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Considerando il significato valore informativo della parola.

Esso può essere:

significato denotativo o descrittivo proprietà di una parola di poter indicare o di potersi


riferire non soltanto a un singolo oggetto, ma genericamente all’intera classe degli elementi che condividono le
caratteristiche di quell’oggetto.
Ad esempio, nella frase “non mi piace il pesce”, la parola “pesce” denota genericamente la classe degli elementi che
appartengono al tipo “pesce”. Si noti che questa proprietà è tipica dei nomi comuni e non dei nomi propri.
Ad esempio nella frase “Luca è gentile” non ci si può riferire a tutte le persone dal nome Luca, ma soltanto a un Luca
specifico.
Il significato denotativo costituisce la parte oggettiva del significato di una parola, quella parte cioè che è condivisa dai
membri di una comunità linguistica e che consente quindi di capirsi l’un l’altro.
Il significato denotativo di una parola può essere:
• u n i c o , nel caso di parole monosemiche (“asciugamano”);
• p l u r i m o , nel caso di parole polisemiche (“perla”, che indica in senso letterale un oggetto prezioso “queste
sono perle vere”) e in senso figurato una persona esemplare “una perla d’uomo”).

significato connotativo proprietà di una parola che possono aggiungersi al significato di base
(denotativo) e specificarne quegli aspetti che hanno carattere di attributo. In base a ciò, si può distinguere tra:
• significato emotivo o affettivo specifica l’attitudine del parlante nei confronti del referente
della parola.
Ad esempio, “mamma” connotato affettivamente vs “madre” non connotato, hanno lo = stesso significato
denotativo ma diverso ≠ significato connotativo;
• significato stilistico specifica il riconoscimento che il parlante ha della situazione comunicativa e
il suo rapporto con il destinatario del suo messaggio.
Ad esempio, “bici”, usato tra amici, vs “bicicletta”.
• significato pragmatico o sociale specifica l’intenzione comunicativa del parlante.
Ad esempio, “guarda” nella frase “guarda, la storia è questa”, in cui “guarda” non ha il valore del verbo
“guardare” ma ha un valore che emerge solo in situazioni comunicative particolari).
Il significato è dipendente dal contesto d’uso.

significato collocazionale (meaning by collocation) significato che una parola


assume soltanto in combinazione, tecnicamente in collocazione, con un’altra parola specifica.
Ad esempio, “caloroso” in combinazione con “saluto” significa “affettuoso”. Si tratta in tutti i casi di significati figurati.

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La PAROLA

La nozione di parola è immediata e intuitiva per il parlante, ma di difficile definizione per il linguista.
Nell’opinione comune, costituisce una parola = ciò che esprime un significato unitario o ciò che è graficamente compreso
tra due spazi bianchi all’interno di un testo e che può essere pronunciato in isolamento.
In generale, si possono distinguere varie accezioni di “parola”:
− p a r o l a f o n o l o g i c a (la sequenza fonica che si raggruppa attorno a un accento primario);
− p a r o l a m o r f o l o g i c a (“capostazione”);
− p a r o l a s i n t a t t i c a (“telefonami”).

Il CALCOLO delle PAROLE di una LINGUA

Il calcolo delle parole di una lingua non è un’operazione semplice, perché si deve tenere conto delle forme flesse, delle
parole derivate, delle parole composte e delle unità polirematiche (idiomatiche e non).

il caso delle f o r m e f l e s s e
Ad esempio, sorge il problema di come si devono considerare le forme flesse che fanno capo a un’unica parola. A tale
scopo è stata stabilita per convenzione la cosiddetta “forma di riferimento o “forma di citazione”, che però non riflette
l’effettiva organizzazione del lessico. In it. la forma di citazione è l’infinito per il verbo, il singolare per il nome e così via.
Di conseguenza si possono introdurre 2 termini:
i. lessema che, in lessicologia, indica l’unità del lessico presa come forma base alla quale sono ricondotte
le forme flesse. Si tratta di un concetto + astratto rispetto a quello di “parola” infatti, nelle lingue flessive, le
forme + frequenti nell’uso concreto sono proprio quelle flesse. Ad esempio, il lessema di “libri” sarà “libro”.
ii. lemma o entrata lessicale che, in lessicografia, corrisponde alla singola voce di un
dizionario e costituisce la controparte del lessema.

il caso delle p a r o l e d e r i v a t e
Nel calcolo della parole di una lingua, va specificato che molte parole derivate non fanno parte stabilmente del lessico, ma
sono formate all’occorrenza attraverso l’applicazione di una RFP, si tratta dei derivati dal significato prevedibile, non
idiosincratico, diversamente da “libretto” che non significa soltanto “piccolo libro” ma indica il libretto dell’opera, o il
libretto degli assegni, o il libretto universitario.
Invece, parole derivate come “giorno”/”giornale” sono parole distinte dal punto di vista lessicologico, nonostante
condividano lo = stesso morfema lessicale (“giorn-”), in quanto oltre ad avere una forma differente ≠ hanno anche un ≠
diverso significato lessicale. La parola “giornale” non si forma nella mente ogni volta che se ne ha necessità, ma è stata
formata attraverso una RFP e ha un significato ≠ diverso da quello di “giorno”.
Entrambe fanno dunque parte stabilmente del lessico dell’italiano e in maniera autonoma.

il caso delle p a r o l e c o m p o s t e
Anche nel caso delle parole composte come “capotreno” o quelle formate da una sequenza di nomi giustapposti come
“divano letto” si tratta di parole distinte da quelle che costituiscono la base per la loro formazione (“capo” + “treno”,
“divano” + “letto”).
La differenza è evidente non solo dal punto di vista della forma, ma anche da quello del loro significato.
Nei dizionari, i composti di questo tipo sono presentati come lemmi, a condizione che siano scritti come una parola dal
punto di vista grafico o separati dal trattino (“divano-letto”).

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il caso dei c o s t r u t t i l e s s i c a l i o u n i t à p o l i r e m a t i c h e
Infine, i costrutti lessicali o unità polirematiche ( m u l t i w o r d e x p r e s s i o n s ) si comportano come lessemi,
poiché esprimono un concetto saliente nella sua globalità, un concetto unitario.
Espressioni nominali come “sala d’attesa”, “macchina da scrivere” hanno un “significato composizionale”, che è
desumibile dalla somma dei significati delle singole parti e si comportano come dei composti.
Quando queste sequenze sono prive di un “significato composizionale”, si parla di:
− “ e s p r e s s i o n i i d i o m a t i c h e ” = unità intermedie tra sintassi, che studia la combinazione delle parole, e il
lessico (“tagliare la corda”, “palla al piede” sono espressioni lessicalizzate così come sono, la “palla al piede” ad esempio
non è una palla, ma una persona che costituisce un peso), dotata di significato proprio, non totalmente predicibile a
partire dai costituenti e con struttura parzialmente fissa.

il caso delle p a r o l e o m o n i m e e d e l l e p a r o l e p o l i s e m i c h e
Oltretutto, se il criterio principale per identificare le parole è quello semantico, vi è una ulteriore complicazione nel
calcolo delle parole di una lingua.
Infatti, una = stessa forma lessicale può avere + significati: ad esempio, in it. “carattere” indica i tratti psicologici tipici di
una persona (“carattere1”), ma anche il segno grafico (“carattere2”). Pertanto è necessario capire come si devono
considerare “carattere1” e “carattere2”, ovvero come 2 lessemi:
︖ omonimi 2 forme che hanno in comune = il suono o la grafia, ma hanno ≠ significato;
︖ polisemici 1 unica forma in cui sono cumulati + significati.
La distinzione tra omonimia ≠ diacronia è decidibile soltanto in diacronia, attraverso alcuni criteri basati sull’analisi dello
sviluppo della lingua nel tempo:
• criterio etimologico in base al quale se 2 forme hanno una ≠ etimologia costituiscono 2 omonimi
[“miglio1” che indica l’unità di misura e “miglio2” che indica la pianta];
• criterio della “parentela” tra i significati in base al quale se i ≠ diversi significati
associati a 1 stessa = forma lessicale possono essere messi in relazione tra loro, cioè ricondotti uno all’altro
attraverso qualche dimensione semantica (metafora, metonimia), si tratta di un lessema polisemico.
[“collo” oltre alla parte del corpo, indica per estensione un indumento (“collo” della camicia), per similitudine
un recipiente (“collo” di una bottiglia) e così via].

La GENESI delle PAROLE

Dal punto di vista della loro g e n e s i , le parole si distinguono in 3 gruppi principali:


1. p a r o l e costituite attraverso R F P tipiche della lingua specifica (in it. le principali RFP sono le regole di
derivazione e le regole di composizione);
2. p a r o l e costituite attraverso la progressiva f i s s a z i o n e dei rapporti sintattici e semantici tra 2 o + parole
semplici che frequentemente cooccorrono (“purtroppo” originariamente “pure troppo” nel significato di “anche
troppo”, oggi parola singola con significato di “sfortunatamente”);
3. p r e s t i t i (latinismi e francesismi nell’inglese o in it. “garage” dal francese).

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La FORMA delle PAROLE

Dal punto di vista della forma, le parole possono essere di 2 tipi:

p a r o l e (morfologicamente) s e m p l i c i costituite da 1 unico morfema lessicale libero (“oggi”) o da un


morfema lessicale legato ad 1 morfo flessivo (“cane”).

p a r o l e (morfologicamente) c o m p l e s s e costituite da 1 morfema lessicale legato ad almeno 1 altro


morfema lessicale e/o derivazionale, oltre a eventuali morfi flessivi (“tavolino”). La loro struttura interna può essere:
• di tipo morfologico sono il risultato dell’applicazione di RFP e possono essere:
◦ p a r o l e d e r i v a t e (“barista”) cioè formate da 1 morfema lessicale e da 1 o + affissi;
◦ p a r o l e c o m p o s t e (“apribottiglia”) cioè formate da almeno 2 morfemi lessicali;
◦ p a r o l e a l l o s t e s s o t e m p o d e r i v a t e e c o m p o s t e (“statunitense”) cioè formate da almeno 2
morfemi lessicali (“stat-” e “unit-”) e da 1 morfema grammaticale (“-ense”).
• di tipo sintattico o parole sintagmatiche espressioni multiparola o costrutti
lessicali che equivalgono a lessemi ascrivibili a una categoria lessicale (verbo, nome), si tratta di parole che si
presentano come dei sintagmi (“piacere di conoscerla”), ma che si distinguono da questi per una coesione
interna che non è tipica de semplici membri di un sintagma (“sala da pranzo”). Non è possibile infatti inserire
del materiale all’interno di questo sintagma, si può ad esempio aggiungere l’aggettivo o prima o dopo (“grande
sala da pranzo” e non “sala grande da pranzo”), altrimenti si interrompe il significato.
◦ s i n t a g m i f i s s i = sequenze di parole che presentano una coesione interna + superiore a quella delle
combinazioni libere. Queste formazioni si collocano in una zona grigia tra morfologia e sintassi.

Tra le parole complesse, vi sono anche i composti, i quali si trovano in una zona grigia tra morfologia e sintassi.
• composti incorporanti parole formate attraverso il meccanismo dell’incorporazione, che
nella sua forma + frequente, si realizza nella incorporazione di un nome in una radice verbale per dare vita a un
nuovo verbo con un significato + specifico del precedente. Esso è molto diffuso nelle lingue indiane dell’America
Settentrinale e della Siberia, ad esempio in lingua koryak: “qoya-” (“renna”) + “-nm-” (“uccidere”)
“qonyanm” (“renna-uccidere”). In it. questo fenomeno è poco frequente ma presente in parole come
“crocifiggere”.
• composti giustapposti parole costituite da + elementi lesicali accostati in sequenza lungo la
catena sintagmatica, allo scopo di esprimere un concetto saliente per una determinata comunità.
I rapporti interni tra i 2 membri del composto possono essere di tipo:
◦ c o o r d i n a t i v o (“odio amore” = “odio e amore”);
◦ s u b o r d i n a t i v o (“treno merci” = “treno che trasporta le merci”);
◦ a t t r i b u t i v o / a p p o s i t i v o (“viaggio lampo” = “viaggio che ha le proprietà di un lampo”).

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L’ INFORMAZIONE LESSICALE

− informazione lessicale insieme di informazioni e proprietà che si suppone siano contenute in una
parola e che condizionano il modo in cui essa viene utilizzata. Queste proprietà sono di vario tipo:

significato valore informativo della parola (vedi “il significato” p. 167);

proprietà foniche proprietà che riguardano i suoni, la struttura sillabica e l’accentazione della parola.
Ad esempio, le proprietà foniche della parole “foglio” sono così trascritte: [ f ɔ ʎ o ].

proprietà grafiche insieme dei caratteri attraverso i quali il suono della parola è reso nello scritto.
Ad esempio, il suono [ ʎ ] in it. è reso in “foglio” con 3 simboli grafici (“gli”).

proprietà morfologiche proprietà che riguardano sia la:


• struttura morfologica struttura delle parole formate da + morfemi [vedi “parole complesse con
struttura interna di tipo morfologico”: parole derivate (“barista”), parole composte (“apribottiglia”), parole allo
stesso tempo derivate e composte (“statunitense”) p. 170];
• comportamento morfologico comportamento delle parole all’interno delle frasi.
Ad esempio, nelle lingue flessive le parole possono appartenere a una specifica classe flessiva, che condiziona il
loro comportamento (in it. l’aggettivo “rosa” appartiene alla classe degli aggettivi invariabili, la cui terminazione
rimane immutata al variare del numero “due sfotte rosa” e non “due stoffe rose”).

classe lessicale proprietà che si evidenzia sia nel:


• comportamento sintattico in base alla classe di appartenenza una parola ammette intorno a sé
alcuni contesti e ne esclude altri. Si parla di contesto nominale, contesto verbale, contesto aggettivale proprio
per indicare il contorno tipico di una parola.
Ad esempio, la parola “pasto”, in quanto nome, ammette di essere preceduta da un articolo (“un pasto”) o
accompagnata da un aggettivo (“un pasto sostanzioso”), ed esclude di essere modificata da un avverbio (“un
pasto bene”).
• comportamento morfologico in base alla classe di appartenenza una parola si presta a certi tipi
di modificazione morfologica, e non a altri.
Ad esempio, il verbo (e non il nome) è flesso per il tempo (“dormivo”, “dormo”, “dormirò”).

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Inoltre, bisogna osservare che molte parole hanno + di 1 classe lessicale.
Ad esempio, la parola “veloce” appartiene sia alla classe “aggettivo” come in “ho preso un treno veloce”, sia alla classe
“avverbio” come in “questo treno va veloce”.
Da un punto di vista teorico, questo fenomeno può essere interpretato in vari modi:
i. ipotesi sostiene che ci sia una ≠ diversa entrata lessicale per ogni ≠ diverso uso .
Ad esempio, “veloce1” come aggettivo e “veloce2” come avverbio;
ii. ipotesi sostiene che la parola abbia una classe lessicale di default che rientra nelle sue informazioni
lessicali, ma, tramite il processo morfologico di conversione o “ s u f f i s s a z i o n e z e r o ” , possa acquisire
altri usi derivati o secondari a seconda del contesto.
Ad esempio, “perché” il cui uso + tipico è quello di avverbio, non di nome.
iii. i p o t e s i sostiene che la parola non contenga alcuna informazione relativa alla classe lessicale e acquisisca
questa proprietà soltanto nel contesto sintattico. Quindi, se è inserita in un contesto nominale si comporta come
un nome, se è inserita in un contesto aggettivale si comporta come un aggettivo.

! Ci sono delle parole che hanno 2 proprietà in più: si tratta dei p r e d i c a t i che hanno la funzione di dire qualcosa
a proposito dei referenti indicati dalle altre parole (argomenti).
F r e g e (1892) ≻ chiarisce le nozioni di:
− p r e d i c a t o elemento linguistico che esprime la proprietà di un’entità (verbo “risplendere” in “il sole
risplende”) o che descrive la relazione tra 2 o + entità (verbo “riscaldare” in “il sole riscalda la stanza”);
− argomento elemento linguistico che identifica una delle entità rispetto alla quale il predicato dice qualcosa
(“il sole” e “la stanza” in “il sole riscalda la stanza”), che deve essere obbligatoriamente nominata affinché ciò che il
predicato dice abbia un senso.
≠ complemento elemento linguistico che può anche essere tralasciato senza che la frase risulti incompleta
(“per tre giorni” esprime un complemento di tempo in “Maria ha noleggiato una macchina per tre giorni”, mentre
“Maria” e “una macchina” sono argomento in quando sono elementi obbligatori affinché il predicato “ha noleggiato”
abbia un senso).
I predicati hanno in + le seguenti 2 proprietà:

struttura argomentale proprietà di richiedere intorno a sé degli argomenti per completare il


proprio significato. In altre parole, i predicati sono dotati di un’ulteriore informazione lessicale: quella che specifica lo
schema minimo di argomenti necessario per completare il proprio significato.
La struttura argomentale può prevedere un n° di argomenti che varia da 1 a 3:
• verbi zeroargomentali solo V (“piovere” come in “piove”)
• verbi monoargomentali solo S (“cadere” come in “cade la neve”);
• verbi biargomentali S + CO (“noleggiare” come in “Maria ha noleggiato una macchina”);
• verbi triargomentali S + COD + COI (“dedicare” come “io ho dedicato una canzone a Sofia”).

A k t i o n s a r t o modo d’azione o azionalità cioè il modo in cui il verbo presenta l’azione che descrive.
Ad esempio, “dormire” presenta un evento colto nel suo procedere, “addormentarsi” presenta un evento colto nella fase
di ingresso, “rimanere” indica uno stato che perdura nel tempo.

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LEZIONE 16: Le CATEGORIE GRAMMATICALI dei NOMINALI

In diacronia, nel lessico di una lingua entrano spesso “parole-contenuto” (“computer”, “software”), mentre l’ingresso
delle “parole-funzione” è molto più raro e lento. Il rapporto tra grammatica / lessico ≻ può modificarsi nel tempo
ridistribuendo il contenuto delle parole nelle 2 direzioni attraverso, o verso il lessico o verso la grammatica:
• lessicalizzazione “parola-funzione” si lessicalizza e diventa una “parola-contenuto”;
Ad esempio, la frase “non ti scordar di me” è stata lessicalizzata ed è diventata il nome di un fiore ".
• grammaticalizzazione parola-contenuto” si grammaticalizza e diventa una “parola-funzione”.
Ad esempio, nel caso degli avverbi in “-mente” dell’it., il suffisso avverbiale deriva dalla “parola-contenuto”
latina “mente”, ablativo di “mens, mentis”. Questa parola entra nell’it. sia con il significato di “mente” ossia una
“parola-contenuto”, ma anche come suffisso che forma avverbi quindi una “parola-funzione” a tutti gli effetti.
Ad esempio, nel caso dei verbi ausiliari che “aiutano” la coniugazione, quando servono a formare i verbi
composti (“io ho mangiato”, “io sono andato”), essi perdono il loro contenuto “semantico” (rispettivamente di
possesso e di stato) e ne assumono uno “grammaticale”, diventano cioè “parole-funzione”.
Il significato grammaticale, oltre che dalle “parole-funzione”, è espresso anche da (vedi “il significato” p. 167):
◦ strutture sintattiche;
◦ morfemi grammaticali si consideri il caso dei morfermi grammaticali “-o” e “-a” dell’it., così come si
presentano nelle parole “gatto” e “gatta”. Questi morfemi hanno 2 significati di tipo grammaticale: essi non forniscono il
significato lessicale della parola (che è espresso dal morfema lessicale “gatt-”), ma lo specificano, indicando 2 tipi di
informazioni semantiche, quella di:
✔ g e n e r e (maschile e femminile);
✔ n u m e r o (singolare).
◦ mezzi lessicali in inglese, invece, la nozione grammaticale di “ g e n e r e ” è espressa lessicalmente (“ the
cat”, “the she-cat”). Il “genere” nominale in inglese non è quindi grammaticalizzato,ma lessicalizzato.

Le CATEGORIE GRAMMATICALI

Per i diversi tipi di significati grammaticali, spesso associati a N o a V, è utilizzata la denominazione di “categorie
grammaticali”. La parola “categoria” ≺ viene dal vocabolario filosofico aristotelico (4° secolo a.C) in cui ha il significato di
“predicazione” e indica il modo in cui può essere detto qualcosa a proposito di qualcos’altro.
− c a t e g o r i e g r a m m a t i c a l i = classi di opzioni grammaticali complementari e omogenee:
● complementari le opzioni che fanno parte di una = stessa categoria sono complementari nel senso che, se si
sceglie un’opzione in una parola, automaticamente si escludono, per la stessa parola, tutte le possibili altre.
Ad esempio, se per una parola si decide di usare il singolare “il libro è bello”, non si può usare contemporaneamente il
plurale “il libro è belli”. “si escludono a vicenda”
Al contrario, però, una parola può essere allo stesso tempo: “singolare” e “femminile” (“la casa”). Le 2 opzioni non sono di
fatto complementari, perché appartengono a 2 categorie ≠ diverse, rispettivamente: “numero” e “genere”.
● omogenee le opzioni che fanno parte di una = stessa categoria sono anche omogenee, perché codificano una
stessa = nozione grammaticale. “relative alla stessa nozione”
Ad esempio, “singolare” e “femminile” NON sono omogenee, perché non sono entrambe né della classe “numero” né di
quella “genere”.
Tale omogeneità è definita dalla essenzialità di alcune fondamentali esperienze cognitive dell'uomo, quali:
✔ distinzione tra i g e n e r i maschile, femminile e neutro;
✔ collocazione di un dato evento nel t e m p o e l'eventuale indicazione della sua durata;
✔ indicazione della n u m e r o s i t à di determinati oggetti (unicità o molteplicità).

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Dunque sono “categorie grammaticali”, classificate in 9 gruppi:
• “persona”, “numero”, “genere”, “caso” (relative ai Nomi e ai nominali);
• “tempo”, “aspetto”, “modalità” e “modo”, “diatesi” (relative ai Verbi).

W h o r f ≻ sostiene che le “categorie grammaticali” = in quanto associazioni di una porzione di … possono essere:
contenuto + forma
coperte il contenuto NON ha un corrispondente sul piano della forma.
Ad esempio, in ingl. la categoria “genere” è quasi completamente coperta (non è visibile dal punto di vista morfologico
perché l’ingl. non utilizza morfemi grammaticali come l’it.), ma non è assente in quanto in una frase un nome lo si può
riprendere anaforicamente usando un pron. pers. 3a pers sg. in cui si può fare una distinzione di genere “he”, “she”, “it”.
scoperte il contenuto ha un corrispondente sul piano della forma.
Ad esempio, in it. la categoria “numero” generalmente è scoperta perché viene espressa da morfemi grammaticali
appositi:”ragazz-o” vs “ragazz-i”. Non mancano però le eccezioni: sg. e pl. “crisi”, in cui la categoria “numero” è coperta.

sistematiche si applicano a tutte o quasi tutte le forme di una classe lessicale;


isolate si applicano solo ad alcune forme di una classe lessicale.
Ad esempio, in it. il “caso” è una categoria isolata, perché non riguarda tutte le forme (come era per il latino o per il greco
antico che utilizzavano pariticolari morfemi per indicare il “caso”).
Residui di “caso” si trovano in italiano solo nei pronomi personali e nei pronomi relativi.
Allo stesso modo, l’inglese ha una categoria isolata di “caso”, che riguarda i pronomi relativi e i pronomi interrogativi
(“who” caso del soggetto e “whom” caso del non-soggetto).

I vari tipi di categorie, coperte vs scoperte e sistematiche vs isolate, possono combinarsi tra di loro creando 4 gruppi di
categorie grammaticali:
coperte sistematiche;
scoperte sistematiche + stabili in diacronia, cioè − soggette a subire cambiamenti nel tempo;
coperte isolate − stabili in diacronia, cioè + soggette a subire cambiamenti nel tempo;
scoperte isolate.

Ad esempio, in it. i pronomi relativi stanno subendo la tendenza, soprattutto nel parlato, a essere sostituiti dal “che”
generico, il quale neutralizza le diverse funzioni dei relativi come in:
“questo è il libro che (“di cui”) ti ho parlato ieri”;
“questo è il libro che (“con cui”) ho vinto il premio”.

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La CATEGORIA “PERSONA” !

− categoria “persona” categoria della deissi che indica, durante l’enunciazione, il ruolo o la posizione di
qualcosa o qualcuno rispetto a chi sta parlando, in particolare chi è l’emittente (“io”) e chi è il ricevente (“tu”) del
messaggio, il quale può essere reale o ideale.
● emittente s o g g e t t i dell’enunciazione
● ricevente necessariamente p e r s o n e “io” e “tu” designano esseri umani in tutte le lingue del mondo
(designano animali o oggetti solo nelle fiabe).
a
1 persona “io” “universali linguistici” perché sono partecipanti obbligatori dell’enunciazione.
a
2 persona “tu” Non si conosce lingua che non abbia parole particolari per designare: emittente e ricevente.

3a p e r s o n a NON designa necessariamente un essere umano e NON deve essere necessariamente presente
(definita “non persona” Benveniste). Per questo motivo la 3° persona spesso NON ha forme specifiche come “io” e “tu”.
Spesso il pronome di 3° pers. deriva da pronomi dimostrativi.
Ad esempio, nelle lingue romanze deriva da dimostrativi latini: “egli” ≺ “ille”, “esso” ≺ “ipse”.
Inoltre, solo il pronome di 3° persona può cambiare “genere” (m., f., n.).

− categoria “persona” è una “ c a t e g o r i a d e i t t i c a ” (dal greco “ δ ε ί κ ν υ µ ι ” = “mostrare”), in


quanto designa entità ≠ diverse a seconda di la usa: se Chomsky dice “io”, quell’ “io” indicherà Chomsky, se Napoleone
prende la parola, l’ “io” indicherà Napoleone).
L’emittente chiama se stesso “io” finché parla a un ricevente “tu”, appena la parola passa al ricevente, ci sarà
un’inversione e di conseguenza si avrà un continuo passaggio da “io” “tu” nel corso di una conversazione.
Nel caso di una narrazione, la forma “io” può indicare, oltre il narratore, qualsiasi personaggio della drammatizzazione a
cui venga fatta prendere la parola.

− categoria “persona” si interseca con la categoria “numero”, infatti i pronomi personali variano nel n°.
“Voi” = è il pl. esatto di “tu”, perché i riceventi possono essere contemporaneamente + di 1 (“tu” + “tu” + “tu”).
“Noi’ ≠ non è pl. esatto di “io” perché il parlante è 1 solo (a meno che a parlare non sia un coro, come quello delle tradegie
greche). Di conseguenza, “noi” significa [“io” + qualcun altro che non parla nello stesso momento].
Per questo motivo, in molte lingue i pl. dei pron. pers. vengono usati per esprimere “ r e f e r e n z a ” . Quando si usa:
• “voi” si da del “voi” a un interlocutore con cui non si ha confidenza (uso ancora diffuso al sud Italia), si
finge, per iconicità simbolica, che esso sia + di 1 per aumentarne l’importanza;
• “noi” come plurale maiestatis darsi del “noi” quando si parla significa fingere che il
parlante non sia 1 solo, ma + di 1, in modo da aumentarne l’importanza;
• “noi” come plurale modestiae serve a “umiliarsi” in modo simbolico, per cui il singolo
parlante si confonde nel gruppo di molti altri parlanti fittizi.
• “lei” si usa al posto del “tu”, si finge che l’interlocutore sia talmente importante da non potercisi rivolgere
direttamente. Se ne simula così l’assenza impiegando la 3a pers. = come forma di rispetto.

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La CATEGORIA “GENERE” ⚥

− categoria “genere” categoria del sistema nominale alla base della distinzione tra:
maschile (m.) femminile (f.) neutro (n.)
La nozione di “genere” ≺ proviene dalla grammatica antica, la quale si basava sul greco e sul latino che accanto a m. e f.,
avevano il n. = valore intermedio rispetto ai primi 2 e relativo a entità inanimate.
La grammatica antica ≻ basava perciò la distinzione grammaticale su quella naturale, ciò che era…confluiva nel:
maschio maschile; femmina femminile; tutto il resto neutro.
Alla base del pensiero primitivo vi era il bisogno di creare un ordine e di stabilire delle corrispondenze tra significato /
significante. Nel corso della storia molte di queste corrispondenze hanno subito modifiche, cambiando anche l’ordine con
cui le cose si presentavano all’origine. Ad esempio, nel passaggio dal latino alle lingue romanze, il n. è scomparso, tutte
le parole di “genere” n. si sono andate a ridistribuire casualmente tra il m. e f., andandosi così a perdere la
corrispondenza tra “genere naturale” ≠ “genere grammaticale”.
Nelle lingue del mondo la distinzione di “genere” è applicata in modo esteso (ma non identico) a parole che designano:
◦ persone o esseri animati (“il ragazzo” / “la ragazza”); ◦ oggetti concreti (“la forchetta”); ◦ oggettti astratti (“la paura”)
senza riferimento alle caratteristiche biologiche dell’entità in questione, e a volte addirittura in contrasto con tali
caratteristiche (n. ted. “das Madchen” o “das Kind” che si riferisce a “bambino” o a “bambina”).
È necessario quindi distinguere tra:
➢ g e n e r e n a t u r a l e ≠ g e n e r e g r a m m a t i c a l e = categoria linguistica che può coincidere con la
categoria del genere naturale, oppure può riunire elementi in base a criteri del tutto ≠ da quelli naturali.
Ad esempio, nella grammatica araba i nomi “umm” = “madre”, “nȃr” = “fuoco”, “ğahĭm” = “inferno”, “harb” =
“guerra” fanno tutti parte della classe dei nomi di genere femminile.
Il “genere” grammaticale ≻ è comunemente espresso con:
• m e z z i m o r f o l o g i c i (“ragazzo” / “ragazza”);
• m e z z i l e s s i c a l i (“padre” / “madre”).
Il “genere” grammaticale ≻ può essere c o p e r t o o s c o p e r t o , e riguarda in diversa misura anche gli elementi che
accompagnano il N (articolo e aggettivo in it., 2a persona del verbo in arabo e nel russo parlato).
Ad esempio, in ingl. il genere è coperto: non è visibile dal punto di vista morfologico (di quasi nessun nome si può dire se
sia m. o f.), ma non è assente in quanto in una frase il nome in questione può essere ripreso anaforicamente usando un
pronome personale “he”, “she”, “it” come riprese anaforiche.
Rispetto al “genere” le lingue si comportano in modo ≠ diverso:
− “ g e n e r e ” c o p e r t o (inglese) ci sono lingue che non hanno “marche” che permettono di distinguere il genere.
Il “genere” però non è assente, ma è coperto: non è visibile dal punto di vista morfologico, ma è visibile nelle riprese
anaforiche con il pron. pers. di 3a pers. sg.
− a s s e n z a n . (lingue romanze) ci sono lingue che hanno solo m. e f. e non il n.; in queste lingue spesso il “genere”
di ciò che non è “femmina” o “maschio” è immotivato. La corrispondenza non è perfetta, ci sono casi di:
◦ rovesciamento di genere (it. “soprano”);
◦ “genere unico” per i 2 sessi (la “tigre”)
◦ parole che NON hanno “marca” di “genere” (it. il/la “francese”).
In questi casi, il genere naturale è espresso con l’aggiunta di altro materiale lessicale: “la tigre femmina”, “la francese”.
− p r e s e n z a n . (tedesco, russo) in altre lingue al m. e f. si aggiunge il n.;
− “ g e n e r e ” a n i m a t o / “ g e n e r e ” i n a n i m a t o (lingue slave) in altre la bipartizione di “genere” non
rigrarda m. e f. ma riguarda l’opposizione tra genere animato vs inanimato, nelle lingue slave è presente in modo coperto.
− p r e f i s s i (swhaili) lingue in cui l’opposizione di genere è molto più articolata, come lo swaili, dotato di speciali
prefissi che aggiungono al N un’idea precisa (“m-” e “mi-” indicano entità viventi o mobili non umane, “m-to” = fiume).

210
La CATEGORIA “NUMERO” "

− categoria “numero” categoria del sistema nominale che indica la quantità dei referenti: l’opposizione più
semplice è quella singolare (ciò che è 1) vs plurale (ciò che è + di 1). Per esplicitare le esatte quantità si usano i numerali.
Dal punto di vista morfologico, nelle lingue del mondo che codificano questa distinzione, essa è espressa attraverso:
• m o r f e m i g r a m m a t i c a l i (it. “libr-o” / “libri-i”);
• r a d d o p p i a m e n t i d e l m o r f e m a l e s s i c a l e (indonesiano “buku” = “libro”, “buku-buku” = “libri”);
• m o d i f i c h e d e l m o r f e m a l e s s i c a l e (ingl. “goose” / “geese”);
• g r a d o “ 0 ” (ingl. “fish” / “fish”).
Dal punto di vista semantico, si esprime poi anche in altre forme, ad esempio nella distinzione tra:
i. nomi numerabili possono essere contati, possono essere preceduti da un quantificatore e possono
avere il pl. (“libro”);
ii. nomi massa indicano una massa indistinta di materia (“sabbia”), possono essere preceduti da un
quantificatore (“un po’ di sabbia”), NON hanno il plurale (× “sabbie”).
iii. n o m i c o l l e t t i v i indicano un gruppo di numerose entità singole (“stormo”), hanno il pl. (“stormi”).
Ci possono anche essere delle sovrapposizioni tra le suddette classi:
✗ nomi massa + nomi numerabili “non mi piace il vino” (massa), “non mi piacciono i vini francesi” (num.);
✗ nomi astratti (sg. massa o numerabile, pl. numerabil) “è una persona di grande cattiveria” (massa), “mi ha
fatto molte cattiverie” (numerabile, col significato di “atto di cattiveria”);
✗ nomi non numerabili nomi numerabili le lingue rendono alcuni nomi non numerabili numerabili in
modalità diverse.
Ad esempio, in ingl. “information” “non numerabile”, per “prelevare” una parte di “informaion” si deve dire “a
piece of”, “two pieces of”.
Alla categoria gramaticale del “numero” sono connessi i:
• quantificatori definiti numerali (“1”, “2”) e sintagmi (“lasso di tempo”, “una dozzina di
uova”, “fetta di pane”, “un paio di scarpe”);
• quantificatori indefiniti indicano una piccola quantità (“qualche”, “alcuni”) e indicano una
nozione particolare di plurale, poiché accostati ad un Nome sg, questo Nome non andrà più a esprimere cioè che
è singolo, ma ciò che “non è singolo ma poco” (“qualche finestra” = piccolo numero di finestre).

Rispetto al “numero” le lingue si comportano in modo ≠ diverso:


− singolare vs plurale ci sono lingue che oppongono singolare vs plurale.
Dal punto di vista morfologico, il sg. si distingue ≠ dal pl. attraverso:
• m o r f e m i g r a m m a t i c a l i (it. “libr-o” / “libri-i”, lat. “ros-a” / “ros-ae”);
• m o r f o Ø (“dog× / “dogs”);
• r a d d o p p i a m e n t i d e l m o r f e m a l e s s i c a l e (indonesiano “buku” = “libro”, “buku-buku” = “libri”);
• m o d i f i c h e d e l m o r f e m a l e s s i c a l e (ingl. “goose” / “geese”);
• g r a d o “ Ø ” (ingl. “fish” / “fish”).
− duale ci sono lingue che hanno anche il duale, che indica entità che si presentano in coppia.
All’origine del duale probabilmente vi erano le entità che si presentavano sempre in coppia, ad esempio: “occhi”, “mani”.
Oltretutto, il numero “2” è molto comune nell’uso, perciò si è sentito il bisogno di lessicalizzarlo anche in lingue che non
hanno il duale morfologico, ad esempio in it. “entrambe le mani”, ingl. “both hands”, ted. “beide Hände”.
− triale e quadriale ci sono lingue che hanno anche il triale, che indica gruppi di 3 o 4 entità;
−paucale ci sono lingue che hanno il paucale, che indica morfologicamente gruppi di poche entità, col significato
di “qualche”.

211
La CATEGORIA “CASO” #

− categoria “caso” categoria del sistema nominale che indica le funzioni grammaticali.
Gli elementi che svolgono una determinata funzione grammaticale hanno un ruolo ben preciso all’interno dell’enunciato.
Ad esempio, i Nominali (nomi, pronomi) e altri elementi che si comportano come i Nominali (Aggettivi sostantivati,
infiniti sostantivati) svolgono la funzione di Soggetto o di Complemento; i Verbi svolgono quella di Predicato.
Le “funzioni grammaticali” sono legate alle “parti del discorso” (N, V, A):
◦ N Soggetto o Complemento;
◦ V Predicato;
◦ A Soggetto o Complemento.
! “funzione grammaticale” provvisoria ≠ “parte del discorso” stabile !
“Elisa (S) ti chiama”, “ho visto Elisa (C)” “Elisa” è sempre (N)
I “casi” ≻ furono classificati dai grammatici g r e c i e l a t i n i , e ancora oggi noi utilizziamo i termini da loro coniati.
• nominativo caso che marca la “funzione grammaticale” di Soggetto (S), tradizionalmente considerato
come prioritario sugli altri, tanto da essere sempre elencato per 1° nei paradigmi flessionali.
In it. il nome “caso” ≺ deriva dal lat. “casus”, gr. “ptōsis”, col significato di “caduta”: gli altri “casi” cadono
metaforicamente dal 1°, il nominativo, e subiscono modifiche morfologiche.
• accusativo caso che marca la “funzione grammaticale” di Complemento Oggetto (CO).
Nominativo e accusativo = sono “ c a s i c a r d i n a l i ” , cioè costituiscono il nucleo fondamentale nei sistemi
di caso.
In alcune lingue esistono anche i seguenti casi:
• ergativo caso che marca la “funzione grammaticale” di Soggetto dei V transitivi;
• assolutivo caso che marca la “funzione grammaticale” di Soggetto dei V intransitivi.
Gli altri casi, invece, hanno la funzione di legare: enunciato +contesto extralinguistico.
• genitivo caso che marca la “funzione grammaticale” di Complemento di Specificazione (CS), esprime
una relazione.
• d a t i v o caso che marca la “funzione grammaticale” di Complemento di Termine (CT), indica il
destinatario di un’azione.
• strumentale caso che marca la “funzione grammaticale” di Complemento di Mezzo (CM), indica lo
strumento con cui si compie un’azione.
Inoltre, da una lingia all’altra i singoli casi possono avere anche altre funzioni oltre a quelle principali.
Ad esampio, in lat. il dativo può indicare anche l’ a p p a r t e n e n z a :
“patri (dat.) est filius (nom.)” = al padre è un figlio = il padre ha un figlio.
Vi sono altri casi che designano una l o c a l i z z a z i o n e s p a z i a l e nel senso dei cosiddetti Complementi di Stato in
Luogo, Moto a Luogo, Moto da Luogo, i quali evidenziano un’organizzazione dello spazio, molto strutturata, a partire
dalla quale il parlante si trova nel momento dell’enunciazione.

In it. non esiste differenza di “casi”, la categoria “caso “ è coperta, tranne che nei: clitici e nei pronomi relativi.
✗ c l i t i c i (enclitici e proclitici) sono pronomi personali atoni che ricorrono in determinati contesti.
a a
“Me”, “mi” (1 pers.) “te”, “ti” (2 pers.), ecc hanno la “funzione grammaticale” di COD e COI.
Ad esempio, ✓ “mi ha chiamato Elisa” o “Elisa ha chiamato me”, ma × MAI “me chiamo Elisa”, perché “me”
avrebbe la funzione di Soggetto.
✗ pronomi relativi allo stesso modo il “che” relativo svolge esclusivamente la funzione di S o CO.
Ad esempio, “ho ascoltato il cd che (CO) hai comprato” o “il professore che (S) farà lezione oggi si chiama Fuà”.

212
LEZIONE 17: Le CATEGORIE GRAMMATICALI dei VERBI

La 1a classificazione delle “categorie grammaticali” legate al Verbo risale ad Aristotele (4° secolo a.C) e la linguistica
moderna ha poi mantenuto la classificazione aristotelica, limitandosi ad aggiungere alcune precisazioni.
◦tempo “categoria grammaticale” che non è esclusiva del Verbo, perché è reso esplicito anche attraveso altri mezzi
linguistici, ed è quindi una proprietà dell’intero enunciato;
◦ verbo non esprime solo il “tempo”, ma anche la qualità dell’evento come: la durata, la regolarità, la “modalità”.

La CATEGORIA “TEMPO” $

− categoria “tempo” categoria del sistema verbale che fa riferimento alla distinzione cronologica tra
passato, presente e futuro.
Le lingue ≻ hanno comunemente “ s i s t e m i t e m p o r a l i ” (tempi verbali) che consentono di collocare gli eventi
descritti dalle frasi in un determinato momento temporale rispetto al tempo dell’enunciazione, cioè al momento in cui le
frasi sono pronunciate.
Ad esempio, “domani porterò (fut.) la macchina dal meccanico”, “ieri ho portato (pass.) la macchina dal meccanico”.
I verbi “porterò” e “ho portato” localizzano l’evento rispettivamente nel futuro e nel passato rispetto al momento in cui
l’emittente produce l’enunciato hic et nunc. Di conseguenza, il “tempo” coinvolge 2 livelli:
tempo dell’evento − tempo dell’enunciazione
Il “ s i s t e m a i d e a l e ” di tempo ≻ nasce dall’incrocio dei 2 livelli e dunque:
• presente si usa quando: tempo dell’evento = tempo dell’enunciazione coincidono;
• passato si usa quando: tempo dell’evento viene ≻ prima del tempo dell’enunciazione;
• futuro si usa quando: tempo dell’evento viene ≺ dopo quello dell’enunciazione.
Questo “sistema ideale” ≻ funziona molto bene per frasi semplici, quindi per enunciati che servono per parlare di 1 unico
evento alla volta. Quando gli eventi sono + di 1, questi vanno collocati nel tempo in relazione tra loro.
Ad esempio, “[ha avuto un incidente]A ed [è finito in ospedale]B’.
Gli enunciati A e B si svolgono entrambi nel passato, ma A si riferisce ad un evento anteriore e B ad un evento posteriore,
perciò A viene detto ≻ prima di B. Il “sistema ideale” va quindi esteso come segue:

PASSATO
Passato nel Passato − Passato − Futuro nel Passato

PRESENTE

FUTURO
Passato nel Futuro − Futuro − Futuro nel Futuro

I “sistemi temporali” però sono ≠ da lingua a lingua infatti non tutte le lingue hanno forme specifiche per riempire tutte
le caselle del “sistema ideale” esteso, ma “scelgono” quali caselle riempire.
Ad esempio, ci sono lingue con + tipi di futuro, a seconda della:
◦ p r o s s i m i t à t e m p o r a l e al tempo dell’enunciazione (in it. un evento che avverrà nel futuro prossimo si esprime
attraveso il tempo verbale dell’indicativo presente come in “domani sera vado a teatro”);
◦ i n t e n z i o n a l i t à del parlante (in ingl. si utilizza l’ausiliare “will” per esprimere un futuro con un cerdo grado° di
intenzionalità come in “I will not go”).

213
Il significato temporale a volte è espresso lessicalmente attraverso avverbi, anziché attraverso la morfologia verbale (in it.
si utilizza l’espressione avverbiale “domani sera”).
Alcuni studi mostrano poi che l’opposizione di tempo + importante:
× presente vs passato vs futuro;
✓ passato vs non–passato.
Infatti, nelle diverse lingue è in genere presente una forma specifica per realizzare il:
◦ p a s s a t o = passato;
◦ non–passato indica sia il presente sia il futuro.
Ad esempio, in it. “domani chiamo la dottoressa”, ingl. “I leave tomorrow”.
In queste 2 frasi viene usato il presente per parlare di un evento che accadrà in futuro, perché il presente fa comunque
parte del non−passato.
Inoltre, molte lingue non hanno una forma specifica per il f u t u r o e lo rendono con f o r m e p e r i f r a s t i c h e .
Ad esempio, in ted. “ich werde lesen” = ‘io leggerò’ (lett. “io divento leggere”), in ingl. “I will read” (lett. “voglio leggere”).
In molte lingue pertanto, il futuro ha uno statuto debole, mentre il passato ha uno statuto forte.
Il p r e s e n t e ≻ è spesso usato per fare un’ a s s e r z i o n e a t e m p o r a l e , ad esempio: “la calma è la virtù dei forti”.
Il grado° di distanza di un evento rispetto al tempo di enunciazione ≻ può essere indicato in modo più + o − preciso a
seconda della lingua.
Ad esempio, in it.: passato prossimo ≻ indica una distanza − minore (“ieri ho incontrato Elisa”);
passato remoto ≻ indica una distanza + maggiore (“nel 2011 feci un viaggio in India”).
Si è visto però che nelle varietà del nord Italia si sta perdendo il passato remoto, il quale permane invece nella varietà del
sud Italia.
Ad esempio, in fr. oggi questa differenza si è neutralizzata, mentre nelle lingue bantu ci sono ≠ diverse forme per indicare
i vari gradi° di distanza di un evento rispetto al tempo dell’enunciazione.

214
La CATEGORIA “ASPETTO” %

− categoria “aspetto” categoria del sistema verbale che indica il modo in cui un evento espresso dal Verbo
è presentato linguisticamente dal Verbo stesso in relazione alle fasi temporali che lo costituiscono.
Ad esempio, un evento può essere presentato nel:
i. momento iniziale (“Elisa si addormenta”);
ii. momento progressivo (“Elisa dorme”, “Luca cerca la chiave”);
iii. m o m e n t o c o n c l u s i v o (“Luca ha trovato la chiave”).
L’ “aspetto” ≻ può essere espresso attraverso:
• mezzi morfologici ad esempio, nella distinzione tra:
tempi perfettivi (“cantai”) vs tempi imperfettivi (“cantavo”);
• mezzi sintattici ad esempio, nella distinzione tra usi completi del Verbo, i quali esprimono in evento
delimitato (“Giulia canta una canzone”) vs usi assoluti del Verbo, i quali esprimono un evento non delimitato nel
tempo (“Giulia canta”).
usi completi (“Giulia canta una canzone”) vs usi assoluti (“Giulia canta”)
• mezzi lessicali ad esempio, nella differenza tra:
durativi (“dormire”) vs ingressivi (“addormentarsi”).
Sembrano essere + numerose le lingue che grammaticalizzano opposizioni di aspetto piuttosto che opposizioni di tempo.
I tipi di “aspetto” sono numerosi, ma tutti prendono in considerazione 3 fasi di un evento:
inizio (I); sviluppo (S); fine (F).
Su ogni fase si possono compiere varie operazioni:
✗ co–occorrenza di I, S, T evento visto nella globalità;
✗ n e u t r a l i z z a z i o n e (di 1 o 2 delle 3 fasi);
✗ focalizzazione (“ “ );
✗ iterazione (“ “) evento è visto come costituito da vari momenti che si susseguono.
Sulla base di queste operazioni ≻ si “creano” i vari tipi di “aspetto”:
1. perfettivo co−occorrenza di I, S, T (“sono andato negli USA”), esso descrive l’evento come concluso,
enfatizzando T;
2. permanente neutralizzazione di I come se fosse di durata eterna, un dato di fatto (“la scritta si vede
male”);
3. puntuale neutralizzazione di S, la durata è ridotta a 1 solo momento (“ho trovato”, “esplodere”);
4. imperfettivo neutralizzazione di T (“sto mangiando”), o al + non dice se l’evento è terminato o no;
5. incoativo focalizzazione di I (“arrossire”, “invecchiare”);
6. risultativo focalizzazione di T con una progressione dell’evento verso un punto finale in cui l’evento
si conclude (“svuotare”);
7. intensivo focalizzazione di I, S, T (“accecava”);
8. iterativo ripetizione delle singole fasi dell’evento (“mangia sempre le stesse cose”).
Le lingue decidono in maniera autonoma come rendere le differenze aspettuali, alcune attraverso la:
◦ grammaticalizzazione; ◦ lessicalizzazione.
Ad esempio, il turco (lingua agglutinante) lo grammaticalizza con marche scoperte e sistematiche (“-(i)ştir-” rende il
Verbo intensivo e il Verbo iterativo).

215
La differenza + importante a livello dell’ “aspetto” contrappone il: perfettivo vs imperfettivo.
Ad esempio, l’arabo antico: × non aveva distinzione temporale, ma solo tra:
✓ “aspetto” compiuto (T focalizzato) vs “aspetto” incompiuto (T neutralizzato).
Ad esempio, in it. oggi il: p e r f e t t i v o = equivale alle diverse varietà di passato;
i m p e r f e t t i v o = equivale al presente e al futuro.
Quando i caratteri dell’ “aspetto” si incrociano a quelli del “tempo” ≻ il “sistema ideale” di possibili soluzioni aumenta.
Infatti, alcune forme temporali: da un lato, localizzano gli eventi nel “tempo”;
dall’altro, impongono ad essi uno specifico “aspetto”.
Ad esempio, in it. il tempo:
◦ imperfetto ≻ rende le forme lessicali che lo usano: imperfettive, durative, iterative (“leggevo un capitolo al giorno”);
◦ passato remoto ≻ rende l’evento puntuale (“mentre ero in bagno squillò il telefono’”).
Pur se in it. l’ “aspetto” è coperto, un verbo lessicalmente risultativo come “svuotare” può avere un “aspetto” ≠ diverso a
seconda del tempo a cui lo si coniuga, ad esempio: all’imperfetto “svuotavo la valigia quando arrivò Luca”, in cui il Verbo
“svuotare” normalmente focalizzato su T, una volta coniugato è focalizzato su S.

216
Le CATEGORIE “MODALITÀ” e “MODO” ✅

− categoria “modalità” e “modo” categoria del sistema verbale che indica l’atteggiamento con cui il
parlante presenta l’azione espressa dal Verbo. L’azione ≻ può essere presentata come:
◦ reale (indicativo);
◦ eventuale (congiuntivo);
◦ desiderabile (ottativo e desiderativo);
◦ s o g g e t t a a p a r t i c o l a r i c o n d i z i o n i (condizionale);
◦ richiesta ad altri (imperativo).

La “modalità” ≺ era un fenomeno noto già in epoca classica e riconosciuta in forme grammaticalizzate o lessicalizzate.
Le 4 “modalità” fondamentali della locuzione sono: comando (ordini), speranza (augurio), certezza, possibilità.
I vari atteggiamenti però, più che dal punto di vista linguistico, erano chiariti dal punto di vista filosofico.
Aristotele ≻ distingueva tra 2 tipi di discorsi:
✗ discorsi “apofantici”o“assertivi” enunciati che possono essere sottoposti a giudizio di verità;
✗ discorsi “semantici” enunciati di cui non si può stabilire la verità o falsità (preghiera).
La divisione aristotelica ≻ è ancora quella centrale, perché serve a distinguere il “modo” usato per le:
✔ asserzioni i n d i c a t i v o = “modo non marcato” che presenta l’evento come vero senza specificare
in alcun modo l’atteggiamento del parlante verso l’interlocutore o la propria locuzione.
Ad esempio, l’asserzione “sono le 10”.
✔ non−asserzioni hanno rese ≠ a seconda della lingua.
Ad esempio, gli o r d i n i ≻ sono espressi con l’ i m p e r a t i v o = “modo” specifico, in genere ha solo le 2e
persone (“tu”, “voi”), perché un comando è solitamente diretto da emittente a ricevente (“chiudi la finestra!”).
Ad esempio, le d o m a n d e ≻ non hanno sempre un “modo” apposito, perché il parlante le fa per ottenere un
valore di verità. Le altre “modalità” si basano su 3 assi: certezza, possibilità, augurio (“100 di questi giorni!”).
Le varie lingue decidono poi se renderle grammaticali o no:
Ad esempio, l’asse dell’ a u g u r i o ≻ era grammaticale in latino e greco.
◦ il l a t i n o ≻ lo esprimeva attraverso il congiuntivo potenziale (“roget quis” = “qualcuno potrebbe
domandare”);
◦ il g r e c o ≻ usava l’ o t t a t i v o = un “modo” verbale che rendeva sia la possibilità sia l’augurio;
◦ il t u r c o ≻ attacca al V il suffisso “-bil-” per esprimere la possibilità (“gel-irim” = “io vengo”, “gel-bil-irim” =
“posso/potrei venire”).

Le varie lingue rendono ≠ diversamente le “modalità”, le quali possono essere espresse attraverso:
• m o r f e m i (prefissi, infissi, suffissi, desinenze) appositi aggiunti al V che ne modificano il significato;
• p e r i f r a s i ottenute con l'aggiunta di verbi modali o avverbi;
Ad esempio, in ingl. le distinzioni di “modalità” si fanno lessicalmente con i verbi modali (“I would go” = “io
andrei”).
• p a r a d i g m i d i f l e s s i o n i s p e c i a l i z z a t e (i “modi”).

217
Il valore di “modalità” che ciascun “modo” attribuisce all'azione è orientativo: non sono rari i casi in cui un “modo”
esprime di fatto il valore caratteristico di un altro “modo”, ad esempio:
◦ indicativo di cortesia ≻ dissimula il carattere conativo di una frase:
“allora, mi dà due etti di prosciutto cotto e una scamorza”
◦ condizionale ≻ può invece indicare un “tempo” (il “passato del futuro” nell’esempio seguente) e non una “modalità”:
“disse che sarebbe partito”
◦ in spagnolo, invece, per lo stesso scopo si usa il condizionale presente:
“dijo que vendría” = “disse che sarebbe venuto” ma lett. “disse che verrebbe”
Non vi è insomma un rapporto di corrispondenza biunivoca (1:1) tra “modi” / “modalità”.

Per la precisione, va indicato come “ m o d o ” = flessione specializzata per esprimere una certa “modalità”.
Mentre la maggior parte delle lingue d’Europa ≻ ha i “modi”: indicativo, congiuntivo, infinito, condizionale e così via,
l’ingl. costituisce un caso a parte in quanto che ha praticamente solo il “modo” indicativo.
In ingl. dunque le distinzioni di “modalità” si fanno lessicalmente con verbi appositi, i cosiddetti “verbi modali”.
Ad esempio, in ingl. la “modalità” condizionale ≻ non ha un “modo” dedicato, ma viene espressa perifrasticamente.
“he would go” = “egli andrebbe”, lett. “egli voleva andare”
Sempre in inglese, l'imperativo e il congiuntivo ≻ hanno 1 unica forma fonologicamente = identica all'infinito senza “to”.
“shut up!” = “stai zitto!” / “state zitti!”
“God save the Queen” = “Dio salvi la Regina”
Ancora in ingl. una “modalità” che presenti un fatto non precisamente, in termini che indicherebbero l'utilizzo del
congiuntivo in it., viene espressa lessicalmente.
“he may have come” = “può darsi che sia arrivato” lett. “egli può essere arrivato”

I “modi”, oltre che esprimere modalità, possono avere un importante r u o l o s i n t a t t i c o .


Ad esempio, in it. il congiuntivo ≻ opera spesso come “marca di subordinazione”, ovvero marca le frasi dipendenti
rispetto alla principale (“spero | che tu venga”).

Inoltre, in it. alcuni “modi” come il congiuntivo e il condizionale, nelle frasi subordinate, piuttosto che esprimere
“modalità”, segnalano l’ o r d i n e c r o n o l o g i c o tra 2 eventi. In questi casi, infatti, la localizzazione temporale si
basa proprio sulle relazioni tra i “modi” dei verbi.
“[Spero]A che [venga]B” B è simultaneo o successivo ad A.
“[Spero]A che [sia venuto]B” B è antecedente ad A.
“[Spero]A che [verrà]B” B è successivo ad A.
Analogamente, quando la narrazione è successiva all’evento, si avrà:
“[Speravo]A che [venisse]B” B è simultaneo o successivo a A.
“[Speravo]A che [fosse arrivato]B” B è antecedente ad A.
“[Speravo]A che [sarebbe uscito]B” B è successivo ad A.
Esiste anche il fenomeno inverso, per cui forme tipicamente “temporali” marchino una specifica “modalità”.
Ad esempio, la “modalità” della possibilità è espressa dal futuro semplice e dal futuro anteriore:
“avrai letto l’ultimo libro di Camilleri” indica non × il tempo futuro ma ✓ la possibilità
“avrete fatto - immagino - la mia stessa supposizione”
Il “tempo” futuro può esprimere anche la “modalità” del comando:
“amerai il prossimo tuo come te stesso”
Si assiste quindi a un frequente scambio di funzione tra “tempo” “modo”.

218
La CATEGORIA “DIATESI” '

− categoria “diatesi” categoria del sistema verbale che descrive la relazione tra l’Azione (o lo stato) che il
Verbo esprime e i partecipanti identificati dagli argomenti (Soggetto, Oggetto).
Il termine “diatesi” ≺ viene dal greco antico “ δ ι ά θ ε σ ι ς ” che significa “disposizione”, “stato d’animo”.
Nelle varie lingue esistono i seguenti tipi di “diatesi”:
◦ attiva; ◦ antipassiva; ◦ circostanziale;
◦ passiva; ◦ causativa; ◦ reciproca;
◦ media; ◦ aggiuntativa; ◦ cooperativa.
Ad esempio, il mongolo ≻ contempla 5 “diatesi”: attiva, passiva, causativa, reciproca e cooperativa.
Ad esempio, lingue ergative ≻ usano la “diatesi” antipassiva (rara nelle lingue accusative), la quale elimina o degrada
l’Oggetto di un Verbo transitivo e progredisce l’agente di un Soggetto intransitivo.
In it. esistono 3 “diatesi”:
i. attiva Soggetto = è l’Agente (“Luca mangia la mela”);
ii. passiva Soggetto = è il Paziente o ciò che subisce l'azione (“La mela è mangiata da Luca”);
iii. r i f l e s s i v a Azione ricade sul Soggetto stesso, che è contemporaneaente l’Agente (“Luca si lava”).
In generale, la + importante opposizione riguarda quella tra: a t t i v o v s p a s s i v o .
In it. questa distinzione è normalmente espressa da una struttura sintattica (la costruzione passive), infatti la relazione
tra le 2 frasi suddette è sintattica.
Nella trasformazione da frase attiva a frase passiva, il Soggetto l’Oggetto si scambiano di ruoli:
Soggetto della frase attiva (“Luca”) Complemento d’Agente (facoltativo) della frase passiva;
Oggetto Diretto della frase attiva (“la mela”) Soggetto della frase passiva.

A causa di questi mutamenti sintattici, i grammatici antichi hanno ipotizzato che a:


attivo Soggetto agisce sull’Oggetto;
passivo Soggetto subisce gli effetti dell’Azione.
Ciò nonostante, l’it. possiede anche verbi dal significato passivo (“ricevere”, “subire”) e una vasta gamma di verbi che, dal
punto di vista della “diatesi”, possono essere considerato “medi”, ossia intermedi tra attivo / passivo (forma passiva −
significato attivo), poiché il loro Soggetto = è al contempo luogo di insorgenza e di esperienza dell’evento che il Verbo
descrive (“commuoversi”, “pentirsi”, “arrabbiarsi”).

La resa della “diatesi” varia nelle singole lingue:


Ad esempio, in it. il passivo ≻ si ottiene combinando il Verbo principale transitivo + con forme del Verbo “essere”.
Ad esempio, in lat. il passivo ≻ è grammaticalizzato, cioè espresso attraverso forme specializzate (“laudo” = “lodo” vs
“laudor” = “sono lodato”).
In realtà, studi recenti hanno mostrato che il passivo ha le seguenti funzioni:
i. o c c u l t a r e “colui che agisce”, cioè l’attore dell’Azione stessa il motivo dell’occultamento è che l’attore o è
sconosciuto o è considerato di scarso rilievo ai fini dell’azione o non si vuole comunque rivelare.
Ad esempio, in arabo il passivo ≻ è chiamato “majhūl”, cioè “(verbo con agente) sconosciuto” e perciò non può
mai avere un Complemento d’Agente.
Nelle lingue che hanno la diatesi, poi, esprimere l’Attore al passivo con un Complemento d’Agente non è
obbligatorio (“la mela è stata mangiata”).
ii. d a r e r i l i e v o all’azione
Ad esempio, in latino ≻ si può usare il passivo con i V intransitivi per mettere in evidenza l’Azione e il carattere
impersonale (“itur” lett. “è andato”, ma in realtà significa “si va”).

219
Assieme all’attivo e al passivo, alcune lingue hanno anche il “ m e d i o” grammaticalizzato.
Il “ m e d i o ” ≻ indica verbi intermedi tra attivo / passivo (forma passiva − significato attivo), poiché il loro Soggetto =
è al contempo luogo di insorgenza e di esperienza dell’evento che il Verbo descrive (“commuoversi”, “pentirsi”,
“arrabbiarsi”). Nel medio, l’Azione del Verbo ≻ è incentrata sull’Attore o lo coinvolge direttamente.
In greco antico, i verbi “medi” ≻ manifestavano proprio queste caratteristiche (“λύω το
̀ ν κύνα” = “sciolgo il cane” vs
“λύοµαι [“medio”] το
̀ ν κύνα” = “sciolgo il mio cane”).
In lingue come l’italiano o lo spagnolo, esiste il medio non grammaticalizzato ≻ reso con un uso pronominale del V
(“stasera mi faccio la pizza” = “faccio la pizza per me” o “mi faccio la pizza da solo”).

La distinzione tra attivo ≠ passivo ≻ a volte si trova in modo coperto, anche in lingue in cui è scoperta.
“ho sentito chiamare i ragazzi” può significare:
◦ “i ragazzi hanno chiamato” i ragazzi” = sono Soggetto di frase attiva;
◦ “i ragazzi sono stati chiamati” i ragazzi” = sono Soggetto di frase passiva.
In latino, entrambi i significati sarebbero stati resi in modo scoperto grazie all’uso di participi attivi o participi passivi:
◦ “video milites laudatos” (passivo) = “vedo lodare i soldati”, lett. “vedo i soldati stati lodati”;
◦ “video centuriones laudantes” (attivo) = “vedo lodare i centurioni”, lett. “vedo i centurioni che lodano”.

220
LEZIONE 18: Il SIGNIFICATO delle PAROLE

− “ s e m a n t i c a ” (dal gr. antico “ σ η µ α ν τ ι κ ό ς ” = “significativo”) = branca della linguistica che si occupa dello
studio del significato di cui sono portatrici le lingue.
Platone, Aristotele, Stoici ≻ avevano mostrato grande interesse per il significato, ma per secoli lo studio del significato è
stato lasciato alla filosofia e alla logica.
La linguistica ≻ ha cominciato ad occuparsene solo a partire da fine 800, questo ritardo è dovuto principalmente al fatto
che la ricerca sul significato è apparsa sin dall’inizio molto vaga: significanti visibili ≠ significato mentale.
Bisogna ricordare anche che il campo della “semantica” è vastissimo e non si può ridurre esclusivamente allo studio del
significato delle parole, ma praticamente tutto nelle lingue è connesso con il significato. Ciò significa che la massa di
materiale da esaminare è praticamente ∞ infinita. In ogni caso, è chiaro che la funzione principale delle lingue è quella di
scambiare significati. La forma si + associa al contenuto in modo da permettere a quest’ultimo di manifestarsi.

“semantica lessicale” si occupa del “significato lessicale” dei morfemi lessicali o lessemi (“l’attrice ha
sposato il contante” ≻ “att- sposa- canta-”), il quale è autonomo, quindi è tale a prescindre dal contesto.
Di per sé il compito apparentemente semplice di chiarire quale sia il significato delle parole è invece molto complesso,
per 2 ragioni principali:
● “variabilità contestuale del significato ” la maggior parte delle parole acquistano un significato
≠ diverso in base al contesto in cui si trovano.
Ad esempio, la parola “sacco” indica un contenitore fisico in “ho comprato un sacco”, è invece un indicatore generico di
quantità in “ho mangiato un sacco”.
● s i g n i f i c a t o d e l l e p a r o l e = è l’elemento a partire dal quale si costruisce il significato delle frasi, che ciò
nonostante il significato delle frasi raramente è dato dalla somma aritmetica del significato delle singole parole.
Ad esempio, la parola “sacco” in “finalmente il ladro ha vuotato il sacco” non indica né un contenitore fisico, né esprime
quantità e anzi non è possibile assegnarle un significato in isolamente, poiché il suo significato è qui strettamente legato a
quello dell’intera espressione. Il problema susstiste anche in espressioni apparentemente − meno idiomatiche.
Ad esempio, la parola “vento” nell’espressione “giacca a vento” significa “che protegge dall’aria”, ma in “mulino a vento”
significa tutt’altro, ossia “che funziona per mezzo dell’aria”. Quest’ultimo punto non è propriamente l’oggetto della
“semantica lessicale”, ma piuttosto della “semantica frasale”.

“semantica frasale” si occupa del “significato frasale”, ovvero di come si forma il significato delle frasi
a partire dalle parole che le compongono.
I 2 ambiti, quello della “semantica lessicale “ e quello della “semantica frasale”, sfumano uno nell’altro, perché se:
● da un lato, p a r o l e ≻ controbuiscono con il loro significato a costruire quello della frase;
● dall’altro lato, c o n t e s t o ≻ in cui una parola si trova influenza il suo significato.

“semantica strutturale” si occupa del “significato strutturale” dei morfemi grammaticali, ovvero
quegli elementi che costituiscono la struttura astratta della frase.
Ad esempio, se nell’enunciato “l’attrice ha sposato il cantante” si tolgono tutti i morfemi lessicali, si ottiene una sorta di
struttura astratta indipendente, “la __trice ha __to il __nte”, costituita da morfemi grammaticali e portatrice del
seguente “significato strutturale”: “l’Agente, f. e sg., ha svolto nel passato un’Azione, che è ormai conclusa, su un
beneficiario, m. e sg.”

221
Il CONTESTO

Le parole acquistano in genere un significato ≠ diverso in base al contesto in cui si trovano, per questa loro caratteristica
esse sono dette “polisemiche”.
− c o n t e s t o = insieme degli elementi linguistici adiacenti ad una parola, quindi che la precedono o la seguono,
all’interno di un enunciato, che ne influenzano il significato. Una definizione + scrupolosa distingue tra:

contesto linguistico insieme degli elementi linguistici adiacenti ad una parola, si distingue tra:
• contesto sintattico insieme degli elementi linguistici adiacenti ad una parola considerati dal punto
di vista delle loro proprietà sintattiche.
In base all’analisi di queste proprietà, esso può essere: nominale, verbale, aggettivale.
Ad esempio, in it. il contesto [articolo __ aggettivo] = è un contesto tipicamente nominale, cioè un sintagma la
cui testa è un Nome (la linea indica la parola che si sta considerando e il resto è il contesto).
• contesto semantico insieme degli elementi linguistici adiacenti ad una parola considerati dal punto
di vista delle loro proprietà semantiche.
Infatti, quando le parole si combinano tra loro, il significato di alcune influenza il significato delle altre.
Ad esempio, il verbo “saltare” significa “oltrepassare” nel contesto di “fosso”, significa “non consumare” nel
contesto di “pasto”, significa “cuorere a fuoco vivo” nel contesto di “carne”.

contesto extralinguistico o situazionale o pragmatico insieme degli


elementi legati alla situazione comunicativa in cui l’enunciato che contiene la parola è utilizzato.
Ad esempio, nella frase “Luca è davvero forte”, la parola “forte” può significate sia “energico” sia “simpatico”, ma solo il
contesto situazionale in cui è usata può disambiguarla.

222
AMBIGUITÀ LESSICALE

− ambiguità lessicale proprietà di una forma lessicale di avere + di 1 significato.


W e i n r e i c h (1964) ≻ distingue tra 2 tipi di ambiguità:
La distinzione tra omonimia ≠ diacronia è decidibile soltanto in diacronia, attraverso alcuni criteri basati sull’analisi dello
sviluppo della lingua nel tempo.

ambiguità contrastiva (omonimia) 1 forma lessicale (2 forme che hanno in comune = il


suono o la grafia) che ha + significati ≠ distinti e × NON correlati tra loro.
Ad esempio, [“miglio1” che indica l’unità di misura e “miglio 2” che indica la pianta] o [“stagno1” che indica un metallo e
“stagno2” che indica una distesa d’acqua dolce o salmastra].
Questo tipo di ambiguità si chiama “contrastiva” perché i 2 significati sono contraddittori nella loro natura, cioè in un
determinato contesto l’uno esclude automaticamente l’altro.
Cruse ≻ parla infatti di “significati in antagonismo” o “significati in competizione”.

ambiguità complementare (polisemia) 1 unica forma lessicale che ha + significati


corrispondenti a manifestazioni ≠ dello stesso = “significato di base” in contesti ≠ diversi. I significati di una parola
polisemica sono ✓ correlati tra loro, vi è dunque una relazione + o − evidente tra loro, cioè sono ricondotti uno all’altro
attraverso qualche dimensione semantica (metonimia, sineddoche, metafora).
Ad esempio, [“collo” designa primariamente una parte del corpo, ma per estensione indica anche un indumento (“collo”
della camicia), per similitudine un recipiente (“collo” di una bottiglia) e così via] o [“albero” indica la pianta, l’asta che
tiene le vele in una nave, uno schema grafico ramificato che indica rapporti di derivazione.]
In questo caso, è presente una “ c o n t i g u i t à c o n c e t t u a l e ” tra i vari significati.
La maggior + parte delle parole di una lingua ≻ sono polisemiche, cioè hanno + di 1 significato: questo fatto è conforme
alla proprietà delle lingue di essere economiche, cioè di utilizzare lo = stesso materiale (parole) per + scopi (esprimere +
di 1 significato).
Se così non fosse, cioè se ogni parola esprimesse soltanto 1 significato e se quindi il rapporto tra significante / significato
fosse 1:1, il n° delle parole di un lessico sarebbe infinitamente + alto e sfuggirebbe alla nostra capacità di memoria.
Le parole + polisemiche in assoluto sono i V e r b i , i quali tendono ad avere un “alto tasso di polisemia”, probabilmente
legato al fatto che il loro significato è incompleto e viene completato dagli argomenti che solitamente li accompagnano.
Ad esempio, il Verbo “aprire” acquista vari significati con argomenti ≠ diversi: “aprire una finestra” = schiudere, “aprire
una bottiglia” = stappare, “aprire un conto in banca” = avviare, “aprire un dibattito” = dare inizio.
Questo è mostrato da vari studi (progetto WorldNet), i quali indicano che la polisemia media dei Verbi è di 2,17 significati
per ogni Verbo, contro 1,2 significati per ogni Nome.

223
La POLISEMIA

Nonostante la polisemia sia un fenomeno che può apparire casuale, in realtà è possibile individuare dei chiari:
− “ s c h e m i d i p o l i s e m i a ” = cioè delle alternanze sistematiche di significato proprie di intere classi di elementi
lessicali (chiamate “polisemie regolari” da Apresjan).
Alcune alternanze = sono il risultato di procedimenti noti, che costituiscono l’oggetto degli studi di retorica dall’antichità:

$ m e t o n i m i a procedimento attraverso il quale il significato di una parola si estende, per “contiguità


concettuale”, ad un altro termine che ha con il 1° una relazione di vicinanza, attuando una sorta di trasferimento di
significato. La metonimia ≻ porta alla formazione di significati “ e s t e s i ” . Ci sono vari tipi di metonimia (A per B):
● luogo / istituzione (“notizie da Montecitorio”); ● astratto / concreto (“confido nell’amicizia” = gli amici);
● contenitore / contenuto (“mi bevo un bicchiere”); ● concreto / astratto (“segui il tuo cuore” = sentimenti);
● autore / opera (“Freud è in edicola”); ● causa / effetto (“vivere del proprio lavoro” = guadagno).

$ sineddoche procedimento attraverso il quale il significato di una parola si estende, per contiguità logica o
fisica, ad un altro termine, a partire dall’indicazione della sostanza (“oro”) all’indicazione degli oggetti fatti di tale
sostanza (“gli ori”).
La sineddoche ≻ porta alla formazione di significati “ e s t e s i ” . Essa implica aspetti quantitativi, come (A per B):
● parte / tutto (“scafo” per indicare “nave”); ● tutto / parte (“America” invece di “USA”);
● genere / specie (“‘felino” al posto di “gatto”); ● specie /genere (“grande gatto” invece di “leone”);
● singolare / plurale (“l’italiano all’estero” invece di “gli italiani”);
● materia / oggetto (“i bronzi” di Riace” invece di “le statue bronzee”).

$ metafora procedimento attraverso il quale il significato di una parola è reinterpretato per una similitudine
che viene istituita, tacitamente, tra 2 situazioni. A seguito di questa similitudine, la parola viene usata in un contesto ≠
dall’usuale, nel quale acquista un nuovo significato non più × letterale, ma ✓ figurato.
La metafora ≻ porta alla formazione di significati “ f i g u r a t i ” .
La metafora ≻ è un procedimento particolarmente produttivo in ambito verbale: la polisemia dei Verbi è infatti spesso
frutto di processi metaforici anziché metonimici.
L’interpretazione metaforica di un Verbo è in genere indotta dai referenti degli argomenti.
Ad esempio, in “divorare le polpette” = lett. mangiare avidamente e “divorare un libro” = fig. leggere con passione, il
significato del Verbo “divorare” è strettamente legato agli argomenti che lo accompagnano.
Cfr. “divorare” “variazione di significato” ≠ “guarire” “variazione di struttura sintattica o argomentale”.
 Metonimia, sineddoche e metafora sono dunque dei procedimenti applicabili in senso generalizzato a tutti gli
elementi del lessico, poi soltanto alcuni dei significati che si realizzano con questi procedimenti si lessicalizzano, cioè
diventano significati stabili nel lessico, altri no 

Oltre che da processi metaforici, la “ p o l i s e m i a v e r b a l e ” ≻ può scaturire da:


$ c a n c e l l a z i o n e / s p e c i f i c a z i o n e / a g g i u n t a di singoli tratti di significato procedimento
attraverso il quale si ha una “variazione di struttura sintattica o argomentale” (v. sotto “guarire”, in cui oltre al referente
del Soggetto, variano il n° degli argomenti e la loro distribuzione nella frase). Ad esempio, i Verbi che ammettono sia:
● u s i c a u s a t i v i (in cui il verbo incorpora il significato di “causare” come il verbo “guarire” in “la terapia ha guarito
il malato” = la terapia ha causato la guarigione del malato);
● u s i n o n c a u s a t i v i (“il malato è guarito” = il malato è tornato ad essere sano).
Cfr. “divorare” “variazione di significato” ≠ “guarire” “variazione di struttura sintattica o argomentale”.

224
La VAGHEZZA

Alcuni autori ≻ hanno proposto di distinguere tra: ambiguità e polisemia delle parole / “ v a g h e z z a ” proprietà
delle parole il cui significato non è definito nei suoi confini. Casi di parole dal significato vago sono:
◦ a g g e t t i v i che indicano p r o p r i e t à g r a d u a l i (“alto”, “basso”, “corto”, “largo”, “grosso”, “caldo”, “freddo”);
Ad esempio, l’espressione “è un grosso libro” è infatti poco precisa, perché non specifica l’esatta misura come magari “è
un libro di 300 pagine”, e lascia all’ascoltatore un margine di interpretazione.
◦ n o m i che indicano f a s c e d ’ e t à (“bambino”, “adolescente”, “ragazzo”, “giovane”, “adulto”, “anziano”, “vecchio”).
Ad esempio, l’espressione “è ancora un ragazzo” è infatti poco precisa, perché non chiarisce in modo inequivocabile l’età
della persona denotata come magari “è un ragazzo di 30 anni”.

225
Il CALCOLO del SIGNIFICATO

Come già anticipato (vedi “la semantica” p. 188), una “teoria del significato” deve perseguire 2 scopi principali:
− “semantica lessicale” stabilire quale sia il significato delle parole;
− “semantica frasale” spiegare come si formi il significato delle unità linguistiche complesse (frasi,
sintagmi) a partire dal significato delle unità linguistiche semplici (parole).
Si usa riferirsi a quest’ultima questione come al problema del “calcolo del significato”.
− “calcolo del significato” questione che presenta 2 problemi principali:
● contestualità del significato; ● polisemia delle parole.
Nello specifico, la maggior parte delle parole di un lessico ha significati diversi a seconda del contesto, cioè in base alla
combinazione con altre parole.
contesto ≠ parole ≠ significato ≠
$ “principio d i c o m p o s i z i o n e ” (o composizionalità) principio fondamentale che costituisce
(secondo le teorie semantiche classiche) il meccanismo di base attraverso il quale si costruisce il significato di unità
linguistiche complesse. Si fa risalire la formulazione di questo principio al matematico Frege, anche se a quanto pare lui
non lo ha mai formulato esplicitamente nei suoi scritti.
In ogni caso, secondo questo principio, il significato di un enunciato (frase) dipende dal significato dei singoli elementi
lessicali che lo compongono, cioè delle sue parti (parole), a condizione che siano rispettate le “regole di restrizione”
imposte dagli elementi lessicali stessi.
Ad esempio, “sedia” non può essere S del V “parlare” (“quella sedia non smette di parlare”), in quanto “parlare” richiede
un S umano.
Quindi, dato un enunciato E formato dalle parole X, Y, Z il significato dell’enunciato SE è la composizione di SX + SY + SZ:
SE = SX + SY + SZ
Nelle lingue ci sono però una serie di evidenze che mostrano come questo principio da solo non sia sufficiente per
spiegare il “calcolo del significato” delle frasi complesse.
Inoltre, vi sono dei casi in cui il significato degli enunciati non è calcolabile, cioè non basta conoscere il significato delle
singole parole. Si tratta di:

● idioms espressioni idiomatiche molto usati in tutte le lingue, il cui significato non è dato dalla somma di quelli
delle singole parole. Gli idioms sonodi 3 tipi:
◦ idioms cristallizzati proverbi, aforismi;
◦ sintagmi fissi sequenze di parole che presentano una coesione interna + superiore a quella delle
combinazioni libere (“stinco di santo”, “tavola rotonda”);
◦ idioms situazionali espressioni momentanee che il parlante crea sul momento e poi non usa più
(“quando dico ‘vai’ tu solleva dal tuo lato”, in cui il significato intensionale di ‘vai’ = andare via, è trascurato).

● enunciati dotati di forza pragmatica enunciati il cui significato non si può dedurre dal
significato delle singole parti (“Ma che stai dicendo?”, “chi credi di essere?”, “chi ti conosce?”, “ma smettila!”).
Se si rispondesse in modo letterale a questi enunciati si commetterebbe un errore comunicativo, perché NON sono
utilizzati per il loro significato, ma per la forza pragmatica.

● usi metaforici come “il treno sbuffa”.

226
❖ il “principio di composizione” ≻ si confronta inoltre con il problema della polisemia: data una parola con + significati,
non si può stabilire in che modo ha luogo la selezione del significato pertinente a livello contestuale.
Ad esempio, l’Aggettivo “caro” acquista il significato di “amato” quando è combinato con “amico” (“un caro amico”) e
acquista il significato di “costoso” quando è combinato con “libro” (“un libro caro”).
❖ il “principio di composizione” ≻ vale in senso stretto soltanto per le parole monosemiche, le quali costituiscono però
una minoranza rispetto alle parole di un lessico.
Dal punto di vista teorico, questi problemi possono essere affrontati diversamente da 2 teorie lessicali che si oppongono
l’un l’altra per quanto riguarda le modalità in cui ritengono sia organizzaro il significato delle parole, e quind il lessico:

 t e o r i a basata sull’ e n u m e r a z i o n e d e i s e n s i sostiene che i vari significati di una parola polisemica


siano tutti elenncati nella parola stessa (quindi nella sua “semantica lessicale”).
Ogni sincola parola, se polisemica, conterrebbe un elenco di significati e un elenco di restrizioni lessicali, che specificano i
contesti in cui i diversi significati possono “attivarsi”.
La selezione del significato pertinente ≻ ha luogo a livello sintagmatico, in accordo con tali restrizioni.

 t e o r i a basata su una c o n c e z i o n e d i n a m i c a d e l s i g n i f i c a t o l e s s i c a l e sostiene che


un lessico così organizzato sia antieconomico (ogni parola prevede enormi liste di significati), incompleto e inadeguato (i
confini dei significati sono troppo rigidi rispetto alla realtà). La soluzione proposta da questa teoria è la seguente: è
necessario concepire le parole = come entità permeabili e il significato di ogni parola interagisce con il significato delle
parole adiacenti nella frase; il risultato di questa interazione “genera” il significato della frase.
A livello del sintagma i significati non sono quindi × selezionati, ma ✓ generati (nel momento in cui si utilizza la parola in
un dato contesto).
De Mauro ≻ si riferisce a questo fenomeno con il termine “co-variabilità semantica”.

227
P u s t e j o v s k y (1995) ≻ ritiene che accanto al “principio di composizionalità” si necessario postulare altri 3 principi,
i quali sono sono dei meccanismi che si applicano alle parole quando si combinano tra loro e danno vita al significato
specifico che queste assumono nel contesto:

$ “principio di co–composizione” principio che riguarda il rapporto tra V / C e spiega


l’interazione tra la semantica del V e quella del N in una combinazione verbo-nominale (V+N).
Secondo questo principio, ogni V ha il suo “significato di base” = cioè una parte non variabile di significato, al quale si
integrano nel contesto i componenti semantici portati dai complementi (argomenti), i quali fanno sì che il V sviluppi
nuovi significati. Il risultato è che il V sviluppa nuovi significati attraverso la combinazione delle parole.
Questo procedimento è però ≠ diverso dal procedimento classico di composizione, perché NON si tratta di una semplice
× somma di significati che vengono aggiunti, ma ✓ il significato del V è ridefinito, tecnicamente “specificato”,
dall’argomento con cui si combina.
Ad esempio, il V “tagliare” sviluppa nel contesto significati diversi in funzione della semantica del C che lo accompagna:
“Luca ha tagliato il pane” “tagliare” = affettare;
“Luca ha tagliato l’erba” “tagliare” = falciare;
“Luca si è tagliato un dito” “tagliare” = ferirsi;
“Luca si è tagliato i capelli” “tagliare” = accorciare.

$ “principio di forzatura del ‘tipo semantico’ ” principio che riguarda il rapporto tra
V / N e spiega l’interazione tra la semantica del V e quella del N in una combinazione verbo-nominale (V+N).
Secondo questo principio, un V che è in combinazione con un N specifico “spinge” questo N a significare ciò che è
richiesto dalla semantica verbale.
Ad esempio, è il caso dei “verbi aspettuali” come “iniziare”, “durare”, “smettere”, “finire”, i quali richiedono che il loro CO
indichi un “evento”, pertanto in virtù di questa restrizione, se il CO (argomento) non soddisfa tale restrizione andando a
denotare un “oggetto fisico” anziché un “evento”, questi verbi “forzano” il CO (argomento) a soddisfarla e ad assumere un
significato eventivo, variando il tipo semantico: da “oggetto fisico” a “evento”, come in:
“terminare gli studi” “studi” = attività di studiare;
“smettere una cura” “cura” = attività di curarsi;
“iniziare la lezione” “lezione” = attività di insegnare.
Ad esempio, è il caso delle “preposizioni con significato temporale” come “prima” o “dopo”, che analogamente ai “verbi
aspettuali” richiedono di essere completate da un N che denota un “evento”, pertanto se sono seguite da un nome che
denota un “oggetto fisico” anziché un “evento”, queste preposizioni ne “forzano” il “tipo semantico”: da “oggetto fisico” a
“evento”, come in:
“il dolce era delizioso” “dolce” = cibo;
“dopo il dolce, andiamo a casa” “dolce” = evento del mangiare il cibo.
❖ il “principio di forzatura di ‘tipo semantico’ ” ≻ “solleva”, a livello dell’interpretazione, il componente semantico dell’
“eventità”, che rimane invece latente nel N quando esso è combinato con V o proposizioni che non lo richiedono.
Anche nel caso della forzatura di tipo, come in quello della coo-composizione, NON si tratta di una semplice × somma di
significati che vengono aggiunti, ma ✓ il significato è costruito, tecnicamente “specificato”, nel contesto.

228
$ “principio di legamento selettivo” principio che spiega l’interazione tra la semantica dell’A
e quella del N in una combinazione aggettivo-nominale (A+N).
Secondo questo principio, un A che è accompagnato da un N seleziona e modifica una specifica porzione del significato
del N. Si tratta di una “modificazione selettiva” della semantica nominale che ha conseguenze sul modo in cui viene
interpretato l’A. Di conseguenza, il significato di N e il significato dell’A interagiscono e si influenzano tra di loro.
Ad esempio, è il caso dell’A predicativo “buono”, il quale modifica la porzione semantica del N che specifica ciò che
comunemente si fa con l’entità che il nome indica, in altre parole, l’A modifica l’ “evento” che è incapsulato, tecnicamente
“specificato”, nella semantica del N, come in:
“questo è un buon coltello” “buono” = che taglia bene;
“è un buon medico” “buono” = che cura bene;
“mi va di leggere un buon libro” “buono” = che si legge con piacere;
Negli esempi citati, l’A “buono” seleziona nei vari N (“coltello”, “medico”, “libro”) l’ “evento” che soddisfa lo scopo tipico
di questi N (un coltello taglia, un medico cura, un libro viene letto). A loro volta, i N completano il significato dell’A, che
nel caso di “buono” finisce per significare genericamente: “in grado di soddisfare lo scopo principale per cui x (cioè
l’entità indicata dal N) esiste”.
L’interazione tra la semantica del N e quella dell’A ≻ è centrale anche in relazione ad altri aspetti, come ad esempio quello
di determinare il valore predicativo o qualificativo che l’A acquista nel contesto. Ad esempio:
“questo film è troppo lungo” “lungo” = il cui tempo di proiezione dura molto;
“questo vestito è troppo lungo” “lungo” = che scende fino ai piedi.
Nel 1° caso, l’A “lungo” seleziona la porzione del significato del N che specifica l’ “evento” incapsulato nella semantica del
N “film”.
Nel 2° caso, l’A “lungo” NON × seleziona l’ “evento”, ma ✓ modifica la dimensione spaziale legata alla forma del vestito,
di conseguenza “lungo” indica in questo caso una qualità del vestito, ed è quindi un A con “funzione qualificativa”.

229
LEZIONE 19: Le RELAZIONI tra le PAROLE, le RELAZIONI PARADIGMATICHE

RELAZIONI SINTAGMATICHE e RELAZIONI PARADIGMATICHE

Quando si deve formulare una frase, si selezionano gli elementi linguistici dal “magazzino di memoria” nella mente dei
parlanti e si pongono su un asse lineare in una posizione specifica secondo critesi precisi e vanno a instaurare tra di loro
delle relazioni specifiche, come in “il bambino ha rotto il giocattolo”.
≠ asse paradigmatico insieme di tutte le parole di una data lingua (“magazzino di memoria”);
≠ asse sintagmatico asse lineare su cui vengono posti gli elementi linguistici.
Su ognuno dei 2 assi gli elementi linguistici instaurano tra di loro delle relazioni specifiche.
Saussure ≻ usa il termine “associativo” per indicare = ciò che Hjelmslev (1961) ≻ chiamerà poi “paradigmatico”.
S a u s s u r e ≻ distingue tra 2 tipi di relazioni:

♖ relazione associativa rapporto che intercorre tra 2 o + elementi linguistici di uno stesso = sistema
linguistico sulla base di un’associazione mentale che consiste nell’accostamento di parole che condividono qualcosa da
parte dei parlanti di una lingua, i quali stabiliscono o individuano delle connessioni a 1 o + livelli tra le parole di una
stessa = lingua. Queste relazioni associative possono essere di 2 tipi principali:
● r e l a z i o n e f o r m a l e − basata sul: s i g n i f i c a n t e ( f o r m a ) dà luogo a insiemi di parole che
condividono un a s p e t t o f o r m a l e :
◦ m o r f e m a l e s s i c a l e (“libro”, “libricino”, “libretto”, “libraio”, “libreria” ≻ “libr-”);
◦ m o r f e m a d e r i v a z i o n a l e (“veramente”, “ampiamente”, “fortunatamente” ≻ “-mente”);
◦ s o m i g l i a n z e f o n i c h e (“osso”, “grosso”, “masso” ≻ “-ss-”).
● r e l a z i o n e s e m a n t i c a − basata sul: s i g n i f i c a t o ( c o n t e n u t o ) dà luogo a insiemi di
parole che condividono un a s p e t t o s e m a n t i c o :
◦ o g g e t t i a n a l o g h i e v a r i s o t t o t i p i (“libro”, “volume”, “dizionario”, “romanzo”, “volume”);
◦ p a r t i f i s i c h e (“pagina”, “foglio”); ◦ f u n z i o n e (“leggere”, “consultare”);
◦ s t r u t t u r a (“indice”, “capitolo”); ◦ s o s t a n z a (“carta”);
◦ m e s t i e r e (“editore”, “scrittore”); ◦ l u o g o (“biblioteca”).
Le relazioni semantiche attivano negli utenti dei “ m e c c a n i s m i d i a t t e s a ” , fondamentali sia nella
produzione sia nella interpretazione linguistica.
Ad esempio, la parola “famiglia” attiva dei “meccanismi di attesa” verso i suoi meronimi, cioè “genitori”,
“marito”, “moglie”, “figli”, “fratelli”. Non è necessario che le parole, richiamate attraverso i “meccanismi
d’attesa” in quanto collegate da un qualche principio di ordinamento, siano effettivamente menzionate nel testo
o nella conversazione, basta che esse siano in qualche modo “evocate”.
In realtà, tali relazioni associative, quelle basate sulla forma e quelle basate sul significato, si intrecciano.
Ad esempio, le parole “libro” (x) e “libreria” (y) sono legate sia da una relazione formale, costituita dal fatto che
condividono lo stesso = morfema lessicale “libr-”, sia da una relazione semantica che si può rappresentare come segue:
“y = oggetto in cui si vende x”.
Entrambi i tipi di associazione hanno un ruolo preciso nell’apprendimento delle lingue. Alcuni studi hanno mostrato che
nelle 1e fasi di acquisizione di una lingua, il lessico viene memorizzato soprattutto associando le parole in base alla loro
forma, quindi attraverso associazioni basate sul significante, mentre nelle fasi + avanzate il lessico viene memorizzato
associanto le parole in base al contenuto, quindi attraverso associazioni basate sul significato.
Questo cambiamento nel modo di memorizzare le parole può essere spiegato con il fatto che nelle 1 e fasi di
apprendimento il significato delle parole è sconosciuto all’apprendente, quindi l’associazione formale è l’unica che di
fatto può attuare.

230
♖ relazione sintagmatica rapporto che intercorre tra 2 o + elementi linguistici semplici di uno stesso
= sistema linguistico quando questi sono combinati per formare unità linguistiche + complesse (sintagmi, frasi, testi).
Ad esempio, una relazione sintagmatica è quella che lega l’A (“caro”) al N (“vestito”, “amico”) in espressioni come “un
vestito caro” = un vestito costoso e “un amico caro” = un amico stretto.

La definizione di relazione associativa di Saussure può essere ristretta per precisare la nozione di Hjelmslev di:
♖ relazione paradigmatica rapporto di sostituibilità che intercorre tra le parole che possono essere
appunto sostituite una all’altra in una stessa = posizione sintagmatica. Queste parole costituiscono una:
− “ s e r i e p a r a d i g m a t i c a ” o “ p a r a d i g m a l e s s i c a l e ” = insieme delle parole che possono essere
sostituite una all’altra in uno stesso = contesto sintagmatico (ma non possono occorrere contemporaneamente).
Ad esempio, “ho mangiato il _x_ di cui mi hai parlato”, dove in x si possono inserire parole come “libro”, “volume”,
“romanzo”, ma non parole come “tavolo”, “casa”, “luna”.

rapporti paradigmatici rapporti sintagmatici

“dimensione paradigmatica” “dimenzione sintagmatica”

V O

in absentia in praesentia

either–or both–and

L’insieme dei “rapporti paradigmatici” esistenti tra le parole di una data lingua ≻ costituisce la “dimensione
paradigmatica” o “dimensione verticale” di quella lingua.
❖ i “rapporti paradigmatici” ≻ sono i n a b s e n t i a , in quanto riguardano parole che sono in alternativa tra loro in
una determinata posizione sintagmatica.
Ad esempio, questo accade con il sg. e il pl., se si sceglie uno non si può usare contemporaneamente anche l’altro, quindi
non si può dire “il / i ragazzo”.
H j e l m s l e v ≻ afferma che la relazione paradigmatica è tale se risponde alla funzione “ e i t h e r – o r ” : o si ha un
elemento o si ha l’altro.
L’insieme dei “rapporti sintagmatici” esistenti tra le parole di una data lingua ≻ costituisce la “dimenzione sintagmatica”
o “dimensione orizzontale” di quella lingua.
❖ i “rapporti sintagmatici” ≻ sono i n p r a e s e n t i a , in quanto riguardano parole che compaiono una dopo l’altra in
sequenza.
H j e l m s l e v ≻ afferma che la relazione sintagmatica è tale se risponde alla funzione “ b o t h – a n d ” : gli elementi
sono in sequenza, si ha un elemento e anche l’altro.

Tanto i rapporti paradigmatici quanto quelli sintagmatici ≻ riguardano elementi a tutti i livelli della lingua.
Quando si forma una frase si prendono elementi dall’asse paradigmatico e li si combinano su quello sintagmatico, dove
possono subire delle variazioni.
elementi da asse paradigmatico ≻ asse sintagmatico
Ad esempio, l’articolo determinativo m. sg. cambia forma in base ai foni iniziali della parola che segue “‘il ragazzo”, “lo
studio”, “l’orologio”). Allo stesso modo un V si flette nella persona e nel numero in relazione al S con cui si accorda.
L’asse sintagmatico non si limita pertanto a ricevere materiali da quello paradigmatico, ma agisce su di essi. Si parla
dunque di: “ a m b i e n t e s i n t a g m a t i c o ” di un elemento linguistico = per indicare quella parte del contesto che
ne influenza il comportamento facendogli assumere una forma specifica.

231
RELAZIONI SEMANTICHE PARADIGMATICHE

Il lessico delle lingue ≻ non è composto da parole isolate, ma è organizzato seguendo determinati:
− “ p r i n c i p i d i o r d i n a m e n t o ” = relazioni semantiche basate sul significato (contenuto) che legano le parole
del lessico delle varie lingue. A livello paradigmatico, cioè a livello delle sostituzioni possibili sul piano sintagmatico tra
un elemento linguistico e un altro, si possono stabilire degli assi che sono utili per classificare i vari tipi di associazioni
semantiche e rappresentano una possibile struttura del lessico. Un 1° asse riguarda le… un 2° asse riguarda le:
relazioni verticali o gerarchiche di inclusione relazioni nelle quali 1 dei termini è:
s o v r a o r d i n a t o (“veicolo”);
s o t t o o r d i n a t o (“macchina”).
relazioni orizzontali relazioni nelle quali i termini sono sullo stesso = piano, come quelle di:
e q u i v a l e n z a (“barriera” = “ostacolo”); o p p o s i z i o n e (“lungo” vs “corto”).
altre relazioni semantiche associazioni NON sono paradigmatiche non senso stretto, cioè non
riguardano termini sostituibil sul piano sintagmatico, che NON sono facilmente ricondubibili ad 1 dei 2 suddetti assi,
tuttavia contribuiscono a chiarire la struttura del lessico e che si possono considerare presenti nella competenza lessicale
dei parlanti. Ad esempio, relazioni di:
◦ causa (“comprare”/“pagare”); ◦ implicazione temporale (“cercare”/“trovare”); ◦ reazione (“attaccare”/“difendere”);
◦ strumento (“pistola”/“sparare”); ◦ stimolo-risposta (“comandare”/“obbedire”); ◦ scopo (“letto”/“dormire”);

Un 1° aspetto che va ricordato è che le relazioni semantiche che saranno illustrate sono primariamente delle associazioni
tra s i g n i f i c a t i e solo secondariamente delle associazioni tra parole: le parole polisemiche attivano infatti
associazioni ≠ diverse per ciascun significato.
Ad esempio, la parola “felice” = contento si associa per opposizione a “triste” se è riferita allo stato d’animo, ma “felice” =
opportuno si associa per opposizione a “infelice” se è riferita a determinate circostanze, non a “non-conveniente”, o anche
la parola “acceso” si associa per opposizione a “spento” se è riferita a “motore”, a “sbiadito” se è riferita a “colore”, a
“pacato” se è riferita a “discussione”.
Un 2° aspetto che va ricordato riguarda il rapporto tra le associazioni semantiche e la classe lessicale: le associazioni
oltrepassano la distinzione di c l a s s e l e s s i c a l e e si instaurano tra elementi appartenenti a classi lessicali ≠ diverse.
Ad esempio, “colpire” (V) / “martellata” (N), “elezione” (N) / “votare” (V), “addormentarsi” (V) / “risveglio” (N).

gradazione relazione che permette di inserire alcune parole del lessico in una scala, i cui estremi sono
rispettivamente il grado° MIN e il grado° MAX di una determinata proprietà.
Ad esempio, la scala per le parole che riguardano la temperatura è: [gelido, freddo, fresco, tiepido, caldo, bollente].
Le gradazioni possono però avere delle lacune:
• gradazioni intermedie nella scala [microscopico, piccolo, medio, grande, grandissimo, enorme],
tra “grande” e “grandissimo” ci potrebbe essere una gradazione intermedia che il parlante percepisce nella sua
mente, ma che non è lessicalizzata in italiano.
• fragilità paradigmatica le gradazioni sono inoltre paradigmaticamente fragili, nel senso che
alcune parole di una gradazione possono avere degli equivalenti: ad esempio, nella scala [gelido, freddo, fresco,
tiepido, caldo, bollente], “gelido” potrebbe avere “polare” come equivalente.
Nel caso di usi tecnici delle parole, si può decidere di regolarizzare una scala in modo che non sia né lacunosa né fragile.
Ad esempio, la scala di valutazione scolastica è regolarizzata: [insufficiente, mediocre, sufficiente, buono, ottimo,
eccellente]. Questa scala, essendo ufficiale, non è considerata né lacunosa né fragile.
Le gradazioni lessicalizzate ≻ mostrano chiaramente che qualsiasi parola può diventare un termine tecnico attraverso il
semplice accordarsi dei parlanti sul significato.

232
RELAZIONI VERTICALI o GERARCHICHE di INCLUSIONE

iperonimia/iponimia relazione gerarchica che lega 2 parole, delle quali una:


• iperonimo (I) ha un significato + g e n e r i c o (“veicolo”I);
• iponimo (i) ha un significato + s p e c i f i c o , costituito dal significato dell’iperonimo + qualche
tratto aggiuntivo (“macchina”i). Ad esempio, “macchina”i = “veicolo”I + “a motore” + “a 4 ruote”.
Si dice che A è iponimo di B quando significato A è incluso nel significatoB, viceversa B è iperonimo di A quando
significatoB include il significatoA. Ad esempio, “rosa”I è iperonimo di “fiore”i e viceversa “fiore”i è iponimo di “rosa”I.
Inoltre, nel caso specifico dei N, se si guarda al referente, si può osservare che l’iponimo denota un referente che è incluso
nel referente denotato dall’iperonimo: quindi il referente dell’iponimo è un sottotipo del referente dell’iperonimo.

Attraverso l’analisi delle relazioni di iperonimia/iponimia è possibile costruire delle tassonomie = classificazioni fondate
su principi gerarchici in cui ci sono termini sovraordinati e termini sottoordinati.
Esse mostrano che la relazione di iperonimia/iponimia è una relazione:
◦ verticale i = sottoordinato rispetto a I (“veicolo”I ≻ “macchina”i, “aereo”i, “autobus”i);
◦ asimmetrica se una “macchina”i è un “veicolo”I, non è vero che un “veicolo”I è necessariamente una
“macchina”i ( “ i m p l i c a z i o n e u n i l a t e r a l e ” = x è un y, ma y non è un x);
◦ multilivello esistono nel lessico + livelli di iperonimia/iponimia, ovvero un iponimo può essere a sua
volta un iperonimo di un altro elemento (“mobile”I ≻ “tavolo”i, “tavolo”I ≻ “tavolino”i, “scrivania”i);
◦ transitiva consente il trasferimento di informazioni semantiche attraverso + livelli (“utilitaria” è una
“macchina”i, ma è anche un “veicolo”I);
◦ c o − i p o n i m i = + iponimi di 1 iperonimo, la relazione semantica tra co-iponimi è orizzontale in quanto
sono tutti allo stesso = livello di specificità del significato (“macchina”ci, “aereo”ci, “autobus”ci).

Per individuare la relazione di iperonimia/iponimia esistono vari test:


i. test basato sul “criterio di inclusione” “x è un y, ma y non è un x” (un “fuoristrada”i è una “macchina”I, ma
una “macchina”I non è un “fuoristrada”i);
ii. test basato sulla tipologia “un ni e altri tipi di nI (un “fuoristrada”i ed altri tipi di “macchine”I);
iii. test utile per i V “vi è vI in un modo particolare” (“abbottonare”i è “chiudere”I in un modo particolare).

❖ la relazione di iperonimia/iponimia ≻ riguarda non solo le parole semplici ma anche i composti (“capo” I/“capotreno”i)
e i sintagmi lessicalizzati (“cibo”I/“cibo per cani”i, “macchina”I/“macchina da scrivere”i)
❖ la relazione di iperonimia/iponimia ≻ è presente anche tra parole appartenenti a classi lessicali ≠ diverse.
Ad esempio, “colpire”I (V) / “martellata”i (N).
❖ la relazione di iperonimia/iponimia ≻ è utile per chiarire le inferenze possibili nel lessico.
Ad esempio, se si dice “abbiamo camminato” significa che “ci siamo mossi”.
In particolare, il fenomeno dell’iponimia = un “universale linguistico” che permette ai parlanti di produrre enunciati con
un “effetto zoom” lungo una scala che va dalla massima generalità alla massima specificità: + generalità ≻ + specificità.

233
meronimia/olonimia relazione gerarchica che lega 2 termini che denotano oggetti fisici, di cui:
• meronimo (m) indica la p a r t e ;
• olonimo (o) indica il t u t t o .
Le relazioni di meronimia/olonimia possono essere di vari tipi:

 relazione tra un i n t e r o e le sue p a r t i costituenti;


“mano”o è olonimo di “dito”m
“dito”m è meronimo (parte) di “mano”o o “piede”o
 relazione tra un o g g e t t o e la s o s t a n z a di cui è fatto;
“anello”o è olonimo di “oro”m
“oro”m è meronimo (sostanza) di “anello”o
 relazione tra un i n s i e m e e i suoi m e m b r i ;
“classe”o è olonimo di “studenti”m
“studenti”m è meronimo (membro) di “classe”o
 relazione tra un i n t e r o e una sua p o r z i o n e ;
“torta”o è olonimo di “fetta”m
“fetta”m è meronimo (porzione) di “torta”o
 relazione tra un i n t e r o e i gli e l e m e n t i di cui è composto;
“grappolo”o è olonimo di “chicco”m
“chicco”m è meronimo (elemento) di “grappolo”o
 relazione tra un l u o g o e un a l t r o l u o g o in esso contenuto.
“deserto”o è olonimo di “oasi”m
“oasi”m è meronimo (luogo) di “deserto”o

Attraverso l’analisi delle relazioni di meronimia/olonimia è possibile realizzare delle rappresentazioni grafiche, le quali
mettono in luce il fatto che la meronimia, al pari dell’iponimia, è una relazione di inclusione (“bicicletta” “ruota”).

Esse mostrano che nella relazione di meronimia/olonimia:


◦ 1 meronimo + olonimi (“fetta”m è meronimo di “pizza”o, “torta”o, “formaggio”o, “pane”o);
◦ + co-meronimi 1 olonimo (“tetto”cm “muro”cm, “pavimento”cm sono co-meronimi di “edificio”o).

iperonimia/iponimia meronimia/olonimia

sistema lessicale

i = tipo m = parte

implicazione unilaterale NO implicazione

i ≻ eredita proprietà da I m ≻ NON eredita proprietà da o

relazione transitiva relazioni NON tutte ugualmente transitive

234
Il sistema lessicale creato dalle relazioni di iperonimia/iponomia e quello creato dalle relazioni di meronimia/olonimia si
presentano identici, cioè con i termini collegati verticalmente e gerarchicamente, ciò nonostante non devono essere
confusi: iponimi = sono un t i p o di qualcosa ≠ meronimi = sono una p a r t e di qualcosa.
Ad esempio, una “macchina” non è una parte” di un “veicolo”, è un tipo di veicolo. Inoltre, la “macchina” è un “veicolo”.
Allo stesso modo, la “ruota” non è un tipo di “bicicletta”, è una parte della “bicicletta”. Inoltre, laa “ruota” NON è una
“bicicletta”.
Inoltre, mentre un iponimo in genere eredita dall’iperonimo le sue proprietà (“tulipano”i ha petali come “fiore”I), un
meronimo NON le eredita dall’olonimo (“ruota”m NON ha le proprietà di una “bicicletta”o).
Infine, le relazioni di meronimia ≻ NON sono tutte ugualmente transitive come quelle di iperonimia/iponimia.
Ad esempio, si può affermare che i “raggi”m sono parte della “bicicletta”o, è strano affermare che il “dito”m è parte del
“braccio”o.

Per individuare la relazione di iperonimia/iponimia esistono vari test:


i. test generale x ha y (una “bicicletta”o ha un “pedale”m);
ii. test per la meronimia x è una parte di y (il “pedale”m è una parte della “bicicletta”o);
iii. test per l’olonimia x ha come parte y (la “bicibletta”o ha come parte il “pedale”m).

❖ la relazione di meronimia ≻ è rilevante dal punto di vista linguistico perché la parola che denota la parte è usata spesso
nelle lingue per esprimere il tutto: questo spostamento di senso nella retorica classica si chiama “ s i n e d d o c h e ” .
Ad esempio, “sono al volante” = “sto guidando la macchina”, in cui “volante”m è una parte di “macchina”o.
❖ la relazione di meronimia ≻ è alla base del procedimento chiamato “anafora associativa” = cioè di 1 a menzione di
un’entità associabile ad un’entità menzionata precedentemente.
Ad esempio, “la casa è in via Mazzini”.
In generale però, NON tutte le parti di un oggetto permettono uno spostamento di significato, ma sono solo le parti
tipiche, cioè quelle + caratteristiche di un oggetto, che sono fondamentali nel suo funzionamento, che consentono
spostamenti di significato lungo l’asse della meronimia.
Ad esempio, un pianoforte ha dei pedali ma questi non saranno mai utilizzati come meronimo per esprimere l’interno
strumento musicale, perché non sono essenziali per il suo funzionamento, come lo è invece un volante per una macchina
o i pedali stessi per una bicicletta.

235
RELAZIONI ORIZZONTALI

sinonimia relazione che ha diverse definizioni:


☑ def. 1 relazione di perfetta equivalenza semantica tra 2 parole che possono essere sempre sostituite una all’altra
senza che cambi il significato della frase. Questa definizione è poco praticabile dato che la maggior parte delle parole sono
polisemiche e quindi è raro che 2 parole siano esattamente intercambiabili in ogni contesto.
Ad esempio, le parole “ombrello”/“parapioggia” non sono perfettamente sinonimiche: “ombrello” [+ comune],
“parapioggia” [− comune].
Più frequente è la situazione in cui 2 parole sono intercambiabili soltato in 1 contesto specifico.
Ad esempio, le parole “biglietto”/“banconota” sono intercambiabili in un contesto come “un biblietto da 10€”, ma non in
un contesto come “un biglietto del treno”.
☑ def. 2 relazione esistente tra 2 parole che in un dato contesto possono essere sostituite una all’altra senza che vi
siano conseguenze sull’interpretazione, cioè sul valore di verità della frase. In base a queste definizioni si distinguono:
• s i n o n i m i a s s o l u t i = parole che sono sempre intercambiabili (“ombrello”/“parapioggia”);
• s i n o n i m i c o n t e s t u a l i = parole intercambiabili almeno in 1 contesto (“biglietti”/“banconota”).
Per individuare la sinonimia esistono vari test:
i. test di sostituzione per cui risultano essere sinonimi soltanto parole della stessa classe (V con V, N con N).
Ad esempio, “arrivo” (N) e “arrivare” (V) NON sono sinonimi;
ii. test che mettono in luce l’ “implicazione bilaterale” della sinonimia test costituito da 2 parti:
“è un x, quindi è un y” + “è un y, quindi è un x”
Questo test NON vale per gli iperonimi, che infatti hanno una relazione basata su un’ “implicazione unilaterale”.
Ad esempio, “è un cane, quindi è un animale” + “è un animale, quindi è un cane” × .
Questo test NON vale per i meronimi, per i quali NON vi è implicazione.
Ad esempio, × “è una manica, quindi è una camicia” + “è una camicia, quindi è una manica” × .
iii. test per la sinonimia dei V test costituito da 2 parti:
“qlcosa/qlcuno x, quindi qlcosa/qlcuno y” + “ qlcosa/qlcuno y, quindi qlcosa/qlcuno x”

quasi–sinonimia relazione di similitudine tra coppie di termini che possono avere in comune solo
alcune dimensioni semantiche. I quasi-sinonimi sono chiamati anche “affini” o “analoghi”.
• q u a s i – s i n o n i m i = 2 parole che si possono sostituire l’una all’altra senza cambiare il significato della
frase in almeno un contesto.
Le dimensioni semantiche in cui 2 quasi-sinonimi divergono sono di diverso tipo (da iii. a vi. = “varianti sinonimiche”):
i. grado 2 termini esprimono lo stesso = concetto ma in gradi diversi, uno + debole e uno + forte;
“colmo” vs “pieno”
ii. modo 2 termini denotano lo stesso = evento ma svolto in diverse modalità;
“sorridere” vs “ridacchiare”
iii. c o n n o t a z i o n e 2 termini hanno la stessa = denotazione ma diversa connotazione;
“madre” vs “mamma”
iv. r e g i s t r o 2 termini hanno la stessa = denotazione ma diverso registro;
“sciocchezza” vs “cazzata”
v. campo 2 termini hanno la stessa = denotazione ma sono usati in campi differenti;
“prescrizione” (med.) vs “ricetta”
vi. a r e a g e o g r a f i c a 2 termini hanno la stessa = denotazione ma sono usati in aree geografiche diverse;
“macelleria” vs “carnezzeria” (sic.)

236
antinomia relazione di opposizione tra 2 parole che si oppongono una rispetto all’altra in relazione a una
scala di valori, della quale costituiscono i 2 poli (cioè lessicalizzano i 2 poli della scala). In base a questa def. si chiamano:
• a n t o n i m i = 2 parole che si trovano in “ o p p o s i z i o n e p o l a r e ” in una scala di valori.
Ad esempio, [gelido, freddo, fresco, tiepido, caldo, bollente].
Da un punto di vista logico, gli antonimi sono contrari, ma non contraddittori: la negazione di 1 dei 2 termini non
equivale necessariamente al suo opposto.
Ad esempio, “non facile” non significa necessariamente “difficile”.
Questo è possibile perché, lungo la scala di valori, esiste una regione neutrale rispetto ai 2 termini, nel senso che non vi ci
su può riferire con alcuno dei 2 termini.
Ad esempio, qualcosa può essere né “facile”, né “difficile”.
Per individuare l’antinomia esistono vari test:
i. test “non è né x né y”;
ii. test “è più/meno x/y”.

complementarietà relazione di opposizione tra 2 parole mutualmente esclusive che si oppongono una
rispetto all’altra in relazione binaria, pertanto NON vi è MAI un termine intermedio. In base a questa def. si chiamano:
• c o m p l e m e n t a r i = 2 parole che si trovano in “ o p p o s i z i o n e b i n a r i a ”, escludendosi a vicenda.
Ad esempio, “vivo” vs “morto”, se non è vivo è necessariamente morto. Inoltre non è possibile negare
contemporaneamente entrambi gli elementi.
Per individuare la complementarietà esistono vari test:
i. test “x è non y”;
ii. test “non è né x né y” rispondendo negativamente al test perché l’opposizione che codificano è esclusiva.

simmetria relazione di opposizione tra 2 “termini conversi” che si oppongono una rispetto all’altra in una
relazione necessaria tra almeno 2 elementi. In base a questa def. si chiamano:
• t e r m i n i c o n v e r s i = 2 parole che si trovano in una “ r e l a z i o n e n e c e s s a r i a ” .
Ad esempio, “comprare”/“vendere”, se [A compra x da B], allora [B vende x a A].
Inoltre, ci sono parole che contengono contemporaneamente 2 significati simmetrici.
Ad esempio, “affittare” significa sia “prendere in affitto”, sia “dare in affitto”.

237
ALTRE RELAZIONI SEMANTICHE

relazione di causa relazione semantica tra 2 parole tra cui una è causa dell’altra, perciò può essere
descritta: La relazione di causa può essere:
• fattiva “l’evento espresso da x CAUSA l’evento espresso da y”;
Ad esempio, “uccidere”/“morire”.
• non fattiva “l’evento espresso da x PUÒ CAUSARE l’evento espresso da y”.
Ad esempio, “processare”/“condanna”.

relazione di implicazione temporale relazione semantica tra 2 parole tra cui una implica
e include/segue dal punto di vista temporale l’altra.
Ad esempio, se si considera la coppia di V “dormire”/“russare” si può dire che esiste una relazione tra questi V tale per
cui: “russare” IMPLICA automaticamente “dormire” e “russare” è INCLUSO dal punto di vista temporale in “dormire”.
Ad esempio, se si considera la coppia di V “dare”/“avere” si può dire che esiste una relazione tra questi V tale per cui:
“avere” SEGUE dal punto di vista temporale “dare”.

relazione di ruolo relazione semantica che lega un V a un N o viceversa, quando il V (“ruminare”)


include/implica l’informazione del N (“mucca”) o quando il N (“elefante”) include/implica quella del V (“barrire”).
❖ la relazione di ruolo ≻ può riguardare il … dell’azione espressa dal V:
 a g e n t e (“ruminare” IMPLICA “mucca”);
 p a z i e n t e (“partorire” IMPLICA “figlio”);
 s t r u m e n t o (“mordere” IMPLICA “denti”);
 l o c a t i v o (“nuotare” IMPLICA “acqua”).
❖ la relazione di ruolo ≻ tiene in considerazione sia aspetti sintagmatici sia aspetti paradigmatici.
Ad esempio, le parole “mordere” e “denti” sono legate da una “relazione paradigmatica in absentia”, “ho morso la mela
coi denti” è infatti un’espressione ridondante. Si tratta di una implicazione paradigmatica di contenuto.
Ad esempio, le parole “elefante” e “barrire” sono legate a una “relazione sintagmatica in praesentia”, “l’elefante barrisce”
NON è infatti un’espressione ridondante. Si tratta di una implicazione sintagmatica di contenuto.

relazione di modo relazione semantica che lega un V a un AV, quando l’ AV (“a bassa voce”) indica il
modo in cui ha luogo l’evento espresso dal V (“bisbigliare”).
❖ la relazione di modo ≻ tiene in considerazione sia aspetti sintagmatici sia aspetti paradigmatici.
Ad esempio, le parole “bisbigliare” e “a bassa voce” sono legate da una “relazione paradigmatica in absentia”, “stavano
bisbigliando a bassa voce” è infatti un’espressione ridondante.
Ad esempio, le parole “scaraventare” e “con forza” sono legate a una “relazione sintagmatica in praesentia”, “ha
scaraventato con forza la sedia contro il muro” NON è infatti un’espressione ridondante.

238
LEZIONE 20: Le RELAZIONI tra le PAROLE, le RELAZIONI SINTAGMATICHE

RELAZIONI SEMANTICHE SINTAGMATICHE

♖ relazione sintagmatica rapporto che intercorre tra 2 o + elementi linguistici semplici di uno stesso
= sistema linguistico quando questi sono combinati per formare unità linguistiche + complesse (sintagmi, frasi, testi).
Ad esempio, una relazione sintagmatica è quella che lega l’A (“caro”) al N (“vestito”, “amico”) in espressioni come “un
vestito caro” = un vestito costoso e “un amico caro” = un amico stretto.

Il lessico delle lingue ≻ non è composto da parole isolate, ma è organizzato seguendo determinati:
− “ p r i n c i p i d i o r d i n a m e n t o ” = relazioni semantiche basate sul significato (contenuto) che legano le parole
del lessico delle varie lingue nel momento in cui si vanno a disporre sull’asse sintagmatico.
A livello sintagmatico, si fa riferimento al fenomeno della combinazione delle parole che dà luogo a unità linguistiche +
complesse (sintagmi, frasi, testi). In particolare, il termine “sintagmatico” fa riferimento a:
− s i n t a g m a = elemento linguistico complesso formato dall’unione di elementi linguistici semplici.
Da un punto di vista generale, gli elementi di partenza di un sintagma possono essere fonemi (che insieme formano
sillabe), morfemi (che insieme formano parole), ecc.
In linguistica però si parla di sintagma per riferirsi a un particolare tipo di unione di elementi linguistici, cioè a:
− s i n t a g m a = unione strutturata di + parole che funziona come la sua “ t e s t a s i n t a t t i c a ” e che si situa a
livello intermedio tra: parola / frase.
NON tutte le sequenza di parole costituiscono un sintagma solo perché si susseguono sull’asse sintagmatico.
Ad esempio, “il bambino mangia la mela” NON è un sintagma.

I criteri per individuare un sintagma sono di 3 tipi:


◦ movimento le parole che fanno parte di uno stesso = sintagma si muovono assieme nella frase.
Ad esempio, “la Filippo ha graffiato macchina a mezzogiorno” è una frase agrammaticale perché è stato spezzato
il sintagma “la macchina”.
◦ enunciabilità in isolamento in un determinato contesto le parole che formano uno stesso
sintagma possono essere pronunciate da sole, cioè non in una frase completa.
Ad esempio, “cosa ha graffiato Filippo? La macchina”, non si potrebbe rispondere solo “macchina”.
◦ coordinabilità sintagmi di diverso ≠ tipo non possono essere messi in coordinazione.
Ad esempio, “a mezzogiorno e Filippo ha graffiato la macchina”.

Il sintagma ≻ ha diverse estensioni, può comprendere altri sintagmi e può, a sua volta, esserne contenuto.
Il sintagna ≻ ha una propria “testa” che dà nome al sintagma e gli impone il proprio comportamento sintattico.
I tipi di sintagma sono 4 in base all’elemento che fa da “reggente”:
◦ S Nominale; ◦ S Verbale; ◦ S Aggettivale; ◦ S Preposizionale.
Ad esempio, un SN può fare da S o da CO della frase, mentre un SA (“molto bello”) può funzionare da attributo a un N
all’interno di un SN o da CPS (complemento predicativo del S) e così via.
Ad esempio, “il ragazzo che porta sempre il cappello” è un SN perché la sua testa è un N e può essere interamente
sostituito da un N.

239
RESTRIZIONI SEMANTICHE sulla SELEZIONE

Le parole che si combinano tra loro sull’asse sintagmatico ≻ non possono essere allineate a caso, piuttosto sono applicate
alcune restrizioni, sia a livello della: parole all’intenro delle frasi e dei sintagmi
sintassi regola in maniera netta l’ordine delle parole che si combinano sull’asse sintagmatico all’interno delle
frasi e dei sintagmi (le quali devono seguire un ordine preciso stabilito proprio dalla sintassi) ponendo delle specifiche
restrizioni.
◦ o r d i n e s i n t a t t i c o ≻ riguarda la sequenza delle parole all’interno di un sintagma e la sequenza dei sintagmi
nelle frasi.
Ad esempio, la sequenza “il maglione che indossi a riche” NON è corretta.
A volte, date le stesse = parole, + di 1 ordine è ammesso, ma cambia l’interpretazione.
Ad esempio, “Paolo ha visto Maria” ≠ “Maria ha visto Paolo”.
◦ r e g o l e s i n t a t t i c h e ≻ che stabiliscono il n° e il modo in cui gli argomenti di un V devono essere espressi dal
punto di vista sintattico. La struttura argomentale può prevedere un n° di argomenti che varia da 1 a 3:
• verbi zeroargomentali solo V (“piovere” come in “piove”)
• verbi monoargomentali solo S (“cadere” come in “cade la neve”);
• verbi biargomentali S + CO (“noleggiare” come in “Maria ha noleggiato una macchina”);
• verbi triargomentali S + COD + COI (“dedicare” come “io ho dedicato una canzone a Sofia”).
Ad esempio, la sequenza “ho telefonato Marco” NON è corretta.
Tuttavia, anche se rispettano l’ordine e le regole sintattiche previste dalla lingua, alcune sequenze di parole possono
risultare comunque NON accettabili dal punto di vista della:
semantica le sequenze di parole disposte sull’asse sintagmatico devono essere semanticamente accettabili.
Ad esempio, l’espressione “la sedia con cui ho parlato ieri” è corretta sintatticamente ma inaccettabile in it. in quanto
vìola le restrizioni semantiche.
Il motivo di ciò non ha a che fare con l’ordine delle parole o con altre regole sintattiche, ma con il contenuto delle parole:
“sedia” è un oggetto inanimato e come tale non può parlare, “parlare” richiede un S [+umano].
Questa espressione è sintatticamente corretta ma concettualmente incongruente: le parole che compongono l’espressione
sono incompatibili dal punto di vista del loro significato.
Molti studiosi si sono occupati delle restrizioni semantiche sulle combinazioni possibili di parole.

P o r z i g (1934) ≻ osserva in modo sistematico che tra le parole che si allineano nel discorso si possono individuare
delle: “ r e l a z i o n i s i n t a g m a t i c h e d i c o n t e n u t o ” ( B e d e u t u n g s b e z i e h u n g e n ) .
Ad esempio, parte del contenuto del V ted. “gehen” è che esso richiede un S [+umano], quindi per un cane o un gatto si
usa il V “laufen”.

C o s e r i u (1971) ≻ definisce alcune coppie di parole come “naso”/“aquilino”, “cane”/“abbaiare”, “fiorire”/“pianta”:


− “ s o l i d a r i e t à l e s s i c a l i ” o “ s o l i d a r i e t à l e s s e m a t i c h e ” = implicazioni sintagmatiche di
contenuto, codificate linguisticamente, tale per cui 1 dei 2 termini(“naso”) funzioni da tratto distintivo dell’altro
(“aquilino”).
Si tratta di un particolare legame che lega due parole “solidali” tra di loro e con tendenza ad occorrere insieme.
Questo tipo di relazione è una relazione orientata, nel senso che il significato di una parola è inglobato in quello dell’altra.
Ad esempio, in “naso aquilino”, “naso” è incluso in “aquilino” ma non viceversa, perché del “naso” si può dire altro, oltre
che è “aquilino”.

240
C h o m s k y (1965) ≻ affronta la questione delle implicazioni sintagmatiche di contenuto utilizzando la nozione di
“selezione” a proposito della “valenza del V”.
Secondo il “principio di selezione”, il V selezione i propri argomenti, sia a livello sintattico sia semantico.
A livello semantico, un V, in virtù del suo significato, seleziona una gamma di argomenti possibili, e ne esclude altri.
Ad esempio, il V “sentire”, poiché esprime una percezione, seleziona come S un essere animato ed esclude gli esseri
inanimati.
Ad esempio, il V “respirare” richiede necessariamente un S [+ animato].
Chomsky ≻ chiama questo tipo di restrizioni: “ r e s t r i z i o n i s u l l a s e l e z i o n e ” .

È opportuno distinguere almeno 3 tipi di restrizioni sulla combinazione delle parole:

restrizioni concettuali restrizioni sulla combinazione di parole che derivano dalle caratteristiche
intrinseche dei referenti delle singole parole, delle quali siamo consapevoli a seguito della nostra esperienza del mondo.
❖ una combinazione di parole che vìola questa restrizione esprime un “conflitto concettuale”, il quale non può essere
risolto in nessun modo, perché è errato da punto di vista ontologico.
Ad esempio, “l’armadio canta” è una combinazione inaccettabile perché vìola la restrizione concettuale.
restrizione concettuale ≻ conflitto concettuale ≻ irreversibile

restrizioni lessicali di “solidarietà semantica” restrizioni sulla combinazione di


parole che si basano sul modo in cui ogni lingua lessicalizza un concetto, in particolare sul il modo in cui lo “segmenta”
attraverso le parole.
❖ una combinazione di parole che vìola questa restrizione esprime un “conflitto lessicale”, il quale può essere risolto
attraverso la sostituzione della parola che lo crea con un suo iperonimo (I).
Ad esempio, in ingl. esistono 2 termini per indicare il concetto di “alto”: “tall” per le persone, “high” per gli oggetti,
quindi la sequenza “the building is tall” è errata, perché vìola la restrizione semantica, in virtù della “solidarietà
semantica” che esiste in ingl. (e non in altre lingue) tra “tall” e le persone.
Ad esempio, in it. la sequenza “Luca calzava una cravatta rossa” è errata, perché vìola la restrizioni lessicale, in virtù della
“solidarietà semantica” che esiste in it. (e non in altre lingue) tra il V “calzare” e la classe di oggetti composta
principalmente da “scarpe”. Questo conflitto lessicale può essere risolto attraverso la sostituzione della parola “calzare”
con un suo iperonimo (I), “indossare”.
solidarietà semantica ≻ conflitto lessicale ≻ reversibile

restrizioni lessicali di “solidarietà consolidata dall’uso” restrizioni sulla


sulla combinazione di parole che si basano sulla tendenza delle lingue a esprimere determinati concetti con abbinamenti
preferenziali di parole, nonostante anche altre combinazioni siano possibili.
Queste combinazioni preferenziali ≻ si presentano quindi come un modo tipico di dire una certa cosa, quindi sono
caratterizzate da un elemento di convenzionalità, ovvero sono determinate dall’uso che ne fanno i parlanti.
❖ una combinazione di parole che vìola questa restrizione esprime un “conflitto lessicale”, il quale può essere
rapidamente risolto attraverso la sostituzione del termine che lo crea con quello consolidato dall’uso.
Ad esempio, ✓ “fare una scelta” vs “fare una decisione” × .

241
COMBINAZIONI di PAROLE

La classificazione dei differenti ≠ tipi di combinazioni di parole si fonda su 3 criteri principali:

❁ la presenza o l’assenza di una “ r e s t r i z i o n e s e m a n t i c a ” sulla combinazione.


Per quanto riguarda questo criterio, va tenuta presente la distinzione tracciata tra:
• restrizione concettuale o ontologica;
• restrizione lessicale basata su una solidarietà semantica;
• restrizione lessicale consolidata dall’uso.

❁ la calcolabilità del “ s i g n i f i c a t o c o m p o s i z i o n a l e ” della combinazione e la disponibilità del r e f e r e n t e :


Per quanto riguarda questo criterio, vanno intese:
• calcolabilità del significato di una combinazione di parole = proprietà per cui il significato di una combinazione
di parole è desumibile dai significati dei membri;
• referente = va inteso come disponibile quando è individuato con precisione. Ad esempio, nel caso di “vino” che è
referenziale nell’espressione “un bicchiere di vino”, ma è generico nell’espressione “un bicchiere da vino”;

❁ la “ s o s t i t u i b i l i t à p a r a d i g m a t i c a ” e l’ a u t o n o m i a s i n t a t t i c a dei membri della composizione.


Per quanto riguarda questo criterio sono tenuti in considerazione 2 aspetti:
• “ v a r i a b i l i t à d i s t r i b u z i o n a l e ” = la possibilità di sostituire 1 dei membri della combinazione
(“accendere” + “la luce” / “la televisione” / “una discussione”);
• “coesione s i n t a t t i c a ” o “ f i s s i t à ” (“figement” Gross) = la possibilità di modificare la
combinazione dal punto di vista sintattico (“ho acceso la luce” / “la luce è stata accesa”).
Per quanto riguarda le combinazioni verbo-nominali (V+N), le modifiche sintattiche + salienti per distinguere
tra i diversi ≠ tipi di combinazioni sono:
◦ la modifica della determinazione del N; ◦ la relativizzazione del N; ◦ la dislocazione del N;
◦ la passivizzazione della combinazione; ◦ l’inserzione di parole tra i membri della combinazione.

242
Le combinazioni di parole possono essere di 5 tipi:

combinazioni libere combinazioni di 2 o + parole che non sono sottoposte ad alcun tipi di
restrizione. Ad esempio, “lavare”/“macchina”, “cercare”/“chiavi”.
Va osservato che le combinazioni totalmente libere nella lingua sono in realtà inesistenti, infatti qualsiasi combinazione
presenta almeno qualche restrizione di tipo concettuale, legata alle proprietà intrinseche delle parole.
Ad esempio, la parola “pane” ammette attributi + o − tipici come “fresco”, “integrale”, “raffermo” ma non ammette
“fondere”, “stappare”.
In ogni caso, una combinazione può essere classificata come libera quando ha le seguenti caratteristiche:
i. è creata ex novo da un parlante nell’atto comunicativo, ad eccezione delle espressioni idiomatiche, frasi fatte,
locuzioni fissate dall’uso, ecc;
ii. i suoi membri possono essere combinati con altre parole, quindi sostituiti, mantenendo lo stesso significato
(“lavare” / “costruire” / “vendere” + “macchina”) o, nel caso dei termini polisemici, mantenendo 1 dei significati
tipici (“lavare la macchina” = automobile, “azionare la macchina” = macchinario)
iii. i referenti denotati dalle parole sono generalmente disponibili nel discorso e per questo ci si può riferire ad essi
anche tramite un pronome (“ho cercato le chiavi e le ho trovate”;
iv. i membri sono autonomi dal punto di vista sintattico e rispondono positivamente alle modifiche tipiche di un
elemento libero (“ho ordinato il/un/dei/molti libro/libri”);
v. il significato della combinazione è composizionale.

combinazioni ristrette combinazioni di parole caratterizzate da una determinata restrizione, esse


sono diverse proprio in base al tipo di restrizione che le caratterizzano.
Quelle + comuni sono quelle soggette a una restrizione legata alla presenza di una:
• implicazione sintagmatica di contenuto (“allattare il figlio” in cui “allattare” IMPLICA “figlio);
• consuetudine d’uso (“mantenere un segreto”, il cui significato può essere espresso anche con la combinazione
“conservare un segreto”, ma tipicamente non lo è).
In questo caso si parla di “combinazioni preferenziali” o “combinazioni usuali”.
Per quanto riguarda le combinazioni legate a una implicazione di contenuto si possono fare le seguenti osservazioni:
i. le restrizioni si distinguono in quanto alcune sono + circoscritte e, di conseguenza, + percepibili di altre.
Nelle combinazioniverbo-nominali (V+N), se la restrizione è − circoscritta, il V ammette + classi di oggetti.
Ad esempio, “comperare” non ammette in genere oggetti astratti, ma ammette svariate classi di oggetti fisici;
ii. il significato della combinazione ristretta è generalmente composizionale;
iii. la sostituibilità dei membri della combinazione è ridotta a causa della presenza di una restrizione.
Nel caso delle restrizioni molto circoscritte, la sostituzione del termine su cui opera la restrizione è impossibile,
in quanto non sono disponibili altri oggetti che possono, ad esempio, essere sottoposti all’Azione indicata dal V
(ciò che viene comunemente pastorizzato è il “latte”) o che possono avere la proprietà indicata dall’A (nulla può
cagliarsi oltre al “latte”).
iv. i membri della combinazione sono autonomi dal punto di vista sintattico, nel senso che consentono le
modificazioni tipiche degli elementi liberi (flessione, coniugazione).
Ad esempio, “parcheggiare la/una/delle/molte macchine/macchine”.

243
collocazioni frequenti combinazioni, stabili o privilegiate, di parole consolidate dall’uso che formano
sintagmi semi-rigidi, soggette a una restrizione lessicale (“recurrent and restricted word combination”).
❖ le collocazioni ≻ corrispondono a un modo preferenziale di esprimere un concetto, per cui la scelta di una specifica
parola (il “ c o l l o c a t o ” ) per esprimere un determinato significato è condizionata da un’altra parola (la “ b a s e ” )
alla quale questo significato è riferito.
Ad esempio, nella collocazione “pioggia battente”, per esprimere il concetto di “intensità”, “pioggia” (la “base”) si abbina
di preferenza a un A specifico, “battente” (il “collocato”), anziché ad altri A che da un punto di vista semantico sono
ugualmente compatibili (“intenso”, “impetuoso”).
[“collocato” IMPLICA “base”]
❖ le collocazioni ≻ sono molto frequenti nelle varie lingue, le quali però scelgono i termini da collocare in modo ≠
diverso tra loro. Questa caratteristica non sorprende, visto che spesso le collocazioni si basano su similitudini che hanno
radici culturali diverse da lingua a lingua.
Ad esempio, in it. “fare una foto”, in ingl. “to take a photo”.
La particolarità delle collocazioni è che non c’è in genere alcun motivo specifico perché alcune parole si associno tra di
loro in modo semi-rigido. In ogni caso, limitando in qualche modo la libertà dei parlanti nel mettere insieme le parole, si
creano negli ascoltatori dei “meccanismi di attesa”.
Ad esempio, “Benedetto ha vinto il concorso. Era stato bandito sei mesi fa”: “bandire il concorso” è una collocazione,
quindi il S della 2a frase NON è “Benedetto” ma “concorso”.
Inoltre, emergono dal test seguente delle distinzioni tra:

❢ solidarietà semantiche lessicali:

anche da solo “parcheggiare” IMPLICA “macchina” ! implicazione di contenuto


“indossare” IMPLICA “vestito” è presente anche quando
“aquilino” IMPLICA “naso” il “collocato” è preso
“biondo” IMPLICA “capello” singolarmente !

❢ collocazioni propriamente dette:


da solo “stendere” NON IMPLICA “documento” ! implicazione di contenuto
“lanciare” NON IMPLICA “messaggio” NON è presente quando
“battente” NON IMPLICA “pioggia” il “collocato” è preso
“fisso” NON IMPLICA “disco” singolarmente !

Entrambe sono sequenze in cui, per poter esprimere un determinato significato, si sceglie il “collocato” ≺ a partire dalla
“base” a cui il significato del “collocato” è riferito, ma nelle:
≠ solidarietà semantiche lessicali c’è sempre tra i 2 termini in sequenza una evidente implicazione
di contenuto che è preservata, per il collocato, anche quando questo è preso singolarmente.
Ad esempio, se preso da solo “indossare” IMPLICA necessariamente “vestito”.
≠ collocazioni propriamente dette l’implicazione sintagmatica di contenuto è presente solo nella
combinazione, ma NON emerge se i collocati sono presi singolarmente.
Ad esempio, se preso da solo “stendere” NON IMPLICA necessariamente “documento”.
Ciò è legato al fatto che i termini “stendere”, “lanciare”, “battente”, “fisso” (i “collocati”) ≻ sono polisemici, mentre
“indossare”, “aquilino” ≻ tendono invece alla monosemia e hanno un significato + specifico.
In it. i “collocati”: “stendere”, “lanciare”, “battente”, “fisso” sono selezionati dalle “basi”: “documento”, “messaggio”,
“pioggia”, “fisso”, tra una gamma di temrini potenzialmente possibili, per esprimere un significato che NON hanno
quando sono combinati con altre parole, ma che acquistano nella combinazione specifica (“meaning by collocation”

244
Firth). Questi “collocati” instaurano quindi una solidarietà con le “basi” soltanto nell’uso specifico: per questo motivo si
parla di “ s o l i d a r i e t à c o n s o l i d a t e d a l l ’ u s o ” .
Per quanto riguarda la restrizione, va osservato che nel caso delle:
≠ solidarietà semantiche lessicali restrizione è imposta dal V o dall’A ≻ N e ha carattere di
obbligatorietà;
≠ collocazioni propriamente dette restrizione è imposta dal N ≻ V o A e ha carattere generalmente
preferenziale.

solidarietà semantiche lessicali collocazioni propriamente dette

“collocato” ≺ “base”

Implicazione presente anche quando Implicazione NON presente quando


“collocato” è preso singolarmente “collocato” è preso singolarmente

“collocati” monosemici “collocati” polisemici

restrizione

V o A ≻ N N ≻ V o A

carattere di obbligatorietà carattere preferenziale

B e n s o n e I l s o n (1986) ≻ distinguono 7 tipi principali di collocazioni lessicali:


i. V di creazione + N (Vc + N) “stipulare un contratto”, “accendere un mutuo”;
ii. V di annullamento + N (Va + N) “revocare una licenza”, “annullare il matrimonio”;
iii. (N + A) “saluto caloroso”, “caffè ristretto”, “occhi dolci”, “disco rigido;
iv. N + V che esprime una caratteristica del N (N + VN) “l’allarme scatta”, “l’elefante barrisce”, “la bomba
esplode”;
v. unità di quantificazione + N al quale l’unità è riferita (N + “di” + N) “lasso di tempo”, “mazzo di chiavi” o
“mazzo di fiori’ ma NON “mazzo di libri”, “mandria di buoi”, “gregge di pecore”;
vi. (Avv + A) “intimamente connesso”;
vii. (V + Avv) “odiare visceralmente, “discutere animatamente”, “salutare cordialmente”, “scusarmi umilmente”.

Spesso è possibile usare 1 sola parola di quelle che fanno parte di una collocazione, economizzando sul materiale
pronunciato durante l’enunciazione.
Ad esempio, in “io e Carlo siamo intimi”, si sottintende “amici”.

245
costruzioni a verbo supporto tipi particolari di collocazioni (“light verb” Jespersen) formate,
nel caso + tipico, da: [ V + art. o prep. + N ].
Ad esempio, “prendere una decisione”, “essere in dubbio”, “prendere sonno”, “dare spiegazioni”, “fare una telefonata”,
“fare impression” (ingl. “to make an impression”), “fare un passo avanti” (ingl. “to take a step”).
Vi sono = somiglianze e ≠ differenze tra le costruzioni a verbo supporto e le collocazioni.

Le CVS condividono con le collocazioni le seguenti caratteristiche:


✔ la presenza di una restrizione lessicale attivata dal N;
(“prendere una decisione” e NON “fare una decisione”, ma “fare una scelta” e NON “prendere una scelta)
✔ il fatto che questa restrizione sia condizionata dall’uso, e come tale sia soggetta a “variabilità interlinguistica”;
(it. “fare una fotografia”, ingl. “to take a picture” e NON “to make a picture”)
✔ il fatto che la “base” (N) ≻ determina il significato del “collocato” (V);
(“fare un sospiro” = emettere, “fare una pressione” = esercitare)
✔ il fatto che il N mantiene (nella CVS) il significato che ha in altre combinazioni;
(“prendere una decisione”, “annullare una decisione”)
✔ il fatto che le parole in sequenza della CVS sono generalmente autonome dal punto di vista sintattivo, quindi
sono sintatticamente modificabili (flesse e/o coniugate);
(“prendere la/una/delle/molte decisione/decisioni”).

Le CVS si distinguono dalle collocazioni per le seguenti caratteristiche per diversi aspetti, in particolare nelle CVS:
✗ il V ha sempre un significato generico e il contributo semantico del V alla costruzione è limitato al: tempo,
modo, Aktionsart che il V in quanto tale esprime;
(“fare” indica l’attività come in “fare una telefonata”, “essere” indica lo stato come in “essere in dubbio”,
“prendere” indica l’inoatività, cioè l’entrata in uno stato, come in “prendere sonno”)
Per questa loro caratteristica, le CVS possono essere definite come delle collocazioni il cui significato è espresso
interamente dal N.
✗ il Predicato è costituito dal N e il V funge da supporto per costruire la frase, in quanto il N non è in grado da solo
di esprimere alcune delle categorie (“tempo”, “modo”) che sono necessarie per esprimere compiutamente una
predicazione (Gross, 1996);
✗ al contrario delle collocazioni nelle quali le parole in sequenza sono generalmente autonome dal punto di vista
sintattico, nel caso delle CVS è opportuno tracciare una distinzione tra 2 sottotipi principali:
◦ CVS i cui termini sono autonomi dal punto di vista sintattico (“prendere una decisione”);
◦ CVS i cui termini NON sono autonomi dal punto di vista sintattico ( × “prendere il/un/del/molto sonno”).
Questa distinzione è chiarita alla luce del “criterio della referenzialità del N”: infatti, le CVS i cui termini NON
sono autonomi dal punto di vista sintattico sono quelli in cui il N NON è referenziale.
✗ lo statuto lessicologico delle CVS è diverso rispetto alle collocazioni regolari se si fa riferimento alla distinzione
tra lessicalizzazione analitica e lessicalizzazione sintentica. Alla luce di questa distinzione, le CVS si presentano
come dei tipici casi di predicati analitici, quindi di costruzioni assimilabili alle parole complesse. Questa
analogia è supportata dalla frequente presenta, accanto alle CVS, di un corrispondente V sintetico (“fare una
telefonata” “telefonare”). Ciò non vale per il caso delle regolari collocazioni né delle combinazioni regolari del
V (“fare una torta” “tortare”).

246
locuzioni o espressioni idiomatiche sequenze di parole rigide, non modificabili né dal
punto di vista semantico né sintattico, che tendono a comportarsi come un’unica parola (“vuotare il sacco” è un V
monovalente, cioè che richiede il solo S).
Ad esempio, “alzare il gomito” = bere troppo, “vuotare il sacco” = confessare, “mosca bianca” = persona con qualità rare.
A differenza delle regolari combinazioni il cui significato costruito sintagmaticamente attraverso un calcolo tipicamente
composizionale, il significato delle locuzioni idiomatiche ≻ NON è composizionale, perché NON è dato dalla  somma di
suoi elementi, ma si costituisce in bloccco a partire da procedimenti come quello della similitudine (“vuotare il sacco” ≻
rendere evidente ciò che contiene ≻ svelare).
Il risultato dell’applicazione di una similitudine è un significato traslato in un contesto ≠ diverso da quello originario e
fissato su un’espressione linguistica che di conseguenza risulta bloccata, sia per quanto riguarda la:
• sostituibilità dei membri (“vuotare il sacco” ma NON “vuotare la borsa”);
• possibilità di modificare i membri (“vuotare il sacco” ma NON “vuotare il/i/dei/molti sacco/sacchi”).
Le diverse parole costituenti la sequenza vengono così fissate nell’ordine sintattico, e tendono. Il significato della
locuzione è la cosa più difficile da tradurre e da comprendere nelle altre lingue, perché ha anche radici culturali,
ovviamente diverse da una lingua all’altra.

247
LESSICALIZZAZIONE delle COMBINAZIONI di PAROLE in PAROLE COMPLESSE

Le combinazioni di parole e le parole complesse si distinguono per il fatto che le:


≠ p a r o l e c o m p l e s s e = sequenze in cui gli elementi non sono né sostituibili né modificabili dal punto di vista
sintattivo, se non in misura molto lieve (“sala d’attesa”, ma NON “camera d’attesa”).
Inoltre, le parole complesse possono presentare un significato NON calcolabile o calcolabile solo parzialmente (“carta di
credito” in cui “carta” non ha il significato usuale di “materiale per scrivere”).
≠ c o m b i n a z i o n i d i p a r o l e = sequenze in cui gli elementi possono essere sostituiti e modificati a piacere, fatte
salve le restrizioni di tipo concettuale, che sono da considerarsi sempre presenti (“indossare un vestito”).
Inoltre, le parole complesse possono presentare un significato che può essere dedotto dai significati delle singole parole.
Tuttavia si possono ipotizzare dei passaggi dalla categoria delle combinazioni di parole ≻ a quella delle parole complesse
attraverso il fenomeno della lessicalizzazione.
❖ il fenomeno della lessicalizzazione, inteso come “univerbazione”, trova origine nella tendenza delle parole che
frequentemente co-occorrono nella catena sintagmatica a formare delle sorte di “aggregazioni lessicali”, dato che queste
parole esprimono, insieme, un concetto saliente nella sua globalità e quindi hanno un significato unitario dal punto di
vista sia semantico sia sintattico. Si parla di … tra le parole che compongono una seguenza lessicale:
“vicinanza sintagmatica”o“coesione lessicale” vs “distanza sintagmatica”
Quando la distanza tra 2 o + parole che si trovano in sequenza è bassa, può aver luogo una lessicalizzazione, la quale va
intesa qui come una rianalisi funzionale che altera i confinidi parola interni a una sequenza e ripropone tale sequenza
come una parola singola.
❖ la lessicalizzazione così intesa ≻ porta alla creazione di una nuova parole che entra nel lessico di una lingua.
combinazioni di parole ≻ lessicalizzazione ≻ parola complessa
❖ il processo di lessicalizzazione ≻ è spesso associato alla perdita, da parte della sequenza di parole, della proprietà di
avere un significato calcolabile, tuttavia il fenomeno della lessicalizzazione coinvolge ad un 1° livello anche sequenze di
parole il cui significato conserva la proprietà di essere, almeno in parte, calcolabile. Si tratta di sequenze di parole che
esprimono, insieme, un concetto unitario e per questa ragione sono dotate di una certa coesione interna, tant’è che
appare inusiale separarne i membri.
❖ la lessicalizzazione ≻ quindi può, ma non deve, avere come esito una parola complessa il cui significato è o:
• significato NON composizionale;
• significato composizionale può costituire una fase avanzata del processo di lessicalizzazione, ma non è una
condizione indispensavile perché tale processo avvenga.
Inoltre, quando è raggiunga una fase avanzata di lessicalizzazione, gli elementi della sequenza tendono a unirsi anche
graficamente (“nontiscordardimé”).

//

248
LEZIONE 27: APPROFONDIMENTO sulla COMUNICAZIONE nella L2

La COMPETENZA COMUNICATIVA

L’acquisizione di una L2 non si ferma alla struttura della frase: dopo che gli apprendenti hanno acquisito i mezzi sintattici
per costruire delle frasi non devianti in L2, devono usare queste frasi per raggiungere specifici obiettivi comunicativi in
determinati contesti.
A partire dagli anni 60 del 900, la ricerca sull’apprendimento di una L2 ha iniziato a interessarsi alle pratiche
comunicative degli apprendenti, in particolare si è concentrata sull’analisi del discorso e della conversazione, e sulla
pragmatica linguistica. Si è visto che la concatenazione e l’uso delle frasi ≻ sono fenomeni strutturati che seguono in tutte
le lingue delle regole precise.
C h o m s k y (anni 60) ≻ parla di “ c o m p e t e n z a l i n g u i s t i c a ” = intesa come tutto ciò che un parlante
deve conoscere per produrre enunciati linguisticamente ben formati (egli parlava però di L1).
H y m e s (1972) ≻ parla di “ c o m p e t e n z a c o m u n i c a t i v a ” = competenza che permette al parlante di
usare, in modo appropriato e efficace, le produzioni linguistiche all’interno specifici contesti sociali.
Sono strettamente legate l’una all’altra: si devono produrre frasi grammaticali per poter comunicare in modo efficace.
Gli aspetti che caratterizzano la “competenza comunicativa” sono di 3 tipi:
i. atto linguistico azione compiuta attraverso il linguaggio.
Ogni volta che si parla si compie un’azione (ordine, promessa, scusa), la quale può essere compiuta in modi
diversi ≠ a seconda dell’interlocutore o della situazione in cui ci si trova.
Ad esempio, un ordine può essere espresso con l’imperativo o in altri modi ma il risultato sarà lo stesso.
ii. capacità di produrre sequenze di frasi appropriate capacità di produrre
frasi appropriate in un determinato momento.
Ad esempio, in “ciao, come ti chiami?” - “oggi piove”, le frasi sono ben formate ma lo scambio comunicativo non
funziona.
Le frasi ≻ assumono inoltre un significato diverso in base alla loro contestualizzazione (“Benny è troppo forte!”).
G u m p e r z (1982) ≻ tutti i segnali che accompagnano la frase (tono di voce, espressione del viso) = sono
chiamati “ i n d i z i d i c o n t e s t u a l i z z a z i o n e ” che ci aiutano a interpretare correttamente la frase, al
di là del suo significato letterale.
L’interpretazione ≻ è alla base dell’attribuzione di un significato a ogni enunciato e consente di fare delle
inferenze = cioè dei ragionamenti, anche inconsci, che permettono di capire quanto viene detto da un
interlocutore. Alla base delle inferenze c’è, ovviamente l’enunciato, ma anche tutti gli indizi di
contestualizzazione e le conoscenze generali che ognuno possiede.
iii. c o n o s c e n z a d e l m o n d o conoscenze generali, culturalmente determinate, che comprendono
anche il comportamento delle persone e che influiscono sull’interpretazione di un messaggio.

249
Le STRATEGIE COMUNICATIVE

Nell’interazione tra parlanti nativi / NON nativi ≻ vengono messe in atto delle strategie per migliorare la conversazione.
Le strategie ≻ sono di 2 tipi:
◦ quelle che riguardano la costruzione degli enunciati indipendentemente dal contesto;
◦ quelle che sono strettamente legate al contesto conversazionale.

strategie dei parlanti nativi sono di 2 tipi:

● foreigner talk varietà linguistica molto semplificata che ha caratteristiche in comune con i codici
semplici (uso “sgrammaticato” della lingua standard).

F e r g u s o n (1975) ≻ le caratteristiche del foreigner talk sono di 3 tipi:


✔ o m i s s i o n e di alcune “parole-funzione” (articoli, preposizioni, congiunzioni, copula) e alcuni elementi della
morfologia flessiva;
✔ e s p a n s i o n e di certi elementi della lingua (pronomi usati in maniera ridondante anche dove non è
necessario);
✔ s o s t i t u z i o n e e r i o r g a n i z z a z i o n e di forme linguistiche (uso di tutti i V all’infinito).
Queste tendenze alla semplificazione della lingua per aiutare gli stranieri sembrano essere universali !
La semplificazione non deve però portare necessariamente alla produzione di enunciati sgrammaticati.

L o n g (1996) ≻ nota che il foreigner talk ricorre soprattutto nelle parlate spontanee (MAI in classe), quando il NON
nativo ha una bassa competenza di L2 e uno status sociale + basso. Per questo il foreigner talk è stato associato a una
forma di discriminazione linguistica razzista e classista, ma non sempre è così, perché i parlanti nativi spesso cercano
solo di aiutare i non nativi nella comprensione semplificando la lingua fino a renderla sgrammaticata, ma senza volerli
offendere. Quindi il foreigner talk, anche se non è molto utile per l’apprendimento linguistico né per la comprensione,
non è sempre frutto di un atteggiamento − negativo verso l’interlocutore.
Quando non si verificano le condizioni precise suggerite da Long (1981), i parlanti nativi ≻ non usano con i NON nativi il
foreigner talk ma una versione semplificata, NON sgrammaticata, della loro lingua.

● s e mp li f i c a z i o ne strategia comunicativa che consiste nell’uso di una versione semplificata NON


sgrammaticata della lingua attuata dai parlanti nativi per farsi capire e rendere l’analisi della L2 + regolare e + esplicita
per gli apprendenti.
Spesso essa consiste in un uso ridondante di alcune caratteristiche della lingua, come la scelta di usare:
SN pieni al posto dei pronomi; forme non contratte; morfologia esplicita.

✔ a livello fonologico, la strategia della semplificazione ≻ consiste nel parlare + lentamente, con un maggior uso di
pause, evitando parole contratte;
✔ a livello morfo-sintattico, gli enunciati sono brevi, poco complessi, con poche subordinate e V al presente; le
domande sono “si/no”, NON aperte;
✔ a livello lessicale, le parole usate sono poche, spesso ripetute; poche espressioni idiomatiche, N e V ad alta
frequenza; uso di sinonimi e parafrasi.

250
strategie dei parlanti NON nativi sono volte a raggiungere l’obiettivo comunicativo
(trasmettere significati e esprimersi senza errori per non fare brutta figura con i nativi) pur avendo pochi mezzi
espressivi.

● parafrasi nel caso di mancanza di un termine specifico;

● strategia dell’elusione consiste nel non usare espressioni problematiche. L’elusione ≻ consiste in:
◦ r i d u z i o n e f o r m a l e ≻ si concretizza nell’evitare parole o forme morfologiche e sintattiche NON ancora
consolidate nell’interlingua, perseguendo tuttavia lo stesso = obiettivo comunicativo;
◦ riduzione f u n z i o n a l e ≻ si realizza con l’abbandono dell’obiettivo comunicativo, evitando gli
argomenti che richiedono forme linguistiche troppo complesse.

● strategia del conseguimento consiste nel mantenere l’obiettivo comunicativo originale da parte
degli apprendenti, anche se questo risulta essere problematico. In questo caso si può fare ricorso a 2 tecniche:
◦ c i r c o n l o c u z i o n e ≻ sostituzione di un’espressione mancante con parafrasi di vario tipo, che possono
essere anche delle vere e proprie descrizioni;
◦ u s o d i p a r o l e s e m a n t i c a m e n t e i m p a r e n t a t e ≻ con quella che si vuole dire, facendo anche
esempi e paragoni.

251
CONVERSAZIONI nella L2

Le conversazioni tra parlanti nativi / NON nativi ≻ gestiscono i turni di discorso in modo ≠diverso da quelli tra parlanti
nativi / nativi.
Il s i g n i f i c a t o di un’espressione deve essere negoziato, cioè deve essere di volta in volta stabilito perché una
conversazione possa andare avanti.
Per i parlanti nativi, il significato di una frase ≻ generalmente non crea grossi problemi.
Per i parlanti NON nativi, invece, ci sono continue formulazioni di ipotesi, che spesso richiedono una spiegazione per
poter essere confermate.
Il controllo della conversazione ≻ in genere è chiaramente del parlante nativo.

L o n g (1981) ≻ ha dimostrato che le conversazioni tra nativi / NON nativi contengono molte d o m a n d e :
• sono fondamentali per introdurre argomenti nuovi;
• hanno una marcata intonazione ascendente;
• contengono spesso particelle interrogative (“chi?”, “cosa?”);
• permettono al NON nativo di capire che è il suo turno di conversazione;
• sono un chiaro invito a partecipare alla conversazione;
• richiedono una risposta semplice (“si”/”no”), che serve a togliere un po’ di lavoro linguistico al NON nativo.
Per questo motivo, molte domande a risposta aperta vengono trasformate in domande “si”/“no”.
Nelle interazioni tra nativi / NON nativi, inoltre, si cambia continuamente argomento, spesso anche in modo brusco.
I NON nativi, infatti, non riescono in genere a tenere la conversazione sugli stessi argomenti se non li capiscono bene.
Essi restano sul vago o fraintendono del tutto, portando i loro interlocutori nativi ad assecondare bruschi salti. Tuttavia,
essi cercano di seguire il dialogo e di renderlo coerente usando strategie come la r i p e t i z i o n e :
◦ nelle 1e varietà di apprendimento ≻ i NON nativi spesso contribuiscono al dialogo ripetendo le parole
pronunciate dall’interlocutore e aggiungendo pochi elementi come “si” o “no”;
◦ nelle varietà successive ≻ la ripetizione rimane, ma viene inserita in costruzioni originali.

M i t t n e r (1984) ≻ parla di “ c o n f e r m a f à t i c a ” gli interlocutori nativi e NON nativi sanno che la loro
conversazione è a rischio di equivoci, quindi la ripetizione serve a far capire che si sta seguendo il filo del discorso.
J a k o b s o n (1960) ≻ parla di “ f u n z i o n e f à t i c a ” del linguaggio serve a far capire all’interlocutore che la
comunicazione è ancora in atto e funzionante.
Il s i g n i f i c a t o va costantemente negoziato, perché ci possono essere:
✗ incomprensioni l’interlocutore capisce che il significato NON è condiviso dall’altro e va negoziato;
✗ fraintendimenti l’interlocutore NON se ne accorge e va tranquillamente avanti nel discorso.

A s t o n (1993) ≻ afferma che spesso gli interlocutori, anche se non hanno capito qualcosa, scelgono di NON
interrompere la conversazione per chiedere spiegazioni, ma mantengono il senso di condivisione ossia l’idea che la
conversazione è chiara e sta andando avanti. Altre volte, invece, manifestano le difficoltà di comprensione.
Nelle conversazioni spontanee, la “negoziazione del significato” ≻ avviene solo in caso di incomprensioni e NON ogni
volta che l’interlocutore commette errori.
Nelle conversazioni tenute all’interno di una classe, il caso è diverso: il docente corregge per evitare fossilizzazioni.
La negoziazione del significato avviene in 2 modi, attraverso:
• verifiche della comprensione nel caso in cui un interlocutore NON sia sicuro di aver capito;
• richieste di chiarimento quando un parlante chiede all’altro delle spiegazioni.

252
Quando viene avviata la “negoziazione del significato” (che comunque è − minore nelle conversazioni spontanee) i NON
nativi provano a riformulare il messaggio perché risulti + chiaro: spesso non basta un solo tentativo, ma le spiegazioni
prendono diversi turni conversazionali.
Nelle conversazioni con i NON nativi, i nativi ≻ utilizzano diverse s t r a t e g i e per evitare che sorgano problemi di
comprensione: scelgono argomenti salienti;
parlano lentamente accentuando le parole importanti;
controllano la comprensione.
Nelle conversazioni con i NON nativi, i nativi ≻ usano delle t a t t i c h e per tentare di porre rimedio a problemi già
sorti: accettano i bruschi cambiamenti di argomento involontari;
chiedono chiarimenti;
tollerano l’ambiguità;
ripetono le frasi.

253
DIFFERENZE CULTURALI

La “competenza comunicativa” ≻ varia da cultura a cultura, pertanto non basta conoscere le regole grammaticali utili a
formulare frasi corrette nella L2, ma bisogna anche saperle utilizzare nei vari contesti.
In particolare esistono 2 campi di studio:
• pragmatica transculturale studia, in modo comparativo, il modo in cui l’uso della lingua
varia da cultura a cultura a seconda del contesto;
• pragmatica interculturale studia il modo in cui persone di culture ≠ diverse interagiscono
tra loro.

Sul confronto transculturale sono stati fatti diversi studi:


B l u m – K u l k a e H o u s e (1989) ≻ portarono avanti un esperimento per vedere come l’attuazione di una
richiesta variasse tra le culture. Analizzarono soggetti australiani, tedeschi, francesi, argentini e israeliani e videro che:
◦ argentini e israeliani usavano principalmente r i c h i e s t e d i r e t t e , spesso veri e propri imperativi (“lava
i piatti, per favore”);
◦ australiani e tedeschi usavano principalmente r i c h i e s t e i n d i r e t t e (forme pragmaticamente +
attenuate come “per favore, potresti lavare i piatti?”).
Lo stile comunicativo dei giapponesi ≻ è ancora meno − diretto, tanto che raramente si richiedono le cose direttamente,
soprattutto tra persone di status ≠ diverso, né si usano dei rifiuti espliciti come “no”, “non voglio” !
C l a n c y (1986) ≻ osservò come le madri giapponesi educhino i loro figli fin da piccoli a usare le forme indirette di
richiesta e di rifiuto. I bambini già a 2 anni capiscono che una domanda del tipo “è rimasto del dolce?” significa in realtà
“dammi il dolce”.

Le differenze transculturali ≻ riguardano anche i turni all’interno di una interazione.


Verso la fine degli anni 80 del 900 un progetto di ricerca effettuato tra Italia e Inghilterra ≻ ha osservato il modo in cui i
diversi parlanti gestivano i turni di conversazione all’interno di una libreria.
I risultati ≻ hanno mostrato che nonostante gli atti linguistici usati da italiani e inglesi (chiedere, rispondere, ringraziare)
fossero più o meno gli = stessi, vi erano “variazioni transculturali sistematiche” nelle sequenze di interazione =
nell’ordine cioè in cui gli atti linguistici sono prodotti in una conversazione (Zorzi Calò, 1990).
I risultati ≻ hanno mostrato che la velocità con cui i turni si susseguono è una differenza transculturale rilevante.
Ad esempio, i finlandesi all’interno dei turni conversazionali fanno lunghe pause anche di 1 secondo e ½, che non sono
viste come imbarazzanti, invece nei Caraibi (ad Antigua) si considera normale una continua sovrapposizione dei parlanti,
che addirittura urlano.
Ad esempio, i parlanti californiani e inglesi rispettano i turni di conversazione, invece i parlanti newyorkesi tendono a
sovrastare il turno dell’interlocutore, parlando sulle ultime sillabe del suo ultimo enunicato (“effetto mitragliatrice”),
Quando persone di lingue e culture ≠ differenti si trovano a interagire, quindi, si possono facilmente verificare problemi.
Gli “incontri interculturali” ≻ portano a forme di t r a n s f e r p r a g m a t i c o secondo cui alcune abitudini
della propria L1 vengono trasferite inconsciamente alla L2, anche se risultano inappropriate.

T h o m a s (1983) ≻ parla di transfer sociopragmatico e transfer pragmalinguistico:


➔ transfer sociopragmatico riguarda il modo in cui il contesto extralinguistico viene
percepito ed interpretato, ad esempio se una determinata situazione è + o − formale.
➔ transfer pragmalinguistico riguarda la conservazione di mezzi linguistici usati per
costruire i rapporti sociali, come le formule di cortesia (ad esempio, i giapponesi dicono “mi dispiace” per
ringraziare [giap. “sumimasen” = mi dispiace]).

254
Le differenze nell’organizzazione del discorso e negli stili comunicativi portano a fraintendimenti e spesso anche alla
formazione di stereotipi negativi.
L’interferenza pragmatica tra L1 / L2 può essere anche + positiva.
Ad esempio, la tendenza degli italiani a mitigare le richieste usando i condizionali al posto degli imperativi diretti può
essere facilmente trasferita in inglese. Si è quindi ipotizzata l’esistenza di “universali pragmatici”:
i. in tutte le lingue esistono probabilmente m o d i per realizzare gli stessi = atti linguistici in modo ≠ diverso;
ii. determinate f o r m e sono utilizzate universalmente in specifiche situazioni;
iii. esistono ovunque f o r m u l e f i s s e per realizzare specifiche azioni pragmatiche;
iv. le 4 m a c r o c a t e g o r i e di atti linguistici sono universali (presenti in tutte le lingue):
◦ a t t i r a p p r e s e n t a t i v i (descrizioni, asserzioni);
◦ a t t i d i r e t t i v i (richieste, comandi);
◦ a t t i c o m m i s s i v i (promesse, offerte);
◦ a t t i e s p r e s s i v i (scuse, auguri);
◦ atti dichiarativi.
NON sono però realizzati in tutte le lingue allo = stesso modo.
A livello pragmatico, il linguaggio ha molto a che fare con la personalità del parlante.
Il modello di un apprendente, anche avanzato, NON sarebbe dunque il parlante nativo (che sarebbe peraltro
irraggiungibile), ma il parlante bilingue !

255
LEZIONE 28: APPROFONDIMENTO sull’IMPORTANZA dell’INPUT

− input è tutto il materiale linguistico di una L2, sia scritto sia orale, a cui è esposto l’apprendente durante
l’acquisizione di una L2.

IMPORTANZA dell’INPUT per la COMPRENSIONE

− input c o m p r e n s i b i l e ≻ è di fondamentale importanza per l’acquisizione di una L2, ma non basta


comprenderlo, è necessario saperlo utilizzare e farlo diventare intake producendo un output corretto.
La semplificazione dell’input per favorire la comprensione ≻ parte già dai parlanti nativi che nelle conversazioni con i
parlanti NON nativi utilizzano il foreigner talk o altre semplificazioni a tutti i livelli linguistici.
Alcuni studiosi ≻ hanno cercato di capire quanto queste s e m p l i f i c a z i o n i siano effettivamente utili per migliorare
la comprensione di un messaggio. Tutti hanno confermato che favoriscono realmente la comprensione agli interlocutori:
uso di costruzioni + semplici; uso di parole comuni; rallentamenti; ripetizioni.
C o n r a d (1989), G r i f f i t h s (1990) e Z h a o (1997) ≻ hanno dimostrato che la v e l o c i t à d i e s p r e s s i o n e
influisce sulla comprensione dell’input: + velocità comprensione + difficoltosa.
Si è anche visto, però, che un rallentamento eccessivo dell’eloquio NON porta a miglioramenti significativi per gli
studenti di livello medio o avanzato.
Inoltre, l’inserimento di p a u s e tra le parole NON sempre è utile per la comprensione:
• pause tra i vari costituenti ≻ pause utili;
• pause all’interno del costituente ≻ pause inutili e rendono la comprensione + difficoltosa.
Altri studi si sono poi interessati dell’influenza di altre m o d i f i c h e d e l l ’ i n p u t sulla comprensione:
uso di ripetizioni; sinonimi; parafrasi; costrutti con ordine “marcato” degli elementi.
I risultati ≻ hanno mostrato che tutte le succitate modifiche dell’input favoriscono la comprensione + delle
semplificazioni sintattiche e lessicali di tipo riduttivo (Parker e Chaudron, 1987).
Ovviamente queste modifiche devono dare informazioni utili, perché quelle poco importanti rischiano di far confondere i
parlanti NON nativi. Esse devono, quindi, ripetere o spiegare informazioni importanti o dare + regolarità a
un’espressione, senza aggiungere dettagli di poco conto.

256
IMPORTANZA dell’INPUT per l’ACQUISIZIONE

In base alle ultime ricerche, si assiste oggi a un cambiamento di prospettiva sul ruolo dell’input per l’acquisizione
linguistica.
◦ comportamentismo l’input = unico fattore che rende possibile l’apprendimento.
L’apprendente si limita ad ascoltarlo e a costruire delle “abitudini” attraverso continue ripetizioni;
◦ cognitivismo si è interessato soltanto ai fattori interni all’apprendente, soprattutto nelle sue prime fasi, svalutando di
conseguenza il ruolo dell’input;
◦ oggi si prova a mediare tra le 2 posizioni, cercando di capire come interagiscono:
caratteristiche dell’apprendente input esterno.
Un assunto su cui si basa la L A ≻ è che + l’input è abbondante, + sarà veloce l’acquisizione di una L2.
Ad esempio, all’interno di una classe di lingue, gli studenti si suddividono in 2 categorie:
+ attivi sfruttano tutto l’input che hanno a disposizione e cercano continui contatti con la L2 anche fuori dai corsi di
lingua;
+ passivi restano più chiusi in se stessi e non cercano contatto con l’input.
S e l i g e r (1977) ≻ sostiene che gli studenti + attivi raggiungono i risultati migliori.

K r a s h e n (1994) ≻ sosteneva che esiste una “ s o g l i a d i e s p o s i z i o n e a l l ’ i n p u t ” oltre la quale gli


apprendenti NON ottengono + benefici significativi.
Le ricerche non hanno ancora potuto verificare questo assunto, però è certo che oltre alla quantità di input è importante
la motivazione dell’apprendente, il grado di integrazione all’interno della comunità ecc
In ogni caso, la quantità di input a cui un apprendente è esposto ≻ incide notevolmente sul processo di acquisizione
linguistica. quantità di input ≻ acquisizione
I programmi di educazione bilingue tenuti negli USA ≻ hanno dimostrato che l’esposizione a troppo input può essere
persino svantaggiosa per l’apprendente !!
I bambini che partecipavano a questi programmi appartenevano a minoranze linguistiche e seguivano le lezioni parte in
L1 e parte in L2. Si è riscontrato che questi bambini, pur se sottoposti a meno − input rispetto ai bambini delle classi
monolingui L2, avevano risultati + migliori a livello di competenza linguistica.

C u m m i n s (1989) ≻ spiega questo fenomeno parlando di “ c o m p e t e n z a b i l i n g u e u n i f i c a t a ” .


L’idea di base è che i bambini nell’apprendimento linguistico sviluppano varie abilità (sia nell’uso di lessico e sintassi sia
nell’utilizzo di numerose strategie cognitive), le quali si possono trasferire da una lingua all’altra.
Di conseguenza, lo sviluppo linguistico-cognitivo nei bambini dei corsi bilingui ≻ è andato avanti nella L1 anche durante
l’apprendimento della L2.
Inoltre, visto che lo sviluppo delle abilità è trasferibile alla L2, essi usano la L2 meglio dei bambini dei corsi monolingui.
In questi ultimi, al contrario, lo sviluppo linguistico-cognitivo si è bloccato finché essi non hanno raggiunto un livello di
L2 che permettesse loro di implementarlo.
Quindi la troppa quantità di input può portare nei bambini a un rallentamento dello sviluppo linguistico-cognitivo.

Negli adulti, che hanno ormai completato lo sviluppo linguistico cognitivo, il troppo input può risultare una fonte di
stress, rivelandosi potenzialmente inutile.
L’input influisce molto sull’acquisizione del lessico: si pensa che le parole + udite da un apprendente saranno le 1 e ad
essere acquisite.

257
A n d e r s e n (anni 90) ≻ formula l’ipotesi della “ d i s t r i b u z i o n e d i s t o r t a ” riferita a quando,
nell’input cui sono esposti gli apprendenti, il [ significato intrinseco del V ] è legato a sua [ coniugazione prototipica ].
Tale associazione ≻ porterebbe gli apprendenti a generalizzazioni devianti, inizialmente essi userebbero i:
• V puntuali in forme esclusivamente p e r f e t t i v e ;
Ad esempio, “rompere” (telico) sarebbe usato in forme di passato con valore azionale perfettivo come “rotto”.
• V durativi in forme esclusivamente i m p e r f e t t i v e ;
Ad esempio, “essere” sarebbe usato in forme con valore imperfettivo come “era”.
A livello avanzato, invece, l’apprendente NON è + vincolato alle forme prototipiche del V e lo usa per indicare “aspetti”
diversi (V telico all’imperfetto “rompeva”).
Inoltre, se è vero che gli apprendenti usano maggiormente le forme + frequenti nell’input, è anche vero che “scelgono” di
evitarne alcune nel loro output.
Ad esempio, gli articoli in it. sono molto diffusi nell’input, ma poco usati dagli apprendenti nelle 1e fasi a causa della loro
scarsa salienza fonica e scarsa salienza semantica.
Quindi l’apprendente non si limita a riprodurre ciò che sente, ma prova a costruire la sua interlingua secondo una logica
precisa, per cui ad esempio gli articoli possono essere considerati ridondanti.
Allo stesso modo, l’ [ associazione di un V ] una [ forma aspettuale prototipica ] ≻ è collegato al p r i n c i p i o
“ 1 f o r m a 1 f u n z i o n e ” , secondo cui si tende a usare 1 sola forma per codificare 1 stesso = significato.
Tutti gli studi dimostrano comunque che l’input ≻ ha un ruolo decisivo per l’acquisizione linguistica, ma non basta
ascoltarlo, in quanto soltanto l’input comprensibile può diventare intake. L’idea di input comprensibile, però, è vaga.
K r a s h e n (1985) ≻ definisce l’input comprensibile = come il linguaggio che è a un livello di difficoltà subito
successivo rispetto al livello di competenza raggiunto dall’apprendente ed è l’unica variabile che causa l’acquisizione.
La definizione di Krashen riprende quella di:
V y g o t s k y (1984) ≻ “zona di sviluppo prossimale” = cioè la distanza tra il livello di sviluppo attuale e il livello di
sviluppo potenziale, che può essere raggiunto con l’aiuto di altre persone, che siano adulti o dei pari con un livello di
competenza maggiore.
Secondo molti ricercatori, l’input comprensibile è necessario ma NON sufficiente perché ci sia acquisizione.
S w a i n (1985) ≻ sostiene che si impara parlando quindi si deve produrre un output comprensibile.
L’input comprensibile ≻ è fondamentale per l’apprendimento, ma NON basta a garantire che l’output degli apprendenti
sia simile a quello dei nativi.
Alcuni studi ≻ hanno dimostrato che troppo input comprensibile può NON avere conseguenze dirette
sull’apprendimento, che sarà invece favorito da spiegazioni esplicite sugli errori.
Inoltre, un input troppo comprensibile ≻ può ostacolare la ristrutturazione dell’interlingua. Infatti, grazie alla
conoscenza del lessico e del contesto si può comprendere un messaggio lasciando fuori morfologia e sintassi, che vengono
messe da parte e spesso non acquisite.
L’input ha inoltre caratteristiche non facili da delineare.
Ad esempio, gli apprendenti di italiano L2 ≻ ricevono input in lingua italiana, ma questa non ha dei confini ben precisi.
In Italia, infatti, si parlano anche i dialetti = vere e proprie lingue neolatine, che spesso costituiscono un input
quantitativamente pari = all’italiano standard. I confini tra italiano / dialetti è sfumato, tanto che spesso non si capisce
dove finisce l’uno e inizia l’altro.
Le lingue = sono astrazioni: ciò che si parla realmente sono “varietà di lingua”.
Uno stesso parlante, poi, userà diverse ≠ “varietà di lingua” a seconda di:
✗ c o n t e s t o (+ o − formale) in cui si trova ;
✗ p e r s o n e (di pari status o no) che ha davanti ;
✗ m e z z o d i c o m u n i c a z i o n e (orale o scritto).
Questa distinzione vale per tutte le lingue (De Mauro, 1980).

258
Gli apprendenti scelgono i modelli di lingua che vogliono imitare (Beebe, 1985).

K r a s h e n, D u l a y e B u r t (1982) ≻ hanno studiato i criteri di scelta:


i. la lingua dei pari viene preferita rispetto a quella degli insegnanti;
ii. la lingua dei pari preferita rispetto a quella dei genitori;
iii. la lingua del proprio gruppo sociale preferita rispetto a quella degli altri.
Queste scelte sono “NON marcate”, ma vi sono eccezioni dovute a fattori interni dell’individuo (Beebe).
Alcune caratteristiche dell’interlingua NON sono dovute al suo essere un sistema provvisorio, ma si spiegano grazie alla
loro presenza nell’input dei parlanti nativi (Vedovelli, 1994).
Ad esempio, lo scarso uso del passivo, la presenza di frasi scisse e brevi, lo scarso utilizzo del congiuntivo, nonché una
netta prevalenza della coordinazione, si ritrovano anche nelle conversazioni tra parlanti nativi.
L’input in prospettiva sociolinguistica ≻ è strettamente legato alle “varietà linguistiche”, perciò l’acquisizione di una L2
nelle fasi avanzate NON va più considerata un percorso lineare di costruzione di un sistema unico, ma piuttosto un
progressivo allargarsi dello spazio linguistico, che porterà l’apprendente a padroneggiare sempre + le diverse varietà.

259
L’INPUT nelle INTERAZIONI CONVERSAZIONALI

interazioni conversazionali [nativi / NON nativi]


La maggior parte degli studiosi ≻ ritiene che le conversazioni favoriscano l’acquisizione linguistica e lo sviluppo delle
strutture sintattiche. Gli apprendenti sentono fin da subito il bisogno di comunicare e lo fanno con tutti i mezzi a loro
disposizione, la grammatica si sviluppa successivamente a partire dalle interazioni man mano che queste diventano +
strutturate.
Esperimenti fatti su diversi apprendenti ≻ hanno dimostrato che l’input nelle conversazioni è + ridondante e +
comprensibile di quello semplificato in modo unilaterale (ad esempio un professore in una classe).
❖ le interazioni conversazionali ≻ portano a risultati + migliori nell’acquisizione rispetto a un ascolto passivo, soprattutto
nelle 1e fasi di apprendimento, l’input con le opportune modifiche è infatti tagliato su misura sull’apprendente.
A livelli più avanzati, l’input è efficace sia per chi partecipa alla conversazione sia per chi vi assiste.
❖ le interazioni conversazionali ≻ aiutano la comprensione e, al contrario delle semplificazioni unilaterali, hanno effetti
+ positivi a lungo termine su: acquisizione di strutture linguistiche; capacità di produzione.
❖ le interazioni conversazionali ≻ danno ai parlanti NON nativi la possibilità di verificare le proprie ipotesi su una
determinata struttura ricevendo dei feedback.
I dati negativi ( n e g a t i v e e v i d e n c e ) ≻ servono all’apprendente per notare le differenze ≠ tra le:
proprie produzioni vs produzioni del parlante nativo.
Questo confronto cognitivo ≻ porta l’apprendente a concentrarsi sulla forma ( f o c u s o n f o r m ) .
Provando a negoziare il significato in caso di incomprensione, gli apprendenti cercano di produrre forme sempre +
corrette.
Nelle interlingue sono generalmente presenti + forme che servono ad esprimere 1 stesso = significato, in una
conversazione l’apprendente seleziona 1 delle ipotesi che ha creato e la utilizza. Se il suo interlocutore non capisce
qualcosa, prova a usare una forma alternativa, che spesso è + vicina alla Lt.
Nelle interazioni conversazionali ≻ il parlante NON nativo è concentrato sia sul:
significato ; forma linguistica .

interazioni conversazionali [NON nativi / NON nativi]


Nelle interazioni conversazionali tra parlanti NON nativi ≻ entrambi gli interlocutori sono concentrato sia sul:
significato ; forma linguistica .
Per questo motivo risultano utili in classe tutte le pratiche didattiche che richiedono una interazione tra gli studenti
(conversazioni a 2 o lavori di gruppo). Anche se conversando fanno errori, nella negoziazione del significato per risolvere
problemi comunicativi, gli apprendenti produrranno forme sempre + vicine a quelle della LT.
❖ le interazioni conversazionali tra NON nativi ≻ risultano spesso + utili rispetto a quelle con i parlanti nativi, poiché il
parlante nativo può dare delle soluzioni a un problema linguistico a cui l’apprendente può rispondere soltanto con un
segno d’assenso o di diniego.
❖ nelle conversazioni tra parlanti NON nativi ≻ gli interlocutori devono fare uno sforzo autonomo per rendere
comprensibili le proprie produzioni linguistiche.

In entrambi i tipi di conversazione c’è un f o c u s o n f o r m :


✔ interazioni conversazionali [nativi / NON nativi] l’attenzione degli apprendenti è
rivolta all’ i n p u t c o r r e t t o che ricevono e a come questo si differenzi dalle proprie produzioni linguistiche;
✔ interazioni conversazionali [NON nativi / NON nativi] l’attenzione degli
apprendenti è sul proprio o u t p u t (forma), altrettanto importante ai fini di una ristrutturazione
dell’interlingua.

260
Secondo alcuni studiosi, le interazioni conversazionali ≻ hanno un ruolo importante anche nello sviluppo delle strutture
sintattiche, infatti, grazie ad esse gli apprendenti riescono superare il livello già raggiunto.

V y g o t s k y ≻ sostiene che grazie a un interlocutore esperto, l’apprendente riesce a produrre una determinata
struttura linguistica che da solo non riuscirebbe a produrre, purché questa si trovi nella “zona di sviluppo prossimale”.
Di conseguenza, assieme agli interlocutori esperti, gli apprendenti riusciranno a produrre in modo autonomo frasi
sempre + complesse.
❖ le interazioni conversazionali ≻ aiutano gradualmente la costruzione della sintassi di L2.

INTERAZIONI MACRO–SOCIALI

❖ interazioni micro-sociali = interazioni tra pochi apprendenti che contribuiscono alla strutturazione dell’interlingua;
❖ interazioni macro-sociali = interazioni tra gruppi di persone.
Alcuni studiosi ≻ hanno tentato di spiegare il legame tra: rapporti sociali acquisizione attraverso alcuni modelli:
1. m o d e l l o d e l l ’ a c c u l t u r a z i o n e d i S c h u m a n n (1986) ha evidenziato come la:
“distanza sociale” tra apprendente vs società L2 ≻ ha effetti sull’apprendimento.
La “distanza sociale” è costituita da diversi fattori (dominanza sociale, integrazione, chiusura, coesione).
2. modello multidimensionale del progetto ZISA basato su 2 dimensioni:
◦ dimensione evolutiva determinata da fattori cognitivi universali;
◦ dimensione variabile determinata da fattori socio-psicologici (atteggiamento verso la comunità
di parlanti L2).
+ apprendenti con un atteggiamento + positivo ≻ + portati al rispetto delle regole della L2;
− apprendenti con un atteggiamento + chiuso ≻ + portati alle semplificazioni (eliminazione “parole-funzione”).
3. glotto–kit per stranieri di Vedovelli per cui l’apprendimento linguistico include:
◦ dimensione linguistica;
◦ dimenzione sociolinguistica.
Le caratteristiche personali e sociali dell’apprendente ≻ contribuiscono al successo nell’apprendimento.
Vedovelli (1993) ≻ valuta anche la possibilità che le varietà di apprendimento possano diventare lingue pidgin,
ma occorre che la comunità sia: numerosa; coesa internamente; isolata dalle altre.
Nei paesi europei, i figli di immigrati ≻ imparano però sempre la L2 ma comunque esistono anche varietà
pidginizzate, parlate dalla prima generazione di immigrati.

261
LEZIONE 30: APPROFONDIMENTO su alcune PROBLEMATICHE dei CORSI di LINGUA

La PROGRAMMAZIONE DIDATTICA

Molti studiosi ≻ sostengono che la “programmazione didattica preliminare” del corso attraverso un sillabo vada evitata
perché può risultare addirittura dannosa per l’apprendimento. L’idea di fondo è che il programma vada costantemente
negoziato tra docenti / studenti, ne consegue che un eventuale sillabo può essere creato soltanto sulle attività già
effettuate in classe.
Il presupposto di base ≻ è che lo studente debba essere autonomo e attivo, e che la didattica NON possa essere guidata
esclusivamente dal docente !
La programmazione del corso = è un obbligo ministeriale ormai, per cui il docente si trova a dover organizzare il proprio
lavoro prima di essere entrato in contatto con i suoi studenti, deve quindi fare delle scelte didattiche a prescindere dagli
studenti che poi seguiranno le sue lezioni: le caratteristiche dei singoli studenti NON sono pertanto prese in
considerazione. Ovviamente, tutto questo comporta non pochi problemi.
L’idea di un sillabo incorporato nell’apprendente, che gli permette di apprendere una lingua passando attraverso vari
stati intermedi dell’interlingua sembra in contrasto con il programma didattico predefinito.
K r a s h e n (1994) ≻ afferma che, per essere utile per l’apprendimento, l’input deve essere comprensibile ed essere al
livello immediatamente successivo a quello della competenza raggiunta dagli apprendenti (“ZSP” di Vygotskij).
Krashen ≻ sostiene però che il docente NON può decidere a priori quali strutture linguistiche proporre agli studenti: la
scelta sarà guidata dalle interazioni in classe.
L o n g e C r o o k e s (1992) ≻ sostengono che l’unico obiettivo dell’insegnante è riuscire a far svolgere agli
apprendenti i compiti assegnati con i mezzi già in loro possesso: l’utilizzo delle loro interlingue li aiuterà a progredire e a
avvicinarsi alla LT. Un certo grado di attenzione andrà rivolto alla forma (focus on form), e le strutture da proporre agli
studenti devono essere scelte di volta in volta.
Il gruppo ZISA ≻ parla di 2 tipi di strutture linguistiche:
◦ quelle che devono essere acquisite da tutti gli apprendenti in o r d i n e f i s s o ;
◦ quelle che sono acquisite in o r d i n e v a r i a b i l e , in base alle caratteristiche dei singoli apprendenti.
P i e n e m a n n (1989) ≻ sostiene che l’ “ordine naturale di acquisizione” NON può essere modificato con
l’insegnamento, il quale esso può comunque accelerare il passaggio da una fase all’altra all’interno della sequenza e
favorire l’acquisizione delle strutture variabili.
Pienemann ≻ sostiene che per riuscire a facilitare e accelerare l’acquisizione, il docente deve poter insegnare le strutture
giuste al momento giusto. Il problema sta oerò nell’identificarle e isolarle dall’input.
Ad esempio, se l’accordo in it. non è processabile nelle 1issime fasi di apprendimento, il docente non può certo evitare di
usarlo nell’input che dà agli studenti. D’altra parte, forme sistematicamente devianti prodotte dagli studenti NON
possono essere trascurate dal docente, che istintivamente tenderà a correggerle.
N u n a n (1994) ≻ sostiene che si devono insegnare anche le strutture inaccessibili rispetto alla fase della sequenza di
acquisizione raggiunta dagli studenti. In questo caso, il docente ≻ si dovrà accontentare di “formule fisse non analizzate”,
che potranno poi essere analizzate successivamente.
Ci possono però essere delle conseguenze − negative nell’insegnamento “prematuro” di strutture linguistiche.
Se uno studente è a un livello di interlingua ancora basso, per cui viola costantemente determinate strutture di L2, un
insegnamento che glielo faccia notare può indurlo all’uso di strategie d’elusione: egli eviterà quindi tutte le strutture in
cui sa di sbagliare perché non ha le competenze per porre rimedio agli errori.
Tener conto dell’ “ordine naturale di acquisizione” non è quindi semplice nel caso di apprendimento guidato, anche se le
principali ricerche degli ultimi anni si sono rivolte a questo ambito.

262
Di fatto, naturale e guidato, l’apprendimento non è una semplice risposta passiva a un input, è piuttosto una
rielaborazione dell’input fatta dall’apprendente, attraverso la quale egli creerà strutture sistematiche, anche se devianti
da quelle della LT.
Inoltre, essendo le interlingue in continua evoluzione, le singole strutture NON vengono acquisite istantaneamente e
isolatamente dalle altre. Per ragioni di praticità, il docente potrà presentare le strutture 1 alla volta, ma è necessario che
periodicamente le stesse strutture vengano riprese per rinfrescare la memoria agli studenti.
Una stessa struttura può avere ruoli ≠ diversi nei diversi stadi dell’interlingua.
Il docente ≻ deve sapere che è irrealistico aspettarsi l’acquisizione automatica di una certa regola in un dato livello
dell’interlingua, di conseguenza egli dovrà ricalibrare le sue aspettative, ciò avrà dei risvolti sulla programmazione delle
attività, sugli errori e sulla valutazione.
Il docente ≻ può cercare di aiutare i suoi studenti, ma non ne può controllare l’apprendimento.

L’USO della L1 nei CORSI di LINGUA STRANIERA

La maggior parte dei metodi di insegnamento prodotti nel 20° secolo hanno cercato di evitare l’uso della L1 degli studenti
nei corsi di lingua, tutti hanno insistito sul fatto che − meno si usa la L1 in classe, + migliore sarà l’insegnamento.
Negli ultimi anni, l’uso della L1 ≻ è stata rigettata in modo esplicito, molti docenti pensano infatti che sia + utile per gli
studenti che essi insegnino direttamente ed esclusivamente nella LT e molti libri di testo scelti dai docenti riflettono
questo modo di pensare. Le motivazioni sono le seguenti:
− la lingua del docente = è il modello primario per gli studenti per un reale uso legato alla comunicazione: ascoltare le
indicazioni del docente in una Lx ≠ LT priverebbe gli studenti di una genuina interazione nella lingua oggetto di studio;
− gli studenti nelle classi di lingua provengono da paesi diversi al giorno d’oggi, e hanno quindi varie L: il docente non
può certo conoscerle tutte, né può tenerle tutte in considerazione.
C o o k (2012) ≻ ritiene che entrambe le motivazioni NON giustificano l’uso esclusivo della LT in classe: infatti usando
solo la LT, gli studenti agirebbero come semplici imitatori della lingua dell’insegnante e non diventerebbero reali utenti
della nuova lingua.
Cook ≻ sostiene che la reale motivazione dell’evitare la L1 in classe è nel cercare in qualche modo di separare la L1 dalla
L2 nella mente degli apprendenti: ciò chiaramente non è possibile, perché entrambe le lingue risiedono nella mente
umana.
In ogni caso, diversi studi ≻ dimostrano che se i docenti decidono di usare la L1, lo fanno sempre per gli stessi motivi:
✔ dare istruzioni sulle attività da svolgere per renderle più chiare;
✔ controllare la comprensione degli studenti, con formule come “hai capito?”;
✔ dare dei feedback agli studenti;
✔ mantenere la disciplina;
✔ spiegano in modo esplicito la grammatica;
✔ discutere obiettivi da raggiungere;
✔ correggere i compiti scritti.

263
La CORREZIONE degli ERRORI

Gli ultimi studi sulla Second Language Acquisition ≻ hanno ormai mostrato che gli errori fatti dagli apprendenti NON
vanno considerati in modo − negativo, si tratta di = una finestra sulla loro interlingua in quel determinato momento.
Il sistema dell’interlingua ≻ è in continua evoluzione secondo delle sequenze naturali che NON sono modificabili e il
passaggio da un livello all’altro è graduale. Spesso 2 forme alternative coesistono nell’interlingua anche per periodi
abbastanza lunghi. Gli errori dunque, specie nel parlato, NON possono essere evitati nelle 1e fasi.
Quando si accorge che uno studente ha un problema di comprensione o produce una sequenza formale inappropriata
quindi deviante dalla LT, il docente glielo può fare notare in diversi modi. L’opportunità e la modalità di correzione degli
errori sono da tempo argomento di dibattito tra i docenti.
Molti docenti ≻ si oppongono alla correzione per 2 motivi:
− la correzione può generare ansia e frustrazione, le quali possono bloccare l’apprendimento;
− la correzione è generalmente incentrata sulla forma linguistica, per cui l’attenzione dello studente è distolta dalla
funzione comunicativa della lingua.
La conseguenza ≻ può essere un calo di motivazione e poca spontaneità.
Molti docenti ≻ sostengono che gli errori vanno corretti, come dichiarato da varie teorie sull’apprendimento linguistico:
✗ teorie comportamentistiche vedevano gli errori come “abitudini” − negative che andavano eliminate
attraverso esercizi strutturati e correzioni.
✗ psicologia cognitiva vede l’apprendente come un S attivo che costruisce ipotesi, e perché ci sia
apprendimento, tali ipotesi vanno senz’altro corrette ove risultino erronee.
Le correzioni servono quindi ad aggiustare le ipotesi sì da evitare di sbagliare ancora.
Inoltre, certi apprendenti adulti desiderano essere corretti e spesso diventano ansiosi se il docente non dà loro un
feedback.
K r a s h e n ≻ sostenitore della “NON correzione” degli errori, ha dimostrato che gli studenti che venivano corretti
NON avevano risultati migliori degli altri, d’altro canto, però, nessuno studio ha ancora dimostrato che la correzione degli
errori porta a risultati − peggiori.
C a r r o l l e S w a i n ≻ hanno dimostrato che ricevere dei feedback, + positivi o − negativi, migliora le prestazioni
linguistiche degli apprendenti.
T o m a s e l l o e H e r r o n (1989) ≻ hanno mostrato che indurre gli apprendenti in errore e poi correggerli dà
risultati + migliori che spiegare prima le regole per evitare che gli studenti sbaglino.
Numerose ricerche ≻ hanno quindi palesato che la “NON correzione” degli errori porta a risultati −peggiori o, al limite,
uguali = rispetto alla correzione !
Partendo dalle sequenze di apprendimento, si può dire che la correzione è + efficace quando l’apprendente è al livello
giusto di interlingua per poterle capire: correzioni fatte al momento sbagliato (quindi troppo presto) possono essere
inefficaci o addirittura dannose.
Anche se l’attività in classe è incentrata sulla comunicazione, porre l’attenzione degli studenti sulle forme usate per
comunicare è senza dubbio utile: le correzioni servono proprio a indirizzare l’attenzione degli apprendenti anche sulla
forma.

264
L’INSEGNAMENTO della GRAMMATICA

Il “metodo grammatico−traduttivo”, ancora oggi usato soprattutto per le lingue classiche ≻ si concentra sulla spiegazione
delle regole e, in un secondo momento, sul loro uso nelle traduzioni.
I “metodi diretti” (anni 30-40 del 900) e il comportamentismo promuovono l’uso della L2 e bandiscono la riflessione
grammaticale.
Negli anni 60, con i “metodi cognitivi” ≻ la grammatica rientra nelle classi sotto forma di problem solving e NON vere e
proprie ore dedicate alla grammatica.
Negli anni 70, gli “approcci comunicativi” ≻ si concentrano sulla comunicazione reale e prestano scarsa attenzione alla
grammatica, cercando di far sviluppare negli apprendenti una “competenza comunicativa”. Ultimamente, gli “approcci
comunicativi” sono stati ridimensionati, soprattutto nel loro interesse esclusivo alla comunicazione.
Oggi nessun insegnante o libro di testo segue le indicazioni teoriche in modo esclusivo, ma rivolgono l’interesse un po’
alla grammatica e un po’ alla comunicazione.
L’attenzione degli studenti sulla forma linguistica può essere attirata in molti modi, senza necessariamente spiegare la
grammatica in modo esplicito.
Ad esempio, nel parlato si possono accentare i morfemi con un cambio di intonazione: “IN THE town WHERE I WAS
born lived A man WHO sailed TO sea”.
W h i t e (1998) ≻ attirava l’attenzione degli studenti sui pronomi scrivendoli in corsivo o in grassetto.
Altre pratiche didattiche si incentrano inoltre sull’uso, sulla manipolazione e sulla ripetizione di una data struttura: tutti
questi metodi di “arricchimento” dell’input servono a portare gli studenti a notare una data struttura per facilitarne
l’acquisizione.
Il pensiero generalizzato è che il focus on form, realizzato attraverso varie attività pratiche in aula, è + utile di una
spiegazione grammaticale a tutti gli effetti, inoltre il docente dovrà solo pensare a come evidenziare determinate strutture
e potrà usare le discussioni sulla grammatica solo come supporto alle attività didattiche.
In questo caso, quindi, le spiegazioni metalinguistiche NON devono avere il rigore di una lezione incentrata su esse, ma
devono essere utili per facilitare l’apprendimento.
Vari studi ≻ hanno evidenziato che il focus on form all’interno di corsi comunicativi ≻ dà molti vantaggi: migliora
l’accuratezza grammaticale ma NON diminuisce la fluenza comunicativa.
Al contrario, nelle classi che seguono il Natural Approach, l’assenza di “arricchimento” dell’input ≻ dà risultati −
inferiori rispetto a quelli di un’istruzione “tradizionale”. Oggi, quindi, non si vuole:
✗ né reintrodurre l’insegnamento della grammatica e della traduzione;
✗ né la totale assenza di riflessione metalinguistica.
W i d d o w s o n (1988) ≻ sostiene che accuratezza grammaticale e abilità comunicativa NON sono obiettivi
mutualmente esclusivi.
Gli studenti devono percepire il valore comunicativo e funzionale della grammatica. Il problema è che tipo di grammatica
presentare agli studenti.
C o o k (2012) ≻ sostiene che la “teoria dei principi e dei parametri” di Chomsky può aiutare i docenti a capire cosa
stanno apprendendo gli studenti e attraverso quali processi, quindi come aiutarli.
C i l i b e r t i (1991) ≻ parla di “ g r a m m a t i c a p e d a g o g i c a ” , che comprende tutti i livelli linguistici.
Ciò che conta, comunque, è tener conto dei processi interni alla mente degli apprendenti.
H a w k i n s (1984) ≻ sostiene che aumentare la consapevolezza della lingua aiuta a impararla, perché gli studenti
sanno cosa aspettarsi e se gli apprendenti sanno cosa aspettarsi nella LT, saranno + ricettivi verso di essa.
Non è importante, quindi, quanto e come parlare di grammatica nei corsi di lingua, ma è necessario aumentare la
sensibilità linguistica degli studenti.
L’approccio alle regole grammaticali ≻ può essere + o − induttivo, alcuni sostengono:

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spiegazione implicita delle regole grammaticali consiste nel far costruire “ipotesi” agli apprendenti prima, e dare
spiegazioni esplicite poi.
La spiegazione però NON deve essere rimandata a lungo, per non lasciare gli studenti nella condizione di voler usare una
struttura ma non sapere come fare.
spiegazione esplicita delle regole grammaticali spiegazione esplicita deve precedere l’applicazione pratica di una
regola: questo però implica la consapevolezza che imparare una seconda lingua (L2 o LS) è ≠ diverso dall’imparare una
L1 (Cook).
Le spiegazioni grammaticali = sono un modo per insegnare una determinata forma linguistica.
Se lo scopo dell’insegnamento è una conoscenza accademica di una data regola, la sua comprensione a livello conscio è
accettabile, ma gli studenti vogliono trasformare la conoscenza accademica nell’abilità di usare la regola nel quotidiano
senza doverci riflettere troppo.
La spiegazione grammaticale nelle classi deve pertanto contare sull’assunto che le regole imparate a livello conscio
possono essere convertite in processi inconsci di comprensione e produzione.

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