Lo studio linguistico della neologia può essere declinato, di fatto, secondo due prospettive generali,
ponendo cioè l’accento sul “tema del logos” o sul “tema del neos”.
Nel primo caso si tratterà di soffermarsi sui vari modi della formazione neologica, ad esempio,
sistematizzando i vari processi derivativi e compositivi o analizzando i processi di integrazione di
materiale alloglotto nella lingua ricevente attraverso il fenomeno dell’interferenza. Nel secondo
caso si tratterà invece di enucleare le questioni relative alla caratteristica peculiare delle
neoconiazioni, cioè la novità.
I. Cos’è la neologia?
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esistono dei limiti: l’espressività si mantiene all’interno di determinate regole del sistema
linguistico, al di fuori delle quali la comunicazione viene minata.
In linea generale, si può dire che la neologia consista nella creazione di unità lessicali nuove sia
attraverso la produzione basata sulle regole di formazione delle parole proprie di una lingua, sia
mediante l’attribuzione di un nuovo significato a partire da uno stesso significante. La neologia è
dunque un fenomeno da collocarsi nel processo di “cambiamento linguistico”.
L’aspetto più macroscopico e percepibile del cambiamento linguistico è proprio la comparsa di
unità lessicali nuove in riferimento a oggetti o concetti nuovi, sebbene il lessico nel suo insieme
risponda alla doppia legge della continuità e dell’evoluzione. La porzione fondamentale del lessico
deve essere trasmessa da una generazione all’altra per assicurare, ad una stessa comunità
linguistica, la possibilità di comunicare: ne derivano la permanenza del lessico essenziale e una
certa resistenza sociale al rinnovamento. D’altra parte, il lessico non può non essere attraversato da
correnti innovative in forza del suo legame con il mondo del significato, cioè con il mondo degli
uomini che se ne servono e che è in continuo divenire. Dunque, nel lessico operano
contemporaneamente conservazione e innovazione e questo equilibrio instabile si traduce in un
rinnovamento continuo e parziale dello stock lessicale, nella configurazione di nuove parole e nuovi
significati e nella sparizione di parole e sensi obsoleti.
Il neologismo dovrà essere necessariamente una parola semplice o complessa (cioè rispettivamente
una parola-morfema oppure un gruppo sintagmatico o un sintagma lessicalizzato). Dunque non
andranno annoverati tra i neologismi né i nuovi fonemi che possono comparire in una lingua per
evoluzione o prestito, né i morfemi legati, a meno che non siano lessicalizzati e quindi autonomi, né
frasi o proposizioni.
Il neologismo è motivato, nella maggior parte dei casi, dall’esigenza di denominare un nuovo
oggetto o concetto; a volte esso può nascere in ambito artistico-letterario, come gioco linguistico o
con intenti ironici o polemici. Inoltre, anche i termini nati in ambito specialistico o regionale e le
voci prelevate o adattate da lingue straniere possono confluire nel lessico comune, arricchendolo e
innovandolo costantemente. Molto rara è, invece, l’eventualità che una parola sia formata ex nihilo,
senza cioè derivarla o comporla a partire da elementi lessicali preesistenti. Un neologismo, infatti,
può essere considerato creazione ex nihilo solo quando ne sia documentato il processo creativo, in
modo da rendere esplicita la motivazione che ha guidato il coniatore.
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III. Logos: la formazione delle parole in italiano
3.1. La derivazione
Il meccanismo più usato in italiano per formare parole nuove è la derivazione che può realizzarsi in
vari modi: con l’assegnazione di una categoria grammaticale diversa a una parola senza modificarne
la forma (sapere → il sapere) e si parla allora di conversione; con l’aggiunta di un suffisso a destra
della base o, meglio, del suo tema (libr-o → libr-aio), si parla allora di suffissazione e di suffissati
(lo sono anche gli alterati); con l’aggiunta di un elemento, detto prefisso, a sinistra della base
(avventura → dis-avventura) e si parla allora di prefissazione e di prefissati.
Prefissi e suffissi nel loro insieme vengono chiamati affissi e per affissazione s’intende l’insieme
dei procedimenti di prefissazione e di suffissazione.
La derivazione è un tipico caso di meccanismo di FP – insieme alla composizione – che non solo
consente di ampliare il lessico, ma anche di far funzionare il sistema linguistico in modo
economico: la comprensione e l’uso di parole derivate o composte da parole già note sono, infatti,
procedimenti relativamente facili e naturali per i parlanti, perché il significato di derivati e composti
è generalmente trasparente dal punto di vista formale.
Sono meccanismi di derivazione: la conversione, la suffissazione, l’alterazione, la prefissazione, la
parasintesi e la formazione di deonomastici.
3.1.1. La conversione
Il meccanismo di derivazione più diffuso nelle lingue isolanti (quelle cioè che non usano morfemi
flessivi) è la conversione, relativamente poco usata in italiano o, almeno, con alcune restrizioni: un
nome per diventare verbo deve necessariamente prendere la terminazione in -(a)re dell’infinito,
viceversa qualunque verbo italiano può assumere valore nominale (nel cosiddetto infinito
sostantivato), ma si può parlare veramente di conversione in nome solo quando l’infinito è
pluralizzabile e ha reggenza nominale. Nella conversione dei verbi si possono far rientrare le
nominalizzazioni dei participi presenti che assumono spesso anche valore aggettivale (i cantanti) e
dei participi passati maschili (l’abitato) e femminili (stretta di mano). Queste forme possono essere
considerate come derivati formati con veri e propri suffissi e coincidenti superficialmente con quelli
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dei participi, anche se tale proposta non appare del tutto convincente: è vero che, recentemente, nel
linguaggio giornalistico si sono diffusi aggettivi come palestrato e orecchinato, che sembrano
prescindere dalle rispettive forme verbali, ma in questi casi si tratta di derivati da nomi con il
suffisso -ato.
Rare sono le nominalizzazioni di gerundi (il crescendo) e anche la lessicalizzazione di forme finite
o locuzioni che le comprendono (credo, distinguo). In italiano il caso più frequente è il passaggio di
aggettivi a nomi (vuoto → il vuoto), seguito da quello di nomi ad aggettivi.
Alcuni studiosi danno alla conversione il nome di “transcategorizzazione”, termine che indica un
processo che permette a un’unità lessicale di mantenere le proprie caratteristiche morfologiche
assumendo però una diversa funzione sintattica senza l’aggiunta di elementi modificatori, processo
che investe, come abbiamo visto, la nominalizzazione degli infiniti verbali (il sapere, l’essere), il
passaggio da aggettivo a nome (fisso, mobile, intermittente) e da nome a aggettivo (affari,
politichese). Nel secondo caso, va inscritta anche una serie particolare costituita da forme femminili
di aggettivi terminanti in -istico impiegati per nomi collettivi o di settori e discipline di studio
(sloganistica) che possono considerarsi anche come il risultato di un processo di ellissi del
sostantivo (campagna) che l’aggettivo serviva a determinare e di cui ha successivamente ereditato
la funzione sintattica.
3.1.2. La suffissazione
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Così, da una base nominale si può ottenere un derivato nominale denominale, aggettivale
denominale, verbale denominale (da orchestra rispettivamente orchestrina, orchestrale,
orchestrare); da una base aggettivale può derivare un suffissato nominale deaggettivale, aggettivale
deaggettivale, verbale deaggettivale (da biondo → biondezza, biondastro, biondeggiare); da un
verbo si può ottenere un derivato nominale deverbale, aggettivale deverbale, verbale deverbale
(lavorare → lavorazione, lavorativo, lavoricchiare).
Gli avverbi costituiscono una categoria piuttosto atipica e in questo caso la suffissazione può
presentare carenze o irregolarità (ad esempio, da indietro si ha il verbo indietreggiare, ma alcuni
avverbi sono essi stessi derivati da nomi o da aggettivi: ginocchioni da ginocchio, semplicemente da
semplice).
Qualche esempio per ciascuna categoria:
- suffissi nominali denominali: nonnaggine, paginata, poltronificio, eventite, bignamizzazione;
- suffissi nominali deaggettivali: strepitosaggine, clericalese, bipartisanismo, litigiosite;
- suffissi nominali deverbali: varieganza, sciupista, facilitatore;
- suffissi aggettivali denominali: dolcevitaiolo, spintaneo, telefoninesco, budinoso, palluto;
- suffissi aggettivali deaggettivali: miserabilista, buonistico;
- suffissi aggettivali deverbali: podcastizzabile, immersivo, conteggiatorio;
- suffissi verbali denominali e deaggettivali: botulinato, mostrificare, infantilizzare;
- suffissi verbali deverbali: assistenziato (la cui base verbale, tuttavia, non è ancora registrata nei
dizionari), termizzato.
I suffissi italiani sono moltissimi ed esprimono varie categorie di parole: nomi d’agente, nomi
d’azione, di luogo, di strumento, di qualità; nomi e aggettivi etnici, nomi collettivi, verbi che
esprimono un risultato, aggettivi di relazione, avverbi. Per ognuna di queste categorie la lingua
dispone di uno o più suffissi. Per i nomi d’agente i suffissi più frequenti con base verbale sono: -
tore, -trice, -ante, -ente, -one, -ona (cornificatore, positrice, attapirante); con base nominale: -ista,
-aio/a, -aiolo/a, riservati spesso ormai a professioni “pretecnologiche” (tessutaio, quizzaiolo), -
aro/a (variante regionale romana di -aio/a), -iere/a (cabarettaro, puliziere) Per i nomi d’azione: -
zione, -mento, -aggio, -tura (svirilizzazione, digrezzamento, vallettaggio, parcometratura); per i
nomi di qualità: -ezza, -i(e)tà (orrorezza, ringhiosità); per i nomi di luogo -eria (cioccolateria;
molto produttivo anche -ismo relativo a tendenze e movimenti: amatismo, fallacismo, ulivismo).
Per gli aggettivi: -bile, da basi verbali (pedaggiabile), e -ale, -are, -ile, -ico/a, con basi nominali
(finzionale, limbare, divorzile, argotico).
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Tra i vari procedimenti di suffissazione, un caso particolare è costituito dai nomi tratti da verbi
senza l’aggiunta di un suffisso (spacco da spaccare) e dai verbi tratti da nomi con la sola aggiunta
della desinenza -are (drogare da droga). In questi casi si parla in genere di “suffissazione zero”,
postulando l’esistenza di un suffisso che non appare alla superficie del derivato; altri studiosi invece
considerano il fenomeno all’interno della conversione. Si possono considerare parole formate con
suffisso zero, anche alcuni femminili in -a (stipula), che altri interpretano invece, più
verosimilmente, come esempi di sottrazione di suffisso, in quanto riduzione di suffissati in -zione
attestati anteriormente. Generalmente, le forme derivate a suffisso zero si ricavano da verbi della
prima coniugazione eliminando la desinenza dell’infinito e aggiungendo direttamente alla radice la
desinenza -o per il maschile e -a per il femminile (rimborsare → rimborso, notificare → notifica).
Il meccanismo della suffissazione zero è stato variamente giudicato relativamente alla produttività: i
nominali a suffisso zero, tipici soprattutto di certi registri e sottocodici particolari, come quello
burocratico (dove sono adottati per la loro tendenza alla brevità e per evitare la scelta, in caso di
incertezza, tra -mento e -zione), non sembrano in crescita, mentre i verbi, che sono propri anche del
lessico comune, nonostante la concorrenza del suffisso -izzare, risultano in espansione (si pensi a
neologismi televisivi come provinare, microfonare o messaggiare).
3.1.3. L’alterazione
Tra i suffissi rientrano anche gli alterati, poiché l’alterazione costituisce per vari aspetti un caso
particolare di suffissazione. In questo processo la funzione sintattica della base lessicale e quella
della forma derivata restano invariate, mentre si determina una «differenziazione della sostanza
linguistica» ottenuta attraverso il processo di suffissazione. Anche per questo motivo, alcuni
studiosi parlano di “suffissi modificativi” o di “suffissi valutativi”.
Non tutti i lessemi formati con un suffisso alterativo sono tuttavia dei veri e propri alterati. Si danno
anche forme che, nel tempo, hanno sviluppato un significato proprio, indipendente da quello della
parola di base, tanto da essere registrate nei vocabolari come lemmi autonomi, di cui sono esempi
cavalletto e cavallone. In questi casi si può risalire ad un legame semantico originario, ma vi sono
parole che solo casualmente terminano con un elemento che potrebbe sembrare un suffisso
alterativo, pur non essendo degli alterati, come bottone e burrone.
Il gruppo più consistente di alterati è quello dei diminutivi-vezzeggiativi, soprattutto per la
frequenza d’uso e per il numero dei suffissi utilizzati (-ino, -etto, -ello, -uccio, -otto, -ucolo, -ola:
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indulticchio, satrapetto, yuppettino). L’altro gruppo è costituito dagli accrescitivi-peggiorativi e
dagli accrescitivi-spregiativi (-one, -astro, -accio: parcheggione, trappolone).
3.1.4. La prefissazione
Nella prefissazione un elemento lessicale, detto prefisso, viene aggiunto all’inizio di una parola già
esistente, producendo una forma derivata che assume il nome di prefissato. Diversamente dai
suffissi che non sono mai autonomi, un prefisso può essere usato anche autonomamente, soprattutto
in funzione di preposizione, avverbio, aggettivo o nome (super, ex, pro, contro). In genere i prefissi
determinano un cambiamento di significato rispetto alla base (allenato → disallenato), mentre non
possono determinare un mutamento di categoria della base. Tuttavia, sono stati registrati
comportamenti anomali, soprattutto nelle forme derivate con i prefissi anti- e contro- che, premessi
a sostantivi, possono dar luogo a lessemi con funzione aggettivale (anti-artrite, anti-ronde, anti-
velo): si tratta di una tendenza in aumento e che riguarda anche altri prefissi (inter-, no-, post-, pre-,
pro-, come in intercomunitario, no-fumo, no Tav, postglobal, preEuro, pro-Dico, pro-eutanasia).
Dai prefissati, con l’aggiunta si suffissi, si possono trarre ulteriori derivati di altra categoria. Molti
prefissi derivano da preposizioni o prefissi latini, mantenuti nella forma originaria o accolti nella
forma fonetica con cui sono entrati in italiano (ante, super-, ex-: superincentivo, superovulo, ex-
correntone); più rara ma significativa la presenza del greco (a-, iper-, ipo-: aterritoriale,
ipermaggioritario).
Per classificare i derivati prefissati si possono impiegare criteri diversi, uno di questi si basa sulla
funzione sintattica delle formazioni derivate: nominale-aggettivale e verbale. I prefissati della prima
categoria possono collocarsi in due gruppi, uno spazio-temporale (co-, extra-, fuori-, infra, meta-,
oltre-, trans-) e uno valutativo-concettuale (si tratta di lessemi che hanno subito una modificazione
di significato che qualifica o gradua il valore semantico delle rispettive basi lessicali: arci-, de-,
extra-, in-, iper-, para-, stra-, super-). I prefissati con funzione verbale sono invece meno produttivi
e talvolta fanno pensare alle formazioni parasintetiche. Vediamo alcuni esempi per ciascuna
categoria:
- prefissati nominali e aggettivali di tipo spazio-temporale: coazionista, contronda, dopo-strage,
extragettito, infrannale, quasi-matrimonio, reislamizzazione, transindividuale;
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- prefissati nominali e aggettivali di tipo valutativo o concettuale: antiterrore, arcicattolico,
bigenitorialità, controindagine, devalorizzazione, indecisivo, paramatrimonio, sbattesimo,
semitregua, stralusso;
- prefissati verbali: contromanifestare, iperpoliticizzare, reislamizzare, stradominare,
strarischiare.
Particolarmente produttivi nell’italiano contemporaneo sono i prefissi che esprimono significati
accrescitivi o apprezzativi e diminutivi o spregiativi, come nella coppia di antonimi mini- e maxi-, il
secondo dei quali appare oggi più produttivo del primo. Questi due però, al pari di altri prefissi
bisillabici e di origine latina o greca, sono collocati da alcuni studiosi tra i confissi.
3.1.5. La parasintesi
3.1.6. I deonomastici
Accenniamo anche alle formazioni deonomastiche, cioè al fenomeno della derivazione di lessemi
da nomi propri, che siano di persona (antroponimi: biscardaggine, benignata, Fabiovolide,
celentanoide, grilloide, postSaddam), di luogo (toponomi: eurabico, anti-Cina, afghanizzare,
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argentinizzazione), di marchi aziendali (marchionimi: nutellone), di istituzioni, movimenti politici
(margheritato, viminalizio, dopo-Quirinale). Ultimamente, anche sulla scia della forte pressione
esercitata dai mass media, si è registrato un notevole incremento dei deonomastici, anche se spesso
si tratta di lessemi che, pur conoscendo una diffusione ampia e immediata, sono destinati ad una
notorietà limitata nel tempo, coincidente con il momento di notorietà del personaggio o dell’evento
al quale si riferiscono.
3.2. La composizione
La composizione è il processo mediante il quale due o più unità lessicali autonome (dette anche
libere) si combinano per formarne una terza che esprime un significato proprio e fa riferimento a un
concetto o ad un oggetto unitario.
Un criterio che permette di distinguere la composizione da altre tipologie di formazione sta nel fatto
che un enunciato o una frase possano essere espressi mediante la giustapposizione di due unità
lessicali, lasciando sottintesi alcuni elementi della frase. Questo criterio permette altresì di
interpretare la classificazione tradizionalmente proposta per le formazioni composte secondo cinque
modelli fondamentali distinti in base alla funzione sintattica delle unità lessicali che si combinano:
- N+A, modulo molto comune e che presenta abitualmente la sequenza DTO+DNTE (auto ibrida,
automedica, farmaco biologico), ma si può incontrare anche l’ordine inverso (cristofobico,
esteuropeo, nordestraneo);
- N+N, anch’esso molto diffuso, il più produttivo, e simile al precedente poiché spesso il secondo
nome ha funzione aggettivale, nella sequenza DTO+DNTE (aereo-carretta, carro-scala, carroteli),
ma anche in questo caso l’ordine può essere scambiato (cellulare-dipendenza, velaterapia,
vinopirateria). In alcuni casi, l’elemento determinante si cristallizza come prototipo di una serie di
composti assumendo una “funzione suffissale” (abito-gioiello, uomo-simbolo). Un uso particolare,
molto diffuso nel linguaggio giornalistico e ben accetto al parlante comune, è rappresentato da
coppie di sostantivi che assumono una coloritura tecnica e nelle quali il secondo elemento nominale
funge da aggettivo (buono-casa, pacchetto sicurezza, quota-giovani). Un ulteriore sottogruppo di
questo modello raccoglie sequenze di elementi nominali che si determinano reciprocamente (calcio-
tennis, ritratto-intervista);
- A+A, formazione in cui molto spesso gli elementi compositivi si determinano reciprocamente e
che si articola in una gamma piuttosto diversificata di settori e circostanze d’impiego, come nei casi
di combinazioni dei colori che distinguono le maglie delle squadre di calcio (bianco-verde,
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grigiorosso). Questo modello è anche usato per connotare posizioni politico-ideologiche e fenomeni
che destano l’interesse dell’opinione pubblica (anarchico-insurrezionalista, mediatico-
giudiziario), etnonimi di vario genere (denominazioni che indicano la provenienza etnica o
geografica, come italoamericano o europeo-continentale) ma si può incontrare anche in altre
circostanze (agrodolce, sordomuto). In alcuni casi, il primo dei due costituenti aggettivali subisce
un troncamento, finendo per assumere il ruolo di confisso (sociosentimentale);
- V+N, modulo in cui i composti si formano con il tema di un verbo e con un sostantivo che ne
costituisce il complemento oggetto. Si tratta spesso di formazioni univerbate, caratterizzate da una
forte intensità espressiva usate in funzione di nome o aggettivo. Le basi verbali bisillabiche di prima
coniugazione sono le più frequenti (bruciagrassi, portavoti, salvacuore), ma ci sono esempi anche
con basi trisillabiche (acchiappa-ascolti, ammazzacultura) e si possono rinvenire anche basi
verbali di altre coniugazioni (coprispalla, reggicellulare, sciogligrasso);
- V+V, formula che si usa per esprimere in forma sintetica un’intera frase e che dà luogo a quelle
formazioni denominate “conglomerati” – sulle quali torneremo tra breve – che costituiscono veri e
propri “spezzoni di frase” (dormiveglia, saliscendi, toccasana).
Esistono anche altri modelli di composizione meno comuni ma che mostrano segni di ripresa o di
espansione nelle neoformazioni:
- A+N, modello meno produttivo ma ben radicato nel linguaggio e nelle cronache della politica, la
cui sequenza DNTE+DTO può risentire dell’influsso latino, tuttavia, essendo anche una costruzione
delle lingue germaniche, l’influsso può anche essere quello anglofono (malafinanza, equo
processo, milleproroghe);
- N+V che produce un numero ristretto di neoformazioni ma dotate di una forte carica espressiva
(cibovagare, terraformare);
- N+Part, modello che è alla base di composti con una forte coesione interna che possono candidarsi
al ruolo di unità polirematiche (sosta tariffata), ma che può essere usato anche per formare
neologismi che manifestano influssi inglesi o angloamericani (arabo parlante, telefonino-
dipendente);
- V+Avv, modello poco seguito che può dar luogo a formazioni univerbate e cristallizzate nell’uso
(tiratardi, buttafuori) in cui di solito il secondo elemento è un aggettivo usato in funzione
avverbiale (magiarbene, sfila-facile), ma anche a espressioni che si vanno diffondendo e che
seguono la normale coniugazione verbale (essere fuori);
- Avv+V (malmenare);
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- Avv+A, modulo usato raramente al quale si ricorre anche per ricalcare espressioni di stampo
inglese (differentemente abile, geneticamente modificato, politicamente corretto, ecologicamente
corretto, sessualmente corretto);
- Avv+Part, formula che ha un’impronta classica nella quale si combinano un avverbio o un
aggettivo con valore avverbiale e un participio presente (lungoparlante, lungosopravvivente, mal
udente);
- Avv+N (non violenza);
- Prep+N (dopoguerra).
Tranne la categoria Avv+V, che produce verbi, e i composti A+A e Avv+A, che comprendono
soprattutto aggettivi (tra l’altro facilmente convertibili in sostantivi), le altre parole che si ottengono
per composizione sono i nomi, essendo la composizione in italiano essenzialmente nominale.
Un tipo particolare di composizione, molto diffuso nell’italiano contemporaneo e nelle altre grandi
lingue europee di cultura, è la confissazione, un processo compositivo di unità lessicali, in origine
privilegiato dalle terminologie specialistiche, ma che risulta sempre più in espansione anche nel
lessico d’uso comune.
Gli elementi lessicali utilizzati sono i cosiddetti “elementi formanti colti”, così denominati perché
propri del latino e soprattutto del greco e chiamati tecnicamente “confissi”. Gli elementi formanti
colti costituivano in origine vere e proprie parole delle lingue greca e latina (erano cioè, in quelle
lingue, lessemi autonomi) ma vi sono anche confissi propri del lessico italiano (come socio- da
sociale) intesi anche come “spezzoni di parole”, o presi in prestito da altre lingue moderne (come
landia dal tedesco Land, Eurolandia), che acquisiscono, nel tempo, la funzione di elementi
formanti di parole nuove.
Comunque sia, il meccanismo più seguito è quello che si avvale di elementi di origine classica e per
questo si parla anche di “composizione neoclassica”. Il processo si impianta contemporaneamente
nelle varie lingue di cultura a partire dai secoli XVII e XVIII, nel passaggio dall’uso colto e
scientifico della lingua latina alle diverse lingue nazionali, in modo da uniformare e rendere più
facile la circolazione di termini delle scienze e delle tecniche in ambito europeo e poi
internazionale. La maggior parte dei composti neoclassici è rappresentata, tuttavia, da formazioni
novecentesche che costituiscono oggi la porzione predominante del lessico contemporaneo.
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I confissi possono essere combinati tra loro o uniti a parole moderne, alle quali si possono posporre
o anteporre. Così, nel 1935 Migliorini li denominò “suffissoidi” e “prefissoidi” (a seconda della
posizione che occupano nei composti, anche se molti confissi possono figurare sia come primi sia
come secondi elementi, tipo filo- e -filo) per alludere alla loro funzionalità plastica che permette di
preporli o posporli a «qualsiasi termine del lessico che semanticamente lo consenta».
Successivamente, Sergio Scalise ha proposto il termine “semiparola” e il suo equivalente inglese
stem.
La sequenza delle forme confissate ripropone l’ordine decrescente delle lingue classiche (e
germaniche) DNTE+DTO (embrioriduzione), per cui la testa del composto è collocata a destra,
diversamente dall’ordine usualmente seguito nei composti italiani, DTO+DNTE (riduzione
embrionaria). Tuttavia, una classificazione completa della confissazione prevede che i confissi
possano essere distinti in base alla loro origine e alla posizione che occupano nella forma composta:
- confissi classici usati come primo elemento di composizione (agri-civismo, aristoborghesia,
autoghettizzazione, bio-informatico, cardiocentro, cosmoturismo, criptogay, ecomateriale,
egomaniacale, enoappassionato, filoseparatista, laparochirurgia, mega-appalto, microstampa,
monopartisan, neofobo, panumano, pedoaffettività, pluridivorziato, pornopolitica, proto-
massonico, telelaser, teopolitica, veteroeuropeo);
- confissi classici usati come secondo elemento di composizione (culturicidio, cicalecciocrazia,
idrogenodotto, italofilia, islamofilo, turcofobia, albanofono, infantolatria, acquistomania,
spassometro, gastronauta, mafiologico, martiropatia, bambinopoli, gastrosofia, gossippovoro);
- confissi moderni o con nuovi valori semantici usati come primo elemento di composizione
(afrottimista, anarcoterrorismo, anglocrazia, autocustode, biodistruzione, bioristorante, bioarma,
caro-rifiuti, catto-mediatico, clericofascismo, cyberdipendenza, e-consumatore, ecclesiofobico,
eurospareggio, europolitica, eurocentesimo, fantafinanza, fasciocomunista, info-ribelle,
lesbofobia, maxicausa, minicrisi, multivettoriale, narcoguerriglia, netazienda, simil-giovane,
tardodemocristiano, tecnoentusiasta, telelettore, teleconsumatore, tele-pornografico,
totocandidati, videofonia, web-ateneo, webdipendente);
- confissi moderni usati come secondo elemento di composizione (venetocentrismo, idrociclo,
Cementolandia, sprecopoli, pornivendola).
La distinzione tra confissi classici e moderni appare necessaria a fronte della notevole diffusione del
processo compositivo della confissazione – anche in ambito internazionale – mediante il ricorso a
nuovi confissi che provengono da unità lessicali di lingue moderne, da loro segmentazioni o dal
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riuso di confissi classici arricchiti di nuovi significati, tanto da poter parlare di “confissi di primo,
secondo e terzo grado”.
3.2.2. Le polirematiche
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Dal punto di vista del significato, le polirematiche spesso assumono un valore completamente
diverso dai significati delle singole parole, fino ad acquisire talvolta un senso del tutto figurato. Si
può trattare anche di espressioni nate in settori specialistici poi entrate nel lessico di uso comune
(certezza della pena), sia a motivo della divulgazione giornalistica sia perché riguardano settori di
grande interesse sociale. In ambiti specifici si sono affermate rapidamente e con successo
espressioni caratterizzate da una formulazione sintetica e icastica che ne facilita la comprensione
immediata: nel diritto di famiglia (affidamento condiviso); nelle telecomunicazioni (profilo
tariffario, canale telematico); nel contesto politico, in particolare, per esigenze espressive e di
economia linguistica, si continuano a coniare veri e propri slogan, spesso con intenti persuasivi
(concertazione sociale, corridoio della mobilità, federalismo solidale).
Anche i conglomerati possono essere considerati come delle unità lessicali composte che si
ottengono congiungendo più parole, soprattutto due verbi, come se si trattasse di “spezzoni del
discorso” o “spezzoni di frase, che compaiono sempre nella stessa combinazione cristallizzandosi in
unico lessema che passa a una nuova categoria grammaticale, sempre di genere maschile e
morfologicamente invariabile (altolà, fuggifuggi, viavai, guarda e compra, tassa e spendi, vorrei
ma non posso). L’elemento che permette di distinguere un conglomerato da altre formazioni
composte consiste proprio nella possibilità di riconoscerne la frase soggiacente e tale operazione
risulta tanto più agevole quanto più la sua cristallizzazione è vicina nel tempo.
Un caso particolare di cristallizzazione prodotta dall’uso, che asseconda il principio ricordato
dell’economia linguistica, è rappresentato da espressioni immediatamente trasparenti per il parlante
dalle quali è stato però eliminato qualche elemento costitutivo, come nella locuzione da paura,
nella quale si osserva l’ellissi del predicato verbale e, contemporaneamente, l’evidenziazione
enfatica del sostantivo residuo.
3.3. Le riduzioni
L’italiano contemporaneo ha sviluppato anche una serie di meccanismi che formano voci nuove
attraverso la riduzione di parole e locuzioni già esistenti. Essi sono per lo più radicati nel registro
della lingua parlata, ma tendono progressivamente ad interferire anche con lo scritto.
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3.3.1. Le abbreviazioni e gli accorciamenti
La prima categoria di riduzioni è quella delle abbreviazioni, che compare quasi esclusivamente
nello scritto e che è documentata da secoli, facendo fronte alle necessità di sintesi e di risparmio del
materiale scrittorio. Sono esigenze ancor oggi molto sentite, basti pensare all’influenza che esse
esercitano sulla natura e sulla struttura di testi brevi, trasmessi mediante le più avanzate tecnologie
di comunicazione, come i messaggi inviati con il telefono cellulare e la posta elettronica. L’uso
delle abbreviazioni è molto frequente anche nella lingua parlata, soprattutto tra i giovani (prof per
professore ne è un esempio tipico). Non si può escludere che questo fenomeno risenta anche di
influssi provenienti da altre lingue, collocandosi tra i cosiddetti “mozziconi di parole”.
Un altro tipo importante di riduzioni è costituito dagli accorciamenti (o “scorciamenti” di parole),
diffusi nel parlato e motivati dalla volontà di eliminare pezzi di parole che sembrano superflui per la
comprensione, che si hanno quando parole complesse di una certa lunghezza vengono troncate della
parte finale, come bicicletta → bici. Accorciamenti del genere sono di solito marcati in
diafasia/diamesia e attestati soprattutto nel parlato colloquiale; molte parole accorciate sono ormai,
però, quelle di gran lunga più utilizzate.
Un esempio come auto(mobile) coincide formalmente con un confisso già esistente (auto, “a, da se
stesso”), ma dà vita a un nuovo valore semantico (auto, “relativo all’automobile”), presente in altri
neologismi (come autocustode). Un caso come frigo(rifero), invece, si connota diversamente
poiché esiste un confisso frigo- (“relativo al freddo”), ma l’accorciamento si riscontra anche come
parola autonoma in neoformazioni composte (come frigomacello).
Dal punto di vista morfologico, gli accorciamenti possono limitarsi al confisso (porno ←
pornografico) o al prefisso (trans ← transessuale), ma non sempre coincidono con un confine
morfologico; sono per lo più bisillabici (spesso terminanti in -o e assimilabili per molti aspetti,
come si diceva, ai confissi: ad esempio l’aggettivo tecnologico viene accorciato nella forma tecno,
la quale coincide con il confisso tecno- presente in molte parole di formazione più recente, come
tecnofarmaco), ma non mancano casi di monosillabi (ex ← ex marito/moglie, sub ← subacqueo: in
tali casi la forma accorciata coincide con il prefisso che contribuisce a costruirla) o trisillabi (tossico
← tossicodipendente) e perfino quadrisillabi (otorino ← otorinolaringoiatra). Sempre da un punto
di vista morfologico, una forma accorciata può anche coincidere con il prefisso che contribuisce a
costruirla: è il caso di super, accorciamento della parola prefissata super-mercato. La maggior parte
delle forme accorciate è invariabile, cioè non soggetta a flessione e può produrre derivati e composti
(cinematografo → cinema → cinemino; frigorifero → frigo → frigobar). Si tratta in generale di
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forme nate all’interno del sistema linguistico italiano ma che partecipano, almeno all’origine, di una
diffusa tendenza all’accorciamento presente anche in altre lingue moderne. Accorciamenti limitati
alla parte finale sono solo prestiti dall’inglese (bus ← autobus) e, sempre nell’ambito dell’influsso
tra lingue diverse, si può ricordare un fenomeno d’irradiazione che ha avuto come modello
ispiratore l’accorciamento angloamericano neocon (neoconservative, “neoconservatore”), risalente
agli anni Settanta, ma divenuto di pubblico dominio in Italia, e più in generale in ambito europeo,
solo all’inizio del Duemila. A questo modello si sono ispirate alcune forme composte (democon,
ecodem, teolib, neo-prop), nelle quali si registra la presenza di accorciamenti ripresi dall’inglese o
ottenuti direttamente da parole italiane (come nel caso dell’anglicizzante lib da “liberale”, e di prop
da “proporzionalista”).
Si possono accostare agli accorciamenti fenomeni come la riduzione del primo elemento di
composti (pala ← palazzo in palasport) o la riduzione, indebita nella lingua di partenza, di
composti inglesi al primo elemento (night ← night-club).
La seconda categoria di riduzioni è costituita dagli acronimi e dalle sigle, che trasformano un’intera
sequenza di parole in una sola unità lessicale costituita dalle lettere iniziali di ciascuna parola.
Un acronimo può essere costituito anche dall’unione di sillabe con lettere iniziali di più parole
(CONSOB ← Commissione Nazionale per le Società e la Borsa, Coavisoc, Corecom, Enac) o dalla
parte iniziale e da quella finale di due parole (bit ← binary digit). La formazione di acronimi
ispirata a modelli stranieri è un processo ben radicato nella lingua italiana per formare veri e propri
nomi (Confindustria ← Confederazione Generale dell’Industria Italiana), parole d’uso comune
(colf ← collaboratrice/-tore familiare) e si applica anche ai tamponamenti e alle parole macedonia.
Più propriamente un acronimo si ottiene riducendo un intero sintagma alle sole lettere iniziali delle
parole che lo compongono (FIAT ← Fabbrica Italiana Automobili Torino, ad, Pd, Sla). In questo
caso – che si preferì in un primo tempo chiamare “sigla letterale” in contrapposizione alle “sigle
sillabiche” – si tende a parlare di sigla, tanto da far ritenere che acronimo e sigla siano legati da un
rapporto di sinonimia. La sigla però non sempre dà luogo a un vero e proprio nome e talvolta non
può nemmeno essere letta come parola, perché costringe a pronunciare le singole lettere
separatamente (Cgil ← Confederazione Generale Italiana del Lavoro, Ccs). Così si è andata
affermando la tendenza alla formazione di deacronimici (talvolta ricompresi tra i processi di
derivazione) ovvero parole ottenute da acronimi o sigle che si presentano nella forma trascritta della
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loro compitazione, secondo modelli ormai pienamente accolti (come pierre da pubbliche relazioni,
tiggì, elleppì). Tra le neoformazioni deacronimiche ricordiamo: cieffeelle, diggì, essemmesse.
Questa formula asseconda l’uso sempre più frequente di pronunciare acronimi e sigle come parole
intere e non lettera per lettera e, d’altra parte, in ambito internazionale è invalso l’uso di sigle anche
per indicare eventi di grande richiamo (come nel caso delle sigle spagnole 11-s e 11-m che
ricordano gli eventi tragici dell’11 settembre 2001 e dell’11 marzo 2004) o personaggi di fama
mondiale (come JFK per John Fitzgerald Kennedy e ZP che sta per Zapatero Presidente,
appellativo di José Luis Rodrìguez Zapatero). Sulla scorta di queste formazioni sono apparsi
neologismi italiani come Tps per Tommaso Padoa-Schioppa o il deacronimico Esse Bì per Silvio
Berlusconi.
In un primo momento riservate a istituzioni, enti, partiti, sindacati, industrie e imprese commerciali,
le sigle si sono progressivamente estese fino a indicare, come abbiamo appena detto, nomi comuni
(pierre, gip) o ad essere usate in funzione aggettivale (doc); in particolare le sigle dei partiti politici
valgono anche per indicare gli iscritti di quel partito (diesse). Nell’uso attuale delle sigle si
conferma il notevole influsso dell’inglese: l’italiano adotta sigle angloamericane (variamente
pronunciate) che sono poco o per nulla trasparenti (anche perché le lettere si susseguono in un
ordine diverso da quello italiano).
Si ha un processo – molto diffuso nella stampa angloamericana e seguito dai giornali italiani – di
progressiva familiarizzazione di acronimi e sigle nel lessico italiano, fenomeno che ha avuto
conseguenze anche significative. Innanzitutto, l’acronimo o la sigla, di solito usati come
abbreviazioni sostitutive della denominazione estesa, possono trasformarsi in veri e propri nomi che
il parlante medio non è più in grado di sciogliere (Mose). Inoltre, sempre più spesso essi
acquisiscono anche una funzione aggettivale e, proprio a testimoniare l’inserimento avvenuto
pienamente nel patrimonio lessicale, acronimi e sigle danno spesso luogo a neoformazioni derivate
(ciellino ← cl ← comunione e liberazione, aennino, pacsarsi, suvista) o composte (icimetro,
pseudo-vip, taglia Tar).
3.3.3. I tamponamenti
3.3.4. Le retroformazioni
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In questo paragrafo punteremo l’attenzione su una fonte notevole di arricchimento lessicale
dell’italiano e cioè gli apporti derivati dal contatto con altre lingue. Comprenderemo in questo
settore sia gli apporti endogeni, corrisposti da varietà particolari di italiano, sia quelli esogeni,
provenienti cioè da lingue straniere.
Con il termine “dialettismo” s’intende una parola o un’espressione proveniente da un dialetto che
può essere assunta nel lessico italiano come prestito interno, talvolta anche in forma adattata alle
esigenze fonomorfografematiche del sistema linguistico italiano (fanagottone dal milanese fanagott
o fanigutùn, zignare dal lombardo zegna).
Un caso emblematico è quello del termine inciucio, voce di origine meridionale che ha avuto una
propagazione repentina e panitaliana nella metà degli anni Novanta nel particolare clima politico
che il Paese viveva in quegli anni. Oltre ad essere stata accolta dai principali dizionari, la voce ha
dato luogo, in breve tempo, a una serie di derivati, come anti-inciucio, inciuciare, inciucino,
inciucione, inciucista, pro inciucio.
3.4.2. I forestierismi
Si può chiamare forestierismo un’unità lessicale proveniente da un’altra lingua che viene accolta
nella sua forma originaria o con adattamenti fonetici e morfologici. La circolazione di forestierismi
costituisce un fenomeno universalmente diffuso, ma è difficile indicare la consistenza numerica di
quelli che si impiantano nel lessico: la loro presenza varia da lingua a lingua, anche a fronte di
interventi protezionistici che si inseriscono nelle strategie di politica linguistica (come nei casi del
francese e dello spagnolo). In italiano l’adozione di forestierismi, sebbene sia avvenuta nel tempo
con forme e modi diversi e in aree geografiche e fasce sociali differenti, è stata attiva in tutto il
corso della sua evoluzione diacronica, riflettendo relazioni e scambi con le culture e le lingue che
sono venute in contatto con la popolazione e lasciando tracce anche nella lingua letteraria. Oggi
sembra affermarsi di una lingua di comunicazione planetaria che si è progressivamente contaminata
con elementi tipici di culture e lingue locali. Se è oramai condivisa l’idea dell’esistenza del
cosiddetto globish, caratterizzato da tratti di estrema semplificazione, anche sintattica, dell’inglese,
si tende anche ad essere sempre meno esitanti nel riconoscere la diffusione di idiomi ibridi risultanti
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dalla modificazione e dalla localizzazione dell’inglese in contatto con altre espressioni linguistiche
(tanto che si è assistito ad una proliferazione di denominazioni di nuove parlate, tra cui Cinglish,
Hinglish e Spanglish).
L’adattamento è un processo che modifica una parola presa a prestito, o meglio assunta, dal lessico
di una lingua straniera per renderla conforme alle regole del sistema linguistico che la riceve.
Alcuni studiosi, tuttavia, sostengono che una parola proveniente da un’altra lingua non si integra
mai totalmente nel sistema linguistico di accoglienza, se non altro per la sfasatura semantica
esistente tra culture diverse riflessa nel lessico delle rispettive lingue. Le modificazioni subite dalla
parola sono di natura morfologica e la tipologia degli adattamenti è piuttosto eterogenea, potendo
comprendere forestierismi acclimatati attraverso la semplice aggiunta di un suffisso verbale (e-
mailizzare, hackerare), forme agevolate nella loro circolazione internazionale dagli elementi colti
che le costituiscono in origine (ecotecnologia), senza dimenticare che anche i calchi lessicali
comportano un processo di adattamento.
I neologismi formati attraverso un adattamento rientrano in gran parte nei lessici specialistici, molti
dei quali connessi con la medicina e la biologia e con le scienze della salute (contragestione,
extimità). Numerose sono anche quelle relative alla diffusione di fenomeni nuovi (bluejackare,
fotoscioppare), di mode e tendenze (adultescente, nutricosmetica), o di orientamenti politico-
ideologici e di nuove condizioni sociali (alterglobalista, cognitariato).
Sebbene l’italiano attuale sembri preferire l’adozione di prestiti integrali al meccanismo
dell’adattamento, si registrano anche casi che possono essere considerati segnali di una
controtendenza, come in susci e pleiboi nei quali è manifesta l’intenzione di adattare forestierismi
di largo uso alle caratteristiche fono grafematiche dell’italiano, oltre che alla cultura e agli stili di
vita italiani.
3.4.4. I prestiti
L’adozione di parole da altre lingue è il fenomeno noto con il nome di prestito (o meglio, prestito
esterno). E’ stata anche introdotta la suddivisione tra prestiti di necessità (usati per denominare
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oggetti o concetti di origine straniera ancora sconosciuti) e prestiti di lusso (motivati da ragioni di
prestigio o di moda rispetto a denominazioni già esistenti o di facile conio), oppure è stata proposta
una tripartizione dei forestierismi distinguendo tra forestierismi insostituibili (radicati nell’uso
soprattutto per la loro concisione, efficacia espressiva e adeguatezza denominativa: contractor,
podcasting); forestierismi utili (che ripropongono espressioni straniere alle quali i parlanti
sembrano adeguarsi agevolmente, facilitando l’uso di formule denominative di circolazione
internazionale: instant pool, subprime, changeover) e forestierismi superflui (che si affiancano ad
espressioni italiane già in uso e spesso mossi dalla volontà di ostentare consuetudine con tendenze o
conoscenze linguistiche straniere: common people, red carpet, day care).
Seppure l’inglese sia di gran lunga la lingua più coinvolta nei processi di prestito all’italiano,
continuano ad avvenire apporti anche da altre lingue con le quali l’italiano ha avuto contatti costanti
nel tempo, e tanto più oggi, nell’attuale fase di consolidamento di una coscienza e di una comune
cultura europea: il francese (dégriffé, politique politicienne), lo spagnolo (duende, parrillada), il
tedesco (Leitkultur, Ostalgie), il giapponese (Kakuro, otaku), l’arabo (halal, shahid), l’ebraico
(haredim) e lo yiddish (shtetl).
3.4.5. I calchi
Un calco è un’unità lessicale che ricalca o traduce una parola o un’espressione originaria di un’altra
lingua, conformandola al sistema linguistico italiano. Si tratta di un processo di convergenza tra due
lingue che mira a favorire la creazione di una nuova forma composta da elementi lessicali indigeni
che ripropongono il modello alloglotto al quale si ispirano. La neoformazione così ottenuta risulta
tanto naturale e ben inserita nel sistema linguistico da non essere sempre riconoscibile e quindi
riconducibile al modello di provenienza.
Tradizionalmente, la classificazione prevede due tipi di calchi lessicali: i calchi semantici, nei quali
una parola italiana si carica di un nuovo valore semantico ripreso da un’unità lessicale straniera
(profilazione dall’inglese profiling) e i calchi traduzione, nel caso in cui parole italiane, che danno
vita ad una nuova unità lessicale, traducano alla lettera gli elementi di un composto di lingua
straniera (controllo parentale dall’inglese parental control).
Un’altra distinzione adottata dalla linguistica è quella tra calchi omonimici, che presentano in
italiano un’espressione molto simile a quella originaria, tanto da sembrarne un adattamento
(micropagamento dall’inglese micropayment) e calchi sinonimici, che assumono in italiano una
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forma diversa dall’espressione originaria ma che coincidono perfettamente dal punto di vista
semantico (passalibro dall’inglese bookcrossing).
Come si evince dall’esemplificazione, la maggior parte dei calchi trae origine da espressioni inglesi,
tuttavia esistono calchi anche dal francese come in ascensore sociale da ascenseur social, governo
di prossimità da gouvernement de proximité.
In ultima analisi, il calco lessicale si presenta come una forma di prestito più sofisticata, che si
inserisce senza traumi in un sistema linguistico, facilitando l’uso spontaneo e naturale dei parlanti in
rapporto a fenomeni provenienti da culture ed espressioni linguistiche differenti.
Un fenomeno quasi a parte e molto recente che si colloca nell’ambito del contatto linguistico e della
composizione è quello della diffusione dei composti nominali misti angloitaliani rappresenta,
nell’attuale fase di contatto tra le due lingue, uno dei fenomeni più notevoli che ha iniziato ad
arricchire dapprima alcuni settori del lessico (come scienza, tecnica, pubblicità e politica) per poi
assumere un certo rilievo soprattutto nella stampa. Fondamentalmente essi sono di due tipi: quelli
con ordine italiano DTO+DNTE (pensione baby, batterio killer) e quello con ordine inglese
DNTE+DTO (baby consulenti, kick aerobica). Quest’ultimo, oltre a formare molti composti misti è
ormai entrato nella lingua anche come modello che produce un certo numero di composti con
formanti italiani: D’Alema-pensiero, telefonino-dipendente, spesso occasionalismi con intento
ludico usati dai media. E’ anche vero, però, che i composti nominali misti angloitaliani sono dei
modelli di FP dotati di una certa produttività tanto che alcuni sono passati al rango di veri e propri
neologismi: basti pensare ai composti con baby e killer che hanno prodotto serie ormai
relativamente stabili e che sono spesso usati in mancanza di equivalenti italiani.
L’analisi dei repertori di neologismi ha permesso di delineare l’esistenza di quattro tipi di composti
nominali misti secondo la posizione del DTO e del DNTE disposti in ordine di produttività:
1. DTO italiano + DNTE inglese (sassi-killer);
2. DNTE inglese + DTO italiano (cyberspazio);
3. DNTE italiano + DTO inglese (Papa boy);
4. DTO inglese + DNTE italiano (film-culto).
I motivi del successo di questo tipo compostivo: essi infatti permettono di rendere in modo
compendioso nuovi significati, oltre al prestigio crescente dell’inglese, il notevole grado di
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trasparenza, il mantenimento del contatto con la fonte, l’espressività ludica e la possibilità di
fondare intere serie paradigmatiche.
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3.5.1. L’estensione e la specializzazione del significato
Con il passare del tempo le parole si caricano di nuovi significati, sia attraverso l’ampliamento dei
valori semantici preesistenti sia attraverso lo sviluppo di nuove accezioni, sia a motivo del
passaggio di una parola da un settore d’uso a un altro più specialistico, determinando così la
specializzazione del suo significato. Anche parole usate per designare attività specifiche possono
subire slittamenti d’ambito e di significato (si pensi a termini come calendarista, concertista o
scenarista) o si può avere il passaggio di termini da un settore specialistico a un altro (omogamia).
3.5.2. La metafora
La trasposizione metaforica (il trasferimento di un significato dal suo uso proprio a un uso figurato)
rappresenta una risorsa tradizionalmente applicata per l’arricchimento lessicale e per lo sviluppo
delle terminologie specialistiche. Spesso accade che parole di uso comune si carichino nel tempo di
significati specifici (è il caso di termini come ala, campo e scala), ma vi sono anche casi in cui un
intero campo semantico passa ad essere attribuito, per analogia, a settori specialistici simili, come
nel caso della navigazione marittima, poi diventata aerea, spaziale e, recentemente, telematica. La
metaforizzazione consiste dunque nell’impiegare una parola, che conserva il proprio valore
semantico, per designare un altro referente che con quella parola si trovi in rapporto di similitudine
o di analogia (gamba nel senso di “componente partitica di fondamentale importanza nel sostegno
di una colazione politica” e, prima ancora, nel senso di “elemento di sostegno del tavolo”,
scollinare, stellato).
3.5.3. La metonimia
La metonimia è una figura retorica che determina il passaggio del significato da una parola o
denominazione a un’altra ad essa legata da un rapporto di contiguità – spaziale, temporale o causale
– o di dipendenza (come la denominazione del contenente per indicare il contenuto, della causa per
l’effetto, della materia costitutiva per l’oggetto che se ne ricava, del nome dell’autore per l’opera, e
così via). Anch’essa è un’importante risorsa nell’arricchimento del lessico. Ne sono esempi: auto
bianca per “taxi”, dal colore della vettura usata per il trasporto pubblico e casco rosso per indicare
“un vigilie del fuoco”, alludendo al suo copricapo d’ordinanza. Analoghi sono i casi in cui si usa la
denominazione del simbolo per fare riferimento a imprese molto note (cane a sei zampe, Cavallino)
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o i casi di metonimia topografica – molto usata nel linguaggio giornalistico – nella quale il luogo in
cui ha sede un’organizzazione, un partito o un’istituzione passa a denominare questi ultimi (Corso
Italia, Eurotower).
3.5.4. L’antonomasia
Con questa figura retorica si può trasformare un nome proprio in comune o una parola d’uso
comune in nome proprio: il nome di un personaggio storico, mitico o letterario può passare, ad
esempio, ad indicare una persona o una categoria di persone a lui accomunate da caratteristiche,
vicende ed attività simili (Caronte); oppure una persona può essere identificata attraverso un
appellativo costituito da un titolo professionale o onorifico che gli compete (Cavaliere) o che
segnala o riassume una o più sue caratteristiche (Pirata). Appellativi con queste caratteristiche si
trasformano in vere e proprie denominazioni. Anche il nome proprio di un luogo può passare a
designare, genericamente, le sue caratteristiche più note.
Attraverso il processo fonosimbolico, risorsa che nel corso della storia culturale è stata incoraggiata
soprattutto dalla fumettistica, è possibile coniare, senza restrizioni normative, neoformazioni che
esprimono rumori o suoni percepiti nell’esperienza quotidiana. Il tipo più rilevante di
neoformazione di questo tipo è l’onomatopea o ideofono, cioè un’unità fonolessicale che tende a
riprodurre suoni o rumori naturali o artificiali, compresi i versi degli animali (ciac-ciac, pat-pat).
L’enfasi espressiva, invece, è un accorgimento di tipo fonografematico che consiste
nell’evidenziare – sia dal punto di vista della scrittura che della pronuncia – usi che si diffondono in
particolari ambiti sociali, al fine di marcarli ironicamente o polemicamente (dibbbattito, gggente,
gggiovane).
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Una prima questione è quella relativa alla “qualità neologica”, espressione con la quale si intende il
grado di novità insito in ogni neologismo. Ciò che ci interessa notare è che anche la neologia pone il
problema della trasmissione di un’informazione poiché ad un nuovo referente corrisponde una
nuova forma lessicale che apre agli interlocutori un campo di informazione nuovo. La teoria
dell’informazione dimostra che l’importanza del contenuto informativo veicolato dalle parole è
inversamente proporzionale alla frequenza della loro utilizzazione. L’aumento della frequenza
diminuirà quindi il tasso di informazione fornito dal vocabolo e con esso il suo grado di neologicità.
Sembra necessario ricollocare l’unità neologica prodotta in un discorso ai due poli del processo di
scambio linguistico: il parlante può utilizzare una parola nuova non in maniera neutra, ma
ricercando un effetto sul destinatario e quando l’effetto sia riuscito o almeno recepito, il destinatario
prende coscienza del carattere voluto di novità del vocabolo impiegato. Dunque, andrà sempre
tenuto presente anche il contesto in cui si colloca il neologismo. In un discorso di tipo critico o
polemico, ad esempio, l’impiego di un neologismo può essere considerato un atto illocutorio il cui
obiettivo è perlocutorio. Questo tipo di scambio linguistico era stato così descritto da Charles
Marcellesi:
si tratta, per il parlante, di una creazione cosciente che stabilisce una sorta di
complicità tra lui e il destinatario del discorso. Quest’ultimo, perfettamente cosciente
dell’azione tentata su di lui per mezzo del vocabolo impiegato, è sensibile al carattere
specifico di questo vocabolo, tanto che questa azione assume un carattere individuale: è
verso di lui, e verso lui solo, che gli sembra diretto il “fare” del discorso.
Lo studioso aveva infatti descritto il discorso marcato neologicamente come un “luogo della
suggestione” e della “complicità linguistica e ideologica”. Si tratta di un principio che potrebbe
guidare l’impiego di determinati neologismi da parte dei mass media che, consapevoli di questo tipo
di effetto sul destinatario, puntino attraverso le nuove parole ad attirare l’attenzione del lettore e in
certi casi a stabilire con esso un’intesa che può anche avere finalità ideologiche o di orientamento
nell’interpretazione dei fatti narrati.
Il concetto di qualità neologica si lega anche, in maniera più diretta, alle questioni afferenti
all’individuazione stessa della neoformazione. In questa prospettiva, sono state individuate delle
problematiche relative a tre aspetti diversi:
- la possibilità di stabilire il momento della comparsa di una nuova parola o, se vogliamo, la data di
nascita del neologismo;
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- la durata dello status neologico, cioè l’intervallo di tempo in cui si può dire che la parola sia
nuova;
- l’esistenza di mezzi per riconoscere la nuova parola dotata di status neologico e per stabilire
quando lo abbia perduto per integrarsi nel lessico comune.
Quanto alla durata dello statuto neologico, ciò che interessa stabilire è il modo in cui esso venga a
decadere. Il neologismo infatti smette di essere tale in due circostanze: quando non attecchisce nel
lessico comune e viene “dimenticato” o, all’opposto, quando si impianta nell’uso integrandosi nel
lessico.
Dalla possibilità di individuare una di queste due circostanze dipende dunque l’ultimo nodo teorico
che abbiamo richiamato, cioè la valutazione dei mezzi necessari a riconoscere la nuova parola
dotata di status neologico e a stabilire il momento in cui quest’ultimo venga a decadere.
Il problema è quello di individuare le nuove parole in rapporto all’uso che di esse fanno
effettivamente i parlanti. Ciò significa valutare il neologismo sia in rapporto al “lessico comune”,
nozione che non possiede una definizione certa e precisa, sia alla “competenza neologica comune”,
che può essere considerata come una sezione della generale competenza lessicale del parlante. Ma il
concetto di “competenza neologica comune” sarà dunque difficilmente impiegabile con profitto
nell’indagine sull’individuazione dei neologismi, essendo molto eterogenea e differenziata. Del
resto, alcuni studi hanno dimostrato, da un lato, che le forme percepite come neologiche in uno
stesso testo variano molto significativamente a seconda degli individui che le interpretano e,
dall’altro, come non si possa neanche parlare di un sentimento neologico costante nello stesso
individuo, poiché esso si presenta in maniera “intermittente”.
Un altro metodo per verificare la durata dello status neologico di una parola, rispetto a quello basato
sulla competenza dei parlanti, può essere allora quello di seguire, entro un determinato arco di anni,
un termine inizialmente segnalato come neologismo: se da un certo momento in poi esso appare in
numerosi contesti senza essere accompagnato da commenti metalinguistici o da marche
tipografiche, si potrà ammettere l’ipotesi che la parola in questione sia ormai entrata a far parte del
lessico comune, che si sia in esso integrata e che quindi abbia perduto il suo statuto di neologismo.
L’accettabilità del neologismo è il fondamento della sua diffusione, la quale dipende a sua volta da
una molteplicità di fattori, linguistici e non. L’esistenza di un neologismo si può sancire dal
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momento in cui la comunità linguistica lo accetta e lo fa entrare nell’uso reimpiegandolo. Si tratterà
quindi di capire in che modo un neologismo, che all’origine dipende da un atto individuale di
parole, divenga poi di uso collettivo. Le indagini su questo fenomeno sono condotte, in genere,
seguendo ottiche multidisciplinari e spesso non solo linguistiche, ma legate anche all’antropologia,
alla psicologia e alla sociologia. Ad ogni modo, i percorsi di studio più battuti si sono concentrati
principalmente in due direzioni: l’indagine sui fattori di diffusione, i cosiddetti fixing factors, che
permettono l’accettazione della creazione individuale alla comunità, e la definizione di una norma
nel lessico che permetta di stabilire un criterio di accettabilità dei neologismi nella stessa.
La spinta preponderante verso l’accettazione di un nuovo termine è rappresentata dal bisogno
linguistico di un termine nuovo, ma esistono anche fattori di diffusione di cui tener conto.
Infatti, un fixing factor importante viene riconosciuto nelle fonti di prestigio da cui può provenire il
neologismo. Esso cioè può avere successo e trovare diffusione o in virtù del prestigio
dell’onomaturgo quando questi sia noto (in virtù cioè della notorietà o della posizione sociale o
intellettuale di chi crea il neologismo); o in virtù del prestigio dell’oggetto o concetto designato
dalla nuova parola; o in forza del prestigio del settore di provenienza della nuova parola quando
questa sia un settorialismo (ad esempio la moda, ma soprattutto la tecnologia e le scienze); o, infine,
in virtù del prestigio della lingua di provenienza quando esso sia un forestierismo (il prestigio
dell’inglese può ad esempio costituire il fixing factor dei numerosissimi anglismi che penetrano in
italiano).
Anche la riflessione sul rapporto tra la neologia e la norma linguistica è utile allo scopo di definire il
concetto di accettabilità, cui sarebbe subordinata l’entrata di un neologismo nell’uso costante. La
presenza della norma sociale in campo lessicale è evidenziata infatti dalla tendenza alla
normalizzazione che controbilancia la fantasia e la creatività dell’individuo. La fortuna di una
parola nuova dipenderà in gran parte dall’esigenza sociale di efficacia e di chiarezza della
comunicazione. In questo senso si possono leggere gli atteggiamenti puristici che si affacciano più o
meno intensamente in ogni epoca e cioè come riflesso dell’esigenza linguistica profonda e motivata
di mantenere la funzione comunicativa.
La norma lessicale ha quindi un carattere ideologico ed è per questo che nelle varie epoche si assiste
al prevalere di concezioni conservative o innovative della norma lessicale, che trovano la loro
espressione nell’attività lessicografica, nei dibattiti di linguisti e letterati, negli interventi di
organismi ufficiali. L’alternarsi o l’avvicendarsi di questi atteggiamenti nei confronti della neologia
evidenzia la natura sociale, e quindi soggetta a continua evoluzione, della norma lessicale.
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In quanto soggetta a evoluzioni determinate dalla storia, e in ragione della sua natura sociale, la
norma può subire anche l’influenza dei mass media. Anzi si può dire di più: oggigiorno i mass
media rappresentano uno dei fixing factors più incisivi nell’accettazione e nella diffusione dei
neologismi. Essi, a ben vedere, non lo sono solo per una questione di prestigio, per il fatto cioè che i
media siano oggi rivestiti di una forte autorità e di un certo prestigio sociale, ma anche perché
possono promuovere nella collettività nuovi bisogni linguistici. I mass media hanno esigenze
stilistiche di brevità e sintesi, che li portano ad uniformare il lessico verso la semplificazione, ed
anche esigenze di brillantezza che li portano a caricare enfaticamente i vocaboli scelti. Essi sposano
dunque un lessico, anche neologico, fatto di parole veloci e sintetiche, spesso connotate
espressivamente. Data la diffusione capillare dei mass media nella popolazione e la tendenza
psicolinguistica del parlante a sentire il linguaggio massmediatico come rispecchiamento del
proprio linguaggio ed essendo, per questo, portato alla sua imitazione, può accadere che i bisogni
linguistici dei media, indotti dalle loro caratteristiche tecniche, diventino inconsciamente e più o
meno motivatamente i bisogni linguistici della comunità stessa. Se un’ipotesi del genere può
sembrare eccessiva o azzardata, rimane vero che, per gli stessi motivi di pervasività e per
l’abitudine del parlante con il linguaggio dei mass media, che viene così introiettato e fatto proprio,
essi possono incidere sull’atteggiamento collettivo e sociale nei confronti della norma linguistica,
rendendola più flessibile e tollerante verso le nuove parole, portando ad esempio ad una più
frequente accettazione di forestierismi difficili o di termini connotati stilisticamente, veicolati dai
mass media, di cui non ci sia un vero e proprio bisogno sentito dalla comunità.
Dai risultati della ricerca condotta durante l’elaborazione della Tesi Specialistica emerge che
le caratteristiche specifiche della neologia mediatica rispecchiano le tendenze del discorso
mediatico globale e possono quindi costituirne una riprova poiché:
1. I NM SONO SINTETICI E VELOCI COMPROVANDO LE SPINTE IN DIREZIONE SINTETICA
DEL DISCORSO MEDIALE CHE IN PARTE SONO GIÀ SISTEMICHE NELLA LINGUA
ITALIANA:
I media favoriscono ed accelerano i processi di semplificazione e omologazione che rientrano per lo
più nel generale processo di evoluzione della lingua italiana. Alcune delle più frequenti tipologie di
NM, infatti, si inscrivono pienamente entro le tendenze generali già conclamate del sistema italiano,
di cui si è parlato nel capitolo terzo, in direzione di una maggiore sinteticità e concentrazione
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espressiva. Molti NM risultano altresì caratterizzati da un tratto peculiare, che deriva loro
dall’essere collocati nel contesto mediatico, che è come vedremo quello della velocità.
2. I NM SONO INVESTITI FORTEMENTE DA FENOMENI DI SERIALITA’ COMPROVANDO
LA SPINTA OMOLOGANTE DEL DISCORSO MEDIATICO:
Si tratta di un aspetto molto vistoso e significativo che si lega al rapporto tra innovazione e
conservazione nella lingua mediatica.
3. I NM SOLLEVANO PROBLEMATICHE RIGUARDANTI LA CHIAREZZA DEI SIGNIFICATI
E LA COMPRENSIONE DI ALCUNE TIPOLOGIE DI FORME LESSICALI COMPROVANDO
IN TAL MODO I TRATTI DI OPACITA’ CHE AFFLIGGONO ANCOR OGGI IL DISCORSO
MEDIATICO:
Questo aspetto si lega in modo indissolubile al problema della comprensione. In particolare saranno
evidenziati da questo punto di vista gli usi, spesso motivati dalle esigenze imposte dallo stile
brillante, di tecnicismi e forestierismi.
4. ALCUNI NM COMPROVANO IL FENOMENO “VAGO” DELLO SVUOTAMENTO DI
SIGNIFICATO DELLE PAROLE, PERCEPIBILE NELL’USO LINGUISTICO DEI MASS
MEDIA:
A questo livello il problema sembra essere quello di una perdita di espressività e di ricchezza, anche
e soprattutto concettuale, e di specificità semantica delle parole, sia prese singolarmente, sia
connesse e strutturate nel discorso. Ciò riguarda alcuni tipi di NM che subiscono questo fenomeno
come conseguenza della serialità, ma riguarda anche le parole di uso corrente, il cui nucleo
semantico, in molti casi, viene progressivamente corroso.
5. ALCUNI NM COMPROVANO L’ATTIVAZIONE DI PARTICOLARI STRATEGIE
PERLOCUTORIE E PERSUASIVE CHE SOTTENDONO UNA FUNZIONALITA’
IDEOLOGICA:
Questo tipo di strategie retorico-persuasive si manifestano compiutamente nei caratteri realizzati
attraverso lo stile brillante e cioè la drammatizzazione del discorso e la sua patemizzazione-
emozionalizzazione, la configurazione della notizia come parte di un romanzo a puntate con la
personalizzazione di suoi attori, l’insinuazione di giudizi, lo spostamento del punto di vista, l’uso di
toni ironico-polemici, fattori che ritroviamo puntualmente nelle caratteristiche dei NM
rispettivamente attraverso: la presenza notevole di una terminologia a forte carica ansiogena, la
proliferazione di deonomastici, l’uso di alterati, l’uso funzionale di particolari categorie di parole e
di gerghi, la funzionalizzazione dell’ironia e della polemica.
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Le nuove parole fanno notizia. Elementi per una riflessione sulle fonti della
neologia italiana contemporanea
La riflessione proposta in questo contributo nasce da una mia recente ricerca sui neologismi
impiegati nell’informazione massmediatica come strumenti dello “stile giornalistico brillante”
(Dardano; Loporcaro). Proprio in risposta alle esigenze espressive di tale paradigma stilistico, i
neologismi prodotti e/o diffusi dai mezzi di comunicazione sembrano essere accomunati, in
tendenza, dalle seguenti caratteristiche: sinteticità e condensazione semantico-informativa
(Verardi); serialità dei costrutti lessicali; residuale opacità, nonostante la semplificazione di cui il
linguaggio giornalistico è stato oggetto a partire dagli anni Settanta; attivazione di strategie
discorsive linguistico-retoriche che innescano particolari percorsi cognitivi, dalla fidelizzazione
dell’utente alle forme di spettacolarizzazione del contenuto informativo.
Simili caratteristiche rappresentano vere e proprie criticità del linguaggio (tele)giornalistico, poiché
il loro esame lascia emergere un’imponente tendenza verso un uso semplificato, strumentalizzato e
trascurato delle nuove parole. Tra le implicazioni di un siffatto regime discorsivo se ne può
intravedere una legata alla questione delle fonti neologiche, la quale impone di riflettere su alcuni
dei cambiamenti determinati dalle comunicazioni di massa.
Se fino alla metà del Novecento le fonti di innovazione lessicale provenivano principalmente da
scrittori e poeti e dagli apporti di scienza e arte, in seguito, con il consolidamento dei caratteri delle
società post-moderne, i mass media sono progressivamente diventati i più influenti divulgatori non
solo di notizie, oggetti e concetti innovativi, ma anche delle nuove parole che li esprimono. Da una
parte, dunque, dietro alla neologia rimane indubbiamente il fenomeno del mutamento sociale; ma,
dall’altra, nell’attuale società della comunicazione non si può ignorare l’operato dei media, i quali,
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orientati verso un tipo discorso che attiri il pubblico, diffondono a tal scopo «un’importante
porzione di materiale neologico» (Lurati).
Tuttavia, poiché “produzione” e “diffusione” rappresentano due momenti complementari ma distinti
del processo neologico, è importante chiarire che i media non sono da reputarsi come l’unica, né
forse la principale, fonte di neologia. Oggi, infatti, le fonti neologiche sono forse ancor più
numerose che in passato ma, con l’avvento dei media, si è imposto un cambiamento che suggerisce
di guardare al fenomeno neologico secondo una duplice prospettiva, linguistica e sociologica, dalla
quale è possibile derivare una bivalente significazione del concetto di “fonte”. È sulla base di tali
considerazioni che ho ritenuto opportuno introdurre le nozioni di fonte creativa e fonte percepita.
Con l’espressione fonte creativa intendo ciascuna di quelle che tecnicamente si chiamano “aree di
rinnovamento lessicale”, cioè le tante macrocategorie settoriali (scienza, tecnica, economia, finanza,
moda, medicina, burocrazia, ecc.) dai cui metalinguaggi scaturiscono nuove parole. Tra di esse
troviamo anche i mass media, i quali vanno considerati come una fonte creativa al pari di tutte le
altre, poiché anch’essi sono materialmente produttori di nuove parole, sia quando i giornalisti
inventano neologismi riferiti a qualche aspetto della realtà esterna (fantuttismo, di Remo Bassetti,
La Stampa), sia quando gli operatori della comunicazione creano dei neologismi per riferirsi a
elementi della propria realtà interna (format).
Il grande cambiamento che la rivoluzione delle comunicazioni ha comportato si situa però solo
marginalmente al livello della fonte creativa: il suo vero impatto si realizza sul piano sociologico
della ricezione, cioè sul piano della fonte percepita, strettamente connessa alla diffusione dei
neologismi. Con fonte percepita intendo, infatti, il canale di diffusione del rinnovamento lessicale,
nella fattispecie, il testo o il discorso nel quale, per la prima volta e più spesso, il parlante viene in
contatto con il neologismo, indipendentemente dalla sua fonte creativa originaria.
Fermo restando che ogni fonte creativa è anche una fonte percepita, ciascuna lo è con un grado di
intensità diverso che varia in base alla diffusione sociale dei canali che ne veicolano i neologismi: le
pubblicazioni di astrofisica sono una fonte percepita di intensità minore rispetto alle istruzioni d’uso
di un nuovo elettrodomestico, poiché rappresentano un testo nel quale un numero minore di parlanti
meno spesso vengono in contatto per la prima volta con un neologismo rispetto alle seconde.
La fonte percepita di maggiore intensità in passato era probabilmente la letteratura, sebbene questa
non possa considerarsi “intensa” come lo sono oggi i mass media: non si era mai verificato, prima
dell’avvento dei mezzi di comunicazione, che un solo canale, come la stampa o la televisione, fosse
in grado di veicolare a tutta la popolazione i neologismi provenienti da tutte le aree di rinnovamento
lessicale, cioè che un solo canale si ponesse, sociologicamente, come fonte percepita di tutti i
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neologismi provenienti dalle varie fonti creative. I media vanno dunque ritenuti la fonte percepita di
massimo grado d’intensità perché sono, appunto, il discorso in cui per la prima volta e più spesso i
parlanti vengono in contatto con qualsiasi tipo di neologismo.
Il fatto che in questo modo semplice e veloce si possano aggiornare e incrementare le proprie
conoscenze, anche linguistiche, rappresenta senza dubbio un fattore positivo. Tuttavia, l’apicalità
dei media come fonte percepita determina anche circostanze dannose per la comprensione. Ciò
accade sia quando la consapevolezza di tale apicalità non si “responsabilizza” e si lascia che i tempi
redazionali, le esigenze dell’infotainment o l’ignoranza dei significati specialistici, portino a
bombardare l’utente di neologismi privi di spiegazione, sia quando, invece, i giornalisti sfruttano
consapevolmente la sovrapposizione, nella coscienza enciclopedica degli utenti, tra fonte creativa e
fonte percepita e la loro fiducia nell’autorità sociale del mezzo giornalistico, veicolando significati
strumentalizzati o manipolati di neologismi particolarmente opachi, generalmente sconosciuti
nell’accezione specifica che essi hanno nel contesto delle loro fonti creative poiché queste,
socialmente, sono fonti percepite di bassa intensità.
Per esemplificare tale situazione comunicativa si può illustrare il caso del neologismo soft law.
Esso, nel 2009, è stato copiosamente impiegato dalla stampa in riferimento ad un emendamento
proposto al “ddl Calabrò” dall’On. Benedetto Della Vedova. Come si può leggere nel blog del
politico e in molti resoconti giornalistici della notizia, l’uso di soft law venne giustificato poiché si
trattava di una proposta legislativa che
Se, però, si analizza il significato di soft law nella sua fonte creativa, si scopre che l’espressione,
proveniente dal linguaggio giuridico anglosassone, ha questa definizione:
1
http://www.benedettodellavedova.com/blog_archive/002445.html;
http://archivio.lastampa.it/LaStampaArchivio/main/History/tmpl_viewObj.jsp?objid=9656380.
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insieme delle regolazioni e raccomandazioni di carattere deontologico, emanate da imprese,
consorzi, consociazioni nazionali o internazionali che, pur prive di formalità e cogenza,
incidono sui comportamenti anche privati (Gradit 2007);
e fa riferimento a
una serie di fenomeni di regolazione connotati dalla produzione di norme prive di efficacia
vincolante diretta. La soft law si contrappone, quindi, ai tradizionali strumenti di normazione
(leggi, regolamenti ecc.), emanati […] da soggetti che ne hanno l'autorità (parlamenti, governi
ecc.), i quali producono norme dotate di efficacia vincolante nei confronti dei destinatari (hard
law)2.
E’ qui evidente la produzione di uno scarto semantico tra il significato di soft law nella sua fonte
creativa e quello veicolato dalla fonte percepita, i media, cassa di risonanza della politica. Si è
promosso, infatti, un significato del neologismo che contraddice quello tecnico: un emendamento
rimane uno strumento di hard law anche se il suo contenuto prevede (oltrettutto, in questo caso,
solo parzialmente) una certa discrezionalità basata su un codice deontologico. Soft law è stato
adibito a descrivere il contenuto contingente di una specifica legge, allontandolo dalla sua accezione
tecnica, dove invece inquadra una prassi normativa così denominata non perché chiamata a mediare
sul merito delle questioni, ma perché, giuridicamente, non ha carattere vincolante.
Esistono numerosissimi esempi di titoli ed articoli sulla “legge soft” in quest’accezione sviante. Ne
riportiamo solo uno in cui si istituisce anche un parallelismo metaforico in chiave polemica e
banalizzante:
Occorre un passo da entrambe le parti, una soft law, una legge leggera, come si dice soft
ice, gelato spumoso […].3
L’impressione è che, da una parte, il politico e blogger - anche lui, quindi, operatore della
comunicazione - abbia usato il termine in funzione “sloganistica” per etichettare bonariamente la
2
http://www.revestito.it/?id1=93&idaux=98&wiki=Soft_law. Si vedano anche:
http://www.ddcustomslaw.com/pdf/Soft_law_lex_mercatoria.pdf, http://www.unesco.de/1507.html,
http://www.jus.unitn.it/appalti/dottrina/alberti/articolo.htm#2.
3
http://www.ilgiornale.it/news/che-errore-cambiare-quella-legge.html. Tra gli altri articoli, si vedano ad esempio:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/11/17/testamento-biologico-battaglia-nel-pdl-in-
40.html?ref=search,
http://archiviostorico.corriere.it/2009/agosto/30/Fini_parlato_come_esponente_pdl_co_8_090830025.shtml,
http://archivio.lastampa.it/LaStampaArchivio/main/History/tmpl_viewObj.jsp?objid=9192991.
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soluzione “di compromesso” dell’emendamento (in realtà ambiguo e non risolutivo dell’intera
questione) e che, dall’altra, i media abbiano accettato e diffuso, per opportunismo o per
impreparazione, ma sempre sfruttando l’impatto spettacolare e sensazionalistico che l’espressione
pesudo-tecnica e anglofona forniva loro, un’accezione del termine soft law diversa da quella della
sua fonte creativa, determinando, da entrambe le parti, conseguenze banalizzanti, semplificatorie e
talvolta manipolative sul piano della ricezione.
VI. Conclusioni
Emerge, in definitiva, un’importante questione culturale, poiché i mezzi d’informazione, in virtù del
loro potere e in considerazione della disparità di formazione degli utenti e delle loro possibilità di
accedere a fonti diverse di approfondimento, dovrebbero sempre fare un uso approfondito delle
parole, soprattutto dei neologismi, i cui significati, proprio per la loro novità, sono spesso
sconosciuti o mal conosciuti dai parlanti. Credo sia dunque possibile e doveroso approfondire
l’indagine sui fenomeni di ricezione delle nuove parole e dei contenuti informativi che esse
veicolano. I linguisti, anche da un punto di vista divulgativo e lessicografico, possono sostenere con
la loro esperienza e professionalità una più equa strutturazione dei saperi collettivi, nell’interesse di
tutti i cittadini che nutrono ancora il bisogno di essere informati senza una, non indubitabile tuttavia
verosimile, mistificazione dei contenuti del sapere.
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