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Peirce: Qualcosa che sta per qualcos’altro. Qualcosa che rimanda ad altro da sé. Viene messo in
relazione con altro da sé tramite un interpretante.
Questa relazione può essere causale (indici), si somiglianza (icone), di convenzione (simboli).
LINGUAGGIO
Elementi costitutivi:
- Sistema di segni (non può esistere un linguaggio formato da un solo segno, i segni hanno
relazioni fra loro)
- Sintassi a cui corrispondono leggi semantiche di composizione
Stesso campo semantico = i significati dei segni hanno degli aspetti comuni —> lago, sorgente,
cascata, mare = acqua
REGOLE SINTATTICHE = Insieme di regole mediante le quali i segni semplici vengono accorpati
in unità via via più grandi. Non tutte le parole possono saldarsi con tutte le altre.
REGOLE SEMANTICHE = Regole mediante le quali i significati dei segni semplici vengono
utilizzati per formare significati via via più complessi.
ELEMENTI COMUNICAZIONE
- Mittente
- Destinatario
- Messaggio
- Canale
A comunica X a B
- Se A riesce a far pensare il contenuto di X a B
- Se l’intenzione di A è soddisfatta proprio per il fatto che B ha compreso l’intenzione di A di fargli
pensare X
La maggior parte delle volte che impieghiamo i segni è per scopi comunicativi:
A) Si può comunicare anche senza un linguaggio condiviso —> animali domestici/persone che
non parlano la nostra lingua.
—> utilizziamo in questi casi gesti iconici, espressioni facciali, gesti di indicazione.
B) Ci sono usi non comunicativi dei segni del linguaggio —> canzoni pop inglesi per chi non sa la
lingua, dove ciò che importa è la melodia e l’armonizzazione.
Ci sono alcuni segni che non hanno a che fare con la comunicazione perché non vengono usati da
nessuno per comunicare (ex nuvole nere in cielo).
NON Sono Linguaggio: tutti i semplici sistemi di segni quando manca una sintassi che li combini
in segni di complessità maggiore.
- La musica non è un linguaggio poiché sebbene sia costituita da elementi semplici che si
uniscono a formarne altri più complessi, non è un sistema di segni. Le note e gli altri elementi
minimi non sono legate a significati ne per icona, indice o simbolo. Esse non hanno quindi
significato.
- La pittura non è un linguaggio poiché bisognerebbe associare un significato ad ogni pennellata
e far si che unendosi fra loro formino opere complesse secondo regole precise.
- La gestualità non è un linguaggio.
Gli artisti mediante le loro opere possono comunicare qualcosa, ma non basta per classificarle
come linguaggi. Qualcosa che viene usato per comunicare non deve essere per forza un
linguaggio.
Sono linguaggio:
- Lingua dei sordi
- Lingua della matematica
- Lingua di programmazione per computer
- Lingua della logica
- Lingua storico-naturale
BUONA FORMAZIONE: Frase che segue le regole sintattiche. Non da per scontata la
sensatezza.
SENSATEZZA: Senso compiuto.
Ex. Il tavolo mangia la mela —> sì BF, no sensatezza.
CATEGORIE DI PAROLE
- Nomi
- Verbi
- Aggettivi (questa categoria comprende solo quelli qualificativi, essi possono essere messi in
ordine casuale nella frase)
- Avverbi
- Preposizioni
- Determinanti nominali (articoli, agg dimostrativi, agg numerali, agg indefiniti, non possono
essere messi in ordine casuale nella frase)
Le regole della sintassi prescrivono quali combinazioni sono possibili (ex. bella casa) e quali no,
dando vita a costrutti non grammaticali (ex. il mangia).
AGG + N = N’
Aggettivo + Nome = N una barra
Non c’è un limite agli aggettivi che possono qualificare un nome. La ricorsività fa capire come
riusciamo a formare frasi pressoché infinite pur disponendo di un numero finito di parole e regole.
I SINTAGMI
- La grande parte delle frasi che usiamo è costituita da un elemento che indica ciò di cui vogliamo
parlare (di solito organizzato intorno ad un nucleo costituito da un nome —> sintagma nominale)
e un elemento che predica qualcosa di cui vogliamo parlare (di solito organizzato intorno ad un
nucleo costituito da un verbo —> sintagma verbale).
- Nomi e verbi vengono chiamate “teste” del sintagma.
SINTAGMA NOMINALE
- Si salda prima con gli aggettivi poi con il determinante.
Ex. “Ogni Uomo Buono”
Se saldassi prima Ogni e Uomo, otterrei “la totalità degli uomini”, se aggiungo Buono otterrei “la
totalità degli uomini è buona”.
Se invece saldo Uomo e Buono e successivamente Ogni otterrei “qualsiasi uomo che sia buono”.
SINTAGMA VERBALE
- Si salda prima con gli avverbi, i sintagmi nominali, preposizioni, formando il V’ (V una barra)
- Successivamente V’ si salda con un ausiliare e forma un sintagma verbale completo.
- A differenza di aggettivi e avverbi, il numero di determinanti e preposizioni che possiamo
aggiungere al sintagma è molto limitato —> queste regole non sono ricorsive.
I SINTAGMI NOMINALI
- Nomi propri
- Descrizioni definite
- Indicali
- Concetti
- Altri SN
I NOMI PROPRI
- SN più semplici e meno strutturati.
- Spesso costituiti solo dalla testa nominale senza nessun modificatore o determinante.
- Strumento linguistico atto a riferirsi ad oggetti sulla base della convenzione.
- Per comprendere il significato di un nome proprio è necessario sapere qualcosa riguardo
l’oggetto a cui il nome è legato convenzionalmente.
- La funzione semantica del nome proprio è quella di denotare un’entità individuata per il fatto di
possedere certe caratteristiche.
- IN CONCLUSIONE
La teoria assume che ai nomi propri siano legate convenzionalmente delle proprietà dei
referenti, che fanno parte del loro significato ma invece:
- l’ignoranza di queste proprietà non sembra necessariamente implicare la mancata conoscenza
del soggetto.
- le proprietà mutano nel tempo senza che il significato del nome proprio muti.
- ipotizzare che il referente del nome non abbia quelle proprietà non è contraddittorio.
- TEORIA DEL RIFERIMENTO DIRETTO DEI NOMI PROPRI DI KRIPKE
L’idea è che il significato di un nome proprio consista nel suo referente senza passare per un
contenuto concettuale.
Ex. “Ci vediamo a Roma martedì” — A e B non devono conoscere le stesse nozioni di Roma per
sapere di doversi trovare lì insieme martedì.
- L’unica cosa che importa è l’identità del referente.
- E’ richiesta un minimo di conoscenza di esso per la comprensione.
- Per parlare di qualcosa dobbiamo sapere di cosa stiamo parlando, ovvero saper identificare.
- Il modo in cui lo facciamo però non fa parte del significato del nome.
- Perché l’altro ci capisca è sufficiente che identifichi il referente del nome, non importa come.
- Molto spesso la nostra conoscenza delle cose è parassitaria: la nostra conoscenza delle cose
è ampliata da quella di persone più esperte nel campo. (Ex. Vega stella —> quando utilizziamo il
nome Vega intendiamo riferirci alla stessa stella a cui i parlanti più esperti si riferiscono con quel
nome).
LE DESCRIZIONI DEFINITE
- Sintagmi Nominali il cui determinante è un articolo definito singolare (Il, Lo, La, L’)
- Tratti in comune con i nomi propri:
A) Sembrano riferirsi ad un solo ente.
B) Il loro fine comunicativo è quello di orientare il destinatario nei confronti di un certo oggetto.
- A differenza dei nomi propri:
C) Esplicitano attraverso quali caratteristiche il referente deve essere colto, ovvero definiscono
quali sono le proprietà che un’entità deve possedere per essere il referente della descrizione
—> forniscono un criterio di individuazione del referente.
- Sono formate da due costituenti fondamentali:
- Un articolo definito singolare in posizione di determinante.
- Un N’ (N+Agg) anche molto complesso che potrebbe a sua volta contenere molti altri
costituenti.
- La funzione dell’articolo è passare da una proprietà (denotata da N’) all’oggetto che possiede
tale proprietà.
- L’articolo non denota di per se qualche ente nel mondo ma ha la funzione di far traslare il
significato della denotazione una proprietà a quella del soggetto, ovvero l’oggetto che possiede
quella proprietà.
- La contestualità non è una caratteristica essenziale, molte descrizioni definite non la
possiedono. (E’ invece obbligatoria negli indicali).
- DESCRIZIONI DEFINITE IMPROPRIE
Per essere appropriate le descrizioni definite devono essere composte da un N’ che nel
contesto di emissione esprime una proprietà che è soddisfatta da uno e un solo oggetto.
Ex. “Passami il libro che è sul tavolo” — funziona solo se sul tavolo c’è un solo libro, altrimenti
dovrò specificare in qualche modo quale libro voglio nel caso ce ne fosse più di uno, o cambiare
postazione in caso non ci fosse nessun libro.
- CONCETTI E FUNZIONI
- La maggior parte delle nostre descrizioni definite è contestuale, cioè denota l’oggetto che
soddisfa la condizione espressa da N’ in un certo contesto.
Ex. “Il presidente della Repubblica Italiana nel 1968” denoterà sempre lo stesso oggetto
indipendentemente dal contesto in cui viene detta la frase.
Ex. “Il tavolo” denoterà invece l’unico tavolo presente nel contesto, se ce n’è solo uno.
- Da Frege in avanti molti filosofi interpretano i concetti come criteri per raggruppare gli
oggetti in classi.
Ex. se possiedo il concetto “gatto” so anche riconoscere cosa rientra nella categoria e cosa no.
—> Questa idea di base viene interpretata mediante la funzione matematica (le funzioni sono
particolari relazioni fra due insiemi di cose, ogni elemento del primo è associato ad uno e uno
solo del secondo).
—> Chiamando D l’insieme delle cose esistenti, il concetto può essere interpretato come una
funzione da D al vero o falso. Questa funzione assocerà il vero ad un oggetto gatto, il falso se
non lo è. L’insieme del vero sarà l’insieme dei gatti, l’insieme del falso sarà quello dei non-gatti,
entrambi sottoinsiemi di D.
—> D viene chiamato “Dominio”, “Vero e falso” vengono chiamati “Codominio”. La funzione
viene considerata una “Mappatura” degli elementi del dominio su quelli del codominio. I due
elementi del codominio delle funzioni con cui vengono formalizzati i concetti (Vero e falso) sono
chiamati “Valori di Verità”.
- In questo modo si è individuato un modo per formalizzare il valore semantico dei nomi comuni:
essi denotano concetti che possono essere interpretati come criteri per individuare un
sottoinsieme di D, tali concetti sono concepibili come funzioni da D ai due valori di verità. E’ uso
dire che le funzioni che formalizzano i concetti sono di tipo <e,t> (e= entity, t= truth value).
- Quello dei nomi propri è di tipo “e” poiché essi denotano semplicemente oggetti nel mondo.
- L’articolo singolare ci permette di passare da un concetto all’unico oggetto che lo soddisfa nel
contesto di emissione. Ci permette di passare da una funzione <e,t> all’unico oggetto nel
contesto di emissione che da il valore vero per quella funzione.
- L’articolo può a sua volta essere interpretato come una funzione che mappa concetti sull’unico
oggetto che soddisfa quel concetto nel contesto di emissione, dando vita alla funzione <e,t>, e>,
in quanto mappa concetti (tipo <e,t>) su oggetti (tipo e).
- La sua funzione sarà allora: IL(X) : C —> D
Questa funzione associa ad ogni concetto in C un oggetto se esso è l’unico oggetto che
soddisfa quel concetto nel contesto, niente altrimenti.
- AGGETTIVI
- N’ esprime un concetto che può a sua volta essere un costituente complesso, ovvero formato
da nome, aggettivi, frasi relative, sintagmi preposizionali.
- Sappiamo che i nomi comuni da soli possono esprimere concetti che possono essere
determinati dall’articolo definito (ex. “Il Papa”). Possiamo presumere quindi che i nomi comuni
esprimano concetti di tipo <e,t> (funzioni da oggetti a valori di verità). Un nome comune ed un
aggettivo devono esprimere concetti dello stesso tipo.
Ex. “La casa rossa”
In entrambi gli esempi l’articolo definito prende un concetto e lo mappa sull’unico oggetto che lo
soddisfa, quindi sia Papa che Casa Rossa sono funzioni <e,t>. Quella con l’aggettivo però può
essere considerata una funzione da concetti a concetti più specifici (Il concetto di “casa rossa” è
più specifico di quello di “casa”).
- Saldandosi con gli aggettivi il nome esprime concetti più ricchi e specifici che individuano
insiemi sempre più ristretti di oggetti.
- Poiché l’aggettivo mappa un concetto su di un concetto più specifico, esso è di tipo semantico
<<e,t><e,t>>. E’ una funzione che mappa concetti di tipo <e,t> su altri concetti di tipo <e,t>. A
questo punto l’articolo definito mappa il concetto di casa rossa sull’unica casa rossa presente
nel contesto, se ve n’è una.
- SINTAGMI PREPOSIZIONALI
- Formati da una preposizione e da un sintagma nominale.
Ex. “nel giardino” — “nel” è una preposizione articolata formata da “in” e “il”, quindi i costituenti
del sintagma preposizionale “nel giardino” sono la preposizione “in” e il sintagma nominale “il
giardino”.
- La funzione dei sintagmi preposizionali sembra essere la stessa degli aggettivi: arricchire il
concetto e restringere la classe di oggetti individuata.
- La loro funzione è <<e,t><e,t>> ovvero mappare un concetto su un altro concetto.
Ex. “L’albero nel giardino” (vedi pag 52 libro per descrizione completa)
- I sintagmi preposizionali possono comparire anche all’interno di sintagmi verbali e non solo
nominali.
- INDICALI
- La categoria degli indicali singolari comprende:
a) i pronomi singolari “io”, “tu”, “lei” etc,
b) alcuni avverbi “ora”, “qui”, “oggi”, “domani”,
c) i pronomi dimostrativi singolari “questo”, “quello”
d) sintagmi nominali determinati dai dimostrativi “quella casa”, “questo libro”
e) a volte vengono inclusi anche il tempo verbale e aggettivi come “locale”, “vicino”, “presente”
- La caratteristica semantica fondamentale degli indicali consiste nel fatto che il loro contributo
semantico all’enunciato in cui compaiono dipende in modo essenziale dal contesto
dell’enunciato stesso: a quale individuo si riferisce “io” dipende dal contesto, stessa cosa
“questo libro” etc.
- La contestualità è una caratteristica obbligatoria. Essa viene a volte confusa con l’ambiguità.
Ex. “Riso” è ambigua perché significa ridere ma anche il cibo. Il significato dipende dal contesto
così come “io” o “questo libro” dipende dal contesto, ma sono due dipendenze diverse.
- L’ambiguità consiste nel fatto che lo stesso segno è legato convenzionalmente a due significati
diversi all’interno della stessa lingua. Nel caso di “riso” sappiamo già ante quali significati può
assumere, sono segnati nel vocabolario e previsti dalla lingua, il contesto lo specifica.
- L’indicalità invece non prevede un legame convenzionale tra i significati. Nel caso di “questo” il
vocabolario registra un solo significato che andrà a specificarsi nel contesto.
- Possiamo descrivere il significato ante di “io” come “mittente”, o “responsabile dell’atto
comunicativo”. Poiché il mittente varia al variare del contesto, anche il referente dell’indicale
varia.
- La situazione è simile a quella delle descrizioni definite “il tavolo”: al di fuori del contesto, esse
non si riferiscono a nulla, ma se vengono emesse in un contesto in cui esiste un solo individuo
che soddisfa il concetto di tavolo , allora esse denotano quell’individuo.
- Esiste qualcos’altro che faccia capire al destinatario quale sia il referente degli indicali:
potrebbe essere il gesto di una mano, un cenno della testa, lo sguardo.
- Sulla base di ciò gli indicali vengono distinti in due categorie:
a) Indicali puri: funzionano in automatico, dato un contesto comunicativo essi indicheranno un
aspetto di tale contesto (il mittente, il luogo, il tempo, il destinatario etc)
b) Indicali dimostrativi: hanno bisogno di qualcosa in più, come un gesto dimostrativo.
- CRITICHE ALLA DISTINZIONE
—> A volte “qui” può indicare una regione molto piccola o molto grande. L’estensione varia
continuamente da uso a uso.
—> Non è affatto chiaro chi sia il destinatario: il mittente potrebbe avere davanti molte persone e
indicandone una chiarisce chi è il referente.
- E’ indubbio che gli indicali abbiano una semantica ante contesto: un concetto, spesso molto
povero come quello di “questo” che è largamente insufficiente ad individuare un solo oggetto. Il
contesto fornisce degli elementi per individuare fra tutti gli oggetti che soddisfano questo
contenuto concettuale quello che è il referente.
MiniRiassunto
- Gli indicali sono simili alle descrizioni definite in quanto sembrano esprimere un contenuto
descrittivo.
- Gli indicali sono simili ai nomi propri in quanto il loro contenuto descrittivo sembra essere immune
agli operatori spazio/tempo/mondi.
- Kaplan risolve il problema ponendo tre livelli di significato:
a) Carattere: parlante, destinatario, tempo e spazio di emissione, oggetti indicati mediante gesti;
b) Contenuto: circostanza di valutazione, ovvero in quale mondo e tempo è possibile l’enunciato;
c) Denotazione:
Due correnti di pensiero che hanno messo in dubbio che la semantica dei nomi comuni consista
in un concetto.
- Kripke e Hilary Putnam
- Esattamente come i nomi propri si riferiscono direttamente ad un oggetto, anche i nomi
comuni si riferiscono direttamente ad una classe di oggetti senza passare per un concetto.
- Questa corrente mira a dimostrare che i concetti hanno un ruolo limitato in semantica.
- Quine
- I concetti sono entità poco rispettabili e dovrebbero essere banditi da ogni spiegazione del
funzionamento del linguaggio.
“Un uomo” — Non si può sostenere a che si riferisce, poiché non si tratta di un uomo in particolare,
altrimenti A e B sarebbero sinonimi, ma non lo sono.
Sembra scorretto però dire che “un uomo” si riferisce ad un uomo generico o indefinito.
Questa è la difficoltà di attribuire un riferimento preciso ad SN indefiniti, ed ha spinto molti a
credere che la funzione fondamentale dei SN non sia quella di riferirsi ad oggetti.
- AGGETTIVI
- Si riferiscono solo a proprietà
Ex. “Giallo” denota la proprietà di qualcosa di essere giallo, non gli oggetti gialli.
Uomo si riferisce invece agli uomini veri e propri, non ad una caratteristica.
- Sostantivazione dell’aggettivo:
Ex. “Beati i miti” — in questo caso l’aggettivo “mite” è stato trasformato in un nome ed il SN si
riferisce alle persone miti.
- Per riferirsi ad oggetti attraverso la proprietà espressa essi devono trasformarsi in nomi. Se
questa operazione non viene compiuta esso non si riferirà ad oggetti tramite una proprietà ma si
riferirà alla proprietà stessa.
- Gli aggettivi possono unirsi ai nomi per formare ad un componente di tipo N’ —> l’aggiunta di
aggettivi restringe il numero di alternative di riferimento denotate.
Ex. Se “Uomo” denota tutte le alternative composte da un individuo che ha la proprietà di essere
uomo, “Uomo Mite” dovrà aggiungere a quelle di “uomo” anche quelle di “mite”, restringendo
così il campo di scelta. Il secondo è un sottoinsieme del primo.
- L’unione di nome e aggettivo rende meno indefinito il risultato della denotazione.
- Non c’è alcun limite teorico al numero degli aggettivi che un SN può contenere.
- SINTAGMI PREPOSIZIONALI
- Come gli aggettivi, pongono delle condizioni sulle alternative di riferimento del SN e filtra tutte
quelle alternative che non rispettano le condizioni.
- Tali condizioni sono di solito di tipo relazionale: gli oggetti che costituiscono un’alternativa
devono essere in una certa relazione con un altro oggetto.
Ex. “In Giardino” — prescrive che i referenti del SN abbiano una relazione con il giardino, ovvero
che si trovino all’interno di esso.
- DETERMINANTI CARDINALI
- “Uno, due tre, quattro etc”, “molti, pochi, parecchi etc”
- Funzione simile a quella degli aggettivi: filtrano le alternative di riferimento di N’.
- In questo caso il filtraggio viene operato sul numero di oggetti che ogni alternativa possiede e
non sulle proprietà possedute dagli oggetti alternativa.
Ex “Due uomini” — denota l’insieme degli insiemi costituiti da due elementi che sono uomini.
- Il discorso è più complicato quando non si tratta di cardinali numerici: bisogna stabilire un
numero di alternative che faccia da standard in modo da stabilire se il numero di alternative è
superiore o inferiore ad esso. Molto spesso dipende dal contesto (ex. 2 pesci per il mare è
riduttivo, 20,000 per un salotto è troppo).
- DETERMINANTI DEFINITI
- Riducono le alternative di riferimento presentate dal nome ad una sola.
- La differenza tra i determinati definiti e non è che i secondi riducono le alternative ad un
numero n ma non ad una sola opzione.
- Cosa si intende con scegliere un’unica alternativa fra le altre? Il parlante quando usa un
definito deve fornire al suo ascoltatore abbastanza informazione perché egli possa distinguere il
referente o i referenti da tutti gli altri oggetti.
Ex. “Il presidente dell’Uganda”
- Se ci si rivolge a dei plurali le cose si fanno complicate:
Ex. “Gli Uomini” — fra tutte le alternative di riferimento possibili si riferisce a quella che contiene
più elementi, cioè quella che contiene tutti gli elementi che le altre contengono.
- Un insieme di un solo elemento può contenere solo se stesso quindi tale condizione può
essere soddisfatta solo se esiste un solo insieme che contiene X nel contesto, cioè se esiste un
unico X nel contesto.
- Si può dunque uniformare l’insieme di un solo elemento all’articolo definito: esso individua, fra
tutte le alternative, quella che contiene tutti gli elementi contenuti nelle altre.
- Quando il nome è singolare e non offre che alternative costituite da un solo elemento, allora
questo ha senso quando nel contesto è presente una sola alternativa e quindi un sono oggetto
avente le proprietà espresse dal nome.
- Quando invece il nome è plurale l’articolo definito sceglie l’alternativa che contiene tutte le
altre.
- DETERMINANTI INDEFINITI
- “Alcuni, qualche, certi, taluni”
- Differenze con i determinanti cardinali numerici:
A) non pongono delle condizioni molto stringenti sul numero di oggetti che deve contenere una
alternativa di riferimento.
B) sono incompatibili con i definiti: posso dire “I due uomini” ma non “Gli alcuni uomini”
- Se in un contesto il parlante dice “I due uomini sono arrivati” il destinatario deve essere in
grado di individuare una coppia di uomini rispetto alle altre, se invece il parlante dice “due
uomini sono arrivati” il destinatario non è tenuto ad individuare alcuna coppia di uomini e
l’enunciato si considera vero se una qualunque coppia di uomini è arrivata.
I VERBI
Differenza semantica tra nomi e verbi:
- I verbi denotato stati ed eventi di oggetti
- I nomi denotano oggetti
Possiamo divedere i verbi mediante 2 caratteristiche:
- Il denotare uno stato o un evento che si sviluppa nel tempo
- Il denotare uno stato o un evento telico (con fine determinato)
Gli oggetti ricoprono ruoli differenti negli stati e negli eventi denotati dai verbi: tali ruoli vengono
definiti “tematici”.
- STATI ED EVENTI
- Le azioni sono uno dei tipi di cambiamento a cui gli oggetti vanno incontro. In generale gli
oggetti subiscono dei cambiamenti e delle mutazioni e molti verbi sembrano proprio descrivere
tali cambiamenti.
- Il mondo è costituito da oggetti: essi subiscono cambiamenti, modificano le loro proprietà —>
gli oggetti sono il sostrato dei cambiamenti, ciò a cui i cambiamenti accadono.
- Se non fossero in alcun modo stabili, non potremmo dire che un oggetto ha subito un
cambiamento: per poterlo dire, l’oggetto deve rimanere lo stesso oggetto attraverso il
cambiamento e nonostante esso. Il cambiamento modifica le proprietà dell’oggetto ma non ne
muta l’identità.
- I nomi servono per riferirsi agli oggetti, i verbi per dire a quali cambiamenti gli oggetti vanno
incontro.
- Non tutti i nomi si riferiscono ad oggetti e non tutti i verbi si riferiscono a cambiamenti.
- Giacere, stare, rimanere, tutte le costruzioni del verbo essere come essere stanco, affamato,
un poeta, in giardino denotano stati e non cambiamenti.
- IPOTESI STORICA
- Possiamo ipotizzare che originariamente i nomi nascessero per individuare oggetti concreti e
che i verbi nascessero per predicare cambiamenti di tali oggetti.
- L’evolversi delle forme di pensiero ha sentito la necessità di parlare non solo di oggetti
concreti, quindi vennero coniati anche nomi per denotare entità astratte.
Ex. “Malleabilità”: proprietà che alcuni oggetti possiedono e tale proprietà esiste solo perché le
cose malleabili esistono. Sostantivizzazione dell’aggettivo “malleabile” —> nome astratto.
- Allo stesso modo è ipotizzabile che inizialmente nelle lingue umane tutti i verbi o la
grandissima maggioranza di essi denotassero cambiamenti, e solo in un secondo tempo stati e
proprietà. Per quanto si vada indietro nel tempo non si trovano lingue costituite solo da nomi che
denotano oggetti solo concreti e verbi che denotano solo cambiamenti.
- La sostantivizzazione di molti verbi fa pensare che essi esistessero ancor prima dei nomi.
- IPOTESI TEORICA
- Esiste un numero considerevole di nomi che non si riferiscono ad oggetti concreti e verbi a
cambiamenti.
- I nomi hanno la funzione di individuare le cose di cui vogliamo parlare, mentre i verbi hanno la
funzione di dire qualcosa a proposito delle cose individuate dai nomi.
- Fra le cose di cui possiamo parlare non esistono solo le cose concrete ma anche i mutamenti e
le proprietà. La mente umana può rendere oggetto ciò che oggetto non è.
- Le proprietà che esistono nel mondo reale sono sempre possedute da qualcosa: non esiste il
bianco in sé, ma esiste quello di questo golfino, di quella macchina. eppure l’essere umano
riesce a pensare al “bianco” senza per forza associarlo ad un oggetto in particolare, rendendolo
così un oggetto astratto.
- Quindi quando diciamo che i nomi si riferiscono ad oggetti non significa solo quelli concreti ma
anche quelli che la mente è in grado di rendere oggetto, isolare e far diventare astratti (ex.
bianco) —> Oggetto è tutto ciò che la mente concepisce per sé e non come aspetto di
qualcos’altro.
- Allo stesso modo i verbi devono essere intesi come ciò che predica qualcosa degli oggetti
individuati dai nomi. Predicare vuol dire attribuire un aspetto, una proprietà, un cambiamento
all’oggetto individuato dal nome. I verbi denotano aspetti che ineriscono alle entità pensate
come autonome, servono per attribuire qualcosa all’oggetto che non sarebbe autonomo senza
di esso.
- Tipicamente i verbi attribuiscono agli oggetti proprietà (stati) o cambiamenti (eventi).
- TIPI DI VERBI
- Funzione dei verbi: predicare stati ed eventi di oggetti autonomi.
Distinzione tra Stati ed Eventi by Zeno Vendler 1957
Gli eventi possono essere divisi in:
- Verbi di processo
- Verbi di culminazione
- Verbi di compimento
- A) STATI
—> Proprietà che gli oggetti possiedono in maniera relativamente stabile.
—> Attribuire uno stato significa attribuire una proprietà relativamente stabile ad un oggetto.
—> Costruzioni come “Copula + Agg”, “Copula + SN”, “Verbo essere + SP” e certi verbi come
“stare, restare, avere fame, credere” predicano stati degli oggetti.
—> Se un oggetto è in un certo stato per un certo intervallo di tempo T, allora esso sarà in
quello stato per tutti gli istanti che formano T.
—> Poiché gli stati hanno questa proprietà di perdurare lungo intervalli di tempo più o meno
lunghi, i verbi che denotano stati accettano modificatori come “per un tempo T”.
—> Non accettano il modificatore “in un tempo T”. Esso infatti implica la presenza di un certo
processo che aveva un certo fine e misura quanto tempo è stato necessario perché si
raggiungesse quel fine.
—> Gli stati non sono telici, non hanno un fine incorporato. Non vuol dire che non si possa
utilizzare in nessun caso il modificatore “In un tempo T”, però quando viene utilizzato ha un
significato diverso da quello usuale.
Ex. “Paolo è stanco in 5 minuti” — “Anna fu pronta in un’ora”
In questi casi ciò che viene misurato dal modificatore temporale è il processo che ha portato
all’essere stanco di Paolo o all’essere pronta di Anna.
—> Non sono agentivi, cioè l’oggetto a cui viene attribuita la proprietà espressa dal verbo non è
mai un agente. Un agente è un individuo che intenzionalmente compie un certo atto. Ma i verbi
stativi non denotano alcun cambiamento e quindi non implicano l’esistenza di alcun atto da parte
dell’oggetto.
Ex. “Anna ha sonno” — Anna non compie nessuna azione, ad Anna capita di avere sonno, cioè
Anna è in quello stato.
—> Sono di solito incompatibili con la forma progressiva inglese -ing.
GLI ENUNCIATI
Sono costrutti formati da SN e SV.
SN + SV = E
Il verbo (V) si compone prima con un numero indefinito di SN, avverbi ed SP; il costituente che
risulta da questa composizione (V’) si compone a sua volta con un eventuale ausiliare per formare
il sintagma verbale completo. Esso è il risultato della saldatura del verbo con il nucleo
dell’enunciato (tranne il SN soggetto che si aggiunge alla fine) e con la sua periferia.
- MOVIMENTO
- E’ convinzione di molti studiosi di sintassi che la struttura sintattica superficiale derivi da una
più profonda. Essa deriverebbe da quest’ultima tramite movimenti di costituenti: alcuni elementi
presenti nella struttura profonda si muoverebbero ed andrebbero ad occupare altre posizioni.
Ex. A) “Paolo è stato investito”
B) “Quale penna usa Anna di solito?”
- In A Paolo è il tema dell’enunciato e ricopre la posizione di complemento oggetto. E’ possibile
pensare che le frasi passive derivino da quelle attive mediante il movimento del complemento
oggetto che va ad occupare la posizione del soggetto. Nel passaggio dalla frase attiva a passiva
Paolo si sposta da complemento oggetto, interno al SV, a soggetto, esterno al SV.
- In B il SN interrogativo “quale penna” ha funzione di complemento oggetto. Esso però non
segue il verbo ma addirittura precede il soggetto. Anche in questo caso è possibile che il
complemento oggetto si sia spostato per posizionarsi ad inizio frase.
- Questi ed altri esempi inducono a pensare che le frasi siano costruite saldando gli elementi gli
uni con gli altri e poi spostando alcuni degli elementi in altre posizioni.
- Alcuni sintatticisti ipotizzano che nella struttura profonda il soggetto è sempre all’interno dei SV
e che solo dopo si sposa in una posizione esterna ad esso.
- La saldatura a livello profondo dei vari componenti dell’enunciato avviene in modo un po’
diverso da come detto prima: il verbo si salda prima con il nucleo (compreso il soggetto) e con la
periferia e poi con l’ausiliare.
- INDETERMINATEZZA SEMANTICA
Ex. “Anna e Paolo hanno sollevato il tavolo” — potrebbe voler dire “insieme” (A) o
“separatamente” (B)
- Nel caso A esiste un solo evento di sollevamento in cui il paziente è il tavolo e l’agente sono
Anna e Paolo insieme.
- Nel caso B esistono due eventi di sollevamento in cui il paziente è il tavolo e l’agente è una
volta Anna e una volta Paolo.
Questo esempio può descrivere sia azioni collettive che distributive.
—> Problema 1: nelle letture collettive chi è l’agente? sono Anna e Paolo o il gruppo formato da
Anna e Paolo?
—> Problema 2: poiché l’enunciato ha due letture non possiamo dire che è ambiguo e sarà il
contesto a decifrare qual è il significato inteso dal parlante?
La fonte dell’ambiguità pare essere la congiunzione “e”. Ma se tale congiunzione ha due
significati, ci aspetteremmo che in lingue diverse dall’italiano i due significati siano tradotti in due
parole diverse.
- Se l’ambiguità di una parola è casuale non sarà difficile trovare lingue in cui quel caso non si
verifica. Questo non succede con la congiunzione “e”.
- Una parola ambigua come “miglio” assume uno o l’altro significato a seconda del contesto, è
difficile che voglia dire entrambe le parole allo stesso momento.
- La teoria del minimalismo semantico: Una frase ambigua ha un significato indeterminato,
che non specifica fra le due diverse situazioni che lo possono rendere vero. Questo significato
può essere ristretto contestualmente.
Ex. “Il libro di Anna”
a) il libro posseduto da Anna
b) il libro scritto da Anna
c) il libro che Anna ha in mano
etc.
Sembra implausibile che “di” sia ambiguo —> esso esprime il fatto che esiste una relazione tra
Anna ed il libro: questa relazione viene specificata dal contesto.
A) AVVERBI
Gli avverbi denotano proprietà degli stati o eventi denotati dal verbo. Specificano il significato del
verbo restringendo il numero degli stati o eventi denotati (stessa funzione che hanno gli aggettivi
con i nomi).
Se “camminare” denota un insieme di eventi o pluralità di eventi, “camminare lentamente”
denoterà un sottoinsieme di quell’insieme, in quanto gli eventi di camminare lentamente sono
meno di quelli di camminare.
B) I SP AGGIUNTI
Essi fanno parte della periferia e specificano gli stati o eventi denotati dal verbo mettendoli in
relazione con qualcosa d’altro, cioè collocandoli rispetto ad altri oggetti esistenti (stessa
funzione dei SP che specificano i nomi). Vanno quindi presi in considerazione solo quelli che
hanno una certa relazione con un oggetto del mondo.
Ex. “Paolo preparò il pranzo”
“Paolo preparò il pranzo in giardino”
“In giardino” specifica e riduce la quantità di eventi da prendere in considerazione poiché
devono avere come agente Paolo che prepara il pranzo e devono avere luogo in giardino.
La preposizione “in” esprime una relazione con un oggetto. Con tale oggetto possono essere in
relazione sia oggetti (denotati dai SN) che stati o eventi (denotati dai verbi).
- TEMPI VERBALI
- Una volta che il verbo si è saldato con il nucleo e con la periferia si salda con l’ausiliare. Esso
segnala il tempo verbale e l’aspetto del verbo stesso.
- “aux” in realtà ospita la morfologia verbale sia che nella frase sia presente un ausiliare sia che
non lo sia.
- Ex. “Paolo ha sempre corso” (A)
“Paolo correva sempre” (B)
La A dimostra che l’avverbio “sempre” si posiziona tra ausiliare e verbo. Quando l’ausiliare
manca come in B, “sempre” si pone dopo il verbo. Possiamo spiegare questa posizione se
supponiamo che il verbo è spostato dalla posizione V ed è andato a saldarsi in AUX.
- Se la teoria sintassi è corretta allora il verbo senza alcuna flessione si salda prima con il nucleo
e con la periferia, poi con la propria flessione verbale.
Ex Paolo -eva sempre corr-
- L’ ASPETTO
La flessione temporale non indica in italiano solo il tempo ma anche l’aspetto. Si tratta della
differenza tra perfetto ed imperfetto.
- Mentre il passato prossimo e il passato remoto vengono considerati tempi perfetti, l’imperfetto
e il presente sono considerati imperfetti.
Ex. A) “Paolo ha corso”
B) “Paolo corse”
C) “Paolo correva”
D) “Paolo corre”
- La prospettiva da cui sono considerate le eventualità di correre a cui A e B fanno riferimento è
esterna, nel senso che lo consideriamo un evento concluso e trascorso. La prospettiva di C e D
è interna in quanto non è implicita la conclusione dell’evento.
- Si ponga che anche l’imperfetto faccia riferimento ad un reference time. La differenza tra i
tempi composti e l’imperfetto consiste nel fatto che mentre i primi prescrivono che le eventualità
del verbo precedano il reference time, l’imperfetto prescrive che le eventualità del verbo
includano temporalmente il reference time.
- Il reference time del tempo presente è il presente stesso.
Ex “Paolo corre” — ci dice che l’eventualità di correre da parte di Paolo è in corso nel presente,
non che è conclusa nel presente. Il presente è incluso temporalmente in essa.
- Il tempo imperfetto non garantisce che l’evento sia andato a buon fine. Semplicemente si
afferma che al reference time era in corso un evento che aveva un certo fine, ma si è neutrale
circa il raggiungimento di tale fine.
- Il presente e l’imperfetto hanno anche letture abituali:
Ex. “Anna corre al parco (tutte le domeniche)” — “Anna correva nel parco (tutte le domeniche)”
Finchè non specifichiamo “tutte le domeniche” le due frasi hanno significato ambiguo.
- Come dobbiamo considerare le letture abituali dei tempi imperfetti? Dobbiamo considerare
questa flessione temporale ambigua? Rimane il dubbio del perché le lingue abbiano scelto i
tempi imperfetti per esprimere l’abitualità e non quelli perfetti.
- FORZE ILLOCUTORIE
A) Vai — constatazione del fatto che il destinatario sta andando
B) Vai? — domanda per accertarsi che il destinatario se ne stia andando
C) Vai! — ordine che vuole spingere il destinatario ad andarsene
Tutti e tre fanno riferimento all’insieme delle eventualità che hanno come agente il destinatario.
John Austin dice che essi differiscono per la loro forza illocutoria: essa è l’azione che facciamo
nel parlare.
Si tratta di capire quanti e quali tipi di azioni possiamo compiere con il linguaggio e come è
possibile dare conto di essere all’interno del quadro che stiamo creando.
- VERITA’ E FELICITA’
- Gli enunciati dichiarativi che abbiamo visto finora possono essere veri o falsi.
- Tuttavia gli altri tipi di enunciati (ordini, promesse, sentenze etc) non possono essere giudicati
tali: se domando al mio vicino che ore sono, la mia domanda non è ne vera ne falsa, se ordino
un caffè, esso non è ne vero ne falso. La dimensione della verità e della falsità sembra
riguardare solo uno dei tipi di enunciato che possiamo emettere, ma non tutti. Essi sono
giudicabili tramite altre dimensioni:
Ex. “Prometto che sono venuto”
- Questo enunciato è difettoso: non si può promettere al passato, ma solo al futuro.
Ex. A) [Senza avere l’autorità per farlo] !Vi dichiaro marito e moglie”
B) “Ti ordino di volare”
C) [Senza essere affatto grato] “Grazie!”
- A è difettoso perché il parlante non ha l’autorità per sposare due persone quindi il suo atto non
va a buon fine.
- B è difettoso perché è un qualcosa che non può essere compiuto dal destinatario, quindi è un
ordine fallito in partenza.
- C è difettoso perché il parlante esprime una gratitudine che in realtà non prova.
- Austin chiama i vari difetti Infelicità.
- La falsità è solo un caso di Infelicità.
- CONCLUSIONE
In questo capitolo è stata presentata una teoria semantica composizionale degli enunciati:
- Il significato del verbo viene prima composto con quello degli elementi del nucleo e poi della
periferia.
- Il tempo verbale è l’elemento successivo a dare il proprio apporto al significato del tutto,
seguito dalla forza illocutoria che investe il contenuto proposizionale.
- Gli enunciati possono venire composti fra loro in enunciati più complessi fino a formare testi di
grande lunghezza.
- Gli enunciati possono essere connessi tra loro tramite congiunzioni, anche se non
necessariamente. E’ importante capire la loro semantica per comprendere il significato degli
enunciati atomici (non divisibili in enunciati più piccoli)
- Rispettare le condizioni di testualità (quelle per poter dire che il testo è un testo)
—> continuità
—> coerenza
- A volte emettiamo enunciati incoerenti e contraddittori senza che quello che diciamo appaia
strano:
Ex. “In questi giorni Paolo non è Paolo”
In questi casi il parlante vuole dire qualcosa di differente da quello che letteralmente dice.
- IMPLICITI COMUNICATIVI
- Gli impliciti comunicativi sono ciò che intendiamo comunicare senza dirlo esplicitamente.
- Quando parliamo comunichiamo qualcosa di differente da quello che letteralmente diciamo.
Ex. [una madre a suo figlio che si è tagliato] “Non preoccuparti, non morirai”
- La madre vuol dire al figlio che non morirà per il taglio che si è fatto, non che non morirà mai. -
- Tuttavia questo non è ciò che la madre dice letteralmente.
- L’esempio potrebbe essere considerato come ellissi: il parlante sottintende una parte della
frase che va a completare la frase stessa.
Ex. [Guardando dalla finestra la pioggia che scende] “Che bella giornata oggi!”
- In questo caso il sottinteso non può essere interpretato come una ellissi: non si tratta di una
parte di enunciato che non viene emessa, ma è un enunciato ironico.
Ex. “Questa borsa peserà una tonnellata!”
- E’ una iperbole.
Ex. “Paolo è un muro, non ci si riesce a parlare”
- E’ una metafora.
- Il problema fondamentale riguardo gli impliciti è il seguente: come riesce il destinatario a
comprenderli? Poiché il mittente esprime letteralmente un significato S1, come può sperare che
il destinatario comprenda non S1, ma un altro significato S2, a volte simile ad S1 ma altre volte
completamente differente? Per calcolare un implicito i destinatari sfruttano spesso informazioni
contestuali.
- PRINCIPIO DI COOPERAZIONE E IMPLICITI COMUNICATIVI
Una delle teorie che ha avuto maggior successo è quella di Paul Grice, formulata negli anni ’70.
- Principio di cooperazione: Secondo Grice la comunicazione è un’attività che richiede
cooperazione. Ciò significa che tutte le persone coinvolte nella conversazione devono
collaborare fra loro perché la comunicazione raggiunga i suoi fini. Ciò implica che anche negli
scambi comunicativi più conflittuali, fra i parlanti deve essere mantenuta perché la
comunicazione fra di loro possa andare a buon fine.
- Il principio di cooperazione afferma che ogni partecipante alla conversazione in atto deve
contribuire al raggiungimento del fine della conversazione e adeguare il proprio contributo
subordinandolo a tale fine.
- Quattro massime per essere cooperativi
A) Massima della quantità: la quantità di informazioni che dai non deve essere ne maggiore ne
minore di quanto richiesto.
B) Massima della qualità: dì la verità.
C) Massima della relazione: dai un contributo pertinente.
D) Massima del modo: sii chiaro.
Le massime non sono norme di buon comportamento o norme morali. Il loro obiettivo non è di
insegnarci il comportamento più cortese da tenere durante la conversazione. Esse piuttosto ci
insegnano qual è il comportamento più consono da tenere al fine di raggiungere lo scopo della
conversazione.
- IMPLICITI COMUNICATIVI
Alla lettera gli enunciati proposti come esempi sopra sono falsi: non rispettano la massima della
qualità. Non sono cooperativi.
A questo punto i destinatari hanno due possibilità:
—> considerare chi emette gli enunciati come non cooperativo.
—> considerare il parlante cooperativo quindi quello che vuole dire non è quello che dice
letteralmente. Sebbene il suo contributo letterale non rispetti la massima della qualità egli è
cooperativo a livello implicito perché quello che vuole comunicare è vero.
- Il ragionamento che un ascoltatore che deve interpretare gli enunciati deve fare è il seguente:
A) Questi enunciati sono falsi e quindi non cooperativi.
B) Tuttavia il mittente non vuole ingannarmi in quanto essi sono patentemente falsi ed egli
ostenta il fatto di dire una cosa non vera (ergo starebbe mentendo spudoratamente).
C) Quindi è probabile che il mittente voglia essere cooperativo nonostante ciò che dice.
D) Per considerarlo cooperativo devo pensare che voglia comunicare qualcosa di diverso da
quello che sta letteralmente dicendo.
E) Quindi il mittente vuole comunicare qualcosa di implicito e di non detto.
F) Questo implicito deve essere vero se voglio considerare il mittente cooperativo.
- Gli impliciti comunicativi prodotti dalle massime vengono detti “Implicature”.
- Una caratteristica che distingue le Implicature dalle Implicazioni consiste nella cancellabilità:
Se si afferma che X e X implica Y, non è possibile negare Y senza contraddirsi. Invece in un
contesto in cui X produce un’implicatura Y è possibile negare X senza correre in contraddizione.
Ex. [Guardando dalla finestra la pioggia che scende] “Che bella giornata oggi!”
“Davvero, per me lo è, amo la pioggia!”
La seconda parte di frase cancella l’implicatura. Il mittente non parlava ironicamente ma voleva
comunicare esattamente quello che ha detto.
- La variazione è prevista dal significato convenzionale o no? Tre tipi di dipendenze contestuali:
X) fenomeni linguistici nei quali la variabilità contestuale è dovuta a certi parametri offerti dal
significato convenzionale dell’enunciato e che spetterà al contesto fissare.
—> Ambiguità semantica: in italiano la parola tema ha almeno due significati, congiuntivo di
temere, sinonimo di argomento. Questi due significati possibili sono dati prima che la parola
entri in un contesto e sarà compito suo decidere quale di essi è espresso dal parlante).
—> Indicalità: gli indicali sono espressioni essenzialmente contestuali. Hanno quindi
intrinsecamente bisogno del contesto per fissare il loro riferimento. E’ stata anche proposta una
teoria secondo la quale essi denotano l’oggetto più saliente che soddisfa il loro contenuto
descrittivo.
Y) E’ il significato convenzionale o l’arricchimento libero a guidare la variazione contestuale?
Sono la restrizione contestuale e la determinazione del significato. Spesso accade che ciò che
diciamo deve essere inteso come valido solo in un certo ambito.
Casi di restrizione contestuale:
- gli SN, l’unicità del referente di una descrizione definita deve essere intesa come relativa a un
certo ambito contestuale.
- ambito all’interno del quale viene affermata l’esistenza di una certa eventualità, quando
diciamo “Anna ha corso” ci stiamo impegnando all’esistenza di una delle eventualità contenute
nell’insieme che costituisce la proposizione espressa da questo enunciato. Stiamo affermando
che una tale eventualità si da in un certo ambito, in una certa porzione spazio-temporale. La
nostra affermazione deve essere relativizzata da un contesto.
Casi di determinazione di un significato:
- Si è scartata la tesi secondo cui “Paolo e Anna hanno sollevato il tavolo” è un enunciato
ambiguo fra un significato collettivo e uno distributivo, preferendo quella che si tratti di un
enunciato dal significato indeterminato, che può essere determinato dal contesto.
—> Si potrebbe affermare che la restrizione contestuale sia un tipo di determinazione del
significato: se si restringe un’affermazione ad un amico più ristretto, allora essa deve essere
intesa in modo più determinato di quanto essa letteralmente non dica.
—> Dibattito sul modo di intendere la Det del Sign, e la Res Cont
A) Neogriceani: quando ci sono fenomeni di questo genere è sempre presente nel significato
convenzionale dell’enunciato un parametro che deve essere contestualmente determinato.
B) Pragmatisti radicali: questi fenomeni sono semplicemente arricchimenti liberi di un significato
che potrebbe anche non essere arricchito.
—> Ci sono ragioni per preferire la seconda.
- CHE COSA E’ IL SIGNIFICATO LETTERALE?
- Dobbiamo includere alcuni impliciti nel significato letterale dei nostri enunciati?
Ex. “La macchina è rossa”
- Stiamo dicendo che la macchina ha la proprietà di essere rossa o è la carrozzeria a farlo? Se
accettiamo la seconda tesi allora ammetteremo che ci entra un implicito.
- Si potrebbe obiettare che questo argomento non sia sufficiente: il fatto che l’integrazione del
significato convenzionale con l’implicito sia un processo automatico e inconscio non implica che
il significato letteralmente espresso coincida con quello arricchito e non con quello
convenzionale.
- Ciò che letteralmente un enunciato significa può non coincidere con ciò a cui i parlanti pensano
quando pensano al significato dell’enunciato. I parlanti possono essere portati a pensare
direttamente al significato arricchito piuttosto che soffermarsi su quello letterale.
- LA CORTESIA
Ex. [Anna a casa di Paolo e vuole che lui apra la finestra] “Fa molto caldo qui!”
Questa richiesta è indiretta. Viola la massima di modo di Grice.
Ex. [Anna vede il vestito brutto di Maria] “Bello, ti starà benissimo”
Anna mente e viola la massima della qualità di Grice.
- In nessuno dei due casi troveremmo il comportamento di Anna inappropriato —> viene guidato
da ragioni di cortesia.
- A volte la cortesia ci porta a violare le norme della cooperazione: essere troppo chiari e dire la
verità a volte è giudicato scortese.
- Robin Lakoff e le norme di cortesia che dipendono da due principi differenti e a volte
contrastanti:
A) Rispettare la privacy e la libertà altrui
B) Dimostrare amicizia e interesse nei confronti dell’altro
Lakoff annuncia quindi le 3 regole per essere cortesi:
—> Stai sulle tue, non ti imporre: tenere la conversazione sul piano impersonale evitando di
esprimere o domandare opinioni su argomenti “delicati”. Se proprio si devono affrontare,
chiedere il permesso prima di chiedere (Posso chiederle quanto l’ha pagato?).
—> Offri all’altro delle alternative: rispetta l’autonomia dell’altro, fai richieste indirette.
—> Sii amichevole: mostrare interesse nei confronti dell’altro ed entrare nella sua sfera privata
(in contrasto con la prima).
- Quale regola abbia la priorità sulle altre dipende dal contesto.
- Le regole sono universali ma non lo è il loro contenuto formale.
- Varia da cultura a cultura l’ordine delle regole e quale viene utilizzata di più (in Italia, la terza
prevale sulla prima).