri ha nevicato." Inoltre, 'francamente' può ricorrere in frasi incassate: "Ho votato
per il sì perché francamente diffido dei sostenitori del no." Questa frase non è equivalente a
"Affermo francamente che ho votato per il sì perché diffido dei sostenitori del no" né a "Affermo
che ho votato per il sì perché affermo francamente che diffido dei sostenitori del no". Non equivale
alla prima frase perché il modo franco non sembra riguardare la dichiarazione che si è votato per il
sì; non equivale alla seconda frase perché non si è votato per il sì perché si afferma francamente di
diffidare dei sostenitori del no.
Le difficoltà della discussione sulla forma grammaticale hanno portato dei raffinamenti, tra i
quali segnaliamo quelli di Vendler [1972, capitolo 2], quelli di Searle [1975], e più di recente quelli di
Sadock e Zwicky [1985]. Secondo Vendler, i verbi illocutivi -- che sarebbero verbi di successo, verbi
cioè che parlano di un conseguimento, di una conclusione, di qualcosa che è riuscita (cfr. Ryle
[1949], p. 132) -- sono contraddistinti dall'avere come complementazione una nominalizzazione
'imperfetta', cioè una nominalizzazione in cui c'è una forma verbale ancora 'viva', che funziona cioè
ancora come verbo, perché accetta variazioni di tempo, ausiliari, modificazioni avverbiali ecc. Una
nominalizzazione imperfetta è, paradigmaticamente, una che-frase, una frase introdotta da che.
Verbi non illocutivi come 'imitare', 'osservare' ecc., hanno come complementazione delle
nominalizzazioni perfette, come in "Imito il suo modo di scrivere", "Osservo il passaggio del treno",
nominalizzazioni che accettano articoli, aggettivi postnominali, genitivi oggettivi, ecc. Nessuno di
questi raffinamenti, che si aggiungono alla caratterizzazione grammaticale austiniana, appare però
convincente. In generale, contro la presunta forma grammaticale propria delle illocuzioni esplicite si
possono portare diversi controesempi. Innanzitutto, c'è una serie di difficoltà già notate da Austin:
ci sono altre forme che sembrano andare altrettanto bene, come l'indicativo passivo, presente, nella
seconda persona (ad esempio, "Sei autorizzato a parcheggiare nel posto riservato" invece di "Ti
autorizzo a parcheggiare nel posto riservato"). Inoltre, il presente indicativo attivo anche di prima
persona può essere un presente storico o abituale. Ma ci sono altre difficoltà ancora: 'vincere' non è
un illocutivo, eppure almeno come dichiarazione di intenzione (?) posso dire "Vinco la camminata
dell'anno!". Contro la proposta di Vendler, per cui i verbi illocutivi avrebbero come
complementazione nominalizzazioni imperfette, va osservato che non sono affatto sempre
obbligatorie. Sono infatti accettate forme come "Ti prometto la restituzione di tutti i soldi." Infine,
ci sono verbi illocutivi che non sembrano accettare affatto nominalizzazioni imperfette: diciamo "Ti
nomino Presidente (del Consiglio di aministrazione)" e non possiamo dire "Ti nomino così che tu
sia, o diventi, Presidente (del Consiglio di amministrazione)", o una qualunque cosa del genere.
Oltre alla ricerca della forma grammaticale esplicita, si è cercato di trovare altri indicatori generici
di illocutività. Tuttora il più affidabile è considerato l'inserzione di 'con ciò' o 'con questo', per
esempio, "Con questo (Con ciò) ti lascio in eredità il mio orologio d'oro", indicatori la cui
controparte inglese, hereby, era stato già considerato da Austin [1962]. Si tratta di un indicatore
generico di illocutività, che però, seppure è spesso affidabile, non lo è sempre: posso dire "Con
questo ti garantisco che ti pagherò tutto entro l'anno", dove 'con questo' può essere un indice di
illocutività, ma può anche essere qualcosa che fa riferimento al pegno che ti lascio a garanzia del
pagamento a venire. Le cose vanno ancora peggio quando dico: "Con questo ti mostro che conosco
l'argomento", dove il 'con questo' non è affatto un indice di illocutività ma fa riferimento a quanto
s'è detto, o fatto, che è appunto ciò che mostra che conosco l'argomento.
Oltre a questi problemi specifici, la ricerca della forma grammaticale esplicita delle illocuzioni
introduce di per sé dei problemi, in particolare uno, quello di spiegare l'asimmetria fra prima persona
da un lato e seconda e terza persona, dall'altro (limitiamo la nostra osservazione per semplicità alla
presunta forma grammaticale paradigmatica); così come l'asimmetria fra presente e altri tempi. Cioè,
l'asimmetria fra "Ti prometto di portartelo domani" e "Mario promette di portartelo domani" e fra
"Ti prometto di portartelo domani" e "Ti ho promesso di portartelo domani". La difficoltà è
evidente perché, si dice, le illocuzioni non sono né vere né false, mentre frasi come "Mario promette
di portartelo domani" sono vere o false. La difficoltà consiste nel fatto che se così fosse il semplice
passaggio dalla prima alla terza persona, o dal presente ad un altro tempo, cambierebbe lo status
semantico di un'espressione. C'è inoltre un' altra stranezza in tutta l'impresa: la presunta forma
grammaticale esplicita delle illocuzioni non presenta un insieme di tratti grammaticali per
caratterizzare l'illocutività, ma distingue in base a una serie di tratti una forma grammaticale che
servirebbe paradigmaticamente a compiere illocuzioni. Non tratta dunque le illocuzioni come un
fenomeno intrinsecamente linguistico.
Non c'è comunque ancora alcuna soluzione soddisfacente circa come trattare le illocuzioni
esplicite. Di fronte a tutte le difficoltà appena indicate, Bach e Harnish [1979] hanno proposto di
considerare le illocuzioni esplicite atti linguistici indiretti. (Cfr., sotto, al § 2.8.) Questa soluzione è
però anch'essa insoddisfacente.6
Ci sono più tipi di forze esplicite che implicite o primitive, cosicché accettando quella soluzione,
bisognerebbe accettare anche l'idea, controintuitiva, che ci sono più tipi di atti linguistici indiretti che
tipi di atti linguistici diretti. Si potrebbe piuttosto pensare alla forma esplicita come analoga a, o
derivata da, la forma implicita + parentetica: "Ti giuro che vengo domani" sarebbe allora analoga a
o derivata da "Vengo domani. Te lo giuro", in cui si hanno due frasi assertive implicite, la seconda
delle quali qualifica la forza della prima commissivamente.7

2.7. La tassonomia degli atti illocutivi. Classificare introduce ordine e nitore. Proprio per
questo, a volte, come primo passo, si classifica. Classificare gli atti linguistici, in particolare gli atti
illocutivi, è un'attività in cui si sono impegnati in molti. Considereremo qui solo la classificazione
degli atti illocutivi. Ballmer e Brennenstuhl [1980] hanno raccolta una lista di più di 8.000 verbi
illocutivi tedeschi: ammesso che le diverse illocuzioni che possiamo compiere siano 'solo così tante',
cioè ammesso che a ciascuna illocuzione debba sempre corrispondere un verbo illocutivo, come alla
promessa corrisponde il verbo promettere, in quanti tipi fondamentali possiamo raggruppare le
diverse illocuzioni? Possiamo esplicitare i principî della nostra classificazione? Una classificazione è
importante perché a tipi illocutivi diversi dovrebbero corrispondere indicatori di forza (linguistici)
diversi.
Austin [1962], lezione XII, distingue cinque tipi fondamentali di illocuzioni, offrendo delle
caratterizzazioni intuitive e in ciascun caso una serie di esempi:

(1) verdettivi : assolvo, riconosco colpevole, giudico, classifico, stimo, valuto, caratterizzo, ecc.

6
Lo stato dell'arte circa la nozione di forza, nonostante la grande mole di studi, è tutt'altro che soddisfacente. Le illocuzioni per
lo più sono discusse come atti che come atti linguistici; la distinzione tra il livello della forza e quello del contenuto non è affatto
standard, tant'è vero che la maggior parte degli studi sugli indicatori di forza linguistici si concentrano sulle forme esplicite.
(Austin [1962], Searle [1969], Lewis [1969] e [1972], Vendler [1972], Davidson [1979], l'ipotesi 'performativa avanzata per la
prima volta da Ross [1970]; ma la confusione non è scomparsa neppure in Lyons [1977], Levinson [1983], e Fava [1984] e
[1987], seppure Lyons e soprattutto Fava avanzino delle ipotesi interessanti sul trattamento degli indicatori di forza linguistici, e
abbiano presente soprattutto le forme implicite; Bach e Harnish [1979] non confondono, ma non danno nessuna trattazione
linguistica della nozione di forza.) La cosa è ancora più complicata perché mentre agli altri livelli linguistici e semantici
corrisponde una branca di studi linguistici abbastanza ben stabiliti, allo studio della forza non corrisponde nulla di tutto ciò.
7
Rispetto alle teorie delle funzioni del linguaggio, cui abbiamo accennato sopra, la dottrina degli atti linguistici può apparire
come una risistemazione. Alcune di queste funzioni non sono qui trattate sullo stesso piano delle altre, senza per questo
distinguere un piano linguistico e uno metalinguistico. (Ma vedi Sbisà [1972].) Ad esempio la funzione referenziale, nella
dottrina degli atti linguistici, appartiene al livello locutivo, ed è parte dell'atto retico o proposizionale. Altre funzioni, invece,
non sono neppure discusse, ad esempio, quella poetica e quella fàtica. L'atto locutivo fàtico, produrre una catena
grammaticalmente corretta, infatti, non ha nulla a che vedere con la funzione fàtica, il mantenere aperto il contatto.
I verdettivi formulano un giudizio, ufficiale o meno, sulla base di prove o ragioni, circa
questioni di fatto o di valore.
(2) esercitivi : nomino, degrado, licenzio, scomunico, ordino, comando, avverto, consiglio,
domando, chiedo, ecc.
Gli esercitivi comunicano una decisione o richiedono una certa condotta, per lo più da
parte di chi ascolta.
(3) commissivi : prometto, ho l'intenzione di, giuro, m'impegno a, dò la mia parola, garantisco,
scommetto, mi dichiaro d'accordo, ecc.
I commissivi impegnano chi parla a una certa condotta o esprimono l'intenzione di
adottarla.
(4) comportativi : mi scuso, mi congratulo, disapprovo, "Benvenuto", benedico, maledico, ecc.
I comportativi esprimono comportamenti o reazioni comportamentali.
(5) espositivi : affermo, nego, osservo, informo, rispondo, credo, dico, suppongo, so, riferisco,
ammetto, spiego, mi riferisco, chiamo, ecc.
Gli espositivi chiarificano ciò che si sta dicendo: se si tratta di opinioni, elucidazioni,
spiegazioni, ecc.

Searle [1975] offre una classificazione leggermente diversa, ma soprattutto offre una serie di
principî di classificazione. Searle distingue dodici dimensioni lungo cui variano, e quindi si
distinguono, le illocuzioni. Ne indichiamo solo quattro: (i) lo scopo, o la ragion d'essere, ovvero il
punto de(l tipo de)ll'atto, ciò che si vuole indurre nell'ascoltatore, ad esempio che creda qualcosa o
che intenda fare qualcosa;8 (ii) la direzione di adattamento tra parole e mondo (un'asserzione sembra
adattare le parole al mondo, per descriverlo correttamente, mentre una promessa sembra adattare il
mondo alle parole, essendo un impegno a far seguire alle parole i fatti);9 (iii) differenza circa gli stati
psicologici espressi (un'asserzione esprime una credenza, mentre una richiesta esprime un desiderio);
(iv) le differenze di contenuto (proposizionale) determinate dal tipo di forza illocutiva: ad esempio,
un resoconto può riguardare il passato o il presente, mentre una previsione (tranne una previsione
circa un risultato non ancora noto) deve riguardare il futuro.
Ci sono moltissime altre classificazioni, come dicevamo. Ne menzioneremo solo una, quella di
Sbisà [1972, 1984 e 1989, capitolo 4], per due particolarità: primo, per aver distinto il tipo degli
espositivi dagli altri, attribuendogli una funzione metadiscorsiva, perché gli espositivi
organizzerebbero quanto si viene dicendo; secondo per aver fornito per gli altri quattro tipi una
classificazione basata sul cambiamento della relazione fra chi parla e chi ascolta, cambiamento
espresso dal cambiamento di atteggiamento in ciascuno di loro, circa il potere, dovere, sapere, credere,

8
Lo scopo di un'illocuzione non è ancora una perlocuzione. Se chi ci ascolta viene effettivamente indotto a credere qualcosa o a
intendere di fare qualcosa, allora si ha anche una perlocuzione.
9
Come mostra Austin [1953], questa dimensione è assai più complessa: infatti, un'illocuzione assertiva può richiedere di adattare
le parole al mondo, p. es., quando è una descrizione, ma quando è l'indicazione di un esempio richiede la direzione di
adattamento opposto. Se voglio indicarti un esempio di scrittura cirillica devo trovare o produrre un campione di scrittura che
possa essere descritto correttamente in quel modo.
volere. Ad esempio, il tipo commissivo cambierebbe la relazione così: a partire da un proprio potere
chi parla attribuisce a chi ascolta un potere e a se stesso un dovere (in ciascun caso potremmo
considerare chi parla e chi ascolta come persone che fanno le veci di qualcun altro, e allora il potere
e il dovere competerebbero a coloro nelle cui veci si parla). In particolare, chi parla pretendendo di
poter fare una cosa si prende l'impegno, il dovere, di farla, e attribuisce a chi lo ascolta non solo il
diritto di pretendere che sia fatta.10
Come si vede, tutte le classificazioni, o quasi, sono legate alle cosiddette illocuzioni esplicite. Se
ci fermassimo alle illocuzioni implicite dovremmo invece accettare probabilmente una classificazione
semplicissima come quella di Grice [1978] che distingue due sole forze primitive, una assertiva e una
volitiva, una legata al credere e una al volere che (come intendere o come richiedere).

2.8. Alcuni punti che non sono stati discussi nei paragrafi precedenti. Fin qui abbiamo trattato
gli atti linguistici, locutivi e illocutivi, come parte di una teoria del significato. Ciò non toglie che
parlare sia anche un'attività e che quanto diciamo non possa essere governato anche da regole che
non sono affatto intrinsecamente linguistiche. Un fenomeno linguistico evidentemente governato
da regole extralinguistiche sono gli atti linguistici indiretti: mentre conversiamo in salotto Maria dice
"Ho freddo" oppure "Puoi chiudere la finestra?" La prima è un'asserzione, la seconda una
domanda. Tutte e due però contestualmente possono funzionare benissimo come richieste --
richieste di chiudere la finestra. Si dice allora che pur avendo letteralmente la forza, rispettivamente,
dell'asserzione e della domanda, hanno derivativamente (e spesso convenzionalmente), la forza della
richiesta.11
Già la spiegazione degli atti linguistici indiretti offerta in Searle [1975] utilizza i principî
conversazionali introdotti da Grice [1975] (di cui parleremo più avanti, nel § 4). Franck [1979] ha
mostrato come si possa fare del tutto a meno dell'idea di atto linguistico indiretto, spiegando il
fenomeno piuttosto che con i principî conversazionali di Grice, con le regole e i principî dell'azione
conversazionale descritti da Sacks, Schegloff e Jefferson (vedi Sacks et al. [1974] e Sacks et al.
[1977]).12
Come l'abbiamo messa qui, lo studio degli atti linguistici, locutivi e illocutivi, compete alla
linguistica -- lo studio delle illocuzioni è segnalatamente una parte della semantica. Questo è

10
Per altre tassonomie vedi: Vendler [1972], Bach e Harnish [1979]. Per una discussione sulle tassonomie si veda Hancher [1979].
11
Una discussione e una tipologia di tutte le forme indirette di richiedere si trova in Benincà et al. [1977]. Si veda anche Brown e
Levinson [1978].
12
Dicendo ad esempio "Sei libera stasera?" possiamo fare un invito perché quanto diciamo viene trattato come una presequenza a
un invito, cioè qualcosa che viene detto prima di fare un invito, e per un fenomeno chiamato 'collasso conversazionale' viene
trattato da chi partecipa alla conversazione immediatamente come l'invito che avrebbe dovuto precedere.
evidente per le locuzioni, la cui teorizzazione è strettamente dipendente dalla teoria linguistica: per
decidere se si è compiuto un atto fonetico o per decidere se si è compiuto un atto fàtico, bisogna
rispettivamente che la catena prodotta sia una catena fonetica e una catena grammaticale. Una teoria
della forza soddisfacente è comunque ancora largamente da sviluppare. Diciamo comunque che lo
studio della forza spetta alla semantica per quanto la forza propria di un proferimento di un
enunciato dipende dalle caratteristiche strutturali dell'enunciato proferito, e perché riguarda il modo
in cui mettere in relazione ciò che si dice con lo stato di cose in cui si parla.
Tutto questo non contrasta affatto con l'idea che le illocuzioni siano un soggetto di studio anche
per la pragmatica e la teoria dell'azione, intendendo la pragmatica in un'accezione più ampia e più
precisa di quella di Carnap ([1955]), per cui la pragmatica è genericamente la ricerca empirica sulle
lingue naturali date. Un atto linguistico deve soddisfare altri requisiti oltre a quelli semantici, ad
esempio delle restrizioni sociali: una richiesta può essere fatta in forme diverse la cui appropriatezza
dipende dallo status relativo di chi chiede e di chi ascolta, o dal loro grado di intimità, o dal
reciproco ruolo nella situazione, ecc. Ma la nostra prospettiva si oppone a una concezione assai
diffusa per cui lo studio degli atti linguistici competerebbe esclusivamente alla pragmatica (cfr., ad
esempio, Levinson [1983] e Sperber e Wilson [1986]). Naturalmente, questa affermazione potrebbe
essere compresa appieno solo comprendendo bene cos'è la pragmatica, ad esempio come interessata
al significato in quanto dipendente dal contesto, piuttosto che non come interessata al significato
una volta sottratta la parte che compete alla semantica.13
Gli atti linguistici come oggetto della teoria dell'azione (teoria che non si sovrappone che
marginalmente alla pragmatica) presentano diverse caratteristiche interessanti. Quando si parla di
azione linguistica un aspetto particolarmente interessante, ripetutamente sottolineato da Austin, è
che le conseguenze delle azioni linguistiche su cui si concentra la nostra attenzione sono
conseguenze convenzionali, e non fisiche.
Questo fatto è rilevante, a nostro parere, anche sotto un altro aspetto. Contro Austin, e
seguendo un'idea di Grice [1957] (cfr. § 3), Strawson [1964] e Bach e Harnish [1979] sostengono che
gli atti illocutivi sono sempre, o per lo più, basati sulle intenzioni del parlante, su ciò che ha in mente
chi parla, piuttosto che su convenzioni. A parte la possibilità di collegare intenzioni e convenzioni,
se le conseguenze delle illocuzioni sono convenzionali, questo fa pensare che comunque le
illocuzioni richiedono delle convenzioni, linguistiche e sociali. (Cfr. Leonardi [1984].)

13
Entrambe le carratterizzazioni si trovano in Levinson [1983], capitolo 1.
3. La teoria del significato.

Nel 1957, H. Paul Grice pubblicava l'articolo "Meaning". Tutte le teorie del significato prodotte
nell'ambito della filosofia del linguaggio ordinario sono elaborazioni o variazioni di quella proposta
da Grice in quell'articolo.

(1) Quelle macchie significano (significavano) morbillo.


(2) Quelle macchie non significavano niente per me, ma per il dottore significavano morbillo.
(3) L'ultimo bilancio significa che avremo un anno duro.
(4) Il suono della campana significa che la lezione è finita.
(5) L'osservazione che "Bianchi non può fare a meno del suo tormento" significa che Bianchi trova
sua moglie indispensabile.

Ora, 'significare' in (1), (2) e (3) è usato diversamente da come è usato in (4) e (5). Il darsi di un
segno 'naturale' è il darsi dell'evento significato: se ha quelle macchie, ha il morbillo; se abbiamo quel
bilancio, avremo un anno duro. Nel primo caso parliamo di significato naturale (significato n ),
nel secondo caso di significato non-naturale (significatonn). La differenza fra significaton e
significatonn può essere riconosciuta servendosi di due test.
Il primo test. Significaren, quando non è usato atemporalmente per esprimere una regolarità o
una generalizzazione, ma per parlare di un evento particolare, è un verbo fattivo, mentre signifcarenn
anche quando non esprime una regolarità non lo è. Cioè se l'enunciato in cui ricorre significaren è
vero, se significaren non è atemporale, il suo complemento è un fatto; mentre se l'enunciato in cui
ricorra significarenn è vero, se significarenn non è atemporale, il suo complemento non è perciò un
fatto. Se il bambino ha quelle macchie, ha effettivamente il morbillo. Se la campana ha suonato non
è detto che la lezione sia finita (potrebbe aver suonato per errore, o essere uno scherzo, ecc.). Un
altro modo di mostrare questa differenza è la seguente. (1)-(3) possono essere riformulati con "Il
fatto che ...". (1) ad esempio diventa allora "Il fatto che abbia quelle macchie significa che ha il
morbillo". Non possiamo invece riformulare così (4) e (5). "Il fatto che la campana ha suonato
significa che la lezione è finita" non è una riformulazione di (4). È un fatto se non è stato un errore,
se non è uno scherzo, ecc.
Il secondo test. Non possiamo riscrivere (1) così: "Quelle macchie significano (significavano)
'morbillo'." Mentre possiamo riscrivere (4) così "Il suono della campana significa 'la lezione è
finita'."14 Cioè, significaren a differenza di significarenn non accetta come complementi nomi
citazionali. Il secondo test può essere fatto anche così. Da "Quelle macchie significano
(significavano) morbillo" non possiamo passare in nessun modo a "ciò che è (era) significato da
quelle macchie è (era) il morbillo". Mentre da (4) possiamo passare a "ciò che è significato dal suono
della campana". Da (1) non possiamo ricavare che qualcuno ci dice qualcosa con quelle macchie.
Mentre da (4) possiamo ricavare che qualcuno (e precisamente il bidello per conto del preside) dice
che la lezione è finita.
La questione è ora: come possiamo caratterizzare il significatonn? Grice suddivide la questione in
tre sottoquestioni da elucidare in successione, e cioè come caratterizzare: (a) (il parlante) P
significavann qualcosa con x (in un'occasione particolare) e P significavann che così e così con x (in
un'occasione particolare); (b) x significavann qualcosa (in un'occasione particolare) e x significavann
che così e così (in un'occasione particolare); (c) x significavann qualcosa (atemporalmente) e P
significavann qualcosa con x (atemporalmente).
Procediamo per tentativi. Il signor Carraro ha detto, rientrando, "Sono nero". Potremmo
pensare che "Sono nero" significhi che è di pessimo umore, se Carraro dicendolo intendeva indurci
a credere che è di pessimo umore. Ma non basta assumere che intendeva indurci a credere ecc.:
anche essendo scontroso, alzando la voce, ecc., Carraro poteva indurci a credere che è di pessimo
umore, ma non diremmo che alzando la voce ci dice che è di pessimo umore. Proviamo allora ad
aggiungere una seconda condizione: dicendo "Sono nero", Carraro intende farci credere che è di
pessimo umore e farci riconoscere questa intenzione. Ma non basta aggiungere questa seconda
condizione. Vediamo perché.
Supponiamo che porga a Verdi una foto del signor Rossini che mostra un'indebita familiarità
con la signora Verdi. Certo Verdi penserà che intendo fargli credere che il signor Rossini mostra
un'indebita familiarità con la signora Verdi, e che voglio che lui riconosca questa mia intenzione. Di
fronte alla foto queste mie intenzioni sono rilevanti, ma non fondamentali, perché Verdi creda che il
signor Rossini mostra un'indebita familiarità con la signora Verdi.
Se invece gli mostro un disegno con lo stesso soggetto, il riconoscimento da parte di Verdi delle
mie intenzioni è fondamentale per indurlo a credere che il signor Rossini mostra un'indebita
familiarità con la signora Verdi. Se non mi attribuisce quelle intenzioni, non penserà che la signora

14
Seguendo Searle [1958] e Kaplan [1969] potremmo usare delle virgolette speciali che mostrano che ciò di cui si parla non è
l'espressione virgolettata ma il suo significato.
Verdi ha un'indebita familiarità col signor Rossini. Magari considererà il mio disegno un tentativo
artisticheggiante, e malizioso. Lo stesso vale se gli dico "Tua moglie ha un'indebita familiarità col
signor Rossini". Ciò che sembra distinguere l'esibizione intenzionale del disegno, o l'avvertimento
verbale, dall'esibizione sia pure intenzionale della foto, è che nei primi due casi il riconoscimento
dell'intenzione di far credere che la signora Verdi mostri un'indebita familiarità col signor Rossini, e
l'intenzione che questa intenzione sia riconosciuta sono (in parte) effettivamente la ragione per cui il
signor Verdi è portato a credere che la signora Verdi mostri un'indebita familiarità col signor
Rossini.

Riassumendo, le caratteristiche di significarenn in P significavann qualcosa con x (in un'occasione


particolare) e P significavann che così e così con x (in un'occasione particolare) sembrano essere le
seguenti:

(S-I) Dicendo "x" P significa qualcosa se lo dice intendendo:

(i) produrre un particolare effetto e in chi lo ascolta, in A;


(ii) che A riconosca che P intende (i);
(iii) produrre in A l'effetto di cui alla condizione (i) in parte sulla base della condizione (ii).

Vediamo un esempio dello schema (S-I):

(S-I') Dicendo "Sono nero" Carraro significa che è di pessimo umore se lo dice intendendo:

(i) che chi lo ascolta creda che lui, Carraro, è di pessimo umore;
(ii) che chi lo ascolta riconosca l'intenzione (i);
(iii) che questo riconoscimento sia parte della ragione per cui chi lo ascolta crede che è di pessimo
umore.

Diremo l'avere tutte e tre queste intenzioni S-intendere (intendere-significare).


Ricordate le tre sottoquestioni (a)-(c), descritte poco fa, in cui Grice articola la caratterizzazione
del significarenn. Ora, (S-I) spiega (a); mentre (b) e (c) possono essere spiegati sulla base di (a). x
significavann qualcosa sarà approssimativamente equivalente a qualcuno significavann qualcosa con x.
P significann qualcosa con x (atemporalmente) sarà approssimativamente equivalente a cosa P
signifcann di solito con x. Infine, x significann qualcosa (atemporalmente) sarà approssimativamente
equivalente a un'asserzione circa cosa la gente significann, di solito, con x.
Chiameremo questa teoria, teoria del significato basata sulla nozione di intenzione. Vediamone
innanzitutto alcuni raffinamenti.

3.1. Alcuni raffinamenti minori di (S-I). Innanzitutto, bisogna distinguere due tipi di effetti S-
intesi: quelli dei proferimenti indicativi e quelli dei proferimenti imperativi. Dire qualcosa perché chi
ci ascolta creda qualcosa o perché faccia qualcosa. (Grice [1957], 57) O, meglio, dire qualcosa
perché chi ci ascolta pensi che crediamo qualcosa o perché intenda fare qualcosa. (Grice [1968], 230)
In effetti, poi, una volta chiarita la distinzione nella formulazione di (S-I) è possibile esprimere (S-I)
in modo del tutto generale, senza fare specifico riferimento a una forza indicativa piuttosto che a
una imperativa, usando un indicatore di forza 'generico' che in alcuni casi starà per un indicativo e in
altri per un imperativo.

3.2. Per S-intendere bastano tre intenzioni, per così dire, costruite una sull'altra, o ce ne
vogliono di più? Nella costruzione di (S-I) avevamo visto come ogni clausola fosse motivata dalla
necessità di escludere di controesempi. Si possono trovare dei controesempi anche una volta
introdotto il significatonn attraverso (S-I)? Sì, si possono trovare. Li distingueremo in due tipi.
Un primo genere consiste nel presentare la piramide di intenzioni come sovradeterminanti un
significaton. Se qualcosa ha già un certo significaton risultano irrilevanti le intenzioni di conferirgli
quello stesso significato come significatonn. Supponiamo che qualcuno per ottenere una licenza
edilizia (discutibile), entri nell'ufficio comunale apposito, chieda del capufficio, gli presenti il
progetto relativo e sopra ai fogli del progetto metta 10 milioni di lire. Certo, quello che chiameremo
il corruttore intende in questo modo far sì che il capufficio gli rilasci la licenza edilizia, vuole che
questa sua intenzione sia riconosciuta, e vuole che il riconoscimento di questa sua ulteriore
intenzione sia almeno in parte una ragione perché il capufficio gli conceda la licenza edilizia. Non
siamo però disposti ad ammettere che 'dieci milioni di lire' significhi, neanche occasionalmente, 'Mi
rilasci una licenza edilizia'.
La soluzione standard per questo primo genere di controesempi è una modificazione della
clausola (ii) di (S-I), che garantisca che l'intenzione di P è che A riconosca la sua intenzione (i) in
parte in base al proferimento di x, e non in base alle caratteristiche 'intrinseche' di x. Si sostituisca cioà
alla precedente formulazione di (ii), quella seguente:

(ii) che chi lo ascolta riconosca l'intenzione (i) in parte sulla base del proferimento di x. (Grice
[1967] V lezione e [1969] 153.)
Un'altra soluzione sarebbe quella di sostenere che appunto in questi casi ci troviamo di fronte a
un significaton e che perciò stesso non ci troviamo di fronte a un significatonn. Bisogna però
complicare un po' la nozione di significaton: gli esempi originari di Grice, che abbiamo visto, sono
tratti dalla chimica (fuoco-fumo) o dalla medicina (morbillo-macchie). Ora altre forme di
significaton possono dipendere ad esempio da regolarità psicologiche o sociologiche. Accettare una
somma di danaro ad esempio è sociologicamente un comportamento regolarmente collegato
all'accettare di fare ciò per cui viene elargita. Dunque, accettare una somma di denaro significan
accettare di fare ciò per cui viene elargita. Per ricavare da questo che accettare dieci milioni significan
accettare di concedere la (discutibile) licenza edilizia, basta, per così dire, sistemare i parametri
rilevanti di quella regola generale di significaton. In effetti, ci sembra si possono applicare a questo
punto addirittura i due test proposti per distinguere i due tipi di significato. Se uno ha accettato il
denaro, è un fatto che ha accettato di concedere la licenza edilizia. Contemporaneamente, come s'è
già osservato, non saremmo disposti a dire, neanche occasionalmente, che "Dieci milioni di lire
significano 'Mi rilasci una licenza edilizia'."
Un secondo genere di controesempi contiene, oltre alle intenzioni previste, l'intenzione che
l'ultima delle intenzioni previste non sia riconosciuta dall'ascoltatore. Il signor Carraro e il signor
Scrovegni, un uomo famoso per la sua avarizia ma non privo di orgoglio, sono nel salotto del primo.
Carraro vuole liberarsi di Scrovegni. Getta allora platealmente un biglietto da 100 mila lire fuori
della finestra. Vuole che Scrovegni pensi questo: "Carraro vuole che me ne vada, e pensa che
rincorrerò il biglietto da 100 mila. Ma io non voglio umiliarmi inseguendo la banconota. Me ne
andrò, ma me ne andrò perché vuole che me ne vada. Non m'interessa stare dove non sono
desiderato." Ora questo caso soddisfa abbastanza bene le clausole, riviste, di (S-I), e implica dunque
che il signor Carraro abbia le intenzioni richieste dalle clausole (i), (ii) e (iii). Ciononostante non
diremmo che gettando la banconota il signor Carraro signifcann alcunché. In particolare Carraro non
vuole che Scrovegni riconosca che lui ha la (iii) intenzione, cioè che Scrovegni se ne vada perché lui
intende che se ne vada. Questa osservazione suggerisce immediatamente un rimedio: aggiungere
una condizione (iv) a (S-I) che richieda che il parlante intenda che la sua intenzione (iii) venga
riconosciuta dall'ascoltatore. Riflettendo però su come questo controesempio è stato costruito ci si
accorgerà che qualunque sia il numero delle clausole previste da (S-I) sarà sempre possibile costruire
dei controesempi analoghi, casi cioè in cui l'ultima delle intenzioni previste si voglia che non sia
riconosciuta dall'ascoltatore. Effettivamente più lunga è la lista delle clausole, più complesso
apparirà il controesempio, ma questo non cambia la sua natura di controesempio.
Contro questo secondo genere di controesempi esistono tre soluzioni.
(a) ammettere un numero infinito di clausole in (S-I), aggiungendo una clausola (iv) che dica "e
così via". (Cfr. Schiffer [1972], 74-76.)
(b) come (a), ma, siccome è di fatto impossibile intrattenere un numero infinito di intenzioni
come richiesto da (a), seguire la prassi di considerare un comportamento che si avvicini a
soddisfare quell'ideale, un comportamento effettivamente ideale o ottimo. (Grice [1982] 238 e
sgg. e [1986] 82 e 85-86.)
(c) siccome tutte le intenzioni di P che servono a costruire controesempi del secondo genere sono
intenzioni che vogliono nascondere qualcosa o ingannare in qualche modo A, aggiungere una
clausola che neghi l'esistenza di simili intenzioni devianti in P. Aggiungere insomma una clausola
come la seguente:

(iv) Nel dire x, P non voleva in alcun modo ingannare A o nascondergli alcunché rispetto a (i)-
(iii).

(Cfr. Grice [1969] 175-6; Bennett [1976] 126-7; Kemmerling [1986] 147. La formulazione qui
adottata è tratta da Kemmerling.)15

3.3. L'articolazione complessiva della teoria del significato basata sulla nozione di intenzione.
Fin qui abbiamo visto soltanto il nucleo di questa teoria del significato, l'analisi di P significann
qualcosa con x (in un'occasione particolare) e P significann che così e così con x (in un'occasione
particolare) -- abbiamo cioè visto il significato occasionale del parlante. Adesso, sulla base di questo
nucleo si tratta di spiegare almeno altre tre nozioni di significato(nn), che corrispondono, rispetto alle
tre sottoquestioni (a)-(c) elencate in precedenza, esattamente al secondo congiunto di (a), a (b) e a
(c).

(1) P significa con (il proferimento tipo) x '...' [Specificazione del significato occasionale di un
proferimento tipo.]
(2) (il proferimento tipo) x significa qui '...' [Specificazione del significato atemporale applicato di un
proferimento tipo, che può essere sia completo che incompleto.]

15
Le tre soluzioni qui proposte sono versioni per lo più semplificate rispetto a quelle originali. Non sono neppure le uniche
soluzioni proposte. Per esempio, Grice [1967] V lezione nega che si richiedano ulteriori intenzioni oltre un certo livello, a
arriva a un insieme di sette clausole. Martinich [1984] 133 e sgg. persegue una strategia assai diversa, che consiste nello
smontare i controesempi, nel mostrare che non sono realmente tali.
(3) (il proferimento tipo) x significa '...' [Specificazione del significato atemporale di un proferimento
tipo, che può essere sia completo che incompleto.] (Grice [1969] 149)

Vedremo adesso in breve -- per mostrare che questa teoria del significato ha una ricchezza di
possibilità (almeno) pari a quella di altre teorie -- come a partire da (S-I) modificato si può ricavare
(3), per proferimenti tipo semplici, cioè non strutturati (e dunque completi). Per riuscire a fare
questo passaggio è opportuno introdurre l'idea, intuitivamente comprensibile, di avere una
procedura nel proprio repertorio. Allora il significato atemporale di un proferimento tipo
nell'idioletto di un parlante potrà essere definito così:

(SAi1) Per P il proferimento tipo x significa '*P' =def. P ha nel proprio repertorio la procedura
seguente: proferire una replica di x se vuole che A * che P.

Qui '*' è un indicatore di forza 'generico' che in alcuni casi starà per un imperativo e in altri per
un indicativo. La definizione (SAi1) del significato atemporale di un proferimento tipo per un
idioletto di un solo individuo può facilmente essere estesa a un gruppo di persone, sostituendo un
riferimento al gruppo di persone a quello a P.

(SAL) Nella lingua L il proferimento tipo x significa '*P ' =def. per qualunque parlante y di L
proferire x è una procedura cui ricorrere quando intende che qualche altro parlante z di L riconosca
(e z riconosca che y intende che z riconosca) ciò che y significa '*P'.

Sulla base di ((SAL) è possibile definire qual è il significato atemporale di proferimenti tipo
strutturati, introducendo la nozione di procedura risultante per un proferimento x, come procedura
che risulta dalle procedure per particolari proferimenti tipo di elementi di x e da procedure che
caratterizzano l'ordine degli elementi nella sequenza per i diversi particolari tipi di proferimenti (la
sintassi). (Cfr. Grice [1967] VII lezione e [1968].)

3.4. Logica e conversazione. A un certo punto Grice introdusse una distinzione, in ciò che viene
significato, tra ciò che viene detto e ciò che viene implicato:

una distinzione fra ciò che il parlante ha detto (in un certo senso preferito, e forse in una
certa misura artificiale, di 'detto'), e ciò che ha 'implicato' (per es., implicato, indicato,
suggerito, ecc.), tenendo conto del fatto che ciò che ha implicato può essere implicato
convenzionalmente (implicato in virtù del significato di qualcuna delle parole o delle
espressioni che ha usato) o implicato non-convenzionalmente (nel qual caso la specificazione
dell'implicatura cade al di fuori della specificazione del significato convenzionale delle
parole usate). (Grice [1968] 225, ma la trattazione più estesa si trova in Grice [1967] lezione
II, pubblicata come Grice [1975]; altri testi rilevanti sono Grice [1979] e [1981].)

Proviamo a chiarire i due termini dire e implicare. Con 'dire' s'intende ciò che uno letteralmente
dice, in base alle parole che usa. Ciò che viene detto serve a determinare anche ciò che viene
implicato. Se dico "Lei è un universitario; quindi è coraggioso", implico che il suo essere coraggioso
sia una conseguenza del suo essere un universitario, ma non ho detto nel senso qui inteso che ne è
una conseguenza. Questa è un'implicazione convenzionale, di 'quindi', come è convenzionale ad
esempio l' implicatura di affettuosità nell'uso di 'mamma'. Oltre alle implicazioni convenzionali ce
ne sono altre connesse con un principio proprio dell'interazione discorsiva o conversazionale, il
principio di cooperazione. Queste implicazioni sono chiamate implicature conversazionali.
Il principio di cooperazione recita così: "il vostro contributo alla conversazione sia tale quale è
richiesto, allo stadio in cui avviene, dallo scopo o dall'orientamento accettato dello scambio
linguistico in cui siete impegnati." (Grice [1975] 204) Allegate al principio ci sono una serie di
massime, seguendo le quali, si ottengono risultati conformi ad esso. Le massime raccolte,
kantianamente, sotto i nomi di quantità, qualità, relazione e modo, sono le seguenti:

Quantità: Date un contributo conversazionale di misura opportuna (cioè (i) non minore e (ii) non
maggiore) in base a quanto è richiesto.

Qualità: Date un contributo appropriato. Cioè date un contributo che vi ritenete in diritto o in
dovere di dare, e date solo un contributo che vi ritenete di poter provare di avere il diritto o il
dovere di dare.16

Relazione: Siate pertinenti.

Modo: Siate perspicui, cioè: (i) evitate oscurità d'espressione; (ii) evitate ambiguità; (iii) siate brevi;
(iv) siate ordinati nell'esposizione.

Apparentemente, le violazioni di queste massime sono moltissime. Le violazioni apparenti


generano implicature conversazionali. A mezzogiorno A chiede a B di uscire insieme a cena, e B
risponde che ieri sera ha mangiato troppo. La risposta, a prima vista, sembra irrilevante: avere
mangiato troppo ieri sera non è una ragione per non andare a cena fuori oggi. Forse B non rispetta

16
Le massime sono state date originariamente per contributi conversazionali informativi, ed erano state formulate pressapoco così:
(Quantità) Dare un contributo conversazionale di misura opportuna (cioè (i) non meno (ii) né più informativo) di quanto è
richiesto.
(Qualità) Dare un contributo che sia vero. Cioè non dite ciò che credete essere falso e non dite ciò per cui non avete prove
adeguate.
la massima della pertinenza. Supponiamo che B rispetti, però, il principio di cooperazione: date le
circostanze, la risposta di B può semplicemente sembrare non rispettare la massima della pertinenza
se e soltanto se B non ha voglia di uscire a cena oggi; B sa che A è in grado di fare questo passaggio;
dunque, B implica (conversazionalmente) che non ha voglia di uscire a cena oggi.
Un'implicatura conversazionale viene colta, di solito, intuitivamente, ma una condizione
essenziale perché l'implicatura sia conversazionale è che l'intuizione possa essere sostituita da un
ragionamento analogo a quello che abbiamo esemplificato poco fa. Se non è sostituibile, allora o
non c'è alcuna implicatura o ce n'è una convenzionale.
Oltre alla condizione essenziale appena indicata, ci sono due test per controllare se ci troviamo di
fronte a un'implicatura conversazionale. Un'implicatura del genere è esplicitamente cancellabile. B,
nell'esempio che abbiamo visto prima, potrebbe aggiungere "Ma verrò lo stesso volentieri a cena con
te." (Allora il suo "Ieri sera ho mangiato troppo" sarà interpretato in riferimento al suo stato di
salute, al suo essere in dieta, o al suo non voler fare un'altra cena luculliana stasera, ecc.)
Inoltre, un'implicatura conversazionale non è separabile. Non è possibile cioè trovare un altro
modo di dire esattamente quanto è stato detto (a meno che non si venga così a violare la massima
del modo) che non consenta di trarre l'implicatura.
Le implicature conversazionali possono essere particolari, ricavabili cioè da quanto è stato detto in
base ad alcune peculiarità del contesto in cui è stato detto, come l'implicatura di non voler andare a
cena con A ricavata da "Ieri sera ho mangiato troppo" detto da B nel caso che abbiamo appena
immaginato. In casi leggermente diversi non trarremo quella implicatura dal fatto che è stato detto
"Ieri sera ho mangiato troppo".
Oppure le implicature possono essere generalizzate, tali cioè da poter essere tratte, in circostanze
normali, da ogni uso di una certa forma. Esempi caratteristici di forme che comportano implicature
conversazionali generalizzate sono, secondo Grice, le controparti nei linguaggi naturali delle costanti
logiche. Vediamo tre esempi, 'o', 'se ..., ___' e 'il ϕ' (controparti rispettivamente di 'v', '...-->___' ' ιx
(ϕ(x))), il terzo dei quali sembra richiedere un'aggiunta alla massima conversazionale del modo. Il
significato di "A o B" è vero-funzionale quando "A o B" è vero se e solo se è vero A o è vero B.
Chiunque dica "A o B", usando 'o' con il suo significato vero-funzionale, in circostanze normali
implica (conversazionalmente) di avere elementi non vero-funzionali per sostenere che A v B.
Infatti, dire semplicemente "A" o semplicemente "B" sarebbe, in circostanze normali, più
informativo che dire "A o B." Dunque, possiamo ragionare nel modo seguente: dire "A o B"
anziché semplicemente "A" o semplicemente "B" sarebbe una violazione della massima della
quantità -- dare quanta informazione è richiesta. Ma uno potrebbe dire "A o B" se avesse elementi
non vero-funzionali per dirlo, se cioè non avesse elementi per dire semplicemente "A" o
semplicemente "B". Potrebbe, insomma, dire "A o B" per non violare la massima della qualità -- per
non dire quanto non è in grado di provare. Una cosa che facciamo spesso, ad esempio quando
diciamo "Arriva col treno delle 7 o con quello delle 8." Analogamente, chiunque dica "Se A, B",
usando 'se ..., ___' con il suo significato vero-funzionale, in circostanze normali, implica
(conversazionalmente) di avere elementi non vero-funzionali per sostenere che A --> B. Infatti, dire
"Se A, B" è, in circostanze normali meno informativo che dire semplicemente "Non A" o
semplicemente "B" -- a parte alcuni contesti teorici normalmente non siamo interessati a sapere che
si dà una relazione tra due enunciati senza essere anche interessati a sapere se questi enunciati sono
veri o falsi. Se qualcuno dice "Se esco passo da Laura" si sente per lo più immediatamente chiedere
"Allora esci?" Dunque, anche in questo caso possiamo supporre che ci sia un conflitto tra la
massima della quantità e quella della qualità e che chi dice "Se A, B", piuttosto che semplicemente
"Non A" o "B", oppure "A e B" o "Non A e B" o "Non A e non B", lo dica per rispettare la
massima della qualità, per non dire ciò che non è in grado di provare, e dunque che ha elementi non
vero-funzionali per sostenere che se A, B.17

Il caso delle descrizioni definite è leggermente diverso. Supponiamo che un enunciato


contenente una descrizione definita, ad esempio Il re d'Italia è calvo sia equivalente alle seguente
espansione russelliana: C'è almeno un re d'Italia, non c'è che un re d'Italia, e niente che sia re d' Italia è non
calvo. Ora, se non si potesse dare per scontato che c'è un individuo che è il re d'Italia (o che ce n'è
uno solo) sarebbe più conveniente usare l'espansione russelliana equivalente, che asserisce
esplicitamente che c'è un re d'Italia (e che ce n'è uno solo) anzichè darlo per scontato. Ora non è
chiaro che questa implicatura generalizzata possa essere tratta sulla base delle massime sopra
indicate, e sembra dunque opportuno introdurre una nuova clausola alla massima del modo: "Dite
quello che dite nella forma più adatta (per ottenere una replica appropriata)." (Grice [1981] 189)
Alternativamente, si dovrebbe argomentare mostrando che la clausola della massima del modo che
prescrive di evitare oscurità di espressione e quella che prescrive di essere brevi sono sufficienti.18

17
Tutto questo può suggerire che un condizionale, per un'implicatura generalizzata, vada interpretato consequenzialmente.
Introducendo un altro principio, detto "di puntamento", secondo il quale è preferibile usare un'espressione complessa A( ) ad
una B( ) quando sostituendo a in A( ) un'espressione positiva C (cioè un'espressione C che non contenga negazioni, in
nessuna forma) si ottiene un'espressione equivalente a quella che si ottiene sostituendo a in B( ) l'espressione negativa ¬C, si
ottengono due espressioni equivalenti, allora è preferibile usare l'espressione A(C) quando si punta all'affermazione attuale o
possibile dell'espressione C piuttosto che alla sua negazione. In particolare, allora, usando un condizionale, p.es. Se A, B, per
un'implicatura conversazionale generalizzata saremo portati a interpretarlo consequenzialmente, proprio per contrasto con
l'espressione equivalente vero-funzionalmente O non A o B. (Grice [1967] lezione IV)
18
Per l'analisi delle costanti logiche e delle loro controparti nei linguaggi naturali si vedano Grice [1967] lezioni II, III e IV; [1975];
[1979]; [1981]. Per la teoria russelliana delle descrizioni definite -- un paradigma filosofico, secondo F. P. Ramsey -- si veda
Russell [1905].
3.5. Peculiarità della teoria del significato basata sul concetto di intenzione. Alcune delle
caratteristiche della teoria del significato basata sul concetto d'intenzione non sono sue
caratteristiche esclusive. Per esempio, la possibilità di rendere composizionalmente il significato di
espressioni complesse, cioè di renderlo come una funzione del significato delle espressioni
componenti è una caratteristica (discutibile) di quasi tutte le teorie semantiche presentate in questo
libro. Altre sue caratteristiche sono diventate ormai parte di una teoria istituzionale del significato
che potrebbe essere ricostruita dal complesso di studi presentati in questo libro. Altre caratteristiche
ancora, invece, sono esclusive di questa teoria, per il momento.
Prima di mettere ben in evidenza queste ultime, o alcune di esse, vorremmo mostrare la
completezza e qualche peculiarità di questa teoria confrontandola con quella abbozzata da Frege
(vedi capitolo 1). Innanzitutto, l'architettura delle due teorie. Frege distingue, come s'è detto, tre
livelli nella teoria del significato, tono o colore, senso e forza. La teoria del significato basata sul
concetto d'intenzione fa una distinzione preliminare, fra ciò che viene detto e ciò che viene
implicato, e distingue ciò che viene implicato in implicature convenzionali e implicature
conversazionali (generalizzate o particolari). Nella teoria griceana il senso«FN1 O se questa
espressione non va bene, il contenuto.
» e la forza vengono ricondotti innanzitutto al significato di quanto è stato detto. Il colore e il
tono, invece, appaiono implicature convenzionali di quanto viene detto. Un'espressione comunque
può localmente o in generale assumere un altro senso o un'altra forza, per delle implicature
conversazionali (particolari o generalizzate). Ad esempio, gli atti linguistici indiretti -- cioè quei
proferimenti enunciati che hanno un'altra forza oltre a quella letterale -- sono implicature
conversazionali (in alcuni casi come le richieste di chiudere la finestra fatte dicendo "Puoi chiudere la
finestra?", implicature generalizzate).
In secondo luogo, i fondamenti delle due teorie. Frege concepisce il senso come oggettivo ed
insiste moltissimo nel distinguerlo dalle rappresentazioni soggettive. La semantica, come la logica,
per Frege non ha niente a che fare con la psicologia. La teoria del significato basata sul concetto
d'intenzione invece è una riduzione della semantica alla psicologia, anzi, è fondata su una teoria (di
psicologia filosofica) della razionalità. (Grice [1982])

Una bella discussione tecnica, come regole implicative, delle massime griceane si trova in Walker [1975]. Le massime griceane
possono essere sostituite, con risultati assai migliori, dalle regole e dai principî della conversazione proposte da Sacks, Schegloff
e Jefferson (cfr. p. es. Sacks, Schegloff e Jefferson [1974] e Schegloff, Sacks e Jefferson [1977]). Cfr. la nota 12.
Infine, altre differenze. Uno dei principî introdotti da Frege nei Fondamenti dell'aritmetica è quello
di contestualità -- "è soltanto nel contesto di una proposizione [un enunciato] che le parole hanno
un significato".19
Ora, chiaramente questo principio non vale nella teoria del significato basata sul concetto
d'intenzione, in cui il significato di ogni espressione semplice (o non strutturata) è introdotto per
conto suo, in un contesto appropriato (anche per questo si veda il punto successivo, il § 3.6). Sotto
questo aspetto, la teoria del significato basata sul concetto d'intenzione non è affatto una teoria
olistica del significato (il cui esempio paradigmatico è la teoria di Davidson, vedi, e, in misura
minore, quella di Quine, vedi). Non si tratta affatto di interpretare, tutta in una volta, un'intera
lingua o un intero frammento di una lingua (il principio di contestualità è un principio olistico,
perché dice che la minima unità interpretabile è già un complesso, precisamente una proposizione
(un enunciato)).
La distinzione fra ciò che viene detto e ciò che viene implicato è ormai una parte istituzionale,
per così dire, delle teorie analitiche del significato. La distinzione, soprattutto per le implicature
conversazionali, sembra assai precisa (non lo è nella misura in cui possiamo discutere il contenuto
del principio di cooperazione o delle sue massime): da un lato abbiamo ciò che viene detto, dall'altro
abbiamo ciò che possiamo ricavare da ciò che viene detto aggiungendo le massime della
conversazione come assiomi propri.
Questa distinzione è stata costruita originariamente sull'assunto che chi conversa sia razionale --
si ricordi che la possibilità di ricostruire l'implicatura (conversazionale) come un ragionamento è
infatti una condizione essenziale per affermare che c'è un'implicatura del genere. È, cioè, stata
costruita sullo sfondo dello stesso assunto che sta alla base del nucleo della teoria del significato
basata sul concetto d'intenzione, il significato occasionale del parlante. L'idea del significato
occasionale del parlante è un altro elemento di questa teoria del significato che è divenuta parte quasi
istituzionale di una teoria analitica del significato.20 Il tratto dell'occasionalità, e la possibilità che ha
il parlante di sfruttare le caratteristiche in qualche modo salienti delle circostanze in cui parla per
introdurre un significato (o modificarlo) sono aspetti peculiari della teoria del significato basata sul
concetto d'intenzione e offrono la possibilità di considerare questa teoria del significato
complementare alle altre teorie discusse in questo libro, perché è una teoria che tratta la
presemantica o la metasemantica -- ciò che tratta dell'origine e del mutamento del significato -- oltre
alla semantica. Oppure, considerare questa teoria complementare perché tratta della presemantica e

19
Non è chiaro se Frege abbia o meno abbandonato successivamente questo principio.
20
Si veda, p. es., Kripke [1977].
della semantica, e consente così di concepire una teoria dinamica, cioè non semplicemente una teoria
del significato che una lingua ha in un momento particolare. Quest'assunzione -- che una lingua sia
qualcosa di perfettamente stabile -- è evidentemente un'idealizzazione molto ragionevole nello studio
delle lingue naturali. Ma è un'assunzione che una teoria completa deve scaricare, spiegando il
mutamento di significato.

Trattando dell'origine del significato si affronta, inoltre, il problema della sua genesi, cosa che
davvero poche teorie oggi si provano a fare. L'origine del significato, per Grice, è nelle nozioni
psicologiche, innanzitutto l'avere un'intenzione, ma anche il credere e il volere. L' aspetto
intenzionale ha, secondo lo stesso Grice, [1989] 136, due problemi: primo, comporta forse, come
abbiamo visto prima cercando di caratterizzare il significato occasionale del parlante, un regresso
all'infinito -- un'ineliminabile infondatezza. Secondo, l'intenzionalità è eliminabile, se lo è, solo
attraverso una teoria psicologica, non attraverso una teoria linguistica o una dottrina filosofica. 21
Prima avevamo proposto l'uso di valutazioni per eliminare il regresso all'infinito nel significato
occasionale del parlante. Dei principî valutativi possono offrire, secondo Grice, un fondamento al
nostro avere una capacità simile di significare. Immaginiamo di dover costruire una creatura
complessa, anzi una serie di creature via via più complesse. Ciascun tipo è caratterizzato dall'avere
certi scopi, il problema sta nel precisare che abilità deve avere per poterli realizzare. Supponiamo di
aver costruito creature tali che, fra l'altro: (i) se desiderano P e credono che se P allora q, allora
desiderano q; (ii) se desiderano P e desiderano q, allora se agiranno, agiranno spinti dal più forte dei
due desideri; (iii) che siano in grado di modificare i propri principî valutativi. Se più creature del
genere vivono nello stesso ambiente, sarà importante per la loro sopravvivenza, oltre che per la loro
felicità (perché cioè possano soddisfare i propri desideri) che possano s-intendere, ovvero significare,
ovvero usare una lingua dotata di significato. Se dobbiamo dotarli di un capacità del genere per
ottimizzarli, è, secondo Grice, razionale che esseri del genere posseggano un'abilità del genere. Ora,
noi siamo creature del genere. Questa fondazione del significato lo costituisce a partire da
un'attribuzione, valutativa, di razionalità.

21
La teoria del significato di Grice è stata sviluppata soprattutto da Schiffer [1972] e da Bennett [1976]. Schiffer [1988] invece ne
ha offerto una critica radicale.
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