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1. 19.09.

2022, ore 12:00-13:30 (Marta Viani)

Con la parola grammatica si indica l’insieme di regole che governano l’espressione linguistica in
una data epoca. Queste regole sono quindi meccanismi di funzionamento del sistema (lingua) che
prescindono da altri fattori e che esistono e sono attive prima di essere esplicitate.
A cosa serve l’esplicitazione delle regole grammaticali? Serve a sviluppare la riflessione
grammaticale, metalinguistica, cioè serve ad educare a riflettere sulla lingua per far sviluppare
determinate capacità di astrazione (generalizzazione, categorizzazione, ragionamento logico).
Per valutare un’espressione linguistica possiamo ricorrere a criteri diversi:
• Criterio preliminare: la valutazione della grammaticalità/agrammaticalità di un'espressione
linguistica; “a che gioco stai giocando?”, “*a gioco stai giocando quale?”. La prima frase è formata
secondo le normali regole di funzionamento dell’italiano (è quindi grammaticale), la seconda no (è
quindi agrammaticale: la frase agrammaticale viene segnalata facendola precedere da un asterisco).
• Criterio della accettabilità sociale, valutato sulla base del binomio giusto/sbagliato: “se avessi
tempo, verrei a lezione” , “se avrei tempo, verrei a lezione”; in questo caso si ragiona sulla base della
norma linguistica così come è riconosciuta dai parlanti colti di una determinata epoca.
• Criterio della opportunità contestuale, valutato sulla base dell’appropriatezza dell’espressione
linguistica al contesto in cui viene utilizzata e quindi della sua formalità o informalità: “Se arrivavo
prima, non perdevo la lezione” (contesto informale), “Se fossi arrivato prima, non avrei perso la
lezione” (contesto formale).
Ai diversi tipi di criteri corrispondono delle azioni didattiche distinte.

Introduzione alla variazione linguistica


Le parole della lingua italiana variano in base a determinati parametri:
1. variazione diatopica (nello spazio)
2. variazione diafasica (a seconda del contesto comunicativo)
3. variazione diastratica (a seconda del livello di istruzione, cambia il livello di repertorio lessicale)
4. variazione diacronica (a seconda del tempo, nel corso dei secoli, nel confronto generazionale)
5. variazione diamesica (a seconda del mezzo di comunicazione).

Introduzione alle strutture dell’italiano


Esistono due tipi di significati linguistici: uno attribuito alle parole (significato lessicale), e uno
attribuito ai morfemi (significato grammaticale).
Il significato di cui sono portatori i morfemi è relazionale: indica infatti i legami reciproci tra le
parole in una frase e i legami tra le singole parole e il resto del loro paradigma, ed è individuabile
conoscendo le regole implicite del sistema linguistico. Sono portatori di significato grammaticale le
desinenze di nomi, aggettivi e verbi e le congiunzioni, le preposizioni, gli articoli, i pronomi e alcuni
avverbi (ben, non, già, -mente).
Il significato di cui sono portatori i lessemi (o morfemi lessicali) è invece referenziale, ovvero
designa un’entità esistente nel mondo o nella coscienza dei parlanti: è “opaco”, cioè non è
deducibile dai singoli suoni o gruppi di suoni, e quindi richiede che il parlante lo conosca.

Concetti esplicitati durante la lezione:


• Sintassi: ordine delle parole, che in italiano è portatore di significato.
• Morfologia: come sono fatte le parole e perché gli elementi costitutivi della parola sono
portatori di significato
• Geosinonimi: parole di uso locale.
Lezione di Linguistica italiana
3 ottobre, ore 10.15-11.45 (Federica Pacchini)

Nella seconda lezione abbiamo approfondito alcuni concetti presenti nel primo capitolo del libro di
Adorno.

La differenza fra omonimia e polisemia


Si parla di polisemia quando una parola assume più di un significato; l’omonimia si ha, invece,
quando più parole con forma grafica o pronuncia uguale hanno significati diversi. Per riconoscere
se si tratta di polisemia o omonimia bisogna fare riferimento all’origine della parola, alla sua
etimologia: se le due parole di pronuncia e grafia identica hanno lo stesso etimo, allora si tratta di
una sola parola polisemica, se invece hanno due etimi diversi allora sono due parole diverse tra di
loro omonime. Il principio di base è: a un solo etimo corrisponde una sola parola.
Per conoscere l’etimologia di una parola la si cerca sul dizionario. Abbiamo quindi cercato sul sito
del vocabolario Treccani la parola calcio riprendendo uno degli esercizi presenti sul libro e abbiamo
trovato una classificazione di tre lemmi relativi a questo termine (indicati con calcio1, calcio2 e
calcio3). Nel vocabolario ci sono quindi tre voci diverse: i numeri in apice che contraddistinguono i
lemmi che intestano le voci ci riferiscono che siamo in presenza di tre parole diverse, tra di loro
omografe (si scrivono nello stesso modo) e omofone (si pronunciano allo stesso modo). Ogni
parola individuata nel suo etimo dà luogo, nel vocabolario, ad una voce.
Il vocabolario ci dice che le voci calcio sono tre, alle quali corrispondono tre etimologie diverse ed
indicano, perciò, omonimia:
• Calcio1: dal lat. calx, -is, ‘tallone’
• Calcio2: der. di calciare
• Calcio3: lat. scient. calcium, der. del lat. calx, calcis

Poi, ciascuna parola può avere più significati; i significati per ogni voce sono indicati nel
vocabolario con i numeri arabi:
• Calcio1 dal lat. calx, -is, ‘tallone’
1. Ant. (anticamente) “calcagno”; evoluzione diretta del significato di tallone.
2. Estens. (estensivo o figurato: proiezione/estensione di un significato proprio ad altri
referenti, riguarda l’applicazione del significato primario di una parola a referenti
non propri):
a: lett. (letterario) “piede della pianta”
b: ant. “falda, piede d’un monte”
c: “estremità, parte inferiore della lancia”
d: “parte inferiore della cassa del fucile e impugnatura della pistola”
Nei significati 2c e 2d la parola si usa in riferimento ad una parte specifica di un
oggetto che è cambiato nel tempo; quel significato è stato trasferito ai vari oggetti
sulla base dell’epoca storica.
3. Un pezzo meccanico presente negli scambi ferroviari (in questo caso, il termine
calcio è usato per slittamento metaforico: uso di un termine attribuito ad uno
specifico oggetto su un altro oggetto; es: collo di bottiglia).
2
• Calcio der. di calciare
Con “der.” si indica una derivazione; la derivazione riguarda parole che hanno la stessa
radice a cui si aggiunge qualcosa, suffissi o prefissi. Ad esempio, considerando la parola
operare, si prende il morfema lessicale oper e si aggiunge un suffisso, per esempio -azione.
Nel caso di calcio, per derivarlo da calciare non si toglie nulla perché la “o” è il morfema
grammaticale che ci indica maschile singolare; in questo caso si parla di derivato a suffisso
zero. Può succedere che i bambini usino termini come calciamento o calciazione perché
applicano la regola di derivazione che forma un nome di azione, che si crea col suffisso -
zione o -mento; anche se è errato ne capiamo il senso. La derivazione, quindi, è la creazione
di una nuova parola a partire da una parola già esistente, aggiungendo qualcosa che può
essere anche niente. Le evoluzioni dal latino sono di tipo verticale (dal latino, lingua mafdre,
all’italiano, lingua figlia), mentre la derivazione di una parola da un’altra è di tipo
orizzontale (dall’italiano all’italiano).
1. Colpo dato col piede
2. Calcio alla luna (locuzione); un tipo di calcio specifico
3. a: gioco di origine inglese
b: calcio d’inizio, calcio d’angolo… (locuzione); diverse fasi del gioco
4. colpo nel gioco del biliardo
Il fatto che calcio2 abbia diversi significati ne fa una parola polisemica: è il contesto a selezionare il
significato pertinente.

• Calcio3 dal latino scient. calcium, der. del lat. calx, calcis. Indica l’elemento chimico
Calcio.
La terza parola calcio ha un suo proprio etimo. La definizione che ne dà il Treccani è molto lunga e
tecnica, tanto che possiamo definirla enciclopedica (definisce la cosa e non invece l’uso della
parola). Si osservi che nel linguaggio tecnico-scientifico c’è un rapporto biunivoco fra la cosa e il
modo con cui la si designa; questo non avviene nel linguaggio naturale in cui le parole sono, come
abbiamo visto, polisemiche.

Dare la definizione di una parola significa rappresentare, descrivere e segmentare il significato a


partire dall’uso di quella parola nella lingua. Oltre al dizionario Treccani, possiamo usufruire anche
del dizionario De Mauro, uscito nel 1999 in 6 volumi più 2 volumi di appendice; è il dizionario più
recente di prima mano. È molto moderno, sono presenti anche le marche d’uso di ogni parola (le
scritte in rosso) che ci indicano quanto un significato è frequente nella lingua. Lo si trova online sul
sito della rivista Internazionale.

3 ottobre, ore 12:00-13:30 (Giulia Tognocchi)

Nella seconda parte della lezione è stato svolto in classe l’esercizio a pagina 3 del libro
La grammatica italiana di C. Adorno, che chiedeva di individuare il numero di parole
nelle frasi proposte. Ci siamo soffermati su Parliamogliene e, dopo una prima
discussione in classe, l’ipotesi è stata quella che si trattasse di una sola parola, poiché
non vi fosse nessuno spazio a dividerla, secondo un criterio grafico.
Ma, per individuare il numero di parole, è stato prima necessario comprendere il
significato di essa; ovvero trovare e riflettere sulla definizione di PAROLA.
Parliamogliene è stato trasformato in gliene parliamo, evidenziando che gliene da solo
non avesse un significato referenziale, ma bensì un significato grammaticale (‘a
lui/loro/lei di questo’).
Analizzando ancora la parola dell’esercizio, ci siamo soffermati sull’accento tonico,
la cui posizione è distintiva nella lingua italiana; ad esempio àncora e ancòra,
ricordando anche che solo le vocali hanno accento. In parliàmogliene si trova nella
quart’ultima sillaba.
Ritornando al significato di parola è stato fatto l’esempio di: la casa, che dal punto di
vista fonetico è possibile scrivere tutto attaccato, poiché parlando non scandiamo
precisamente gli elementi, facendo pause lunghe tra di loro, ma eravamo comunque
tutti concordi che si trattasse di due parole (LA e CASA). È stato osservata che la può
essere sostituito con una, bella… e casa può essere sostituita da dimora, ad esempio.
Anche in parliamogliene, -gliene può essere sostituito da -tene (parliamotene) e
parliamo può essere sostituito da discutiamo, diciamo, ecc.
Siamo arrivati quindi alla conclusione che le parti commutabili, che si possono
sostituire quindi, sono individuabili come parola, la cui definizione prototipica è: la
parola è una sequenza che non può essere interrotta, non posso commutarne gli
elementi, ed è dotata di significato (che può essere grammaticale o referenziale). Ad
esempio ferro da stiro è una sola parola, una locuzione più precisamente; ha
significato unitario, non è interrompibile e i suoi elementi non sono commutabili. Se
io dicessi *acciaio da stiro non avrebbe senso e così il *ferro mio da stiro, dico
invece il mio ferro da stiro.
Per concludere abbiamo parlato di funzione deittica e funzione anaforica del
pronome. Dicendo: è stato lui, indichiamo qualcuno di preciso e introduciamo un
nuovo elemento nel discorso (funzione deittica), mentre utilizziamo egli per
riprendere qualcosa di precedentemente detto (funzione anaforica).
3. lezione 10.10.2022, ore 10:15-11:45 (Irene Poletti)

Le Indicazioni Nazionali del 2012 stabiliscono traguardi di lungo periodo ambiziosi e innovativi
rispetto alla pratica tradizionale e al tempo stesso lasciano agli insegnanti un margine di manovra
ampio sul percorso da intraprendere per il loro raggiungimento. Si tratta di un aspetto sicuramente
positivo, che tuttavia pone maggiori difficoltà rispetto ai programmi più prescrittivi e rigidi.
Le Indicazioni Nazionali sono uscite nel 2012 ma hanno una storia alle spalle. In particolare, il
punto di svolta si può fissare al 1975, quando escono le 10 tesi del GISCEL (Gruppo di intervento e
studio nel campo dell’educazione linguistica). Il decennio in questione si caratterizza come un
periodo di rinnovamento e svecchiamento socio-economico della nazione in cui vennero a
maturazione riflessioni portate avanti dagli anni Cinquanta sulla necessità di un educazione di massa
che includesse le fasce sociali fino a quel momento rimaste ai margini del sistema scolastico e
produttivo. Il GISCEL nasce all’inizio degli anni Settanta come una associazione di studiosi,
professori, insegnanti di diverse discipline e si pone come obiettivo quello di rendere adatto il sistema
scolastico alla nuova realtà sociale e ai nuovi bisogni della società.
Questo gruppo di insegnanti di vari ordini e gradi produsse un manifesto programmatico che fece
un notevole scalpore: le Dieci tesi per un’educazione linguistica democratica. L’educazione
linguistica democratica ha come scopo principale l’inclusione di fasce economico-sociali fino ad
allora trascurate dalla scuola e lasciate ai margini dal sistema produttivo. Il presupposto che permette
di perseguire questo scopo è quello della valorizzazione del patrimonio linguistico di ciascuno. Il
patrimonio personale esiste e deve essere preso come punto di partenza per aspirare ad un italiano
ricco e capace di adattarsi alle diverse circostanze comunicative.
La prima applicazione dello spirito delle Dieci tesi sono stati i Programmi per le scuole elementari
del 1985, i quali recepivano in pieno uno dei principi maturati con la didattica che nasceva dal
GISCEL: lo sviluppo delle quattro abilità (ascoltare, parlare, leggere e scrivere). La grammatica nei
programmi del 1985 ricopriva un posto marginale, si diceva che non doveva essere regolistica e
astratta ma non si approfondiva ulteriormente il discorso. In realtà come reazione al decennio di
profondo rinnovamento della didattica (1975-1985) che metteva da parte la grammatica tradizionale,
c’era stato un grande ritorno ad un insegnamento di questo tipo. Gli anni Duemila sono poi stati
caratterizzati da continue modificazioni e aggiustamenti ministeriali.
Si arriva all’assetto per infanzia, primaria e secondaria di prima grado nel 2012, con con la
pubblicazione delle Indicazioni Nazionali.
Se ci soffermiamo sui sottoparagrafi della parte dedicata all’italiano vediamo che sono intitolati
“oralità”, “scrittura” e “lettura”. Considerando che “oralità” comprende entrambi gli aspetti del
parlato e dell’ascolto, le Indicazioni riprendono le quattro abilità del GISCEL. Il primo impianto che
viene dato all’insegnamento dell’italiano è dunque quello che ha origine nelle dieci tesi.
Nella parte delle Indicazioni Nazionali dedicata all’italiano troviamo anche l’espressione
“alfabetizzazione funzionale”, cioè la capacità di utilizzare la lingua nei diversi contesti per
rispondere alle necessità della vita. Con analfabetismo funzionale si intende dunque il fatto che nella
società si rilevi l’esistenza di una parte della popolazione che sa leggere e scrivere dal punto di vista
tecnico, ma non capisce, o non sa come usare la lingua esprimendosi adeguatamente nelle diverse
situazioni e nei diversi contesti.

3. lezione 10.10.2022, ore 12:00-13:30 (Anna Demi)


Commento Indicazioni Nazionali, “Elementi di grammatica esplicita e riflessione sugli usi della
lingua”
Con “grammatica implicita” si intende l’insieme delle regole di funzionamento della lingua, non
formalizzate, ma di cui si conosce l’applicazione con le quali i bambini arrivano a scuola. La
grammatica implicita si amplia e si rafforza negli anni attraverso l’uso della lingua, ad esempio si
ampliano le strutture sintattiche.
Con l’espressione “italiano standard” intendiamo l’italiano condiviso dalla comunità dei parlanti
colti, questa è l’unica definizione possibile di standard che si può dare.
I regionalismi non sono deviazioni dell’italiano, sono corretti: in Italia le varietà diatopiche non
sono censurate e per questo ci si può lavorare bene con i bambini, perché si divertono a fare questo
tipo di riflessioni. Spesso gli oggetti quotidiani e le cose da mangiare in italiano non hanno una forma
standard e questo dipende dalla storia dell’italiano.
Es. di diatopia: nasello e merluzzetto per indicare lo stesso pesce. Non c’è un solo modo, e di
conseguenza non c’è un modo giusto di chiamare quello stesso pesce.
Altro esempio: i termini acquaio, lavello e lavandino per indicare lo stesso oggetto. Ci sono termini
che a volte non sono così simili tra loro e possono provocare delle incomprensioni, come ad esempio
in toscana si dice nasino per intendere una molletta per i panni.
Su alcune zone della lingua l’italiano ha uno standard debole, per esempio sul lessico. Il lessico,
soprattutto quello colloquiale, in italiano non è tanto normato quanto la morfologia, tant'è vero che è
difficile da correggere perché manca un modello unico di riferimento. Le varietà regionali non sono
fortemente squalificate e non sono oggetto di censura sociale, come invece accade in altre lingue.
Non possiamo, ad esempio, correggere un bambino che chiama matita il lapis o pastelli le matite
colorate. Fino a che le cose non compromettono la comprensione non ha senso correggere.
Quante frasi possiamo formulare, rimanendo nella correttezza, per esprimere uno stesso concetto?
Facciamo un esempio:
- “Oggi ho visto / ho veduto tuo papà.”
- “Stamani ho visto tuo babbo.”
- “Stamane ho visto tuo padre.”
- “Stamattina ho incontrato tuo papà.”
- “Questa mattina ho visto tuo padre.”
Vanno bene tutte, tutti questi modi sono corretti e comprensibili. Questo rende l’italiano da un
punto di vista, meno normativo e dall’altro, più difficile da gestire perché ci sono più possibilità di
scelta. Inoltre, noi non abbiamo un equivalente dell’Académie française che ci dica cosa è giusto e
cosa è sbagliato: la nostra Accademia della Crusca non ha un ruolo normativo in materia di lingua, è
diversa la storia.
Dalle Indicazioni Nazionali: “sin dai primi anni di scolarità, i bambini hanno una naturale
predisposizione a riflettere sulla lingua”, questo è vero infatti, spesso i bambini hanno qualcosa da
dire sulla lingua e le sue varietà, perché la lingua è parte di ognuno e tutti la sentono propria, non c’è
bisogno di stimolarli particolarmente. La predisposizione a riflettere sulla lingua può essere sia
condizione di partenza, che modo per ottenere la grammatica esplicita.
Capoverso sull’ortografia, Indicazioni Nazionali: “Per quanto riguarda l’ortografia, da una parte
è fondamentale che essa sia acquisita e automatizzata in modo sicuro nei primi anni di scuola, in
quanto diventa difficile apprenderla più in là con gli anni; dall’altra la correttezza ortografica deve
essere costantemente monitorata a tutti i livelli di scuola.” Questa parte è squisitamente normativa e
meno democratica rispetto al capoverso precedente sulla riflessione metalinguistica e sull’apertura
alle diverse varietà linguistiche.
Dopodiché nel testo segue un elenco di argomenti che devono essere affrontati in grammatica o in
riflessione metalinguistica. Sono tantissime cose: c’è assolutamente tutto ed è impossibile pensare
anche solo di accennarle tutte in cinque anni.
Ecco perché richiede una grande consapevolezza da parte dell’insegnante, è necessario fare una
selezione e delle scelte. Tutto non si può insegnare, bisogna fare delle scelte che abbiano un senso.
Meglio dire poche cose, ma chiare, vere e che innescano meccanismi che si ricordano nel tempo. Per
questo è consigliabile un uso minimo della terminologia tecnica anche perché non è detto che le
etichette rimangano le medesime nei gradi di studio successivi. Meglio ragionare sulla “cosa” e non
sull’etichetta che la identifica, perché la “cosa” si riconoscerà meglio in futuro anche se magari verrà
chiamata diversamente.
4. lezione 17.10.2022, ore 10:15-11:45 (Sofia Battistini)

La lezione inizia parlando dell’esempio a pagina 29 del libro La grammatica italiana:


1. si è addormentato
2. ha dormito
nella prima frase (1) l’azione è non durativa (o momentanea), nella seconda (2) è durativa. Solo
i verbi con azione durativa sono compatibili con un’espressione “per x tempo”.
La duratività si interseca anche con la struttura argomentale (o valenza), quindi dipende dal
significato preciso che un verbo prende in un determinato contesto. Nell’ esempio (1) il verbo
addormentarsi indica il passaggio dal momento in cui si è svegli al sonno; si tratta appunto di
un momento iniziale (si dice incoativo) e per questo motivo non ha una durata.
Un altro esempio può essere fatto con i verbi cercare e trovare:
• cercare per mezz’ora
• trovare in un attimo (non *trovare per mezz’ora).
Il primo esempio il verbo cercare indica uno svolgimento nel tempo, mentre trovare indica
un’azione momentanea; quindi, non è possibile aggiungere l’espressione per mezz’ora (che
invece indica una durata).
Un ultimo esempio può essere fatto con il verbo volare:
• La rondine è volata sulla città nel pomeriggio. In questa frase si ha come indicatore temporale
nel pomeriggio, che indica un momento preciso.
• L’aereo ha volato per un’ora sulla città. In questa frase è stato inserito come indicatore
temporale per un’ora, che indica la durata di un’azione.
Alcuni verbi, quindi, hanno duplice possibilità di costruzione; ad esempio, volare si può
costruire sia con essere che con avere, ma nei due casi indica una temporalità diversa.
Anche con piovere si può ottenere questa duplice costruzione:
• Ha piovuto per un’ora
• È nevicato in un attimo
Negli esempi per indica una durata, invece in indica una non durata.
Altro esempio:
• Gli aerei hanno volato per dieci minuti
• Le rondini sono volate via in un attimo (non *per dieci minuti)
Nella prima frase volato non è concordato con il soggetto, volate invece sì. Con l’ausiliare
essere il soggetto regola l’accordo sia con la parte finita del verbo essere che con il participio
passato, invece con il verbo avere il soggetto regola solo il rapporto con la parte finita del verbo.
In italiano quali i modi finiti del verbo sono l’indicativo (tempi semplici e non composti),
congiuntivo, condizionale. I modi non finiti invece sono l’infinito, il gerundio (sia passato che
presente), il participio (sia passato che presente).
Hanno volato è un passato prossimo e il soggetto si accorda con la parte finita, perché dice
tempo, modo, persona e aspetto (diversamente, il participio passato indica il plurale/singolare
e il maschile/femminile; il participio presente solo singolare/plurale e il maschile/femminile
solo nella grafia dei participi che iniziano con vocale: un amante vs un’amante).

Definizione tradizionale e nozionale di soggetto: colui che compie l’azione. Ma nelle frasi
“Alice si è addormentata alla conferenza” o “Maria ha mal di testa” non esiste alcuna azione
(se con “azione” si intende un’operazione intenzionale): in questi casi il soggetto, quindi, NON
è colui che fa o subisce un’azione. Nella frase “A Mario piace la pizza”, la pizza (soggetto
grammaticale) non fa certo nessuna azione. Quindi le definizioni nozionali sembrano andar
bene ma in realtà hanno bisogno di una precisazione; è difficile dare una definizione nozionale
che copra tutta la casistica. Invece ciò che spiega tutti i casi è la definizione formale-funzionale,
che dice: il soggetto è l’elemento che si accorda con la parte finita del verbo.
Un esempio in cui sia il soggetto che il complemento oggetto concordano con il verbo è:
• il cane morde il postino
• Il postino morde il cane
In questo caso per determinare il soggetto bisogna ricorrere all’ordine delle parole, che in
italiano è portatore di significato. Quindi devo vedere l’ordine delle parole, soprattutto nel caso
in cui io non conosca il significato lessicale dei termini; per esempio, nella frase “travino morde
il gutaccio”, devo vedere l’ordine per trovare il soggetto. Invece, nell’ esempio del postino ci
si può basare anche sul significato e la conoscenza del mondo.
La grammatica tradizionale parte dall’informazione di tipo nozionale, che dovrebbe essere
l’ultimo aspetto da usare, perché più sfuggente, più difficile da maneggiare, mentre l’informa-
zione funzionale è più visibile e su di essa quindi si può fare riflessione metalinguistica.
Nell’esempio “oggi mangiano tutti?”, il soggetto è tutti, che viene dopo il verbo; ciò dipende
dal fatto che, in questo caso, il soggetto non è noto (infatti è ciò che viene chiesto): il soggetto
che non è ancora noto e di cui si vuole la conferma si trova dopo il verbo, mentre quello già
noto sta prima. Che differenza c’è tra le frasi “tutti mangiano?” e “mangiano tutti?”? Nel
primo caso si sa che tutti faranno qualcosa e si chiede se quel qualcosa è mangiare, mentre nella
seconda frase si parte dall’elemento noto mangiare e si chiede se tutti lo faranno. Nelle due
frasi vi è una diversa distribuzione tra ciò che è noto e ciò che viene richiesto; perciò, con questo
esempio si è dimostrato che in italiano l’ordine delle parole è portatore di significato.
L’elemento noto si chiama tema, che si dà per scontato e da cui si parte. Nell’esempio mangiano
tutti il tema è mangiano, in tutti mangiano invece è tutti. L’elemento nuovo, invece, si chiama
rema o focus (il focus è qualcosa di nuovissimo).
Dal punto di vista della distribuzione degli elementi all’interno di una frase, i soggetti possono
essere di due tipi: tematici, se sono anteposti al verbo (e rappresentano il tema, l’elemento
noto), o rematici se sono posposti (e rappresentano quindi il rema o focus, cioè l’elemento
nuovo). La posizione del tema, del rema e del focus si chiama distribuzione dell’informazione
ed è fissa in italiano; è fisso lo schema secondo il quale prima si enuncia il tema e poi il rema
(e poi eventualmente il focus). In realtà possibile anticipare elemento nuovo (rema) usando la
cosiddetta frase scissa, per esempio in “è Luigi [rema] che ha spaccato il vetro” come risposta
alla domanda “Chi ha spaccato il vetro con una pallonata?”.
Prendiamo la frase il cane morde il postino, a questa frase aggiungiamo:
• tutti i giorni
• sulla gabbia
• con forza
• in giardino
• da solo
Ora aggiungiamo questi elementi alla frase principale, per vedere se hanno una posizione fissa
oppure no. Le espressioni “tutti i giorni”, “in giardino” si possono inserire in tutti punti della
frase (all’inizio, tra il soggetto e il verbo, tra il verbo ed il complemento oggetto, in fondo alla
frase), perché indicano il tempo e lo spazio in cui si svolge l’intera scena indicata da il cane
morde il postino. Il tempo e lo spazio sono i due elementi che definiscono la circostanza in cui
si svolge tutta la scena del cane che morde il postino, quindi contestualizzano la scena nel suo
complesso. “Sulla gamba” può essere inserito dopo il verbo (morde) o dopo l’oggetto (il
postino). Lo stesso accade con l’espressione “con forza”, ma posso dirlo anche all’inizio della
frase, però mettendoci la virgola. Infine, l’espressione “da solo” cambia il significato in base a
dove viene messo. Ad esempio, il cane morde da solo il postino, vuol dire che l’animale lo fa
di sua volontà, senza che nessuno lo inciti, mentre nella frase il cane morde il postino da solo,
si capisce il postino era da solo.
Le espressioni “con forza” e “sulla gamba” possono essere inserite all’interno della frase solo
in due punti, o dopo il verbo (e in tal caso modificano solo quello: morde con forza e morde
sulla gamba) o dopo il complemento oggetto (e in tal caso modificano il gruppo formato da
verbo+complemento oggetto: morde il postino con forza e morde il postino sulla gamba): non
danno informazioni sull’intero blocco, ma solo su morde o morde il postino. Si osservi che,
nell’analisi logica, sia “sulla gamba” sia “in giardino” verrebbero classificati come
complemento di luogo, ma in realtà sono due cose diverse perché si comportano sintatticamente
in modo diverso.

lezione 17.10.2022, ore 10:15-11:45 (Micol Menconi)


Abbiamo analizzato insieme queste frasi:
1. Come al solito, la Cella è confusa
2. La Cella è confusa come al solito
3. La Cella, come al solito, è confusa
Abbiamo riflettuto sul fatto che noi dobbiamo imparare a vedere la struttura che sta sotto la
superficie delle parole. Nella lingua italiana l’ordine delle parole è importante. Le stesse parole
possono assumere differenti valori in base alla posizione che occupano.
Ad esempio come al solito è un modificatore: nella prima e nella terza frase modifica l’intera
scena “la Cella è confusa” (nella terza è spostato tra soggetto e verbo, e per questo è inserito tra
due virgole); nella seconda frase invece modifica solo è confusa.

La frase semplice o frase nucleare


La frase nucleare è una frase formata da un verbo e dagli elementi necessari perché quel verbo
abbia un senso, ovvero raggiunga il significato che deve raggiungere.
Il numero degli elementi necessari dipende dal verbo e dal suo significato. Un verbo può avere
più significati, essere cioè polisemico, e quindi per ogni significato un verbo potrebbe aver
bisogno di un diverso numero di elementi necessari affinché abbia un senso.
Esistono verbi che non hanno bisogno di alcun elemento per raggiungere il proprio significato:
sono i verbi meteorologici piovere, tuonare o nevicare quando indicano un fenomeno
atmosferico (verbi zerovalenti). Se, tuttavia, utilizziamo tali verbi con un differente significato,
ad esempio piovere insulti ‘manifestarsi in modo fitto e insistente’, vediamo che lo stesso verbo
avrà bisogno di un elemento, nel nostro caso insulti, che permetta di acquisire un significato
metaforico al verbo piovere.
Esempi con altri verbi:
● Mangiare: quando significa ‘nutrirsi’ (mangia!) ha bisogno di un elemento per
raggiungere il proprio significato. Questo elemento è il soggetto non espresso nella frase
ma codificato nella desinenza del verbo. Quando significa ‘inghiottire’ (mangia la
minestra!) ha bisogno di due elementi, un soggetto sottointeso e codificato nella
desinenza del verbo (posso infatti dire mangia, mangi, mangiate) e un complemento
diretto/complemento oggetto che identifica di che cosa ci si nutre.
● Correre: Quando significa ‘camminare velocemente’ (io corro o corro) ha bisogno di
un solo elemento, che è il soggetto. Quando significa ‘gareggiare’, per esempio corro
la maratona oppure corro i 100 metri, ho bisogno di due elementi per specificare il
significato, quindi un soggetto e un complemento diretto (verbo bivalente).
● Regalare: è un esempio di verbo che ha bisogno di tre elementi per definire l'azione di
regalare (es. regalo un libro a Martina).
Questi esempi ci fanno capire come il numero di elementi che mi servono per permettere al
verbo di esprimere il proprio significato non dipendono dal verbo in sé ma dal significato che
con quel verbo voglio raggiungere.
I concetti di transitività e intransitività di un verbo non spiegano di quanti elementi necessita
un verbo per realizzare il suo significato. Un verbo transitivo, infatti, può necessitare di più
elementi per specificare il suo significato (es regalare ha bisogno di tre elementi), e un verbo
intransitivo può aver bisogno di due elementi (es. ho telefonato a Carlo; abito a Pisa; vado via
‘mi allontano da qui’).
Abbiamo poi riflettuto sul rapporto privilegiato che il verbo ha con il soggetto.Quando il verbo
ha bisogno di un solo elemento necessario per raggiungere il proprio significato possiamo
essere certi che quell'elemento è il soggetto. Se ha bisogno di due elementi, uno dei due sarà
sicuramente il soggetto, mentre il secondo potrà essere o un complemento diretto o un
complemento indiretto. Quando ci sono tre elementi, verosimilmente il secondo elemento è un
complemento diretto.
Quindi possiamo definire la frase nucleare come una frase fortemente coesa sia dal punto di
vista formale (accordo tra soggetto e parte finita del verbo) che semantico (tutti gli elementi
necessari al verbo per raggiungere il significato) ed è per questo motivo che non è
interrompibile ponendo una virgola tra il soggetto e il verbo e tra il verbo e l’oggetto (si può
invece inserire un elemento, ma se si ritiene che vada separato da virgole le virgole devono
essere due).
Gli elementi extra-nucleari si possono aggiungere a piacere, sono di varia natura e possono
modificare l'insieme del nucleo o alcune sue parti.
Il principio dell’unitarietà della frase nucleare e la classificazione dei significati dei verbi sulla
base del numero degli elementi necessari a “saturare” il significato è quanto ci insegna la teoria
valenziale: è una teoria sviluppata in Francia negli anni ‘50 per insegnare la lingua russa ai
francesi ripresa poi in Italia da Francesco Sabatini. Tale teoria rappresenta i rapporti tra i
sintagmi di frase dividendoli in due categorie: ciò che appartiene al nucleo (elementi nucleari)
e ciò che non gli appartiene (elementi extranucleari). Si chiama valenziale perché nasce dalla
teoria della valenza in chimica: la valenza indica il numero di elementi che servono al verbo
per raggiungere (o “saturare”, come in chimica) il proprio significato. Questo metodo viene
utilizzato per spiegare i rapporti nella frase semplice ma si può applicare anche nei rapporti tra
frasi.
Esercizio di analisi e scomposizione delle frasi in sintagmi (analogo a quello in Andorno 2003,
p. 8, numero 7): Il cane di Elisa morde il postino
● Il cane di Elisa, considerato tutto insieme, è un Sintagma nominale. Il cane è un sintagma
Nominale, di Elisa invece è un sintagma preposizionale che specifica il cane.
● morde il postino, considerato nel suo insieme è un sintagma verbale. Morde è il verbo.
Il postino è un sintagma nominale
Esempio: Angela si trova nella sua casa in collina
● Angela è il Sintagma nominale
● si trova nella sua casa in collina, considerato nel suo insieme è un Sintagma verbale.
Considero, poi, nel suo insieme nella sua casa in collina che è un sintagma
preposizionale. Analizzo, infine, nella sua casa che è un sintagma preposizionale e in
collina che è un sintagma preposizionale.
5. lezione 24.10.2022, ore 10.15-12.00 (Jennifer Lopez)

RICAPITOLAZIONE DEI CRITERI SULLA BASE DEI QUALI POSSIAMO DARE


DEFINIZIONI GRAMMATICALI:
● nozionale
● formale
● funzionale
● distribuzionale

Riferimento all’es. 9 a pag. 14 di Andorno, La grammatica italiana


DEFINIZIONE DI NOME
Riflettiamo sulle diverse definizioni dell’esercizio in base ai diversi criteri a cui si fa appello:
● funzionale (funzione): “Il nome o sostantivo è una parola che ha la funzione di
indicare persone, cose, concetti, fenomeni.”
● formale (forma): “In italiano e nelle lingue romanze il nome è formalmente
contraddistinto da una propria flessione grammaticale, che comprende la
distinzione singolare/plurale (numero) e quella maschile/femminile (genere).”
→ criterio più semplice da riconoscere e da enunciare che fa appello alla forma che
possono prendere gli elementi linguistici

La definizione di “nome” dal punto di vista formale, cioè la codificazione delle


informazioni nel numero e nel genere, non è un’esclusiva dei nomi, ma anche degli aggettivi,
quindi sotto un profilo strettamente formale questa definizione vale sia per la classe dei
nomi che per quella degli aggettivi. Per questo motivo Serianni unisce il criterio formale e
quello funzionale, il quale definisce la funzione del nome di indicare persone, cose,
concetti e fenomeni; il criterio formale non basterebbe a individuare i soli nomi.
La definizione funzione non è esterna alla lingua, ma fa riferimento all’uso linguistico di
quella classe di parole (indicare, designare).
● Serianni, tra le definizioni viste nell’esercizio, non dà una definizione nozionale,
la quale, però, è riscontrabile in altre parti del libro:
→ Quella dei nomi è la classe delle parole che fanno riferimento a un’entità fisica
(persone, animali, oggetti, fenomeni) o culturale (sentimenti, concetti) unitaria e
dotata di caratteristiche proprie.”
Il criterio nozionale ha in sé il concetto di nozione: in questo caso, fa appello a
entità fisiche e culturali, che conosciamo solo se abbiamo esperienza del mondo.
Questo criterio si basa su ciò che normalmente le persone sanno sul mondo, fa
appello a delle conoscenze extralinguistiche.

● Il criterio distribuzionale fa riferimento alla posizione, all’ordine, alla co-


occorrenza di quella parola, ovvero la tendenza di una classe di parole a co-occorrere
con altre classi di parole:

Es. (2° capoverso, paragrafo 2 e 3) “Il nome è di solito accompagnato da uno


specificatore e, facoltativamente, da aggettivi”.
Esempi di specificatori = “il/un/questo/quel/qualche… tavolo” → Articoli e aggettivi
dimostrativi sono tutti specificatori perché funzionano allo stesso modo sia dal punto di
vista distribuzionale, in quanto occupano sempre la stessa posizione rispetto al nome (pre-
nominale), sia dal punto di vista funzionale, in quanto hanno la stessa funzione (di
specificare un elemento della classe).

SPECIFICATORI
Riflettiamo sul possessivo: in italiano si comporta come uno specificatore?
● Con i nomi di parentela (= per definirli così usiamo il criterio nozionale) si comporta
come uno specificatore: es. mio padre, mio fratello, mia madre, ecc.
Questo vale nell’italiano standard, ma non nel toscano parlato: es. la mi mamma,
ecc.
● Con il resto dei nomi, invece, non funziona da specificatore (es. *mio tavolo).
● In inglese il possessivo è sempre uno specificatore (es. my table).
Ci sono altri elementi che funzionano come gli aggettivi possessivi?
→ Gli aggettivi qualificativi (es. un bel tavolo).
Come possiamo vedere, la funzione e la distribuzione ci permettono di individuare classi
diverse di cose.
Cosa hanno in comune gli aggettivi qualificativi con i possessivi dal punto di
vista formale?
→ Codificano le informazioni di genere e numero.
E dal punto di vista distribuzionale?
→ Si accordano con il nome che qualificano, ma non specificano (quella è la funzione degli
specificatori).

Il nuovo tavolo vs. Il tavolo nuovo


In italiano, a differenza di altre lingue, la posizione del qualificatore non è fissa: per
vari aggettivi qualificativi è possibile sia la posizione pre-nominale che quella post-
nominale, ma a seconda di essa vi è una differenza di significato.
Esempio:
● Per cena apparecchierò sul tavolo nuovo → Si fa la differenza con un altro tavolo non
nuovo, cioè si sottintende che in casa esiste un altro tavolo che è vecchio. Non si dice solo
che il tavolo è nuovo, non lo sta solo qualificando, ma lo si sta anche distinguendo da un
altro tavolo vecchio.
● Per cena apparecchierò sul nuovo tavolo. → Qui “nuovo” ha solo funzione
descrittiva, non ci dice se in casa vi è un altro tavolo vecchio.
Altro esempio:
● Le mura vecchie sono crollate → Ci dice che esistono anche delle mura nuove e si
inferisce che sono rimaste in piedi.
● Le vecchie mura sono crollate → Qui “vecchie” le descrive solamente.
→ L’ordine in italiano può essere duplice a seconda della funzione che l’aggettivo determinativo ha
rispetto al nome.

Gli specificatori prototipici hanno le seguenti caratteristiche:


● Dal punto di vista distribuzionale, precedono sempre l’elemento specificato, non
sono mobili, dunque si caratterizzano per il fatto che si trovano sempre prima del
nome; al contrario il qualificatore può avere una posizione sia pre-nome che post-
nome.
● dal punto di vista formale, si accordano in genere e numero con il nome che
specificano;
● dal punto di vista funzionale, individuano un elemento all’interno della classe (es.
quel tavolo indica un tavolo specifico fra i tavoli).
Perché la grammatica insiste tanto sul distinguere i 4 criteri?
Perché la grammatica non esiste in natura. In natura esiste la lingua, e la grammatica è solo
un modo di rappresentazione e analizzare della lingua e, in quanto tale, può essere basato su
diversi punti di vista.
La grammatica è tutto un insieme di concetti che permettono di dire cose sensate sulla
lingua, cioè di fare riflessione metalinguistica.
In realtà non basta un solo punto di vista a dare una descrizione coerente della lingua;
questo perché quell’uno da solo non riesce a spiegare tutto in modo coerente. Allora succede
che ci sono punti di vista più adatti a spiegare certe cose e punti di vista più adatti a
spiegarne altre: la miglior cosa è una combinazione di questi punti di vista.
Il criterio più concreto è quello formale, perché è immediatamente visibile; invece quello
nozionale fa appello a conoscenze del mondo che posso non possedere e non è sempre
chiaro.
Ad esempio, la differenza tra nomi concreti (= percepibile attraverso i sensi) e astratti (=
non percepibile attraverso i sensi): con tavolo è semplice applicarlo, ma ad esempio
simpatia è un nome astratto o concreto? Io posso percepire la manifestazione della simpatia
attraverso i sensi, ma la si può intendere anche come astratta. Vediamo che la definizione di
astratto e concreto non è così chiara; è una categoria nozionale, che fa appello a una realtà
extralinguistica.
Anche il criterio formale non spiega proprio tutto: ad esempio, se diciamo che, dal punto di
vista formale, i nomi variano in genere e numero, questo vale anche per gli aggettivi; per cui
il criterio formale va associato ad altri criteri.
Noi da insegnanti dobbiamo saper distinguere i piani, perché dobbiamo essere
in grado di dosare i diversi punti di vista per far riflettere i bambini su aspetti
diversi della lingua.

I nomi possono essere classificati in diversi modi (criterio nozionale):


● propri e comuni
● astratti e concreti
● numerabili e massa (non numerabili)
Queste categorie nozionali non è detto che siano utili, perchè spesso non ci dicono nulla sul
comportamento dei nomi.
È più utile la distinzione tra:
- Nomi variabili → hanno singolare e plurale
- Nomi invariabili
→ nomi presi dalle lingue straniere e non adattati alla fonomorfologia italiana, cioè tutti i
prestiti novecenteschi (dal francese e inglese, ma anche da tedesco e spagnolo):
es. cabaret, abat jour, bar, computer, wurstel, sushi…
Questo perché nel Novecento l’italiano ha smesso di adattare i nomi e li ha assunti
tutti come invariabili senza usare il plurale di provenienza.
→ parole come sangue
→ parole tronche: es. università, virtù, città, carità… che in origine erano parole
variabili.
Ad esempio città deriva dal latino civitatem e fino al Trecento era cittàde, al plurale
cittadi; oppure virtù era virtùte, al plurale virtuti.
Col tempo queste parole hanno perso l’ultima sillaba (-de e -te), sono diventate
tronche e hanno perso la possibilità di inserire il morfema flessivo, cioè non c’è più lo
spazio deputato a portare la marca del plurale, quindi sono diventate invariabili.

DISCORSO SULLE MINORANZE LINGUISTICHE


Legge 482/1999: tutela le minoranze linguistiche (quelle storiche).
Dovendo dire quali sono le minoranze linguistiche da tutelare, hanno dovuto definire qual è
la lingua di maggioranza (lingua nazionale: italiano), dunque non tutela le lingue di recente
immigrazione. Nella nostra Costituzione, infatti, non vi è scritto che la lingua nazionale è
l’italiano.
“Minoranze linguistiche storiche” significa che sono territorialmente presenti in Italia
da secoli, oppure che sono in Italia perché si sono spostati i confini italiani.
Lo spostamento più massiccio è stato quello dell’annessione del Trentino Alto Adige (dove si
parla italiano, tedesco e ladino), ma anche:
● Gorizia e Trieste (dove si parla sloveno);
● Friuli Venezia Giulia (ladino o grigionese);
● Valle d’Aosta (francese e tedesco);
● Piemonte (provenzale);
● Salento (griko = greco-bizantino);
● Sardegna (sardo, ma c’è anche una sotto minoranza che parla catalano);
Ci sono anche alcune zone di Italia dove si parla arbereshe, una varietà di albanese di fine
Quattrocento (quando è arrivato l’impero ottomano, le popolazioni, scappando, hanno
attraversato l’Adriatico insediandosi nel Molise). Le minoranze linguistiche trascurate dalla
legge, in quanto non hanno un territorio di riferimento, sono le lingue rom e sinti.
Per quanto riguarda la lingua nazionale, non abbiamo nessun organismo preposto a gestirla
(la quale è stata dichiarata esplicitamente solo nel 1999).

5. lezione 24.10.2022, ore 12.00-13.30 (Nicole Salini)


Funzioni dell’aggettivo qualificativo e gli specificatori
La seconda parte della lezione si è concentrata principalmente su due argomenti: le funzioni
dell’aggettivo qualificativo e gli specificatori.
Per parlare delle due funzioni dell’aggettivo qualificativo, siamo partiti da un semplice
esempio:
“Ho conosciuto le sorelle giovani di Augusto”
In questo caso sembra che ci siano sorelle anche più vecchie.
“Ho conosciuto le giovani sorelle di Augusto”
In questo caso dice che le sorelle di Augusto sono giovani.
Come possiamo notare, la posizione dell’aggettivo qualificativo non è indifferente, in quanto
può cambiare posizione, cambiando anche il significato della frase.
L’aggettivo nel primo caso (aggettivo posposto) restringe il campo, perché dice “di tutte le
sorelle di Augusto, io ho conosciuto solo quelle giovani”. E’ come se l'aggettivo nella
posizione dopo restringesse la classe indicata dal nome. Qui l’aggettivo ha funzione
attributiva restrittiva.
L’aggettivo nel secondo caso (aggettivo preposto), sta indicando una qualità del nome. Qui
l’aggettivo ha funzione attributiva descrittiva.
Le due funzioni, attributiva e descrittiva, si possono ottenere anche con due tipi diverse di
subordinate relative:
es. “le mura, che sono vecchie, sono crollate” → relativa descrittiva
“le mura che sono vecchie sono crollate” → relativa restrittiva
La differenza sta nell’uso delle virgole: le relative descrittive necessitano di 2 virgole;
mentre le relative restrittive, non ne hanno bisogno.
Nella lezione precedente avevamo parlato di uno dei due principi fondamentali
dell’interpunzione italiana, ovvero quello che ci dice che non è mai possibile mettere un solo
confine all’interno della frase nucleare (se c’è bisogno di inserire del materiale, deve essere
inserito all’interno di due virgole).
Il secondo, è emerso da questo ragionamento in quanto bisogna sempre distinguere:
- le relative descrittive o appositive, che non sono necessarie ad identificare quel nome a cui si
riferiscono:
- le relative restrittive, identificative o limitative, che concorrono all’identificazione semantica
del nome a cui si riferiscono
Per definizione quindi, la funzione descrittiva è qualcosa che aggiunge, ma non è
necessario all’individuazione di quel nome; per cui la si riconosce in quanto si può omettere
senza cambiarne il significato.
La funzione restrittiva, invece, la si riconosce perché se si omette cambia anche il
significato.
Per capire meglio questo concetto abbiamo fatto un esempio ulteriore:
1) “Non mi piacciono i noiosi romanzi gialli” → funzione descrittiva perché tutti i romanzi
gialli sono noiosi
2) “Non mi piacciono i romanzi gialli noiosi” → funzione restrittiva perché non mi piacciono i
romanzi noiosi, ma gli altri si.
Riassumendo in breve potremmo dire:
Se l’aggettivo è prima del nome e tra virgole→ descrittiva;
Se l’aggettivo è dopo il nome e senza virgole→ restrittiva.
Parlando più specificatamente di bambini e didattica possiamo dire che un parlante
madrelingua si accorge di questa differenza, anche senza aver studiato la grammatica, ma
avendo un minimo di pratica della lingua.
Richiamando l’attenzione sui diversi approcci possiamo notare che abbiamo utilizzato quello
distribuzionale in quanto abbiamo concluso che, a seconda della posizione dell’aggettivo
qualificativo, abbiamo un comportamento differente.

Dopodiché siamo passati al secondo argomento, ovvero gli specificatori, i quali hanno una
posizione FISSA.
Sempre nelle lezioni precedenti è emerso che quelli per eccellenza sono gli articoli, ma ci
sono anche altre parole che hanno, con gli articoli, somiglianze di tipo distribuzionale
(sempre in posizione prenome) e analogie funzionali (servono sempre a specificare se si sta
parlando di un individuo all’interno della classe).
Nella grammatica tradizionale troviamo raccolti gli specificatori sotto categorie diverse:
- gli articoli (determinativi e indeterminativi);
- aggettivi dimostrativi (“quello, questo, codesto”);
- aggettivi indefiniti (“ogni, qualche, ciascuno, qualsivoglia").
La cosa interessante, per stimolare la riflessione metalinguistica, è far notare che tutti hanno
lo stesso comportamento distribuzionale, perchè stanno in una posizione prenominale, e
stesso comportamento formale, perché c’è un accordo tra genere e numero (fanno eccezione
“ogni” e “qualche”).
Che differenza c’è tra queste categorie?
● gli articoli→ devono essere sempre accompagnati da un nome, non hanno funzione deittica;
non sono autonomi e quindi non possono essere usati in isolamento;
● gli aggettivi dimostrativi→ si possono utilizzare anche come pronomi isolati in risposta a
qualcosa, senza un nome posposto;
● gli aggettivi indefiniti→ “tutti” e “alcuni” funzionano in isolamento come risposta; mentre
gli altri no.
Possiamo vedere che ciò che in realtà conta è la contestualizzazione: lo stesso elemento, in
contesti diversi, mostra delle caratteristiche diverse che, in un caso lo accomunano ad alcune
cose, in un altro caso lo accomunano ad altre.
La conclusione che possiamo trarre è che le classificazioni sono sempre parziali, quindi non
è del tutto insensato tenere la classe degli articoli distinta dal resto, ma bisogna tenere
presente che in realtà, esistono altri elementi, in altri contesti, che condividono le stesse
caratteristiche della classe degli articoli (ad esempio le preposizioni per quanto riguarda la
funzione e la distribuzione).
Nella didattica dobbiamo insistere più sul processo e sul ragionamento, piuttosto che
ragionare sulle generalizzazioni stesse.
6. 07.11.2022, ore 10.15-12.00 (Lisa Lucchesi)

Regole generali di scrittura


Alcune regole generali sulla scrittura:
● Un principio generale da tenere sempre presente è il fatto che in italiano meno
maiuscole si usano, meglio è: infatti queste è possibile utilizzarle con i nomi propri e
in pochi altri casi. Ad esempio, è raccomandato non utilizzarle nel caso degli etnici,
come per italiano, nel caso dei giorni della settimana e nel caso dei nomi dei mesi.
Qui emerge già una prima differenza con la lingua inglese, nella quale, invece, l'utilizzo
delle maiuscole è maggiore. Riguardo alla denominazione dei santi abbiamo
un’ulteriore ripartizione in due casistiche: se il nome del santo è toponimo si utilizza la
maiuscola, come ad esempio la Chiesa di Santa Maria; se invece ci si riferisce alla
persona si usa la minuscola, ad esempio san Giovanni Battista.
● Denominazione dei secoli: se dobbiamo intendere il Quattrocento come lasso di
tempo dal 1401 al 1500 non possiamo scrivere 1400, come invece è accettato in
inglese, poiché in italiano si riferisce solo all’anno 1400. Possiamo scegliere di
utilizzare indifferentemente ’400, Quattrocento oppure secolo XV.
● Un altro errore frequentemente commesso è scrivere VS con il punto finale: in realtà
quest'ultimo non è necessario, poiché VS indica il latino versus ed è un compendio.
Stesso caso per circa che diventa ca, anch'esso un compendio.
● Le citazioni di parole altrui devono essere sempre riportate tra virgolette alte (“”) o
tra caporali o sergenti («»), che sono caratteri speciali non presenti sulla tastiera. Non
è necessario scrivere le citazioni anche in corsivo, bisogna scriverle in tondo, a
differenza di come avviene nella lingua inglese.
● Gli apici (' '), invece, si usano per citare i significati di una parola.
● Il corsivo è un altro argomento dibattuto: può essere usato per citare parole che non
sono parte del discorso, ma oggetto del discorso stesso. Vengono definite citazioni
metalinguistiche. Anche le frasi di esempio, se sono oggetto del discorso, rientrano
in questa casistica.
La scrittura corsiva può essere usata anche per gli occasionalismi, ovvero parole
straniere usate occasionalmente in italiano e che quindi non sono ancora dei prestiti
veri e propri. Gli occasionalismi vengono citati con il plurale originale, ad esempio i
Länder tedeschi, quindi concordando con il genere e numero della parola originaria.
Diversamente un prestito è definito come tale se un numero consistente di persone
lo usa per un numero significativo di anni. Questi possono essere adattati e quindi
entrare nella classe flessiva dell’italiano, come nel caso di mangiare, che deriva dal
francese e viene coniugato come un normale verbo italiano. Esiste però anche il caso
dei prestiti non adattati, ovvero quelli che entrano nella lingua italiana come nomi
invariabili, ad esempio film, bar, computer…
● Riguardo, invece, ad un altro tipo di citazioni, ovvero quelle riferite a libri e articoli,
la situazione è più complessa: dipende, infatti, da tradizione a tradizione.
Tendenzialmente, è comune scrivere prima il nome dell'autore, poi il titolo in corsivo e
infine le varie marche tipografiche.
● Se la parola o la frase non esiste aggiungere l’asterisco prima della parola o della
frase.

1
Fondamentale è ricordare che tutte queste regole sono importanti pre ragioni comunicative:
aiutano a rendere la comunicazione più chiara e trasparente.

Alcuni chiarimenti sul capitolo 2 di Cecilia Andorno, La


grammatica italiana
Nella lingua italiana ci sono ambiti aperti, ovvero capaci di accogliere parole nuove: questo è
possibile sia grazie alla capacità della lingua stessa di produrre nuove parole attraverso
meccanismi di derivazione sia perché ammette parole di altre lingue. Possiamo analizzare
il caso dei nomi e dei verbi presi dall’inglese: i nomi sono assunti come invariabili, mentre i
verbi sono sempre inseriti nelle classi flessive e quindi si coniugano come i verbi italiani (es.
chat come nome ma chattare come verbo). È interessante notare come tutti i nuovi verbi
vengono inseriti nella prima coniugazione: questo fenomeno accade perché dal punto di
vista storico quella in -are è l’unica classe attiva e produttiva. Le declinazioni con -ere atono,
-ére tonico e -ire sono declinazioni fossili: si sono prodotte per vari motivi, principalmente
per il passaggio dal latino all'italiano, ma hanno presto esaurito la loro produttività. Quindi,
l'unica declinazione produttiva e aperta è la prima.
Tornando, invece, sulla casistica dei nomi, le uniche classi aperte sono gli indeclinabili e
alcune classi flessive (solo maschile singolare -o e plurale -i, e femminile singolare -a e
plurale -e). Queste stesse limitazioni riguardano anche gli aggettivi. Classi chiuse, invece,
sono gli articoli, i pronomi e le proposizioni. In quest’ultimo elemento grammaticale esiste
un’eccezione: le locuzioni preposizionali, come ad esempio a lato di, sono una classe
potenzialmente aperta, anzi sono molto in crescita. Questo è legato al fatto che le
preposizioni semplici non sono molto precise dal punto di vista semantico, hanno solo un
significato relazionale. Conseguentemente il parlante sceglie di sostituirle con locuzioni che
avverte come più precise e concrete (ad es. attraverso invece di con ).
La scuola è l’unico istituto preposto alla trasmissione della norma grammaticale, l’unico freno
al cambiamento nell’utilizzo della lingua: spetta ad ognuno il decidere se mantenere vivo il
rispetto della grammatica tradizionale oppure lasciare che la lingua faccia il proprio corso
e si evolva. L'unico principio che è importante avere sempre presente è quello di non causare
problemi di comprensione, e quindi invitare costantemente alla chiarezza e all’esattezza (da
cui deriva, per esempio, la necessità di un lessico ricco).
Un’altra zona in parte aperta e in parte chiusa è quella degli avverbi: quelli come già, ben,
non sono avverbi “leggeri”, con poco significato semantico e in quanto tali sono una classe
chiusa. Al contrario gli avverbi in -mente hanno un significato semantico più specifico, e sono
un settore aperto della lingua italiana. Ciò dipende dal fatto che questi avverbi sono formati
sempre da un aggettivo qualificativo femminile singolare e dal suffisso in -mente, quindi
è possibile prendere qualsiasi aggettivo femminile singolare e creare un nuovo avverbio. È un
processo autonomamente produttivo che ha avuto il suo inizio dalla fusione dell’aggettivo
e del suffisso, poiché in origine mente era una parola a sé stante; adesso è diventato un
morfema, un elemento utile a derivare parole nuove. È avvenuto il processo di
grammaticalizzazione, secondo il quale, per l’appunto, una parola libera diventa un morfema.

Una classe di elementi interessante è quella dei pronomi, distinti in pronomi tonici e pronomi
atoni: nel primo caso hanno un accento proprio, come ad esempio io, tu, loro, contrariamente
ai pronomi atoni o clitici. Questi ultimi non hanno un accento proprio, ma si appoggiano al
verbo di cui ne sfruttano l’accento, quindi non sono autonomi. Pronomi atoni e clitici non

2
coincidono totalmente: tra i clitici sono compresi anche i locativi vi e ci (che non sono veri
pronomi) e il partitivo ne. Infine i clitici possono essere proclitici (quando occupano la
posizione preverbale, come nel caso di ti amerei) o enclitici (quando occupano la posizione
postverbale, ad esempio amandoti). La prima possibilità riguarda i verbi di modo finito,
mentre con i verbi di modo non finito vengono utilizzati gli enclitici.

6. 07.11.2022, ore 12:00-13:30 (Carlotta Ibelli)


Preposizioni proprie e improprie: Sulla base dell’esercizio 39 a pagina 40 di La
grammatica italiana di Cecilia Andorno
La locuzione preposizionale senza di si usa con i pronomi personali: per esempio si dice senza
Carla (preposizione+sintagma nominale), ma non *senza di Carla. Invece con i pronomi si usa
sia senza lui, sia senza di lui.
Nella grammatica non tutto è sempre classificabile o razionalizzabili nello stesso modo, nella
lingua non sempre tutto è coerente: es. abito IN Toscana/Liguria e abito NEL Lazio, pur
trattandosi in entrambi i casi di regioni, nel primo caso si usa in nel secondo nel.

Ripartiamo dai verbi


I verbi dal punto di vista formale si riconoscono perché sono quegli elementi linguistici in grado
di esprimere la persona, il numero, il tempo, l'aspetto e la modalità. Non ci sono altre parti
linguistiche in grado di codificare tutti questi aspetti ed avere tutte queste informazioni.
Quando prendiamo in prestito i verbi della lingua inglese, dobbiamo per forza adattati, perché
in italiano è indispensabile che il verbo sia portatore di tutte quelle informazioni (persona,
tempo, ecc.). La flessione verbale risulta quindi essere fondamentale per riuscire a
comunicare, altrimenti non si capirebbe il senso della frase. Nella loro flessione portano una
quantità di informazioni che non sono delegabili a nessun altro elemento linguistico (qualcuna
sì, per es. il tempo passato-presente-futuro si può delegare all’avverbio, come ieri-oggi-
domani). I verbi hanno una flessione complicata, ma necessaria.

Paragrafo 2.6.2 “Funzione dei verbi” del capitolo 2 di La grammatica italiana di Cecilia
Andorno
La funzione dei verbi è importante perché sotto il profilo funzionale questi servono a
identificare un’azione; ma esiste anche una funzione predicativa, tipica del verbo essere, che
esprime una condizione/azione/stato: quella di dire qualcosa di qualcuno.
● Frase (55) “esclusi” è il participio passato del verbo escludere, però di fatto in questo
contesto funziona come un aggettivo. Non è una funzione attributiva, che è la funzione
tipica dell’aggettivo.
● Frase (56) "viaggiare" non ha una funzione predicativa, ma funziona come se fosse
un nome, di cui prende le caratteristiche, come l’articolo e la funzione di esprimere una
referenzialità (= di significare una cosa).
● Frase (57) “correndo” è un gerundio, ma funziona come un modificatore del verbo,
funzione svolta solitamente dagli avverbi, può essere sostituito da di corsa, che è una
locuzione avverbiale.
Sono sempre verbi dal punto di vista formale, ma assumono la funzione tipica di altre classi.
La funzione attributiva (frase 55), può essere cambiata con “i candidati perdenti” participio
presente che ha anche questo la stessa funzione.

3
Solo il gerundio può funzionare da avverbio (funzione avverbiale); mentre in quella
referenziale funziona solo l’infinito. La funzione principale del verbo è quella predicativa, i modi
non finiti possono esprimere altre funzioni:
● Participio presente/passato→ attributiva
● Infinito→ referenziale
● Gerundio→ avverbiale
La distinzione tra verbi di modo finito e di modo non finito è importante: infatti solo i primi
esprimono tutte le persone (singolari e plurali), contengono quindi maggiori informazioni.
L’azione verbale (o azionalità) indica le fasi interne di cui si compone l’azione espressa dal
verbo, ci dice che caratteristiche hanno le azioni/condizioni espresse dal verbo. È un aspetto
che spesso viene trascurato nell’insegnamento.
Per analizzare l’azione verbale si usano 3 parametri:
● Durata
● Dinamicità→ Cambiamento di stato
● Telicità→ il fine
Le diverse azioni espresse dai verbi possiamo scomporre secondo questi tre parametri. Questi
parametri valgono sia per i verbi, che per i nomi derivati dai verbi (camminata, scoppio).
Esempi:
Verbi DURATA DINAMICITÀ TELICITÀ

Possedere SI NO NO

Camminare SI NO (?)*

Crescere SI SI (?)**

Svuotare SI SI SI

Scoppiare NO SI SI

*la telicità di “camminare” dipende dalla frase, per esempio: cammino fino a casa è telico,
mentre cammino ogni giorno per 10 minuti non è telico, non c’è un fine.
**la telicità di “crescere” dipende dalla frase, per esempio: inteso come ‘diventare adulto’ è
telico, mentre nel senso di ‘accrescersi in statura, peso, età’, non è telico.

Paragrafo 2.7.5 “Pronomi personali atoni o clitici” del capitolo 2 di La grammatica


italiana di Cecilia Andorno
I pronomi clitici hanno soltanto funzione anaforica, cioè di ripresa di un referente che
è già stato espresso, mentre i pronomi personali tonici sono deittici, indicano qualcosa
anche se non è già stato espresso prima.

Riflessione sull’uso degli articoli


I nomi che iniziano con una consonante semplice, come cane, gatto, topo (...) davanti
a loro vogliono l’articolo il. Mentre i nomi che iniziano per vocale, come albero,
elicottero (...), vogliono l’articolo lo nella sua forma elisa l’. Infine i nomi che iniziano
con due consonanti, “gn”, “gl”, “sc”, “st”, come gnomo, sci (...) e i nomi che iniziano
con la consonante “z”, come zucchero, zaino, vogliono l’articolo lo.

4
7. 14.11.2022, ore 12.00-13.30 (Sara Cinquini)

Distribuzione articoli determinativi e indeterminativi, aggettivi e pronomi dimostrativi


Sulla base della domanda posta dalla professoressa riguardo l’uso delle doppie forme degli
articoli determinativi e aggettivi dimostrativi maschili, abbiamo costruito una tabella che
riassume le regole che guidano all’utilizzo di quest’ultimi aggiungendo anche delle riflessioni
su articoli indeterminativi e pronomi dimostrativi.

Articoli determinativi:
Una prima osservazione concerne il fatto che per il maschile abbiamo a disposizione due
forme di articolo determinativo il e lo, mentre per il femminile solamente la: ciò è dovuto a
una diversa evoluzione dei dimostrativi latini illum (per il maschile) ed illa (per il femminile).
Gli articoli determinativi il e lo vengono anche detti rispettivamente forma debole e forma
forte. I nomi dipendono dal fatto che in italiano antico, prima del ‘500, l’articolo dominante
fosse lo, il quale poteva essere usato in tutti i casi, senza limitazioni, mentre il si poteva usare
solo dopo parola terminante in vocale: a differenza che in italiano moderno, la sua distribuzione
era guidata dalla lettera che lo precedeva e non, come invece accade oggi, dal suono che segue.
Per l’articolo determinativo femminile, invece, esiste ed è sempre esistita solo la forma forte.
Es.
→ il più e il meno.
→ Per lo più.
Il primo caso, in epoca moderna, risulta essere grammaticalmente corretto. Ma allora perché si
dice per lo più e non *per il più?
Per lo più è la forma fossilizzata di una regola grammaticale antica e funziona proprio come
una locuzione: il parlante l’ha appresa come un “fossile” della lingua italiana. Per cui la regola
di distribuzione nel tempo è cambiata, ma non la forma di questa locuzione.

IL / I Si utilizzano:
● davanti a consonanti semplici;
● casi particolari di
“consonante + R” in cui quest’ultima
lettera ha valore di vocale

LO (L’) / GLI Si usano:


● davanti a consonanti doppie (“sc”,
“st”, “sp”...);
● suoni sempre lunghi quando si
trovano tra vocali (“z” *, “gn”, “gl”);
● in posizione iniziale assoluta;
● davanti a vocali, ma con elisione
nelle forme del singolare.

LA (L’) / LE Unica forma feminile degli articoli


determinativi. Si presenta come forma forte.
Con elisione davanti a vocali nelle forme del
singolare.
* Il caso della “z” potrebbe generare errori durante i primi approcci alla scrittura, ossia in alunni
che conoscono le parole solamente per la loro fonetica e non per il loro grafema. La consonante
in questione viene definita intrinsecamente lunga, ovvero foneticamente forte al punto da
sembrare una doppia all’interno della parola. Per cui un errore ortografico tipo azzione o
polizzia va trattato con gentilezza.

Elisione: fenomeno, presente solo nella scrittura, per il quale nell’incontro tra due vocali (la
finale dell’articolo e l’iniziale della parola successiva) cade la prima. L’eliminazione della
lettera viene indicata dell’apostrofo. Nella grammatica normativa i plurali non si elidono, anche
se è probabile trovare scritto gl’ in testi poetici toscani. È da sottolineare infatti il rapporto
naturale che i toscani hanno con la lingua italiana: il loro è un atteggiamento spontaneo tale
che fonetica e scrittura della parola stessa rischiano di coincidere.

Articoli indeterminativi:

UN / UNO Si usa l’articolo “un” se la parola che segue


inizia con una vocale, altrimenti viene
utilizzato “uno”.

UNA / UN’ Unica forma femminile dell’articolo


indeterminativo.
Non è obbligatoria l’elisione davanti a
vocale, ma nell’italiano regionale toscano è
buon uso farlo.

Durante lo studio della casistica degli articoli indeterminativi, l’attenzione è ricaduta sul fatto
che il gruppo maschile non presenta l’elisione dell’articolo uno, mentre il femminile sì.
Perchè? Si tratta di una convenzione.

Aggettivi dimostrativi:

QUEL / QUEI Si usa con:


● consonanti semplici;
● casi particolari in cui una
consonante semplice è seguita da
“r” con valore di vocale.

QUELLO (QUELL’) / QUEGLI Si usano:


● davanti a consonanti doppie (“sc”,
“st”, “sp”...);
● suoni sempre lunghi in posizione
intervocalica (“z”, “gn”, “gl”);

QUELLA (QUELL’) / QUELLE Unica forma femminile.

Salta subito all’occhio l’analogia sia di forma sia di comportamento sintattico degli aggettivi
dimostrativi con gli articoli, sia determinativi che indeterminativi.
Il fenomeno che fa sì che le forme del plurale siano gli, quegli (e non *li, *quelli) si chiama
palatalizzazione. Quest’ultima è ancora attiva e si dimostra nelle difficoltà di scrittura di parole
come:
familiare / famigliare
olio → oglio
niente → gnente
Dipende dalla tendenza di “i” seguita da vocale a diventare un suono consonantico, e a causare
la trasformazione della consonante che precede (“l” o “n” in “gl” e “gn” rispettivamente).
Per cui da un fenomeno fonetico è nata una struttura grammaticale, che però potrebbe causare
errori, questa volta gravi, come la confusione fra il pronome personale li e gli.
È possibile sentir dire (per es. nel toscano occidentale)
Li ho detto invece che Gli ho detto

Concetto di ipercorrettismo: il parlante può sapere di commettere errori su una certa parola
o struttura grammaticale, e può quindi cercare di correggersi. Ma se non ha ancora assimilato
il meccanismo giusto può sbagliare per eccesso, correggendosi troppo o correggendosi anche
quando non dovrebbe. L’ipercorrettismo è un errore utile per l’insegnante, la quale comprende
che il bambino è in fase di sviluppo linguistico ma che già è consapevole dei propri punti di
debolezza.

Il concetto di italiani regionali.

Per italiano regionale si intende la cadenza, la fonetica ed il lessico quotidiano tipico del
luogo d’origine del parlante. Per cui possiamo parlare di varietà interne dell'italiano. Questa
diversità legata al luogo geografico esiste in qualsiasi lingua: basti pensare alle diverse
pronunce inglesi (britannico, americano, australiano…).
L’italiano regionale si distingue dal dialetto in quanto quest’ultimo è un'evoluzione diretta
del latino e lo si capisce proprio perché è costruito con strutture grammaticali diverse dallo
stesso italiano.
All’interno delle Indicazioni Nazionali si sollecitano le insegnanti a mettere in risalto le
differenze diatopiche (cioè geografiche) proprio perché è un fenomeno che riguarda tutto il
paese.
8. 21.11.2022, ore 10.15-11.45 (Valentina Ferrini)

Nella prima parte della lezione abbiamo parlato di morfologia, sottolineando quanto essa sia
importante perché insegna a scomporre la parole in unità minime: operazione concettuale che
aiuta a riflettere sulla lingua, facendo emergere dei meccanismi interni che per il parlante sono
impliciti.
Per sottolineare questo aspetto ci siamo aiutati con un esempio: la -o alla fine di una parola ci
dice tante cose, può trattarsi di una prima persona singolare presente oppure di un sostantivo
maschile singolare.
Per capire se la parola presa in considerazione è un verbo o un sostantivo entra in gioco la
sintassi, ovvero l’insieme dei rapporti che il termine in questione istituisce con le altre parole.
In merito a ciò dobbiamo ricordare che la morfologia, che concerne la forma che assumono le
parole, e la sintassi sono due cose diverse ma estremamente interconnesse poiché la prima ha
valore solo alla luce dell’altra.

La lezione è proseguita parlando di suffisso e prefisso: ci siamo domandati come poter


individuare se, in una parola, questi sono davvero morfemi derivativi o meno.
Il trucco è rimuovere il prefisso e vedere se la parola rimanente esiste oppure no: se ciò che
resta non esiste in italiano contemporaneo diciamo che non è un prefisso.
Abbiamo poi sottolineato come i prefissi e i suffissi possono avere valori diversi, riflettendo
sul significato che s- assume all’interno di varie parole:
- Scomodo: significa non comodo, la s- in questo caso assume il significato di negazione;
- Sparlare: significa parlare male, la s- in questo caso non assume il significato di
negazione, nonostante la connotazione rimanga comunque negativa;
- Scuocere: significa cuocere oltre il limite.

Grazie all’aiuto di questi esempi abbiamo compreso che s- può assumere vari significati ed è
il contesto, la conoscenza degli usi della parola e il confronto tra la parola derivata e quella di
base che ci dice quale valore assume.

Successivamente abbiamo svolto insieme l’esercizio 3 del capitolo, affrontando la differenza


tra flessione e derivazione.
Nei casi in cui viene aggiunto un prefisso o un suffisso parliamo di derivazione (come nel caso
di parlare-sparlare e di chiaro-chiaramente), mentre la flessione è il processo di mutamento
morfologico che subiscono le parole variabili per esprimere i diversi valori e rapporti
grammaticali (come in parlante-parlanti e in telefonare-telefonato).
Concettualmente è importante distinguere tra suffisso, che può avere significato vario, e
morfema flessivo, che dà informazioni puramente grammaticali . E’ chiaro che il suffisso ha
un morfema flessivo, in italiano ce n’è bisogno (a meno che la parola non sia invariabile).
Prendiamo ad esempio la parola telefonata, formata da telefon- che costituisce la radice e
da -ata che è il suffisso, alla fine del quale c’è la vocale -a che indica il femminile singolare.

Così come abbiamo fatto per s- abbiamo provato a individuare i significati di -ata, prendendo
in considerazione vari esempi:
- Mangiare - mangiata;
- Telefonare - telefonata;
- Dormire - dormita;
- Lavorare - lavorata.
Abbiamo notato che sono tutti sostantivi derivati da verbi, che prendono il nome di sostantivi
o nomi deverbali.
-Ata, -ita, -uta danno vita a un sostantivo che rappresenta l’azione compiuta fino in fondo,
espressa dal verbo da cui si parte. In alcuni casi questa azione compiuta ha anche una
connotazione quantitativa (mangiata, lavorata), in altri casi questa connotazione aggiuntiva di
quantità non c’è (telefonata).
A questo punto è sorta una domanda interessante: perché diciamo che queste parole derivano
da un verbo e non da un nome? Perché telefonata deriva da telefonare e non da telefono?
Ragionando sempre con gli esempi visti sopra, abbiamo notato che lavorata può
tranquillamente venire da lavoro ma dormita non può derivare da un nome *dormo (che non
esiste). Se supponiamo che tutti questi termini vengano dal verbo, non ci sono più eccezioni.

Quando riflettiamo sulla morfologia delle parole, tendiamo inconsciamente a suddividerle in


categorie diverse e questo avviene mediante 3 criteri:
- 1° criterio, formale: riconosco una regolarità di formazione superficiale e visibile;
- 2° criterio, semantico: raggruppo i termini in categorie sulla base del significato;
- 3° criterio: lessicalizzazione.
Esistono alcune parole, inizialmente formate come derivate da altre e con un significato
trasparente, che passano poi a indicare qualcos’altro. Es.
certo – cestino ‘piccolo cesto’ (come gatto – gattino ‘piccolo gatto): successivamente
cestino si specializza nel significato di ‘contenitore di rifiuti’.
Il meccanismo compositivo è diventato opaco, in quanto il parlante impara la parola nel
suo insieme con un significato preciso
Es. Il termine orecchino non lo colleghiamo più al suo significato originario di ciò che
è relativo all’orecchio (analogo a mare – marino), ma all’oggetto che usiamo per ornare
l’orecchio

Lezione del 21.11.22 ore 12:00-13:30 (Giorgi Alessia)


NOTA METODOLOGICA:
La derivazione è uno degli argomenti che necessariamente devono essere affrontati alla scuola
primaria. I meccanismi di derivazione possono essere trasparenti, ossia quando il suffisso e il
prefisso mantengono il loro valore originario, oppure opachi quando invece si verifica la
lessicalizzazione. Ciò che realmente deve premere all’insegnante non è tanto che i bambini
conoscano i termini tecnici o la casistica completa dei derivati, bensì che arrivino a capire che
esistono dei derivati originari che hanno acquisito un significato differente e specializzato (es.
il derivato schiacciatina, avendo subito la lessicalizzazione, ha perso il suo significato
originario di diminutivo ‘piccola schiacciata’ per assumere quello di ‘schiacciata farcita’).
Come sottolineato nelle Indicazioni Nazionali, gli alunni devono essere portati a riflettere sulla
lingua e ad acquisire le capacità di analisi, di classificazione e di confronto tra elementi simili
e elementi diversi affinché possano sviluppare la fondamentale capacità di ragionamento fine.
Per raggiungere tale scopo risulta inutile e controproducente fare con i bambini tutte le
casistiche di prefissi e suffissi, bensì è opportuno concentrarsi sull’imparare a riconoscere le
unità minime di significato scomponendo e ricomponendo le parole.

Si è detto che per riconoscere le parole derivate occorre provare a togliere il prefisso o il suffisso
e vedere se esiste la parola base: se la parola base esiste, allora si tratta davvero di un derivato.
Se proviamo ad applicare questa strategia con i verbi allattare, ingiallare, sfangare, imbellire
e invecchiare notiamo che, tolto l’ipotetico prefisso, le parole rimanenti non hanno senso. Se
li osserviamo ancora più attentamente ci accorgiamo che si tratta di verbi particolari che
derivano da nomi o aggettivi (in ordine: latte, giallo, fango, bello, vecchio) aggiungendo
contemporaneamente un prefisso ed un suffisso. Essi prendono il nome di VERBI
PARASINTETICI.

Infine, abbiamo visto come il prefisso in-, che indica una negazione, possa cambiare di forma
a seconda della consonante che lo segue per ragioni fonetiche, altrimenti in alcuni casi la parola
sarebbe difficile da pronunciare. Ne sono un esempio irreale e impossibile il cui prefisso è
appunto in-, ma che nel primo caso è diventato ir- e nel secondo im- in base alle consonati
successive. I suffissi invece non hanno bisogno di modificarsi perché si trovano in fondo alla
parola.

I nomi, verbi, avverbi, aggettivi DERIVATI prendono il loro nome dall’elemento


grammaticale che ne costituisce la base. Si distinguono quindi i
→ deverbali = se derivati da un verbo
→ denominali = se derivati da un nome
→ deaggettivali = se derivati da un aggettivo.

I COMPOSTI
Riprendendo il sostantivo deverbale spazzino che è stato ampiamente discusso nella prima
parte della lezione in riferimento a parole derivate con il suffisso -ino, è stata analizzata la
parola netturbino:
→o = morfema flessivo maschile singolare (informazione puramente grammaticale)
→ino = esprime “che fa”
→ Netturb = a differenza di spazzino (in cui è evidente la derivazione da spazzare), nel caso di
netturbino non si riconosce alcun verbo da cui questa parola possa derivare direttamente, infatti
*netturbare non esiste. Osservando e scomponendo ancora la parola, troviamo che essa è
formata da nett(are) (verbo sinonimo di pulire) + urb(e) (‘città’, dal latino).
Da questa analisi possiamo constatare che netturbino NON è un derivato semplice, ma passa
attraverso una fase di COMPOSIZIONE.

Cos’è la composizione?
La composizione è diversa dalla derivazione. Si tratta di un processo storicamente non molto
produttivo in italiano ma che si sta sviluppando negli ultimi decenni e che consiste nel prendere
due parole (lessemi) libere e autonome e unirle, creando così un’unica parola.
Una particolarità dei composti italiani è che hanno:
- in prima posizione, a sinistra, il determinato. Esso viene definito anche testa del composto,
infatti tra le due parole è quella che domina, determinando il genere grammaticale del
composto. Poiché al suo interno contiene il morfema flessivo, è anche la parola che può
cambiare di numero e formare il plurale;
- in seconda posizione, a destra, il determinante.
Es. capostazione = composto formato da capo (testa del composto) + stazione (determinante).
Infatti avremo: il capostazione e i capistazione.
Un’eccezione rispetto al comportamento dei composti normali è rappresentata da
pomodoro = pomo + d’oro
Non esistendo più pomo ‘frutto o vegetale di forma sferica’ come parola singola, il parlante
non è in grado di riconoscere pomodoro come un composto. Pomo è il determinato, infatti
attribuisce il genere maschile al composto e il plurale “normale” sarebbe pomidoro.
Tale composto è diventato opaco, il parlante la considera tutta insieme e la tratta come tutte le
altre parole dell’italiano mettendo il morfema grammaticale alla fine di essa. Infatti il parlante
al plurale dice pomodori.

CASI PARTICOLARI DI COMPOSTI


• Composti con la testa a destra: sono tutte parole di origine latina, o composti recenti
per influsso dell’inglese e alcuni composti detti “neoclassici” perché formati con parole
o parti di parola greche e latine. Un esempio di quest’ultima categoria è televisione
formato da tele- (= prefissoide, significa ‘a distanza’) + visione (parte dominante del
composto che determina il genere e il numero).
• Composti esocentrici: hanno la testa all’esterno del composto, infatti nessuna delle
due parole domina sull’altra, nessuna determina il genere né è portatrice del morfema
del plurale. In questi casi il genere viene attribuito in modo convenzionale per
somiglianza con i referenti. Per comprendere meglio ecco alcuni esempi: la (macchina)
lavapiatti, il (oggetto) saliscendi, il corrimano, il battiscopa ecc. Sono tutti composti
formati da un verbo e una parte invariabile.
Collegandosi a quest’ultimo punto, è stata fatta una riflessione su alcune parole il cui genere
è determinato dal referente. La parola email, essendo oggi associata a lettera, viene usata
al femminile, ma poiché in passato veniva comparata a messaggio, si utilizzava al maschile.
Una questione che ancora non si è stabilizzata è quella riguardante la parola WiFi. Esistono
attualmente forme concorrenti ed equivalenti, dette allotropi, per designare la stessa cosa:
la (rete) WiFi (femminile) e il (sistema) WiFi (maschile). In futuro è possibile che una delle
due forme sparisca completamente oppure che avvenga una specializzazione di uso e di
significato di esse.
9. 28/11/2022, ore 10.15-12.00 (Elisa Piagentini)

L’accordo e la reggenza
L’accordo e la reggenza sono forme di dipendenza. In entrambi i casi è sempre presente un
controllore.

L’ACCORDO
L'accordo è il trasferimento delle informazioni di genere, numero, persona (se si tratta del
verbo) sugli elementi controllati. L’accordo è predicibile: a partire dal genere e numero (se si
tratta di nomi) e dalla persona (se si tratta di un verbo) del controllore si può stabilire il genere,
numero e persona degli elementi controllati. È inoltre visibile, perché si tratta di
un’informazione morfologica.
Il valore che è proprio del controllore viene trasferito ad altri elementi: se il controllore è
femminile anche l'accordo deve essere femminile (accordo di tipo grammaticale). La lingua,
però, è varia e dobbiamo tener in considerazione i diversi casi:
• il morfema flessivo in sé assume valori diversi a seconda delle interrelazioni sintattiche:
un nome che finisce con la -a può essere femminile singolare o maschile singolare (è il
caso di poeta e fantasma).
• L’accordo di tipo grammaticale spesso viene sostituito da quello semantico (detto
accordo a senso). Non si regolano gli accordi individuando il vero controllore
grammaticale ma si regolano individuando il controllore di tipo semantico.
Vediamo l’esempio a pagina 60, esercizio 10: la maggior parte dei delegati all'inizio
della conferenza avevano firmato il documento, ma all'ultimo momento si sono tirati
indietro.
In questo caso la maggior parte è il controllore grammaticale. Se facessimo un accordo
grammaticale la frase sarebbe: la maggior parte dei delegati all’inizio della conferenza
aveva firmato il documento, ma all’ultimo momento si è tirata indietro.
Nella prima frase prevale la semantica. La maggior parte è una cosa inanimata, ma per
il verbo firmare e per il verbo tirarsi indietro serve un soggetto animato. Quindi si
individua il controllore nei delegati, proprio perché rappresentano un soggetto animato.
È giusto o sbagliato? Nella scrittura si tende a preferire l'accordo grammaticale perché
ci permette di individuare il ruolo delle diverse parti della frase. Nell'orale facciamo,
invece, più attenzione al procedere del senso.
• Vediamo l’esempio a pagina 60, esercizio 10: lei cosa ne pensa? È soddisfatto?
Lei è un pronome allocutivo di rispetto. Quando utilizziamo lei per fare l'accordo
grammaticale dovremmo utilizzare il femminile. Quando utilizziamo il pronome
allocutivo di rispetto per riferirci ad un uomo è del tutto normale fare l'accordo con il
maschile.

LA REGGENZA
La reggenza, a differenza dell’accordo, non è predicibile a partire dal controllore in sé. Non
ci sono informazioni morfologiche che ci facciano capire quale sarà la forma di ciò che dipende
dal controllore. La reggenza è quindi più astratta dell’accordo: non c'è niente, nella parola
controllore, che mi suggerisce come sarà la reggenza.

Esempio:
• Credo che oggi sia una giornata umida.
Abbiamo una principale (credo) che regge una subordinata. Utilizziamo la congiunzione
che ed il congiuntivo sia perché siamo di fronte ad una reggenza.
Alcune conseguenze
• Per un madrelingua è difficile sbagliare gli accordi: sa che poeta è maschile e regolerà
l'accordo facendo riferimento ad un maschile singolare. Per un soggetto non
madrelingua è più difficile percepire questi accordi.
• Uno dei settori di maggiore difficoltà nell’italiano contemporaneo è la selezione delle
preposizioni nella reggenza.
Le reggenze con le preposizioni in alcuni casi non sono immediate.
Vediamo l’esempio: fare cenno. In questo caso abbiamo bisogno della preposizione a.
Questa informazione non ce la danno né fare né cenno.
Le preposizioni non hanno un contenuto semantico preciso: hanno una funzione
relazionale, grammaticale, di marcare le reggenze. Non c'è nessun motivo per cui
accanto a fare cenno ci voglia a.
Il parlante questa struttura perché la memorizza per intero.
→ Un consiglio: se si è indecisi consultare un dizionario.

Le preposizioni non hanno un contenuto semantico preciso. Quello delle preposizioni, infatti, è
uno dei settori più deboli, più esposti al cambiamento e quello in cui si trovano più errori.
Come conseguenza la società dei parlanti italiani tende a sostituire le preposizioni semplici con
nessi preposizionali che abbiano un valore semantico più concreto. Si sta enormemente
diffondendo l’uso di attraverso, tramite, per mezzo di, mediante, eccetera.
Attraverso è un’espressione molto concreta e sta sempre più sostituendo la preposizione per.

La flessione degli aggettivi


Esercizio 13, pagina 61: è un esercizio di analisi dei dati, di classificazione e di astrazione.

Genere

Maschile Femminile

Numero Singolare -o, -e, -a -a, -e

Plurale -i -e, -i

Raccogliamoli in classi flessive:

1. Unica classe aperta


Genere

Maschile Femminile

Numero Singolare -o -a

Plurale -i -e

2. Dalla III declinazione latina


Genere

Maschile Femminile
Numero Singolare -e -e

Plurale -i -i

3. Dal greco (introdotto prima in latino e poi in italiano)


Genere

Maschile Femminile

Numero Singolare --a

Plurale -i

Il grado dell'aggettivo
Facciamo attenzione al caso di buono che al comparativo diventa migliore. Per i cibi spesso
utilizziamo l’espressione comparativa più buono ‘di sapore’, perché utilizzando il termine
migliore ‘di qualità’ cambierebbe il significato della frase.
Questo panino è migliore di quello che ho mangiato ieri: significa che la qualità del panino che
sto mangiando è migliore della qualità del panino che ho mangiato ieri.

Attribuzione del genere ai nomi


In italiano il genere dei nomi è di tipo grammaticale e non di tipo sessuale. Si parla di genere
inerente, cioè dipende dalla parola.
Andorno 2003 a pagina 63 afferma: “Non subiscono flessione di genere non solo i nomi che
designano esseri inanimati, dai quali è lecito attendersi un’assenza di variabilità, ma anche molti
nomi di animali come volpe, giraffa, corvo, o di professione, come falegname, ingegnere,
idraulico”. Il libro è del 2003 e, in questo ambito, la lingua italiana nel corso degli anni ha
subito qualche variazione. Oggigiorno il termine ingegnera è assolutamente diffuso, così come
ministra.

Il numero
Mentre il genere nella maggior parte dei casi dipende dalla parola, il numero invece non è
convenzionale: il genere rispecchia la realtà. Si usa il singolare quando parliamo di una cosa
sola e il plurale quando parliamo di più di una. Il numero grammaticale ha un rapporto più
diretto con il numero naturale del referente. Vi sono alcune eccezioni: esistono dei nomi che
sono grammaticalmente plurali ma indicano un referente che è singolare. Alcuni esempi:
forbici, occhiali, nozze, pantaloni, calzoni.
I singolari di queste parole esistono, ma hanno un significato diverso dal termine plurale.
Ad esempio, la parola occhiali deriva dall'unione di due lenti; infatti, inizialmente, esisteva una
sola lente e questo oggetto veniva chiamato occhiale.

Noi inclusivo ed esclusivo


I pronomi hanno valore grammaticale relazionale e non un valore referenziale perché
quest'ultimo cambia a seconda del sistema di riferimento che si sta adottando.
• Io non ha un contenuto referenziale univoco ma designa soltanto la persona che sta
parlando.
• Tu è sempre chi sta ascoltando in quel momento.
• Per la terza persona singolare c'è un problema: la terza persona è colui che non sta
partecipando al discorso. Può essere presente o assente ma non ci si sta rivolgendo a lui.
L'italiano per riferirsi alla terza persona usa egli (funzione anaforica: viene ripreso
qualcosa che è stato già detto ed espresso), lui (funzione deittica: se lo si sta indicando).
La differenza è molto difficile da gestire ed è utile soltanto in pochi casi. Questo fa sì
che la distinzione di funzioni sia molto debole. Il sistema tende a semplificare e
assomma tutte e due le funzioni in una sola forma. Nell'italiano corrente, parlato
soprattutto, lui ha preso anche la funzione anaforica che era propria di egli.
Nella lingua parlata l’uso di lui è ormai generalizzato; nello scritto si utilizza questa
differenziazione se è necessaria per la comprensione della frase.
È sbagliato pensare che in italiano contemporaneo lui ha sostituito egli, perché induce
a credere che usare lui sia sbagliato e quindi a sostituirlo sempre con egli (per esempio,
*sono andato al mare con egli): si corre il rischio di indurre degli ipercorrettismi che
sono ben più gravi del problema di partenza.
• Con il pronome noi bisogna prestare attenzione perché è un concetto duplice:
- noi inclusivo, che include chi ascolta e appare molto amichevole;
- noi esclusivo, che esclude chi sta ascoltando ed è meno amichevole.
• Con il pronome voi ci riferiamo a quelli che ascoltano.
• La differenza tra loro o essi è la medesima di egli e lui, con la particolarità che essi è
ormai sparito anche nello scritto.

9. 28/11/2022, ore 12.00-13.30 (Giulia Mincarelli)

Pronomi personali clitici: caso obliquo.


Viene indicato con il pronome ci. Indica tanti casi tra cui il locativo ma non solo.
1. Ho dato il bianco alle pareti.
Ci ho dato il bianco.
2. Ho litigato con Elena.
Ci ho litigato.
3. Non credo ai sogni premonitori.
Non ci credo.
In questo caso usiamo ci come pronome dativo perché indichiamo qualcosa di
inanimato.
Nel caso di un soggetto animato si usa il pronome gli:
Non credo a Michele.
Non gli credo.

Aspetto verbale.
È il modo in cui il parlante vede l’azione che racconta.
È uno degli aspetti più trascurati nell’insegnamento, se non al liceo classico in riferimento al
greco, ma è anche ciò che potrebbe aiutare, ad esempio, a distinguere il simple past inglese dal
passato italiano e quindi sarebbe utile presentarlo a scuola.
Ci sono 2 aspetti verbali:
• Imperfettivo: il parlante vede l’azione dall’interno, nella sua durata, enfatizzando il suo
svolgersi senza considerare l’inizio o la fine. È codificato in italiano dall’indicativo
imperfetto.
• Perfettivo: il parlante vede l’azione dall’esterno, nel suo essere conclusa,
indipendentemente dalla sua durata, non perché l’azione non l’abbia ma perchè la cosa
che interessa il parlante è il suo essersi conclusa. È codificato dal passato remoto e dal
passato prossimo ma con delle differenze.
Entrambe le forme morfologiche del perfettivo (passato prossimo e remoto) indicano un’azione
conclusa ma vengono utilizzati in maniera distinta (la distinzione nasce dal passaggio dal latino
al volgare):
• il passato prossimo indica un’azione conclusa ma i cui effetti si ripercuotono sul
presente. Si dice perfettivo compiuto.
• il passato remoto indica un’azione conclusa, senza considerare eventuali effetti o
ripercussioni sul presente. Si dice perfettivo aoristico.
1. Ugo è nato nel 1987. (significa che è ancora vivo)
2. Ugo nacque nel 1987. (significa che è nato ma è di certo morto.

3. Da giovane ho viaggiato molto e ancora oggi mi piace viaggiare.


Il verbo indica un’azione passata e conclusa ma che ha ancora oggi una certa
importanza dato che condiziona ancora il presente.
4. Da giovane viaggiai molto ma ora preferisco rimanere a casa.
In questo caso il verbo indica una azione passata e conclusa, della quale non ci
interessa la durata e che non condiziona il presente.
Le azioni del passato più vicino a noi, di solito, hanno più conseguenze sul presente: ecco
perché in molti manuali, banalizzando, si dice che il passato prossimo si usa per indicare
azioni di un passato vicino, senza esplicitare la differenza tra perfettivo compiuto e aoristico
e senza nemmeno tenere o meno in considerazione le conseguenze.
La distinzione aspettuale è importante nei testi narrativi perché è proprio l’alternanza tra
imperfettivo e perfettivo che regge la narrazione (e la distinzione tra perfettivo compiuto e
aoristico a distinguere le azioni concluse che hanno o non hanno conseguenze sul presente).
Il presente a seconda dei contesti può avere valore imperfettivo o perfettivo (nel caso in cui
utilizziamo il presente storico). I tempi composti sono tutti perfettivi compiuti.
1. Cristoforo Colombo aveva navigato in lungo e in largo quando trovò l’America.
Notiamo la conseguenza dell’aver navigato nel trovare l’America.

Aspetto verbale imperfettivo.


Ci sono tre diversi tipi di imperfettività, che però in italiano si vedono poco perché
l’imperfetto codifica tutti e tre i tipi rendendoli meno riconoscibili. L’unico modo per
riconoscerli è parafrasandoli così da comprendere meglio quale significato hanno
rendendolo esplicito.
• Ieri parlavo al telefono con una mia amica quando bussarono alla porta.
Possiamo parafrasarlo con “stare + gerundio”:
• Ieri stavo parlando al telefono con una mia amica quando bussarono alla porta.
Questo tipo di imperfettività indica che l’azione avviene continuativamente in quel lasso di
tempo senza fare altro. Viene chiamato imperfettivo progressivo.

• Da giovane andavo sempre in vacanza.


Possiamo parafrasarlo con “essere soliti + infinito”:
• Da giovane ero solito andare sempre in vacanza.
Questo tipo di imperfettività è chiamata abituale.
• Durante la lezione sbadigliavo tutto il tempo.
Possiamo parafrasarlo con “non fare altro che + infinito”:
• Durante la lezione non facevo altro che sbadigliare tutto il tempo.

Per il perfettivo, riconoscere le distinzioni è più semplice perché ognuna ha una forma
morfologica precisa (passato prossimo vs passato remoto). L’imperfettivo invece ha solo
l’imperfetto per tutti i valori: ecco perché si sta diffondendo “stare + gerundio”, perché
esplicita che l’azione è in corso, rendendo trasparente il significato.
Nei libri di grammatica non c’è “stare + gerundio” mentre in inglese è una forma
grammaticalizzata. Sarebbe importante farlo anche in italiano perché aiuterebbe di capire e
imparare prima le forme continuate dell’inglese.
I confini degli altri due tipi di imperfettività sono più difficili da individuare: è il contesto
che ci dice di quale tipo si tratta, perché in molti casi entrambe le parafrasati avrebbero
senso:
• Giocavo a tennis da giovane.
Non facevo altro che giocare a tennis da giovane.
Ero solito giocare a tennis da giovane.
10. 05-12-2022, ore 10.15-11.00 (Bertoli Letizia)

Schemi valenziali
Per schemi valenziali si intende la struttura argomentale, ovvero gli elementi necessari al verbo per
far sì che questo raggiunga il proprio significato in un determinato contesto. Per esempio: Ugo beve,
significa ‘Ugo è alcolizzato’; per raggiungere il significato di ‘ingerire un liquido per idratarsi’,
bere ha bisogno di un soggetto e di un oggetto diretto.
A seconda del significato che deve raggiungere il verbo può avere bisogno di:
• zero argomenti, come nel caso dei verbi meteorologico (verbi zerovalenti);
• un argomento, che è il soggetto (verbi monovalenti);
• due argomenti (verbi bivalenti);
• tre argomenti (verbi trivalenti).

Attanti
I verbi che indicano un’azione hanno bisogno di un soggetto che la compia; in questo caso il
soggetto viene definito agente. Per esempio: Anna prepara una torta, il verbo preparare designa
un’azione vera e propria, per questo ha bisogno di qualcuno che la compia, ovvero il soggetto, il
quale è sempre individuato come il sintagma nominale che si accorda con la parte finita del verbo.
In questo caso cambia però il ruolo definito attanziale, ovvero il ruolo che quel soggetto ha rispetto
al verbo. Il ruolo attanziale è una cosa stabilita non su base formale, ma sulla base della nostra
conoscenza del mondo.
Nella frase Giulia ha mal di testa, Giulia (che è il soggetto) non compie l’azione, ma la subisce, per
questo il soggetto viene detto esperiente, ovvero che prova un’esperienza o uno stato d’animo; nel
caso in cui il soggetto non prova un’esperienza, si definisce paziente, come accade nella frase La
nave affonda.
Anche l’oggetto indiretto ha un ruolo attanziale, come accade nella frase Anna prepara una torta
per Angelo, dove Angelo è il beneficiario dell’azione di Anna.

Struttura informativa
L’enunciato è il contenuto della frase, cioè l’insieme dei dispositivi che permettono di far
progredire il discorso in modo coerente.
Tutti i testi, che siano scritto o orali, si organizzano dicendo o descrivendo qualcosa, ma sempre
disponendo in un modo progressivo e ordinato gli elementi noti, definiti tema o topic, gli elementi
nuovi che vengono aggiunti, chiamati rema o comment, e gli elementi massimamente nuovi,
costituenti il focus:
• topic (o tema): è un concetto che prescinde dalla sintassi e prescinde anche dalla nostra
conoscenza del mondo.
• comment (o rema): è la parte nuova dell’informazione, ma non il picco informativo;
• focus: si tratta del picco informativo, che è parte del comment. Il focus è rappresentato da
ciò che le persone risponderebbero in sintesi a una domanda.
Per esempio, se incontro la mia vicina sulle scale e mi chiede: «Che fai oggi?», e io le rispondo
«Oggi, come tutti i lunedì, vado a fare lezione», vediamo nella riposta:
- oggi, io, che rappresentano il tema, poiché li ha posti la mia interlocutrice;
- come ogni lunedì, che rappresenta il comment, poiché la mia interlocutrice sa che è lunedì,
dunque, come informazione non è per lei nuovissima, anche se non è presente nella
domanda posta;
- vado a fare lezione, che rappresenta il focus, in quanto è qualcosa di completamente nuovo.

Seminario di lettura con le esposizioni degli studenti. Kim Erica Blauvelt e Giulia Tognocchi:
Stanislas Dehaene, Imparare. Il talento del cervello, la sfida delle macchine, Milano, Raffaello
Cortina, 2019

10. 5.12.2022, ore 12-13.30 (Kety Del Moretto)

La struttura informativa
La struttura informativa di una frase descrive come è organizzata l’informazione nella frase.
Anche i testi seguono lo stesso principio generale. La struttura si basa su tre unità:
- tema/topic, ció che si conosce e puó essere stato esplicitato precedentemente o resta implicito;
- rema, che unisce comment e focus, cioè gli elementi nuovi che dipendono dal contesto.
Vi è un ordine progressivo, che tendenzialmente segue quello sintattico della frase, del soggetto
tematico davanti al verbo e l’oggetto diretto in fondo (SVO). In questo caso troviamo il tema davanti
al rema.
Frasi con uguale contenuto semantico possono avere diverso valore informativo.
Abbiamo problemi di comunicazione per esempio quando si dà per scontato il tema e l'ascoltatore
non capisce, o quando il testo è malformato dal punto di vista sintattico. Ciò puó succedere con i
bambini che hanno un forte egocentrismo; quindi è necessario insegnare loro ad esporre il tema
all'inizio della conversazione.
Dalla combinazione di questi elementi, tema e rema, le frasi possono avere diverse strutture
informative. L’esercizio 5 di pag. 131 ci offre la possibilità di vedere alcune strutture informative
fondamentali come: la focalizzazione contrastiva, la frase scissa, la dislocazione a destra e a sinistra.

Focalizzazione contrastiva e frase scissa


La frase con focalizzazione contrastiva segue l’ordine rema-tema, cioè l’elemento nuovo è
anteposto a ciò che già si conosce. Questa struttura è usata per mettere in evidenza un elemento della
frase in contrapposizione con qualcosa di detto precedentemente o in contrasto con le aspettative del
parlante.
Mentre la frase scissa ha una struttura sintattica piú complessa: l’elemento nuovo viene indicato con
la struttura “sono/è X che …”.
Quindi la frase scissa non ha solo funzione contrastiva ma mette in evidenza il rema.
L’elemento posto nella prima parte delle frase scissa può essere un sintagma nominale o
preposizionale.
Es. 5
Sono IO che ho indossato la gonna grigia
focus topic
domanda possibile: È Maria che ha indossato la gonna grigia?
differenza semantica: si chiede chi rispetto a qualcun'altra, ha un'accezione contrastiva
La differenza dell’ordine di parole è quindi una differenza della sequenza della struttura
informativa della frase: troviamo il focus all'inizio della frase come spia di qualcosa di insolito
perché l'ordine della progressione informativa è invertito.
Dal punto di vista sintattico qua il verbo precede il soggetto (sono io).
Solitamente il pronome personale soggetto non si esplicita parlando, dato che la lingua italiana
prevede l’omissione del pronome. Questa scelta di esplicitare sottolinea l'io soggetto in opposizione
a altri aggiunge un sovrasenso che sia il parlante che l'ascoltatore capiscono: si enfatizza la
contrastività tra io e altri.
Analisi dell'unità della frase: Sono IO che ho indossato la gonna grigia (Sono io = frase reggente con
verbo e soggetto rematico postposto, non ha valenza semantica, è una dichiarazione di esistenza; che
= introduce una pseudorelativa).
Questo esempio di frase scissa è uno dei pochi modi che abbiamo in italiano per mettere il focus in
prima posizione, cambiando la distribuzione dell'informazione.
Altri es.
Hai invitato Giulio alla festa? È brutto che tu non lo abbia invitato.
È BRUTTO = Predicativo del soggetto
CHE = subordinata soggettiva

A chi sto parlando? È a te che sto parlando.


A TE = oggetto indiretto, l'elemento nuovo, cioè il focus, è in prima posizione

Dislocazione a destra
Con il termine dislocazione si intende un elemento della frase che viene spostato dalla sua posizione
canonica. Il fatto è segnalato dall’intonazione, che si spezza separando l’elemento dislocato dalla
frase vera e propria, e nella scrittura è segnalato dalla virgola.
Gli elementi noti perché già menzionati nelle frasi precedenti possono essere omessi o sostituiti da
un pronome.
Nell’es che segue l’oggetto diretto compare due volte: una prima volta come pronome anteposto (la)
con funzione cataforica (perché anticipa l’oggetto diretto che segue nella frase), una seconda volta
come sintagma nominale (la gonna grigia).
Es. 5
L' (la) - ho indossata - io - , - la gonna grigia
topic topic comment topic
Ogg diretto Verbo Sogg Ogg diretto
(pronome atono) virgola
domanda possibile: Chi ha indossato la gonna grigia?
Il Tema è all'inizio della frase in forma di pronome atono (la), si può anche omettere la gonna grigia,
ed il comment (io) è soggetto postposto al verbo; alla fine viene esplicitato l’oggetto diretto che era
già stato anticipato dal pronome. L'ordine consueto della progressione informativa è rispettato.
Dal punto di vista sintattico ci sono due elementi con la stessa funzione, due oggetti diretti: la gonna
grigia; il pronome atono la.
Il pronome qua ha funzione cataforica, poiché si trova in prima posizione e anticipa l'oggetto
diretto che si trova dopo, cioè a destra del pronome.
L'interpunzione con la virgola segue un criterio logico e comunicativo. La virgola isola nella frase
l'elemento dislocato e fa tornare il nucleo minimo della frase cioé oggetto (anteposto) verbo sogg
(postposto).

Dislocazione a sinistra
In questa forma il pronome clitico ha funzione anaforica e si trova postposto all’oggetto diretto a cui
si riferisce, creando un raddoppiamento.
In prima posizione c’è il tema, l’argomento di cui si sta parlando. La dislocazione a sinistra
dell’oggetto diretto è più comune nell’uso orale.
Nello scritto ma soprattutto nei testi scolastici si può trovare ancora la forma passiva con la stessa
funzione. Il passivo porta a soggetto l’oggetto diretto della forma attiva, ponendolo a inizio frase.
Es. 5
La gonna grigia, - l' (la) - ho indossata - IO
topic topic comment= focus
Ogg diretto Ogg diretto Verbo sogg
(pronome atono)
domanda possibile: Chi ha indossato la gonna grigia?
L'ordine consueto della progressione informativa topis-comment (o tema-rema) è rispettato.
Anche qui dal punto di vista sintattico ci sono due elementi con la stessa funzione, due oggetti diretti:
la gonna grigia; il pronome atono la.
Questa è una frase a dislocazione a sinistra: si riconosce perché il pronome è anaforico rispetto
all'oggetto diretto a cui si riferisce. Il pronome che riprende l' oggetto diretto che lo precede,
duplicandolo, ha funzione anaforica, cioè riprende un elemento già nominato in precedenza.
La frase è esplicita ed è forte il legame con la domanda.
Nell'80% dei casi troviamo il tema/soggetto all'inizio della frase (es. ho indossato la gonna grigia).
Se è necessario porre in prima posizione un topic che NON sia il soggetto (il 20% dei casi), in italiano
si ricorre a una disclocazione a sinistra. Questa struttura, che duplica l'oggetto, tiene in prima
posizione un tema che non è il soggetto della frase.

La gonna grigia può diventare soggetto solo trasformando la frase in forma passiva:
La gonna grigia - È STATA INDOSSATA - da me
Sogg. Verbo. Compl. d'agente
La forma passiva si trova ancora sui testi ma non si usa nel parlato e poco nello scritto.
Si usa quando si vuole evitare di esplicitare l’agente. Ad esempio sul bugiardino dei farmaci si legge:
il medicinale è stato testato nel rispetto delle normative.
Anche in questo modo si ottiene la progressione canonica della struttura informativa: tema/sogg e poi
focus.

Notiamo che per entrambe le frasi con dislocazione a sx e a dx la domanda in contesto resta la stessa.
Entrambe hanno il tema in prima posizione.

NOTA:
Per capire se siamo di fronte a una dislocazione a dx o sx si guarda la posizione del pronome:
Pronome anaforico= dislocazione a sx perché ha funzione di ripresa
Pronome cataforico = dislocazione a dx perché anticipa

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