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SEGNO

Peirce: Qualcosa che sta per qualcos’altro. Qualcosa che rimanda ad altro da sé. Viene messo in
relazione con altro da sé tramite un interpretante.
Questa relazione può essere causale (indici), si somiglianza (icone), di convenzione (simboli).

LINGUAGGIO
Elementi costitutivi:
- Sistema di segni (non può esistere un linguaggio formato da un solo segno, i segni hanno
relazioni fra loro)
- Sintassi a cui corrispondono leggi semantiche di composizione

RELAZIONI SEMANTICHE PIU’ EVIDENTI


- Sinonimia (Significati simili)
- Iperonimia (Significato del secondo include quello del primo —> gatto/felino)
- Iponimia (Significato del primo è incluso nel secondo —> felino/gatto)
- Antonimia (Significati contrari)

Stesso campo semantico = i significati dei segni hanno degli aspetti comuni —> lago, sorgente,
cascata, mare = acqua

REGOLE SINTATTICHE = Insieme di regole mediante le quali i segni semplici vengono accorpati
in unità via via più grandi. Non tutte le parole possono saldarsi con tutte le altre.
REGOLE SEMANTICHE = Regole mediante le quali i significati dei segni semplici vengono
utilizzati per formare significati via via più complessi.

COMPOSIZIONALITA’ DEI LINGUAGGI


I linguaggi sono composizionali = il significato dei segni complessi è ricavabile da quello dei segni
più semplici e dalle regole di composizione.
Motivo per cui noi impariamo il lessico di una lingua e non frasi fatte, così possiamo arrivare a
capire testi e frasi nuove attraverso l’analisi degli elementi semplici e le loro relazioni per formare i
complessi.

ECCEZIONI ALLA COMPOSIZIONALITA’


SINTEMI = espressioni idiomatiche che non possono essere capite analizzando i vari elementi.
Frasi fatte/modi di dire —> “Avere la luna”, “Topo di biblioteca”.
COLLOCAZIONI = pacchetti di parole precostruititi che tendono ad essere ricorrenti nei testi di
una certa lingua.
Ex. Fare la doccia e non Avere la doccia

ELEMENTI COMUNICAZIONE
- Mittente
- Destinatario
- Messaggio
- Canale

A comunica X a B
- Se A riesce a far pensare il contenuto di X a B
- Se l’intenzione di A è soddisfatta proprio per il fatto che B ha compreso l’intenzione di A di fargli
pensare X

Le intenzioni comunicative sono soddisfatte:


- nello stesso momento in cui i destinatari le comprendono.
- nel momento successivo alla comprensione grazie a ciò che questa da origine (ex quando
voglio comprare qualcosa in un negozio)
Le intenzioni comunicative falliscono:
- nello stesso momento in cui gli altri si accorgono che abbiamo quell’intenzione (ex. quando
diciamo bugie).

La maggior parte delle volte che impieghiamo i segni è per scopi comunicativi:
A) Si può comunicare anche senza un linguaggio condiviso —> animali domestici/persone che
non parlano la nostra lingua.
—> utilizziamo in questi casi gesti iconici, espressioni facciali, gesti di indicazione.
B) Ci sono usi non comunicativi dei segni del linguaggio —> canzoni pop inglesi per chi non sa la
lingua, dove ciò che importa è la melodia e l’armonizzazione.

Ci sono alcuni segni che non hanno a che fare con la comunicazione perché non vengono usati da
nessuno per comunicare (ex nuvole nere in cielo).

COSA E’ LINGUAGGIO E COSA NO


Non ogni volta che c’è comunicazione c’è linguaggio e viceversa.

NON Sono Linguaggio: tutti i semplici sistemi di segni quando manca una sintassi che li combini
in segni di complessità maggiore.

- La musica non è un linguaggio poiché sebbene sia costituita da elementi semplici che si
uniscono a formarne altri più complessi, non è un sistema di segni. Le note e gli altri elementi
minimi non sono legate a significati ne per icona, indice o simbolo. Esse non hanno quindi
significato.
- La pittura non è un linguaggio poiché bisognerebbe associare un significato ad ogni pennellata
e far si che unendosi fra loro formino opere complesse secondo regole precise.
- La gestualità non è un linguaggio.

Gli artisti mediante le loro opere possono comunicare qualcosa, ma non basta per classificarle
come linguaggi. Qualcosa che viene usato per comunicare non deve essere per forza un
linguaggio.

Sono linguaggio:
- Lingua dei sordi
- Lingua della matematica
- Lingua di programmazione per computer
- Lingua della logica
- Lingua storico-naturale

FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO


La filosofia del linguaggio cerca di definire per ogni “regione” di mondo quali sono i concetti e i
principi fondamentali che stanno alla base di essa e della nostra conoscenza di essa. La
semantica è una branca della filosofia del linguaggio.

BUONA FORMAZIONE: Frase che segue le regole sintattiche. Non da per scontata la
sensatezza.
SENSATEZZA: Senso compiuto.
Ex. Il tavolo mangia la mela —> sì BF, no sensatezza.
CATEGORIE DI PAROLE
- Nomi
- Verbi
- Aggettivi (questa categoria comprende solo quelli qualificativi, essi possono essere messi in
ordine casuale nella frase)
- Avverbi
- Preposizioni
- Determinanti nominali (articoli, agg dimostrativi, agg numerali, agg indefiniti, non possono
essere messi in ordine casuale nella frase)

Le regole della sintassi prescrivono quali combinazioni sono possibili (ex. bella casa) e quali no,
dando vita a costrutti non grammaticali (ex. il mangia).

AGG + N = N’
Aggettivo + Nome = N una barra

REGOLA DELLA RICORSIVITA’ GRAMMATICALE


Ricorsività: regola secondo la quale è possibile riapplicare la regola al risultato della stessa (ex.
addizione —> 5+2= 7+3= 10).
Nella lingua: (Nome + Agg) + Agg + Agg —> casa bella, grande, spaziosa etc

Non c’è un limite agli aggettivi che possono qualificare un nome. La ricorsività fa capire come
riusciamo a formare frasi pressoché infinite pur disponendo di un numero finito di parole e regole.

I SINTAGMI
- La grande parte delle frasi che usiamo è costituita da un elemento che indica ciò di cui vogliamo
parlare (di solito organizzato intorno ad un nucleo costituito da un nome —> sintagma nominale)
e un elemento che predica qualcosa di cui vogliamo parlare (di solito organizzato intorno ad un
nucleo costituito da un verbo —> sintagma verbale).
- Nomi e verbi vengono chiamate “teste” del sintagma.

SINTAGMA NOMINALE
- Si salda prima con gli aggettivi poi con il determinante.
Ex. “Ogni Uomo Buono”
Se saldassi prima Ogni e Uomo, otterrei “la totalità degli uomini”, se aggiungo Buono otterrei “la
totalità degli uomini è buona”.
Se invece saldo Uomo e Buono e successivamente Ogni otterrei “qualsiasi uomo che sia buono”.

SINTAGMA VERBALE
- Si salda prima con gli avverbi, i sintagmi nominali, preposizioni, formando il V’ (V una barra)
- Successivamente V’ si salda con un ausiliare e forma un sintagma verbale completo.
- A differenza di aggettivi e avverbi, il numero di determinanti e preposizioni che possiamo
aggiungere al sintagma è molto limitato —> queste regole non sono ricorsive.

I SINTAGMI NOMINALI
- Nomi propri
- Descrizioni definite
- Indicali
- Concetti
- Altri SN
I NOMI PROPRI
- SN più semplici e meno strutturati.
- Spesso costituiti solo dalla testa nominale senza nessun modificatore o determinante.
- Strumento linguistico atto a riferirsi ad oggetti sulla base della convenzione.
- Per comprendere il significato di un nome proprio è necessario sapere qualcosa riguardo
l’oggetto a cui il nome è legato convenzionalmente.
- La funzione semantica del nome proprio è quella di denotare un’entità individuata per il fatto di
possedere certe caratteristiche.

- TEORIA DELLA SEMANTICA BIDIMENSIONALE DEI NOMI PROPRI DI FREGE


Secondo Frege un nome proprio è composto da:
A) un concetto complesso che i parlanti hanno di un certo oggetto.
B) l’oggetto individuato da questo concetto, ovvero il referente del nome.
—> Il nome proprio è composto da un Concetto (Senso per Frege) e un Oggetto (Referente per
Frege) —> questo rende la loro semantica bidimensionale.
- Frege applica questa teoria anche ai nomi comuni.
Cosa costituisce il significato del segno secondo Frege?
—> Il lato concettuale: ciò che ci permette di distinguere se l’oggetto preso in esame appartiene
o meno ad una categoria.
—> Il lato mondano: la realizzazione fisica dell’oggetto.
- E’ uso chiamare il concetto associato al nome comune “intensione del nome” e l’insieme dei
referenti selezionati dall’intensione “estensione del nome”.

- CRITICHE ALLA TEORIA


Kripke
- Il primo problema riguarda le differenze tra le conoscenze che i parlanti hanno di uno stesso
oggetto/nome proprio.
Ex. Roma — uno può associare il nome proprio “Roma” al concetto “Capitale d’Italia”, e un altro
a “Città con il Colosseo” — entrambi parlano della stessa cosa e si capiscono, ma i concetti
associati al referente sono diversi. Certe persone potrebbero conoscerla a fondo, altre no,
alcune solo una parte.
—> Se le conoscenze dei parlanti facessero parte del significato del nome proprio “Roma”,
questo sarebbe ambiguo: avrebbe significati diversi a seconda delle persone.
—> Si potrebbe dire che affinché A e B si capiscano quando parlano di Roma, debbano
condividere un set di caratteristiche affidate a “Roma” — Il problema è che non tutti sanno le
stesse cose di Roma e non è detto che se B non sa una delle caratteristiche fondamentali non
riesca comunque a capire di cosa parli A.
- Il secondo problema riguarda ciò che l’oggetto preso in questione “potrebbe essere”. Ex.
“Scapolo” = uomo adulto non sposato. Il concetto di “non sposato” fa parte di “scapolo”.
Immaginare una situazione in cui uno scapolo è sposato sembra contraddittorio —> allo stesso
modo se il significato di Roma includesse quello di “essere la Capitale d’Italia” dovrebbe essere
altrettanto contraddittorio, invece in una frase come “Roma potrebbe non essere la capitale
d’Italia” non lo è. Anzi consideriamo quell’enunciato vero.

- IN CONCLUSIONE
La teoria assume che ai nomi propri siano legate convenzionalmente delle proprietà dei
referenti, che fanno parte del loro significato ma invece:
- l’ignoranza di queste proprietà non sembra necessariamente implicare la mancata conoscenza
del soggetto.
- le proprietà mutano nel tempo senza che il significato del nome proprio muti.
- ipotizzare che il referente del nome non abbia quelle proprietà non è contraddittorio.
- TEORIA DEL RIFERIMENTO DIRETTO DEI NOMI PROPRI DI KRIPKE
L’idea è che il significato di un nome proprio consista nel suo referente senza passare per un
contenuto concettuale.
Ex. “Ci vediamo a Roma martedì” — A e B non devono conoscere le stesse nozioni di Roma per
sapere di doversi trovare lì insieme martedì.
- L’unica cosa che importa è l’identità del referente.
- E’ richiesta un minimo di conoscenza di esso per la comprensione.
- Per parlare di qualcosa dobbiamo sapere di cosa stiamo parlando, ovvero saper identificare.
- Il modo in cui lo facciamo però non fa parte del significato del nome.
- Perché l’altro ci capisca è sufficiente che identifichi il referente del nome, non importa come.
- Molto spesso la nostra conoscenza delle cose è parassitaria: la nostra conoscenza delle cose
è ampliata da quella di persone più esperte nel campo. (Ex. Vega stella —> quando utilizziamo il
nome Vega intendiamo riferirci alla stessa stella a cui i parlanti più esperti si riferiscono con quel
nome).

- CRITICHE ALLA TEORIA


Il motivo per cui Frege aveva inserito la differenza tra senso e denotazione è per distinguere
enunciati come:
a) George Sand è Aurore Dupin
b) George Sand è George Sand
Il primo è informativo, il secondo è tautologico.
Se supponiamo che il significato di George Sand si riduca al suo referente, entrambi gli
enunciati dovrebbero voler dire la stessa cosa, ma non è così.
I due nomi proprio hanno un significato diverso perché sono associati a due concetti differenti
dello stesso referente.
Ex. “Superman viene dal pianeta Krypton”
Noi considereremmo questa frase vera e sensata.
- Secondo Kripke questa frase è priva di significato poiché Superman e Krypton non hanno
referente (perchè sono fittizi).
- Secondo Frege invece ce l’hanno anche se sono fittizi. Questo perché li considerano “oggetti
possibili” anche se non reali.

LE DESCRIZIONI DEFINITE
- Sintagmi Nominali il cui determinante è un articolo definito singolare (Il, Lo, La, L’)
- Tratti in comune con i nomi propri:
A) Sembrano riferirsi ad un solo ente.
B) Il loro fine comunicativo è quello di orientare il destinatario nei confronti di un certo oggetto.
- A differenza dei nomi propri:
C) Esplicitano attraverso quali caratteristiche il referente deve essere colto, ovvero definiscono
quali sono le proprietà che un’entità deve possedere per essere il referente della descrizione
—> forniscono un criterio di individuazione del referente.
- Sono formate da due costituenti fondamentali:
- Un articolo definito singolare in posizione di determinante.
- Un N’ (N+Agg) anche molto complesso che potrebbe a sua volta contenere molti altri
costituenti.
- La funzione dell’articolo è passare da una proprietà (denotata da N’) all’oggetto che possiede
tale proprietà.
- L’articolo non denota di per se qualche ente nel mondo ma ha la funzione di far traslare il
significato della denotazione una proprietà a quella del soggetto, ovvero l’oggetto che possiede
quella proprietà.
- La contestualità non è una caratteristica essenziale, molte descrizioni definite non la
possiedono. (E’ invece obbligatoria negli indicali).
- DESCRIZIONI DEFINITE IMPROPRIE
Per essere appropriate le descrizioni definite devono essere composte da un N’ che nel
contesto di emissione esprime una proprietà che è soddisfatta da uno e un solo oggetto.
Ex. “Passami il libro che è sul tavolo” — funziona solo se sul tavolo c’è un solo libro, altrimenti
dovrò specificare in qualche modo quale libro voglio nel caso ce ne fosse più di uno, o cambiare
postazione in caso non ci fosse nessun libro.

- DIBATTITO PER IL MODO DI CARATTERIZZAZIONE DELL’INAPPROPRIATEZZA


- Frege: Una descrizione impropria non si riferisce a nulla e quindi manca di denotazione.
Per lui le componenti semantiche di una descrizione propria sono due (senso e referente) se ne
manca una la descrizione è nulla.
Ex. “L’attuale re di Francia è persona molto saggia” — non è ne vero ne falso in un contesto in
cui non esiste un re di Francia.
- Russell: Afferma l’esistenza di uno e un solo individuo che ha la proprietà di essere il re di
Francia. L’articolo determinativo quindi non ci fa passare dalla proprietà all’oggetto ma “afferma”
l’esistenza di un unico individuo che possiede quella proprietà. In un contesto in cui non esiste
un re di Francia, l’enunciato sarà falso. Se invece ci sono tanti libri sul tavolo e un parlante fa la
richiesta di cui sopra, diremmo che è una richiesta inadeguata e infelice.
—> Il motivo per cui Russell supporta questa teoria è che secondo lui possiamo conoscere le
cose solo tramite esperienza diretta. Le descrizioni definite spesso fanno riferimento ad oggetti
di cui conosciamo pochissimo e solo in via indiretta.
Ex. “L’assassino di Paolo, chiunque sia, è pazzo” — Per Russell questo è inaccettabile, i
poliziotti non conoscono direttamente l’assassino di Paolo quindi non possono parlarne,
possono invece riferirsi al concetto di assassino di Paolo.
- Donnellan fa una sintesi tra le due posizioni:
- Quando parliamo di cose che conosciamo pochissimo è giusto parlare per concetti, perché
magari non siamo in grado di individuare l’unico e solo oggetto che soddisfi la denotazione.
- Quando parliamo di cose che conosciamo bene basta che il destinatario comprenda qual è
l’oggetto in questione.
- Si spinge oltre a dire che a volte anche se la descrizione non è esatta questo non ostacola la
comunicazione: Ex. “L’uomo laggiù che beve whiskey è mio padre” è efficace anche se nel
bicchiere c’è del cognac.
- Classifica le descrizioni definite:
a) Attributive: quando l’enunciato in cui compaiono fa affermazioni su un determinato concetto
per dire che quel concetto ha solo un oggetto che lo soddisfa.
b) Referenziali: quando sono strumenti per riferirsi ad oggetti e il concetto con cui li denotano
ha scarsa/nulla rilevanza semantica.

Miniriassunto: Le descrizioni sono costituite da un articolo definito singolare e un costituente N’


(N+Agg) esprimente un concetto. La funzione dell’articolo è quella di passare dalla denotazione N’
(un concetto) a quella di sintagma nominale (un oggetto). Il sintagma nominale denoterà l’unico
oggetto che soddisfa il concetto in un certo contesto, se tale oggetto esiste.

- CONCETTI E FUNZIONI
- La maggior parte delle nostre descrizioni definite è contestuale, cioè denota l’oggetto che
soddisfa la condizione espressa da N’ in un certo contesto.
Ex. “Il presidente della Repubblica Italiana nel 1968” denoterà sempre lo stesso oggetto
indipendentemente dal contesto in cui viene detta la frase.
Ex. “Il tavolo” denoterà invece l’unico tavolo presente nel contesto, se ce n’è solo uno.
- Da Frege in avanti molti filosofi interpretano i concetti come criteri per raggruppare gli
oggetti in classi.
Ex. se possiedo il concetto “gatto” so anche riconoscere cosa rientra nella categoria e cosa no.
—> Questa idea di base viene interpretata mediante la funzione matematica (le funzioni sono
particolari relazioni fra due insiemi di cose, ogni elemento del primo è associato ad uno e uno
solo del secondo).
—> Chiamando D l’insieme delle cose esistenti, il concetto può essere interpretato come una
funzione da D al vero o falso. Questa funzione assocerà il vero ad un oggetto gatto, il falso se
non lo è. L’insieme del vero sarà l’insieme dei gatti, l’insieme del falso sarà quello dei non-gatti,
entrambi sottoinsiemi di D.
—> D viene chiamato “Dominio”, “Vero e falso” vengono chiamati “Codominio”. La funzione
viene considerata una “Mappatura” degli elementi del dominio su quelli del codominio. I due
elementi del codominio delle funzioni con cui vengono formalizzati i concetti (Vero e falso) sono
chiamati “Valori di Verità”.
- In questo modo si è individuato un modo per formalizzare il valore semantico dei nomi comuni:
essi denotano concetti che possono essere interpretati come criteri per individuare un
sottoinsieme di D, tali concetti sono concepibili come funzioni da D ai due valori di verità. E’ uso
dire che le funzioni che formalizzano i concetti sono di tipo <e,t> (e= entity, t= truth value).
- Quello dei nomi propri è di tipo “e” poiché essi denotano semplicemente oggetti nel mondo.
- L’articolo singolare ci permette di passare da un concetto all’unico oggetto che lo soddisfa nel
contesto di emissione. Ci permette di passare da una funzione <e,t> all’unico oggetto nel
contesto di emissione che da il valore vero per quella funzione.
- L’articolo può a sua volta essere interpretato come una funzione che mappa concetti sull’unico
oggetto che soddisfa quel concetto nel contesto di emissione, dando vita alla funzione <e,t>, e>,
in quanto mappa concetti (tipo <e,t>) su oggetti (tipo e).
- La sua funzione sarà allora: IL(X) : C —> D
Questa funzione associa ad ogni concetto in C un oggetto se esso è l’unico oggetto che
soddisfa quel concetto nel contesto, niente altrimenti.

- AGGETTIVI
- N’ esprime un concetto che può a sua volta essere un costituente complesso, ovvero formato
da nome, aggettivi, frasi relative, sintagmi preposizionali.
- Sappiamo che i nomi comuni da soli possono esprimere concetti che possono essere
determinati dall’articolo definito (ex. “Il Papa”). Possiamo presumere quindi che i nomi comuni
esprimano concetti di tipo <e,t> (funzioni da oggetti a valori di verità). Un nome comune ed un
aggettivo devono esprimere concetti dello stesso tipo.
Ex. “La casa rossa”
In entrambi gli esempi l’articolo definito prende un concetto e lo mappa sull’unico oggetto che lo
soddisfa, quindi sia Papa che Casa Rossa sono funzioni <e,t>. Quella con l’aggettivo però può
essere considerata una funzione da concetti a concetti più specifici (Il concetto di “casa rossa” è
più specifico di quello di “casa”).
- Saldandosi con gli aggettivi il nome esprime concetti più ricchi e specifici che individuano
insiemi sempre più ristretti di oggetti.
- Poiché l’aggettivo mappa un concetto su di un concetto più specifico, esso è di tipo semantico
<<e,t><e,t>>. E’ una funzione che mappa concetti di tipo <e,t> su altri concetti di tipo <e,t>. A
questo punto l’articolo definito mappa il concetto di casa rossa sull’unica casa rossa presente
nel contesto, se ve n’è una.

- SINTAGMI PREPOSIZIONALI
- Formati da una preposizione e da un sintagma nominale.
Ex. “nel giardino” — “nel” è una preposizione articolata formata da “in” e “il”, quindi i costituenti
del sintagma preposizionale “nel giardino” sono la preposizione “in” e il sintagma nominale “il
giardino”.
- La funzione dei sintagmi preposizionali sembra essere la stessa degli aggettivi: arricchire il
concetto e restringere la classe di oggetti individuata.
- La loro funzione è <<e,t><e,t>> ovvero mappare un concetto su un altro concetto.
Ex. “L’albero nel giardino” (vedi pag 52 libro per descrizione completa)
- I sintagmi preposizionali possono comparire anche all’interno di sintagmi verbali e non solo
nominali.
- INDICALI
- La categoria degli indicali singolari comprende:
a) i pronomi singolari “io”, “tu”, “lei” etc,
b) alcuni avverbi “ora”, “qui”, “oggi”, “domani”,
c) i pronomi dimostrativi singolari “questo”, “quello”
d) sintagmi nominali determinati dai dimostrativi “quella casa”, “questo libro”
e) a volte vengono inclusi anche il tempo verbale e aggettivi come “locale”, “vicino”, “presente”
- La caratteristica semantica fondamentale degli indicali consiste nel fatto che il loro contributo
semantico all’enunciato in cui compaiono dipende in modo essenziale dal contesto
dell’enunciato stesso: a quale individuo si riferisce “io” dipende dal contesto, stessa cosa
“questo libro” etc.
- La contestualità è una caratteristica obbligatoria. Essa viene a volte confusa con l’ambiguità.
Ex. “Riso” è ambigua perché significa ridere ma anche il cibo. Il significato dipende dal contesto
così come “io” o “questo libro” dipende dal contesto, ma sono due dipendenze diverse.
- L’ambiguità consiste nel fatto che lo stesso segno è legato convenzionalmente a due significati
diversi all’interno della stessa lingua. Nel caso di “riso” sappiamo già ante quali significati può
assumere, sono segnati nel vocabolario e previsti dalla lingua, il contesto lo specifica.
- L’indicalità invece non prevede un legame convenzionale tra i significati. Nel caso di “questo” il
vocabolario registra un solo significato che andrà a specificarsi nel contesto.
- Possiamo descrivere il significato ante di “io” come “mittente”, o “responsabile dell’atto
comunicativo”. Poiché il mittente varia al variare del contesto, anche il referente dell’indicale
varia.
- La situazione è simile a quella delle descrizioni definite “il tavolo”: al di fuori del contesto, esse
non si riferiscono a nulla, ma se vengono emesse in un contesto in cui esiste un solo individuo
che soddisfa il concetto di tavolo , allora esse denotano quell’individuo.
- Esiste qualcos’altro che faccia capire al destinatario quale sia il referente degli indicali:
potrebbe essere il gesto di una mano, un cenno della testa, lo sguardo.
- Sulla base di ciò gli indicali vengono distinti in due categorie:
a) Indicali puri: funzionano in automatico, dato un contesto comunicativo essi indicheranno un
aspetto di tale contesto (il mittente, il luogo, il tempo, il destinatario etc)
b) Indicali dimostrativi: hanno bisogno di qualcosa in più, come un gesto dimostrativo.
- CRITICHE ALLA DISTINZIONE
—> A volte “qui” può indicare una regione molto piccola o molto grande. L’estensione varia
continuamente da uso a uso.
—> Non è affatto chiaro chi sia il destinatario: il mittente potrebbe avere davanti molte persone e
indicandone una chiarisce chi è il referente.
- E’ indubbio che gli indicali abbiano una semantica ante contesto: un concetto, spesso molto
povero come quello di “questo” che è largamente insufficiente ad individuare un solo oggetto. Il
contesto fornisce degli elementi per individuare fra tutti gli oggetti che soddisfano questo
contenuto concettuale quello che è il referente.

- INDICALI E DESCRIZIONI DEFINITE


A) “Nel 1989 il presidente firmò il decreto”
B) “Nel 1989 questo presidente firmò il decreto”
L’enunciato A è ambiguo, poiché non sappiamo se è stato l’attuale presidente o quello che c’era
nel 1989 a firmare il decreto.
- La descrizione definita “il presidente” denota l’unico individuo che è presidente in un certo
contesto —> ora tale contesto può essere quello presente o quello dell’anno 1989.
- La semantica di A non predetermina quale contesto scegliere.
- La duplicità di significato di A dipende da un fenomeno che si chiama “Scope” (ambito o
portata).
- B contiene un dimostrativo al posto della descrizione definita, in questo caso non è ambiguo.
- Possiamo ripetere lo stesso discorso con gli operatori spaziali.
Ex. A) “L’auto di Paolo in Cina costa la metà” — DD ambigua, dipende dal contesto
B) “Quest’auto di Paolo in Cina costa la metà” — indicale non ambiguo
- Lo stesso discorso è ripetibile con gli operatori di possibilità e necessità.
Ex. A) “Il presidente del tribunale non potrebbe essere disonesto”
B) “Questo presidente del tribunale non potrebbe essere disonesto”
- SI deduce che le descrizioni possono essere all’interno della portata di operatori di spazio,
tempo e possibilità (possono riferirsi ad un qualsiasi oggetto all’interno dello spazio, tempo etc), gli
indicali non possono.
- Le descrizioni definite possono cercare il loro referente in tempi diversi da quello di emissione,
in spazi diversi, in mondi possibili diversi, gli indicali devono trovare il loro referente al
tempo/spazio/mondo reale di emissione.
- LA TEORIA DI KAPLAN
Egli nota che l’essere immuni agli operatori di diverso tipo è una caratteristica che gli indicali
condividono con i nomi propri. Essi non esprimono alcun contenuto descrittivo ma si riferiscono
direttamente ad un oggetto, quindi non possono essere ambigui.
Ex. “Nel 1989 Giorgio Napolitano firmò il decreto”
Kaplan ne deduce che anche gli indicali si riferiscano direttamente ai loro referenti e quindi sono
immuni dagli operatori per la stessa ragione dei nomi propri.
I nomi propri e gli indicali non sono però del tutto uguali:
- Gli indicali esprimono un contenuto descrittivo.
Ex. “L’amico di Paolo”, “Questo amico di Paolo”
- Mentre i nomi propri no.
Ex. “Paolo”
- In questo caso gli indicali sono più vicini alle descrizioni definite.

MiniRiassunto
- Gli indicali sono simili alle descrizioni definite in quanto sembrano esprimere un contenuto
descrittivo.
- Gli indicali sono simili ai nomi propri in quanto il loro contenuto descrittivo sembra essere immune
agli operatori spazio/tempo/mondi.
- Kaplan risolve il problema ponendo tre livelli di significato:
a) Carattere: parlante, destinatario, tempo e spazio di emissione, oggetti indicati mediante gesti;
b) Contenuto: circostanza di valutazione, ovvero in quale mondo e tempo è possibile l’enunciato;
c) Denotazione:

- KAPLAN SPIEGA LA DIFFERENZA TRA NOMI PROPRI, INDICALI E DESCRIZIONI


DEFINITE
- I nomi propri hanno come sola componente semantica un oggetto. Sono insensibili al contesto
e alle diverse circostanze di valutazione (qualunque sia il tempo, spazio, mondo). Rimangono
sempre gli stessi.
- Gli indicali sono sensibili al contesto ma non agli operatori. Il loro referente, una volta
individuato, rimane costante. Non possono denotare oggetti che si trovino in altri luoghi, tempi,
mondi possibili rispetto a quelli di emissione.
- Le descrizioni definite sono sensibili agli operatori e possono individuare i loro referenti in
tempi, luoghi, mondi diversi da quello di emissione.

- CRITICHE ALLA TEORIA DI KAPLAN


- Gli indicali non si riferiscono solo ad oggetti presenti nel contesto di emissione ma anche ad
oggetti presenti nel contesto linguistico (o cotesto), cioè ad oggetti menzionati in precedenza nel
discorso o che saranno menzionati a breve.
- Gli indicali che si riferiscono ad oggetti menzionati in precedenza nel discorso o che saranno
menzionati a breve vengono detti Anaforici e possono essere investiti dall’azione degli operatori
temporali, spaziali o di possibilità.
- Gli indicali “normali” si chiamano Esoforici e Kaplan si difende dicendo che la sua teoria è
valida solo per quelli.
- Ma altri filosofi dicono che a volte anche gli indicali esoforici entrano nell’ambito di azione di
qualche operatore. Sono casi limite ma esistono comunque.
Ex. “Non sapevo che nel 1989 questo presidente avesse firmato il decreto”
Se io sto vedendo un film ambientato nel 1989, “questo presidente” non sarà quello attuale ma
quello di quegli anni.

- TEORIA ALTERNATIVA A QUELLA DI KAPLAN


- Le descrizioni definite hanno struttura “articolo definito + N’ “ e si riferiscono all’unico N’
presente nel contesto, posto che ne esista uno.
- Supponiamo che gli indicali si riferiscano all’oggetto maggiormente saliente nel contesto
emissivo che soddisfi il loro contenuto descrittivo.
- In questo modo con la struttura “questo + N’ “ ci si riferisce all’oggetto più saliente.
- In che modo si determina la salienza?
A) tutti partecipanti rivolgono il focus sull’oggetto
B) il mittente sa che i destinatari stanno rivolgendo l’attenzione ad un certo oggetto e anche i
destinatari sanno che lui lo sa.

- Un oggetto può essere saliente per varie ragioni:


A) aspetto fisico
B) causa del comportamento del parlante
C) menzione di qualcuno
- La caratteristica principale degli indicali sarà quindi denotare oggetti salienti e quando suddetti
oggetti non sono presenti possono diventare sensibili agli operatori.
- Secondo questa teoria sia gli indicali che le descrizioni definite esprimono un contenuto
descrittivo. Le DD si riferiscono all’unico oggetto che soddisfa quel contenuto descrittivo
all’interno del contesto mentre gli indicali si riferiscono all’oggetto più saliente che soddisfa quel
contenuto descrittivo nel contesto.

- L’ATTACCO CONTRO I CONCETTI


- I concetti sono criteri per aggiudicare gli oggetti ad una certa classe
- Espressi da nomi comuni, pronomi come “io” e “lei”

Due correnti di pensiero che hanno messo in dubbio che la semantica dei nomi comuni consista
in un concetto.
- Kripke e Hilary Putnam
- Esattamente come i nomi propri si riferiscono direttamente ad un oggetto, anche i nomi
comuni si riferiscono direttamente ad una classe di oggetti senza passare per un concetto.
- Questa corrente mira a dimostrare che i concetti hanno un ruolo limitato in semantica.
- Quine
- I concetti sono entità poco rispettabili e dovrebbero essere banditi da ogni spiegazione del
funzionamento del linguaggio.

- TEORIA DEL RIFERIMENTO DIRETTO DEI NOMI COMUNI DI KRIPKE


Le argomentazioni sono simili a quelle della teoria riguardante i nomi propri: è impossibile
stabilire una serie di caratteristiche comuni secondo cui la gente individua e riconosce gli
oggetti. Ogni parlante ha il suo concetto di Roma e basta che la comunicazione vada a buon
fine.
Ex “Acqua” — Ogni parlante ha la sua idea di cosa l’acqua sia, inoltre il concetto di acqua è
cambiato nel tempo (ex. i romani non sapevano che fosse H2O).
- Una possibile soluzione sarebbe che l’acqua ha delle proprietà scientifiche che fanno sì che un
liquido sia acqua quindi i parlanti devono conoscere quelle per essere sicuri che essa sia acqua.
Ma queste proprietà cambiano nel tempo (ex. h2o) quindi è difficile stabilirle una volta per tutte.
- Kripke propone un’alternativa ovvero che “acqua” significa tutto ciò che è acqua nell’universo.
Ovvero che la parola “acqua” si riferisce direttamente a quelle porzioni di sostanza che sono
acqua senza passare da un concetto.
- Questa teoria però ha bisogno dell’implicito che tutte le porzioni di sostanza “acqua” abbiano
qualcosa in comune. In questo modo non si nega che esistano delle proprietà comuni a tutte le
porzioni chiamate “acqua” ma che queste proprietà siano conosciute o comunque che possiamo
essere sicuri di conoscerle.
- Un’altra tesi che i teorici del riferimento diretto ammettono è che i parlanti per capirsi quando
usano la parola acqua devono associare a questa parola proprietà simili.

- QUINE E LA CRITICA AI CONCETTI


- Secondo lui solo la scienza empirica è capace di descrivere la realtà ed escludere ogni
rilevanza conoscitiva della filosofia.
- I concetti sono entità dubbie e oscure, di cui sarebbe meglio fare a meno.
- Egli parte dall’idea che il significato di un termine T1 nella lingua L1 sia definibile come ciò che
accomuna T1 con la sua traduzione T2 in una lingua L2.
- Un termine T1 in una lingua L1 non ha alcuna traduzione determinata nella lingua L2: più
traduzioni di T1, incompatibili fra loro, sono possibili in L2.
- Per Quine la nozione di significato è altamente correlata con quella di traduzione.
- Siccome sono possibili più traduzioni di T1, tutte incompatibili fra loro ma comunque possibili,
T1 non avrà un significato determinato.
- Per formulare questa teoria si serve solo di enunciati osservativi, cioè enunciati che parlano di
oggetti concreti che possono essere percepiti dai nostri sensi.
- Per verificare se una traduzione è corretta o no bisogna rivolgersi ai madrelingua, osservando i
loro comportamenti e le loro reazioni di assenso o dissenso.
PROBLEMI:
- Se io faccio vedere una foto di una sposa in spiaggia ad un parlante di lingua L2 per sapere
come si traduce “vestito da sposa” e gli chiedo: gavagai? Come faccio a capire, in caso di
risposta affermativa, che lui non intenda “sposa”, oppure “spiaggia”, oppure ancora “donna”? Il
semplice assenso del parlante non determina la corretta traduzione.
- Le traduzioni appropriate vanno scelte in blocco: se traduciamo un termine in un certo modo,
questo si ripercuoterà sulle traduzioni degli altri termini che dovranno essere scelti di
conseguenza —> concezione olistica.

- ALTRI SINTAGMI NOMINALI


- La posizione più diffusa per quanto riguarda gli altri SN è che non parlano di oggetti ma
esprimono rapporti fra concetti.
- Alternativa a questa teoria, secondo la quale tutti i SN sono referenziali, ovvero si riferiscono
ad uno o più oggetti.

Ex. a) “Luigi ha incontrato un uomo al mercato”


b) “Luigi ha incontrato Paolo al mercato”

“Un uomo” — Non si può sostenere a che si riferisce, poiché non si tratta di un uomo in particolare,
altrimenti A e B sarebbero sinonimi, ma non lo sono.
Sembra scorretto però dire che “un uomo” si riferisce ad un uomo generico o indefinito.
Questa è la difficoltà di attribuire un riferimento preciso ad SN indefiniti, ed ha spinto molti a
credere che la funzione fondamentale dei SN non sia quella di riferirsi ad oggetti.

- SINTAGMI NOMINALI INDEFINITI


- Sono quei SN che non hanno un riferimento definito, cioè a cui non possiamo associare anche
in un contesto uno o più oggetti quali suoi referenti.
Ex. Non pare possibile associare ad “un uomo” uno o più individui definiti.
- Gli SN indefiniti sono: un uomo, alcuni uomini, due uomini, tre, quattro uomini, molti uomini,
parecchi uomini, pochi uomini, qualche uomo, certi uomini, uomini.
- I SN definiti: l’uomo, gli uomini, tutti gli uomini, ogni uomo, ciascun uomo.
“L’uomo” è una descrizione che si riferisce all’unico uomo che soddisfa il contenuto descrittivo in
un certo contesto se ce n’è uno. Mentre “gli uomini, tutti gli uomini, ogni uomo, ciascun uomo” si
riferiscono a quegli individui che sono uomini in un certo contesto.
- Gli indefiniti non hanno un riferimento determinato, ma aprono una serie di alternative di
riferimento. “Un uomo” non si riferisce ad un uomo in particolare ma può riferirsi a questo o
quell’uomo, senza che sia possibile dire con precisione quale.
- I nomi si riferiscono ad insiemi di alternative di riferimento costituite da un solo uomo nel caso
singolare o da più di un uomo nel caso plurale.

- AGGETTIVI
- Si riferiscono solo a proprietà
Ex. “Giallo” denota la proprietà di qualcosa di essere giallo, non gli oggetti gialli.
Uomo si riferisce invece agli uomini veri e propri, non ad una caratteristica.
- Sostantivazione dell’aggettivo:
Ex. “Beati i miti” — in questo caso l’aggettivo “mite” è stato trasformato in un nome ed il SN si
riferisce alle persone miti.
- Per riferirsi ad oggetti attraverso la proprietà espressa essi devono trasformarsi in nomi. Se
questa operazione non viene compiuta esso non si riferirà ad oggetti tramite una proprietà ma si
riferirà alla proprietà stessa.
- Gli aggettivi possono unirsi ai nomi per formare ad un componente di tipo N’ —> l’aggiunta di
aggettivi restringe il numero di alternative di riferimento denotate.
Ex. Se “Uomo” denota tutte le alternative composte da un individuo che ha la proprietà di essere
uomo, “Uomo Mite” dovrà aggiungere a quelle di “uomo” anche quelle di “mite”, restringendo
così il campo di scelta. Il secondo è un sottoinsieme del primo.
- L’unione di nome e aggettivo rende meno indefinito il risultato della denotazione.
- Non c’è alcun limite teorico al numero degli aggettivi che un SN può contenere.

- SINTAGMI PREPOSIZIONALI
- Come gli aggettivi, pongono delle condizioni sulle alternative di riferimento del SN e filtra tutte
quelle alternative che non rispettano le condizioni.
- Tali condizioni sono di solito di tipo relazionale: gli oggetti che costituiscono un’alternativa
devono essere in una certa relazione con un altro oggetto.
Ex. “In Giardino” — prescrive che i referenti del SN abbiano una relazione con il giardino, ovvero
che si trovino all’interno di esso.

- DETERMINANTI CARDINALI
- “Uno, due tre, quattro etc”, “molti, pochi, parecchi etc”
- Funzione simile a quella degli aggettivi: filtrano le alternative di riferimento di N’.
- In questo caso il filtraggio viene operato sul numero di oggetti che ogni alternativa possiede e
non sulle proprietà possedute dagli oggetti alternativa.
Ex “Due uomini” — denota l’insieme degli insiemi costituiti da due elementi che sono uomini.
- Il discorso è più complicato quando non si tratta di cardinali numerici: bisogna stabilire un
numero di alternative che faccia da standard in modo da stabilire se il numero di alternative è
superiore o inferiore ad esso. Molto spesso dipende dal contesto (ex. 2 pesci per il mare è
riduttivo, 20,000 per un salotto è troppo).

- DETERMINANTI DEFINITI
- Riducono le alternative di riferimento presentate dal nome ad una sola.
- La differenza tra i determinati definiti e non è che i secondi riducono le alternative ad un
numero n ma non ad una sola opzione.
- Cosa si intende con scegliere un’unica alternativa fra le altre? Il parlante quando usa un
definito deve fornire al suo ascoltatore abbastanza informazione perché egli possa distinguere il
referente o i referenti da tutti gli altri oggetti.
Ex. “Il presidente dell’Uganda”
- Se ci si rivolge a dei plurali le cose si fanno complicate:
Ex. “Gli Uomini” — fra tutte le alternative di riferimento possibili si riferisce a quella che contiene
più elementi, cioè quella che contiene tutti gli elementi che le altre contengono.
- Un insieme di un solo elemento può contenere solo se stesso quindi tale condizione può
essere soddisfatta solo se esiste un solo insieme che contiene X nel contesto, cioè se esiste un
unico X nel contesto.
- Si può dunque uniformare l’insieme di un solo elemento all’articolo definito: esso individua, fra
tutte le alternative, quella che contiene tutti gli elementi contenuti nelle altre.
- Quando il nome è singolare e non offre che alternative costituite da un solo elemento, allora
questo ha senso quando nel contesto è presente una sola alternativa e quindi un sono oggetto
avente le proprietà espresse dal nome.
- Quando invece il nome è plurale l’articolo definito sceglie l’alternativa che contiene tutte le
altre.

- DETERMINANTI INDEFINITI
- “Alcuni, qualche, certi, taluni”
- Differenze con i determinanti cardinali numerici:
A) non pongono delle condizioni molto stringenti sul numero di oggetti che deve contenere una
alternativa di riferimento.
B) sono incompatibili con i definiti: posso dire “I due uomini” ma non “Gli alcuni uomini”
- Se in un contesto il parlante dice “I due uomini sono arrivati” il destinatario deve essere in
grado di individuare una coppia di uomini rispetto alle altre, se invece il parlante dice “due
uomini sono arrivati” il destinatario non è tenuto ad individuare alcuna coppia di uomini e
l’enunciato si considera vero se una qualunque coppia di uomini è arrivata.

- RIASSUNTO TEORIA REFERENZIALISTA DEI SINTAGMI NOMINALI


- Tesi fondamentale: I SN sono espressioni referenziali, ossia la loro funzione semantica è
quella di denotare oggetti attraverso proprietà.
- Questa tesi va declinata nel caso dei SN Indefiniti che, sebbene referenziali, non si riferiscono
ad oggetti determinati ma lasciano aperte delle possibilità di riferimento alternative.

I VERBI
Differenza semantica tra nomi e verbi:
- I verbi denotato stati ed eventi di oggetti
- I nomi denotano oggetti
Possiamo divedere i verbi mediante 2 caratteristiche:
- Il denotare uno stato o un evento che si sviluppa nel tempo
- Il denotare uno stato o un evento telico (con fine determinato)
Gli oggetti ricoprono ruoli differenti negli stati e negli eventi denotati dai verbi: tali ruoli vengono
definiti “tematici”.

- TEORIA FREGEANA DEI VERBI


Frege sosteneva che i verbi, come i nomi comuni, denotano funzioni da oggetti a valori di verità,
cioè hanno tipo semantico <e,t>
Ex. “Paolo corre” — Paolo denota un oggetto e l’intero enunciato un valore di verità, cioè il vero
o il falso.
Il verbo quindi è una funzione dalla denotazione del nome alla denotazione dell’enunciato, cioè
da oggetti a valori di verità.
“Correre” è una funzione che mappa un oggetto sul vero se esso corre, sul falso altrimenti.
Divide gli oggetti in due classi, quelli che corrono e quelli che non corrono. Essa è quindi un
criterio per individuare l’insieme di cose che corrono.
- CRITICHE ALLA TEORIA
A) Non distingue fra la funzione semantica dei nomi e dei verbi: Secondo Frege anche i nomi
comuni denotano funzioni al vero o falso, quindi entrambi apparirebbero appartenere allo stesso
campo semantico. Una teoria del genere sembra dimenticare un aspetto fondamentale del
linguaggio, cioè che mentre i nomi hanno funzione referenziale, i verbi hanno funzione
predicativa. Il verbo “correre” non serve per riferirsi alle cose che corrono, ma a predicare
qualcosa degli oggetti denotati dai nomi, ovvero che essi corrono.
B) La seconda critica riguarda i sintagmi nominali plurali:
Ex. “I ragazzi corrono”
Se il verbo “correre” è una funzione da oggetti a valori di verità, esso può prendere per
argomento solo oggetti singoli e non più oggetti plurali. Quindi se il SN “I ragazzi” denota più di
un ragazzo esso non può costituire l’argomento di “correre”.
- RISPOSTE ALLE CRITICHE
- Per B:
—> Nonostante le apparenze, “i ragazzi” denota un singolo oggetto (1 gruppo di ragazzi)
—> Non predica dei ragazzi il correre ma mette in relazione due concetti. In particolare afferma
che il concetto di ragazzo è incluso nel concetto di correre.
Il secondo punto può essere vero anche se i ragazzi non si conoscono fra di loro e corrono in posti
diversi, cioè anche se non formano un gruppo. Tuttavia questa teoria non pare prendere
seriamente le differenze tra singolare e plurale.
—> La differenza tra “I ragazzi corrono” e “Il ragazzo corre” sta nel fatto che in questo secondo
enunciato si predica di un solo ragazzo che esso corre, mentre nel primo si predica la stessa cosa
di più di un ragazzo.

Ex. “Le due sorelle di Anna sono arrivate”


—> Il fregeano deve affermare che la frase non predica di Michela e Roberta l’essere arrivate, ma
che il concetto di essere sorella di Anna è soddisfatto da due elementi ed è incluso in arrivare.
Questa analisi sembra implausibile.
Bisogna abbandonare quindi l’idea che i verbi denotino funzioni da oggetti a valori di verità.

- STATI ED EVENTI
- Le azioni sono uno dei tipi di cambiamento a cui gli oggetti vanno incontro. In generale gli
oggetti subiscono dei cambiamenti e delle mutazioni e molti verbi sembrano proprio descrivere
tali cambiamenti.
- Il mondo è costituito da oggetti: essi subiscono cambiamenti, modificano le loro proprietà —>
gli oggetti sono il sostrato dei cambiamenti, ciò a cui i cambiamenti accadono.
- Se non fossero in alcun modo stabili, non potremmo dire che un oggetto ha subito un
cambiamento: per poterlo dire, l’oggetto deve rimanere lo stesso oggetto attraverso il
cambiamento e nonostante esso. Il cambiamento modifica le proprietà dell’oggetto ma non ne
muta l’identità.
- I nomi servono per riferirsi agli oggetti, i verbi per dire a quali cambiamenti gli oggetti vanno
incontro.
- Non tutti i nomi si riferiscono ad oggetti e non tutti i verbi si riferiscono a cambiamenti.
- Giacere, stare, rimanere, tutte le costruzioni del verbo essere come essere stanco, affamato,
un poeta, in giardino denotano stati e non cambiamenti.
- IPOTESI STORICA
- Possiamo ipotizzare che originariamente i nomi nascessero per individuare oggetti concreti e
che i verbi nascessero per predicare cambiamenti di tali oggetti.
- L’evolversi delle forme di pensiero ha sentito la necessità di parlare non solo di oggetti
concreti, quindi vennero coniati anche nomi per denotare entità astratte.
Ex. “Malleabilità”: proprietà che alcuni oggetti possiedono e tale proprietà esiste solo perché le
cose malleabili esistono. Sostantivizzazione dell’aggettivo “malleabile” —> nome astratto.
- Allo stesso modo è ipotizzabile che inizialmente nelle lingue umane tutti i verbi o la
grandissima maggioranza di essi denotassero cambiamenti, e solo in un secondo tempo stati e
proprietà. Per quanto si vada indietro nel tempo non si trovano lingue costituite solo da nomi che
denotano oggetti solo concreti e verbi che denotano solo cambiamenti.
- La sostantivizzazione di molti verbi fa pensare che essi esistessero ancor prima dei nomi.
- IPOTESI TEORICA
- Esiste un numero considerevole di nomi che non si riferiscono ad oggetti concreti e verbi a
cambiamenti.
- I nomi hanno la funzione di individuare le cose di cui vogliamo parlare, mentre i verbi hanno la
funzione di dire qualcosa a proposito delle cose individuate dai nomi.
- Fra le cose di cui possiamo parlare non esistono solo le cose concrete ma anche i mutamenti e
le proprietà. La mente umana può rendere oggetto ciò che oggetto non è.
- Le proprietà che esistono nel mondo reale sono sempre possedute da qualcosa: non esiste il
bianco in sé, ma esiste quello di questo golfino, di quella macchina. eppure l’essere umano
riesce a pensare al “bianco” senza per forza associarlo ad un oggetto in particolare, rendendolo
così un oggetto astratto.
- Quindi quando diciamo che i nomi si riferiscono ad oggetti non significa solo quelli concreti ma
anche quelli che la mente è in grado di rendere oggetto, isolare e far diventare astratti (ex.
bianco) —> Oggetto è tutto ciò che la mente concepisce per sé e non come aspetto di
qualcos’altro.
- Allo stesso modo i verbi devono essere intesi come ciò che predica qualcosa degli oggetti
individuati dai nomi. Predicare vuol dire attribuire un aspetto, una proprietà, un cambiamento
all’oggetto individuato dal nome. I verbi denotano aspetti che ineriscono alle entità pensate
come autonome, servono per attribuire qualcosa all’oggetto che non sarebbe autonomo senza
di esso.
- Tipicamente i verbi attribuiscono agli oggetti proprietà (stati) o cambiamenti (eventi).

- TIPI DI VERBI
- Funzione dei verbi: predicare stati ed eventi di oggetti autonomi.
Distinzione tra Stati ed Eventi by Zeno Vendler 1957
Gli eventi possono essere divisi in:
- Verbi di processo
- Verbi di culminazione
- Verbi di compimento

- A) STATI
—> Proprietà che gli oggetti possiedono in maniera relativamente stabile.
—> Attribuire uno stato significa attribuire una proprietà relativamente stabile ad un oggetto.
—> Costruzioni come “Copula + Agg”, “Copula + SN”, “Verbo essere + SP” e certi verbi come
“stare, restare, avere fame, credere” predicano stati degli oggetti.
—> Se un oggetto è in un certo stato per un certo intervallo di tempo T, allora esso sarà in
quello stato per tutti gli istanti che formano T.
—> Poiché gli stati hanno questa proprietà di perdurare lungo intervalli di tempo più o meno
lunghi, i verbi che denotano stati accettano modificatori come “per un tempo T”.
—> Non accettano il modificatore “in un tempo T”. Esso infatti implica la presenza di un certo
processo che aveva un certo fine e misura quanto tempo è stato necessario perché si
raggiungesse quel fine.
—> Gli stati non sono telici, non hanno un fine incorporato. Non vuol dire che non si possa
utilizzare in nessun caso il modificatore “In un tempo T”, però quando viene utilizzato ha un
significato diverso da quello usuale.
Ex. “Paolo è stanco in 5 minuti” — “Anna fu pronta in un’ora”
In questi casi ciò che viene misurato dal modificatore temporale è il processo che ha portato
all’essere stanco di Paolo o all’essere pronta di Anna.
—> Non sono agentivi, cioè l’oggetto a cui viene attribuita la proprietà espressa dal verbo non è
mai un agente. Un agente è un individuo che intenzionalmente compie un certo atto. Ma i verbi
stativi non denotano alcun cambiamento e quindi non implicano l’esistenza di alcun atto da parte
dell’oggetto.
Ex. “Anna ha sonno” — Anna non compie nessuna azione, ad Anna capita di avere sonno, cioè
Anna è in quello stato.
—> Sono di solito incompatibili con la forma progressiva inglese -ing.

- B) CAMBIAMENTI - VERBI DI PROCESSO


—> Denotano cambiamenti non telici, cioè che non hanno un fine determinato.
—> Denotano attività che potrebbero andare avanti all’infinito se non venissero fermati da un
intervento esterno.
—> Non hanno alcun fine implicato nel significato del verbo (ex. rotolare).
—> Sono costituiti da una serie di cambiamenti che si susseguono gli uni dopo gli altri. Questi
piccoli cambiamenti possono formare una serie di lunghezza indefinita.
—> Hanno una proprietà per certi versi simile a quella degli stati: se è vero che un processo si
svolge per un periodo di tempo T, allora si svolgerà anche per tutti i momenti che formano T.
Non ci si spinge però agli istanti.
Ex. “Paolo ha camminato per un’ora” — Paolo ha camminato per tutti i sottointervalli di un’ora,
ma non sappiamo se abbia camminato tutti gli istanti di quell’ora.
—> Possono (anche se non devono) essere agentivi: Camminare e guidare sono agentivi,
ovvero implicano la presenza di un soggetto che faccia quell’azione. Rotolare non è agentivo se
lo fa un sasso, sì se lo fa una persona per scappare a qualcosa.
—> Non accettano il modificatore “in un tempo T” —> “Guidare in un’ora” non ha senso.
—> Accettano “in un tempo T” solo se gli cambiamo il significato.
Ex. “In due giorni Anna tornò a camminare” —> Il processo di convalescenza è telico, pertanto
la guarigione di Anna può essere misurata in un tempo T.
—> Sono invece compatibili con “per un tempo T” —> “Paolo ha camminato per due ore”
—> Accettano la forma progressiva inglese -ing —> possiamo paragonarla all’italiano “stare +
gerundio” e che quindi descriva un’azione in corso.
—> I processi sono attività omogenee, quindi basta dire che un’attività si sia sviluppata per un
certo intervallo di tempo perché si possa dire che l’attività si è verificata.

- CAMBIAMENTO - VERBI DI COMPIMENTO


—> Descrivono cambiamenti telici, cioè che hanno un fine determinato.
—> Essi sono quasi sempre sintagmi verbali interi, cioè sono formati da un verbo e da un SN o
SP.
—> Esempi: Leggere un libro, tagliare il prato, costruire una casa, scalare un monte etc.
—> Nello stesso momento in cui il fine è raggiunto, il processo termina. Osservando l’oggetto è
possibile capire quando l’attività è vicina alla fine.
—> Possiamo continuare a girare una ruota indefinitamente o a scarabocchiare un foglio senza
alcun fine preciso. La differenza fra costruire una casa e girare la ruota è che la prima non è
ripetibile (o meglio sì, ma non sarebbe la stessa casa) mentre la seconda sì.
—> Accettano il modificatore “in un tempo T”, che indica in quanto tempo si è raggiunto il fine.
Ex. “Maria ha gonfiato la palla in 30 secondi”
—> Accettano il modificatore “per un tempo T”, che indica per quanto tempo l’attività è durata.
Esso è neutrale circa il raggiungimento o meno del fine.
Ex. “Paolo ha letto il libro per tre giorni” (ma poi non l’ha finito).
—> Accettano la forma progressiva inglese -ing che si limita a dire che l’attività è in corso ed è
neutrale al raggiungimento o meno del fine.
—> Indicano attività che mirano ad un fine, non basta che l’attività si sia sviluppata per un certo
tempo perché si possa dire che il suo fine si sia raggiunto.
Ex. “Anna stava correndo” — progressivo passato, indica solo che un certo evento era in corso nel
passato.

- CAMBIAMENTI - VERBI DI CULMINAZIONE


—> Indicano un cambiamento che avviene idealmente in un istante di tempo, cioè che non ha
alcuna durata temporale.
—> Denotano cambiamenti telici che consistono nel passaggio da uno stato all’altro che
costituisce il fine del cambiamento.
—> Denotano cambiamenti talmente subitanei che vengono considerati senza durata.
—> Generalmente non accettano la forma progressiva e se lo fanno significa che qualcosa sta
per succedere, non che è in corso.
Ex. “Paolo is noticing Maria”.
Ex. Che la bomba stava esplodendo non significa che era in corso l’esplosione della bomba ma
il processo che avrebbe portato all’esplosione di essa.
—> Non accettano il modificatore “per un tempo T” perché non hanno durata.
—> Non accettano il modificatore “in un tempo T” perché il fine viene raggiunto nell’istante in cui
si verifica l’azione.
- I RUOLI TEMATICI DEI VERBI
- Finora abbiamo dato per scontato che la predicazione di stati o eventi riguardasse un solo
oggetto, ma un singolo stato o evento può coinvolgere più oggetti.
Ex. “Paolo ama Maria”
Ex. “Il tavolo è fra la sedia e la poltrona”
- Il ruolo tematico dice a quale titolo l’oggetto è coinvolto nell’enunciato.
- Conoscere il significato di un verbo significa anche conoscere quali ruoli tematici sono
associati agli stati o eventi che esso denota.
- Il numero e il tipo di ruoli tematici legati ad un verbo sono riassunti in quelle chiamate griglie
tematiche.
Ex. “Correre” — GT = <agente>
Ex. “Spingere” — GT = <agente> e <paziente>
Ex. “Donare” — GT = <agente> e <paziente> e <beneficiario>
- SI fa riferimento al numero di posti nella griglia tematica come alla valenza del verbo (correre
valenza 1, spingere 2, donare 3 etc)
- Gli stati e gli eventi possono coinvolgere altri oggetti in altra forma oltre a quelli previsti dalla
GT.
Ex. “Paolo camminava con Anna lungo la via sotto al sole cocente”
La griglia tematica di camminare è <agente> eppure sono citati altri oggetti: Anna, via, sole.
Si suppone che tali oggetti specifichino il processo ma non facciano propriamente parte di esso.
Per camminare è necessario un solo agente, che l’azione sia svolta in compagnia o meno non è
essenziale perché essa avvenga.
- E’ uso chiamare i sintagmi preposizionali che specificano lo stato o l’evento denotato dal verbo
Aggiunti.
- Possiamo quindi dividere le parti che fanno parte della griglia tematica (Nucleo) e quelle che
fanno parte degli aggiunti (Periferia).
- Oltre ai SP, anche gli avverbi fanno parte della periferia.
- Quanti e quali ruoli tematici ci sono?
a) La distinzione tra nucleo e periferia non è per niente definita, non esiste criterio
grammaticale per dividerli.
b) Non è quindi chiaro quanti e quali ruoli tematici esistano.
TEORIE
—> Gli elementi del nucleo sono quelli necessari, quelli della periferia sono opzionali.
Ex. “Paolo mangia la torta” — Paolo mangia (nucleo) la torta (periferia)
Ex. “Paolo divora la torta” — Paolo divora (da solo non ha senso, ci deve per forza essere un
continuo).
Quindi se un elemento del nucleo possa essere sottinteso o meno dipende da fattori legati ai
singoli verbi e non da regole di carattere generale.
—> Gli elementi del nucleo sono quelli necessari affinché l’azione si possa svolgere.
Ex. “Anna è arrivata a Roma con la macchina” — Anna è arrivata a Roma (nucleo) con la
macchina (periferia)
Questo perché non è necessario l’uso di un mezzo per arrivare, ma bisogna avere un luogo di
arrivo.
—> I ruoli tematici di un verbo sono occupati dal suo soggetto, dal suo (eventuale) complemento
oggetto e da suo (eventuale) complemento di termine.
Ex. Questa tesi non funziona per “arrivare” dove il complemento di moto a luogo sembra
occupare un ruolo tematico.
—> La posizione più prudente da assumere è questa: la distinzione tra nucleo e periferia di un
verbo esiste ma non è netta. Molte delle distinzioni che usiamo nella vita non sono nette ma non
per questo non esistono.

- TIPI DI RUOLI TEMATICI


- Alcuni studiosi ne distinguono solo 3:
A) Agente
B) Paziente
C) Beneficiario o Scopo
- In alcuni casi è giusto dire che il soggetto è l’agente:
Ex. “Paolo mangia la torta”
- In altri invece la situazione si complica:
Ex. “Paolo è inciampato” — in questo caso non sembra corretto dire che Paolo è agente, poiché
subisce l’azione di inciampare.
Alcuni studiosi hanno a questo proposito introdotto il ruolo di Tema: ruolo che vorrebbe riunire
gli oggetti che subiscono l’azione nei verbi bivalenti (con due ruoli tematici) e gli oggetti che
subiscono un evento nei verbi monovalenti (un ruolo tematico).
Il verbo “essere” ha come soggetto un tema, perché gli capita l’evento. Il verbo “avere” invece
denota un agente.
- L’intenzionalità è una proprietà necessaria per essere agenti?
—> O si minimizzano le differenze tra oggetti con intenzionalità e senza riducendoli entrambi a
semplici agenti.
—> O si distinguere gli agenti intenzionali da quelli non e dargli due ruoli tematici diversi.
- RUOLO TIPICO AGENTE secondo DOWTY
—> intenzionalità
—> essere senziente
—> causa un cambiamento in un altro oggetto partecipante all’evento
—> essere in movimento rispetto agli altri oggetti
—> avere un’esistenza indipendente dagli altri oggetti
- RUOLO TIPICO PAZIENTE secondo DOWTY
—> subire un cambiamento
—> essere casualmente affetto da un altro oggetto partecipante all’evento
—> essere statico rispetto agli altri oggetti
—> avere un’esistenza dipendente
- TANYA REINHART
—> I due tratti fondamentali per assegnare un ruolo tematico sono l’essere in uno stato mentale
e la casualità:
A) mentale e causativo (+m+c)
B) mentale e non causativo (+m-c)
C) non mentale e causativo (-m+c)
D) non mentale e non causativo (-m-c)
La opzione C caratterizza il ruolo di strumento.
Ex. Masso che distrugge la macchina ha un ruolo causale ma non è in uno stato mentale.

- PROIEZIONE DEI RUOLI TEMATICI SULLA STRUTTURA SUPERFICIALE


Un problema relativo ai ruoli tematici è quello concernente la proiezione di tali ruoli sulla
struttura superficiale dell’enunciato (soggetto, oggetto, complemento di termine etc).
L’agente è solitamente il soggetto della frase, il paziente il complemento oggetto, il beneficiario il
complemento di termine.
- Non funziona così con le strutture passive
Ex. “Anna ha costruito la casa”
Ex. “La casa è stata costruita da Anna”
I due esempi sono diversi perché il soggetto cambia dalla prima alla seconda frase, rendendo lo
schema di cui sopra inappropriato.
- Anche all’interno delle frasi attive ce ne sono alcune che non combaciano con lo schema
Ex. “Paolo ha ricevuto la lettera da Anna”
Ex. “Anna ha subito l’intervento”
Il verbo “ricevere” proietta l’agente sul complemento indiretto, il paziente sul complemento
oggetto e il beneficiario sul soggetto.
- Tanya Reinhart ha provato a fare una generalizzazione
—> Se un verbo ha valenza 2 e una dei suoi ruoli tematici è (+m+c) e l’altro è (-m-c), il primo
sarà il soggetto, il secondo il complemento oggetto.
—> Ex. “Paolo ha chiuso la porta” // “La porta si è chiusa”
Il tema (la porta) nella prima frase fa da complemento oggetto, nella seconda da soggetto.
L’agente (Paolo) nella prima è il soggetto, nella seconda non viene proiettato.
In italiano questa riduzione del numero di ruolo proiettati è segnalata con la comparsa del
riflessivo, ma altre lingue non possiedono segnali del genere. Solo alcuni verbi permettono la
riduzione.
—> Esiste una regola generale per capire quale verbo si può ridurre e quale no?
I verbi come aprire, schiacciare, riempire, permettono la riduzione perché non richiedono
necessariamente un agente ma solo uno strumento. Hanno come GT <strumento,tema>
—> Questo vorrebbe dire che le lingue distinguono l’agente dallo strumento: solo gli strumenti
possono non venir proiettati, gli agenti non possono essere eliminati.

GLI ENUNCIATI
Sono costrutti formati da SN e SV.
SN + SV = E

Il verbo (V) si compone prima con un numero indefinito di SN, avverbi ed SP; il costituente che
risulta da questa composizione (V’) si compone a sua volta con un eventuale ausiliare per formare
il sintagma verbale completo. Esso è il risultato della saldatura del verbo con il nucleo
dell’enunciato (tranne il SN soggetto che si aggiunge alla fine) e con la sua periferia.

- MOVIMENTO
- E’ convinzione di molti studiosi di sintassi che la struttura sintattica superficiale derivi da una
più profonda. Essa deriverebbe da quest’ultima tramite movimenti di costituenti: alcuni elementi
presenti nella struttura profonda si muoverebbero ed andrebbero ad occupare altre posizioni.
Ex. A) “Paolo è stato investito”
B) “Quale penna usa Anna di solito?”
- In A Paolo è il tema dell’enunciato e ricopre la posizione di complemento oggetto. E’ possibile
pensare che le frasi passive derivino da quelle attive mediante il movimento del complemento
oggetto che va ad occupare la posizione del soggetto. Nel passaggio dalla frase attiva a passiva
Paolo si sposta da complemento oggetto, interno al SV, a soggetto, esterno al SV.
- In B il SN interrogativo “quale penna” ha funzione di complemento oggetto. Esso però non
segue il verbo ma addirittura precede il soggetto. Anche in questo caso è possibile che il
complemento oggetto si sia spostato per posizionarsi ad inizio frase.
- Questi ed altri esempi inducono a pensare che le frasi siano costruite saldando gli elementi gli
uni con gli altri e poi spostando alcuni degli elementi in altre posizioni.
- Alcuni sintatticisti ipotizzano che nella struttura profonda il soggetto è sempre all’interno dei SV
e che solo dopo si sposa in una posizione esterna ad esso.
- La saldatura a livello profondo dei vari componenti dell’enunciato avviene in modo un po’
diverso da come detto prima: il verbo si salda prima con il nucleo (compreso il soggetto) e con la
periferia e poi con l’ausiliare.

- SEMANTICA DEL VERBO


- Il significato del verbo “correre” ha due componenti, quella concettuale e quella mondana (così
come i nomi). Essa rimanda ad un concetto (concettuale) che a sua volta individua una serie di
enti nel mondo (mondana).
- La differenza rispetto al nome è che le entità individuate da esso sono autonome, mentre
quelle denotate dal verbo sono dipendenti.
- Il verbo “correre” rimanda al concetto di correre, ovvero al tipo di mutamento a cui vanno
incontro le cose che corrono. Nel mondo non esiste il correre in quanto tale, ma esiste quello di
Anna, di Paolo, di un certo gatto. Questi cambiamenti esistono in quanto ineriscono
rispettivamente ad Anna, Paolo e il gatto. Tuttavia sono entità mondane nel senso che sono un
aspetto degli oggetti che esistono nel mondo.
- Il verbo “correre” denota dunque l’insieme di eventualities che appartengono al tipo del correre,
cioè che hanno quelle proprietà che discriminano le eventualità di correre da tutte le altre
eventualità.
- La denotazione di “correre” è dunque l’insieme delle “e” che hanno la proprietà “C” —>
l’insieme delle singole eventualità di correre. Chi ha la proprietà “C” allora è un’eventualità di
correre, altrimenti no.

- LA SALDATURA CON GLI ELEMENTI DEL NUCLEO


- Le eventualità non sono entità anonime: esistono solo in quanto ineriscono a certi oggetti.
- Un evento è sempre un evento che accade ad un certo oggetto; uno stato è sempre uno stato
in cui si trova un certo oggetto.
Ex. “Paolo corre”

Fattori fondamentali per capire questo enunciato:


A) a quale oggetto il nome proprio Paolo fa riferimento
B) a quale tipo di eventualità l’enunciato fa riferimento (eventualità di correre)
C) quale ruolo gioca Paolo in queste eventualità (agente).
Questi tre fattori possono essere riassunti nel modo seguente: l’enunciato fa riferimento alle
eventualità che sono eventualità di correre ed hanno come agente Paolo.
- Se un verbo ha più posti nella griglia tematica, allora essi possono entrare fra le condizioni che
le eventualità dell’insieme devono soddisfare.
Ex. “Paolo ama Maria”
L’enunciato è costruito saldando prima il SN “Maria” al verbo “amare”.
Ex. “Anna solleva il tavolo”
Insieme delle eventualità che sono eventualità di sollevare il tavolo che hanno come agente
Anna e come paziente l’unico elemento denotato dalla descrizione definita, ovvero il tavolo.

- LA SALDATURA DI SN PLURALI DEFINITI: DISTRIBUTIVO E COLLETTIVO


I verbi possono congiungersi anche con SN plurali.
Ex. “Anna e Paolo sono arrivati”
L’enunciato “Paolo è arrivato” si riferisce a tutti gli eventi in cui Paolo arriva. L’esempio si
riferisce a tutte le coppie di eventi di arrivare che hanno come agente del primo evento Paolo e
del secondo Anna.
In realtà questa ipotesi è scorretta. Si consideri:
Ex. “Anna e Paolo si sono incontrati in cortile”
Gli eventi di incontro richiedono un agente plurale: per incontrare bisogna essere almeno in due.
Nonostante il soggetto plurale, l’esempio fa riferimento a singoli eventi di incontrarsi. Il che vuol
dire che lo stesso ruolo tematico può essere ricoperto da più oggetti. Anna e Paolo si dividono il
ruolo di agente.
Ex. “I ragazzi si sono incontrati nei cortili”
Può far riferimento ad una situazione in cui i ragazzi si sono incontrati a gruppi in diversi luoghi.
In questo caso avremo tanti incontri quanti sono i capannelli di ragazzi: questa situazione non è
distributiva in quanto non ci sono tanti eventi di incontro quanti i ragazzi (per incontrarsi bisogna
essere almeno in due) ma non è neppure collettiva perché non esiste un unico evento di
incontro a cui tutti i ragazzi hanno partecipato. Esiste una pluralità di eventi ognuno dei quali ha
un agente collettivo.

- INDETERMINATEZZA SEMANTICA
Ex. “Anna e Paolo hanno sollevato il tavolo” — potrebbe voler dire “insieme” (A) o
“separatamente” (B)
- Nel caso A esiste un solo evento di sollevamento in cui il paziente è il tavolo e l’agente sono
Anna e Paolo insieme.
- Nel caso B esistono due eventi di sollevamento in cui il paziente è il tavolo e l’agente è una
volta Anna e una volta Paolo.
Questo esempio può descrivere sia azioni collettive che distributive.
—> Problema 1: nelle letture collettive chi è l’agente? sono Anna e Paolo o il gruppo formato da
Anna e Paolo?
—> Problema 2: poiché l’enunciato ha due letture non possiamo dire che è ambiguo e sarà il
contesto a decifrare qual è il significato inteso dal parlante?
La fonte dell’ambiguità pare essere la congiunzione “e”. Ma se tale congiunzione ha due
significati, ci aspetteremmo che in lingue diverse dall’italiano i due significati siano tradotti in due
parole diverse.
- Se l’ambiguità di una parola è casuale non sarà difficile trovare lingue in cui quel caso non si
verifica. Questo non succede con la congiunzione “e”.
- Una parola ambigua come “miglio” assume uno o l’altro significato a seconda del contesto, è
difficile che voglia dire entrambe le parole allo stesso momento.
- La teoria del minimalismo semantico: Una frase ambigua ha un significato indeterminato,
che non specifica fra le due diverse situazioni che lo possono rendere vero. Questo significato
può essere ristretto contestualmente.
Ex. “Il libro di Anna”
a) il libro posseduto da Anna
b) il libro scritto da Anna
c) il libro che Anna ha in mano
etc.
Sembra implausibile che “di” sia ambiguo —> esso esprime il fatto che esiste una relazione tra
Anna ed il libro: questa relazione viene specificata dal contesto.

- LA SALDATURA DEI SN DEFINITI PLURALI: FORMALIZZAZIONE


- E’ preferibile la tesi in cui l’enunciato ha significato indeterminato (e non ambiguo) e che sia il
contesto a determinarne la codifica.
- “Anna e Paolo hanno sollevato il tavolo” — indica gli eventi di sollevamento del tavolo che
hanno Anna e Paolo come agenti, indipendentemente se insieme o da soli. Saranno quindi presi
in considerazione sia gli eventi singoli che gli eventi in collaborazione.
- Ex. “I ragazzi hanno sollevato il tavolo”/“Questi ragazzi hanno sollevato il tavolo” — sarà vero
in una serie di situazioni.
a) che l’abbiano sollevato indipendentemente
b) che l’abbiano sollevato in squadra
c) che l’abbiano sollevano in più gruppi
- Ci sconsigliano di considerare ambigui entrambi gli esempi: se i ragazzi sono molti il numero di
significati possibili crescerebbe in modo esponenziale e non controllabile.
- “I ragazzi” denota l’unico insieme che contiene nel contesto tutti gli altri insiemi che contengono
i ragazzi. L’insieme denotato è quello che contiene tutti i ragazzi. Denota le eventualità o le
pluralità di eventualità di sollevamento il cui paziente è il tavolo e i cui agenti sono i ragazzi, non
importa se da soli o insieme o a gruppi. Sarà il tipo di verbo e il contesto a specificare se
dobbiamo considerare solo le eventualità singole o solo le pluralità o entrambi.

- SALDATURA DEI SINTAGMI NOMINALI INDEFINITI


- Teoria secondo cui questi SN denotino insiemi di insiemi di oggetti, e non solo insiemi di
oggetti.
Ex. “Un ragazzo è caduto”
- L’ipotesi che “un ragazzo” non denoti un singolo ragazzo ma un insieme di alternative
concerne il fatto che l’enunciato sia vero in tutte le situazioni in cui un ragazzo è caduto. Ognuno
degli insiemi a cui “un ragazzo” fa riferimento contiene un elemento e ognuno di questi elementi
(cioè dei ragazzi) può costruire il tema di un evento di cadere.
- Con gli indefiniti plurali possiamo mantenere lo stesso trattamento:
Ex. “Due ragazzi hanno sollevato Anna”
L’enunciato è vero se una qualunque coppia di ragazzi è l’agente di un evento o di una pluralità
di eventi di sollevamento di Anna, indipendentemente dal fatto che i ragazzi abbiano agito
insieme o no. L’enunciato denota quindi tutti gli eventi o le somme di eventi di sollevamento di
Anna in cui gli agenti sono due ragazzi.
Questa semantica è neutrale circa il modo su cui ogni coppia ha agito, se insieme o meno: sono
comprese sia situazioni in cui gli elementi delle coppie hanno agito da soli che insieme.

- LA SALDATURA DEGLI AGGIUNTI


Gli aggiunti sono di due tipi:
- Avverbi
- Alcuni tipi di sintagmi preposizionali

A) AVVERBI
Gli avverbi denotano proprietà degli stati o eventi denotati dal verbo. Specificano il significato del
verbo restringendo il numero degli stati o eventi denotati (stessa funzione che hanno gli aggettivi
con i nomi).
Se “camminare” denota un insieme di eventi o pluralità di eventi, “camminare lentamente”
denoterà un sottoinsieme di quell’insieme, in quanto gli eventi di camminare lentamente sono
meno di quelli di camminare.
B) I SP AGGIUNTI
Essi fanno parte della periferia e specificano gli stati o eventi denotati dal verbo mettendoli in
relazione con qualcosa d’altro, cioè collocandoli rispetto ad altri oggetti esistenti (stessa
funzione dei SP che specificano i nomi). Vanno quindi presi in considerazione solo quelli che
hanno una certa relazione con un oggetto del mondo.
Ex. “Paolo preparò il pranzo”
“Paolo preparò il pranzo in giardino”
“In giardino” specifica e riduce la quantità di eventi da prendere in considerazione poiché
devono avere come agente Paolo che prepara il pranzo e devono avere luogo in giardino.
La preposizione “in” esprime una relazione con un oggetto. Con tale oggetto possono essere in
relazione sia oggetti (denotati dai SN) che stati o eventi (denotati dai verbi).

- TEMPI VERBALI
- Una volta che il verbo si è saldato con il nucleo e con la periferia si salda con l’ausiliare. Esso
segnala il tempo verbale e l’aspetto del verbo stesso.
- “aux” in realtà ospita la morfologia verbale sia che nella frase sia presente un ausiliare sia che
non lo sia.
- Ex. “Paolo ha sempre corso” (A)
“Paolo correva sempre” (B)
La A dimostra che l’avverbio “sempre” si posiziona tra ausiliare e verbo. Quando l’ausiliare
manca come in B, “sempre” si pone dopo il verbo. Possiamo spiegare questa posizione se
supponiamo che il verbo è spostato dalla posizione V ed è andato a saldarsi in AUX.
- Se la teoria sintassi è corretta allora il verbo senza alcuna flessione si salda prima con il nucleo
e con la periferia, poi con la propria flessione verbale.
Ex Paolo -eva sempre corr-

- IL SISTEMA DEI TEMPI VERBALI IN ITALIANO


- Nei paragrafi precedenti è stata illustrata una teoria secondo cui la denotazione di V’ è
costituita da un insieme di eventualità o di pluralità di eventualità. Gli elementi del nucleo e quelli
della periferia restringono il numero delle eventualità contenute nell’insieme, rendendo meno
indeterminato il significato dell’enunciato.
- Non è stato finora considerato l’apporto del tempo verbale.
- Un tempo passato indica che le eventualità denotate si collocano tutte nel passato rispetto al
tempo di emissione dell’enunciato. Quindi la flessione del passato, posta in aux, prende come
input le eventualità o somme di eventualità che sono collegate nel passato rispetto al tempo di
emissione, escludendo tutte le eventualità collocate nel presente o nel futuro.
- Per rendere conto dei tempi composti è necessario prendere in considerazione un altro tipo di
tempo, il “reference time”
Ex. “Dopo che ebbe finito di mangiare, Paolo sparecchiò”
- Il trapassato remoto indica una precedenza non solo rispetto al tempo di emissione ma anche
ad un’altra eventualità che viene menzionata nel contesto dell’enunciato. “Ebbe finito” segnala
che l’eventualità di finire di mangiare precede temporalmente quella di sparecchiare.
Il tempo in cui avviene lo sparecchiare è definito reference time (del trapassato remoto, in
questo caso). Le eventualità di finire di mangiare devono precedere il reference time.

- Trattamento uniforme dei tempi composti in italiano:


a) il trapassato prossimo prescrive che le eventualità siano collocate nel passato e
precedentemente a un reference time indicato da un passato prossimo o un imperfetto.
b) il futuro anteriore prescrive che le eventualità siano collocate nel futuro ma precedentemente
ad un reference time indicato da un tempo futuro.
c) l’unico problema potrebbe essere rappresentato dal passato prossimo: esso dovrebbe
indicare la precedenza rispetto ad un reference time, ma quale? —> il momento dell’emissione
stesso. Il passato prossimo indica una semplice precedenza rispetto a T0. In tal modo però
finisce per avere la stessa funzione del tempo semplice che indica una precedenza rispetto a
T0, cioè il passato remoto. Passato prossimo e remoto hanno più o meno la stessa funzione.
- Somiglianza tra i determinanti nominali e la flessione del verbo: entrambi sono elementi
funzionali che diminuiscono gli elementi denotati da N’ e V’ (al limite riducendoli ad uno solo)
facendo leva, i determinanti sul numero degli oggetti contenuti negli insiemi e sui soli rapporti di
inclusione, la flessione temporale sulla collocazione temporale delle eventualità.

- L’ ASPETTO
La flessione temporale non indica in italiano solo il tempo ma anche l’aspetto. Si tratta della
differenza tra perfetto ed imperfetto.
- Mentre il passato prossimo e il passato remoto vengono considerati tempi perfetti, l’imperfetto
e il presente sono considerati imperfetti.
Ex. A) “Paolo ha corso”
B) “Paolo corse”
C) “Paolo correva”
D) “Paolo corre”
- La prospettiva da cui sono considerate le eventualità di correre a cui A e B fanno riferimento è
esterna, nel senso che lo consideriamo un evento concluso e trascorso. La prospettiva di C e D
è interna in quanto non è implicita la conclusione dell’evento.
- Si ponga che anche l’imperfetto faccia riferimento ad un reference time. La differenza tra i
tempi composti e l’imperfetto consiste nel fatto che mentre i primi prescrivono che le eventualità
del verbo precedano il reference time, l’imperfetto prescrive che le eventualità del verbo
includano temporalmente il reference time.
- Il reference time del tempo presente è il presente stesso.
Ex “Paolo corre” — ci dice che l’eventualità di correre da parte di Paolo è in corso nel presente,
non che è conclusa nel presente. Il presente è incluso temporalmente in essa.
- Il tempo imperfetto non garantisce che l’evento sia andato a buon fine. Semplicemente si
afferma che al reference time era in corso un evento che aveva un certo fine, ma si è neutrale
circa il raggiungimento di tale fine.
- Il presente e l’imperfetto hanno anche letture abituali:
Ex. “Anna corre al parco (tutte le domeniche)” — “Anna correva nel parco (tutte le domeniche)”
Finchè non specifichiamo “tutte le domeniche” le due frasi hanno significato ambiguo.
- Come dobbiamo considerare le letture abituali dei tempi imperfetti? Dobbiamo considerare
questa flessione temporale ambigua? Rimane il dubbio del perché le lingue abbiano scelto i
tempi imperfetti per esprimere l’abitualità e non quelli perfetti.

- FORZE ILLOCUTORIE
A) Vai — constatazione del fatto che il destinatario sta andando
B) Vai? — domanda per accertarsi che il destinatario se ne stia andando
C) Vai! — ordine che vuole spingere il destinatario ad andarsene
Tutti e tre fanno riferimento all’insieme delle eventualità che hanno come agente il destinatario.
John Austin dice che essi differiscono per la loro forza illocutoria: essa è l’azione che facciamo
nel parlare.
Si tratta di capire quanti e quali tipi di azioni possiamo compiere con il linguaggio e come è
possibile dare conto di essere all’interno del quadro che stiamo creando.

- VERITA’ E FELICITA’
- Gli enunciati dichiarativi che abbiamo visto finora possono essere veri o falsi.
- Tuttavia gli altri tipi di enunciati (ordini, promesse, sentenze etc) non possono essere giudicati
tali: se domando al mio vicino che ore sono, la mia domanda non è ne vera ne falsa, se ordino
un caffè, esso non è ne vero ne falso. La dimensione della verità e della falsità sembra
riguardare solo uno dei tipi di enunciato che possiamo emettere, ma non tutti. Essi sono
giudicabili tramite altre dimensioni:
Ex. “Prometto che sono venuto”
- Questo enunciato è difettoso: non si può promettere al passato, ma solo al futuro.
Ex. A) [Senza avere l’autorità per farlo] !Vi dichiaro marito e moglie”
B) “Ti ordino di volare”
C) [Senza essere affatto grato] “Grazie!”
- A è difettoso perché il parlante non ha l’autorità per sposare due persone quindi il suo atto non
va a buon fine.
- B è difettoso perché è un qualcosa che non può essere compiuto dal destinatario, quindi è un
ordine fallito in partenza.
- C è difettoso perché il parlante esprime una gratitudine che in realtà non prova.
- Austin chiama i vari difetti Infelicità.
- La falsità è solo un caso di Infelicità.

- TIPI DI ATTI ILLOCUTORI


John Searle classifica i tipi enunciati:
A) Enunciati informativi — funzione di dire come stanno i fatti;
B) Enunciati direttivi — funzione di dirigere il comportamento del destinatario;
C) Enunciati commissivi — funzione di impegnare il mittente a un dato comportamento in futuro;
D) Enunciati espressivi — il mittente esprime il suo atteggiamento psicologico nei confronti di
certi fatti al fine di stabilire e mantenere relazioni sociali con i suoi interlocutori;
E) Enunciati dichiarativi — funzione di produrre un cambiamento nel mondo (se si presuppone
l’esistenza di istituzioni sociali regolate da leggi.

- Al fine di analizzare ogni tipo di enunciato è necessario distinguere fra il contenuto


proposizionale e la forza illocutoria:
CP: coincide con una serie di eventualità o di pluralità di eventualità variamente caratterizzate
dagli elementi del nucleo o della periferia.
FI: tipo di atto con cui investiamo il contenuto proposizionale.
Ex. “(Ti prometto che) verrò”
Il CP è l’insieme delle eventualità future di andare, la FI è la promessa, cioè il mittente si
impegna circa la realizzazione del CP stesso.

- CONDIZIONI AFFINCHE’ GLI ENUNCIATI NON SIANO DIFETTOSI


- Sul contenuto proposizionale
- Preparatorie
- Di sincerità
A) Asserzioni
—> CP: enunciato deve corrispondere ai fatti, deve essere vero
—> P: enunciato deve essere davvero informativo
—> S: il mittente non deve mentire
B) Direttivi
—> CP: non si può ordinare qualcosa sul passato
—> P: colui a cui viene ordinato di fare X deve essere in grado di farlo
—> S: il mittente deve volere che il destinatario faccia X
C) Commissivi
—> CP: non si può promettere sul passato o che qualcuno faccia qualcosa
—> P: non è già ovvio che il mittente farà X
—> S: il mittente deve avere intenzione di fare X
D) Dichiarativi
—> CP: dipende dal tipo di enunciato. Ex. La sentenza di un giudice deve avere come CP certe
disposizioni riguardanti l’imputato
—> P: il contesto deve essere idoneo all’emissione
—> S: dipende dal tipo di enunciato. Ex. Le sentenze di condanna presuppongono che il giudice
creda l’imputato colpevole
D) Espressivi
—> CP: dipende dal tipo di enunciato. Ex. Scusarsi che X pone la condizione che X sia un
insieme di eventualità passate che hanno come agente il mittente
—> P: dipende dal tipo di enunciato. Ex. La condizione preparatoria dello scusarsi è che X abbia
nociuto al destinatario e che il mittente sia, anche solo in parte, responsabile di X
—> S: il mittente deve essere pentito di aver fatto X
- TEORIA DELLE FORZE ILLOCUTORIE
Ex. “Paolo corre”
Il contenuto proposizionale della frase consiste nell’insieme delle eventualità di correre che
hanno come agente Paolo e che si svolgono nel presente, al momento dell’emissione
dell’enunciato. In questo caso la FI significa che il parlante si sta impegnando alla verità del
contenuto proposizionale, cioè alla realtà di una delle eventualità dell’insieme di un contesto.
- La forza illocutoria informativa ci fa passare da un insieme di eventualità virtuali a una
eventualità reale.
Ex. “In questo momento Paolo sta volando sull’Oceano Pacifico”
Il contesto in cui ciò è vero è l’intero mondo reale: con questo enunciato vogliamo affermare che
una delle eventualità di volare che hanno Paolo come tema e che si svolgono al momento
dell’emissione in una certa relazione spaziale con l’Oceano Pacifico è una eventualità realizzata
nel nostro mondo reale, cioè che il nostro mondo reale è tale che contiene una delle eventualità
possibili a cui questo enunciato si riferisce.

- CONCLUSIONE
In questo capitolo è stata presentata una teoria semantica composizionale degli enunciati:
- Il significato del verbo viene prima composto con quello degli elementi del nucleo e poi della
periferia.
- Il tempo verbale è l’elemento successivo a dare il proprio apporto al significato del tutto,
seguito dalla forza illocutoria che investe il contenuto proposizionale.
- Gli enunciati possono venire composti fra loro in enunciati più complessi fino a formare testi di
grande lunghezza.
- Gli enunciati possono essere connessi tra loro tramite congiunzioni, anche se non
necessariamente. E’ importante capire la loro semantica per comprendere il significato degli
enunciati atomici (non divisibili in enunciati più piccoli)
- Rispettare le condizioni di testualità (quelle per poter dire che il testo è un testo)
—> continuità
—> coerenza
- A volte emettiamo enunciati incoerenti e contraddittori senza che quello che diciamo appaia
strano:
Ex. “In questi giorni Paolo non è Paolo”
In questi casi il parlante vuole dire qualcosa di differente da quello che letteralmente dice.

- IMPLICITI COMUNICATIVI
- Gli impliciti comunicativi sono ciò che intendiamo comunicare senza dirlo esplicitamente.
- Quando parliamo comunichiamo qualcosa di differente da quello che letteralmente diciamo.
Ex. [una madre a suo figlio che si è tagliato] “Non preoccuparti, non morirai”
- La madre vuol dire al figlio che non morirà per il taglio che si è fatto, non che non morirà mai. -
- Tuttavia questo non è ciò che la madre dice letteralmente.
- L’esempio potrebbe essere considerato come ellissi: il parlante sottintende una parte della
frase che va a completare la frase stessa.
Ex. [Guardando dalla finestra la pioggia che scende] “Che bella giornata oggi!”
- In questo caso il sottinteso non può essere interpretato come una ellissi: non si tratta di una
parte di enunciato che non viene emessa, ma è un enunciato ironico.
Ex. “Questa borsa peserà una tonnellata!”
- E’ una iperbole.
Ex. “Paolo è un muro, non ci si riesce a parlare”
- E’ una metafora.
- Il problema fondamentale riguardo gli impliciti è il seguente: come riesce il destinatario a
comprenderli? Poiché il mittente esprime letteralmente un significato S1, come può sperare che
il destinatario comprenda non S1, ma un altro significato S2, a volte simile ad S1 ma altre volte
completamente differente? Per calcolare un implicito i destinatari sfruttano spesso informazioni
contestuali.
- PRINCIPIO DI COOPERAZIONE E IMPLICITI COMUNICATIVI
Una delle teorie che ha avuto maggior successo è quella di Paul Grice, formulata negli anni ’70.
- Principio di cooperazione: Secondo Grice la comunicazione è un’attività che richiede
cooperazione. Ciò significa che tutte le persone coinvolte nella conversazione devono
collaborare fra loro perché la comunicazione raggiunga i suoi fini. Ciò implica che anche negli
scambi comunicativi più conflittuali, fra i parlanti deve essere mantenuta perché la
comunicazione fra di loro possa andare a buon fine.
- Il principio di cooperazione afferma che ogni partecipante alla conversazione in atto deve
contribuire al raggiungimento del fine della conversazione e adeguare il proprio contributo
subordinandolo a tale fine.
- Quattro massime per essere cooperativi
A) Massima della quantità: la quantità di informazioni che dai non deve essere ne maggiore ne
minore di quanto richiesto.
B) Massima della qualità: dì la verità.
C) Massima della relazione: dai un contributo pertinente.
D) Massima del modo: sii chiaro.
Le massime non sono norme di buon comportamento o norme morali. Il loro obiettivo non è di
insegnarci il comportamento più cortese da tenere durante la conversazione. Esse piuttosto ci
insegnano qual è il comportamento più consono da tenere al fine di raggiungere lo scopo della
conversazione.

- IMPLICITI COMUNICATIVI
Alla lettera gli enunciati proposti come esempi sopra sono falsi: non rispettano la massima della
qualità. Non sono cooperativi.
A questo punto i destinatari hanno due possibilità:
—> considerare chi emette gli enunciati come non cooperativo.
—> considerare il parlante cooperativo quindi quello che vuole dire non è quello che dice
letteralmente. Sebbene il suo contributo letterale non rispetti la massima della qualità egli è
cooperativo a livello implicito perché quello che vuole comunicare è vero.
- Il ragionamento che un ascoltatore che deve interpretare gli enunciati deve fare è il seguente:
A) Questi enunciati sono falsi e quindi non cooperativi.
B) Tuttavia il mittente non vuole ingannarmi in quanto essi sono patentemente falsi ed egli
ostenta il fatto di dire una cosa non vera (ergo starebbe mentendo spudoratamente).
C) Quindi è probabile che il mittente voglia essere cooperativo nonostante ciò che dice.
D) Per considerarlo cooperativo devo pensare che voglia comunicare qualcosa di diverso da
quello che sta letteralmente dicendo.
E) Quindi il mittente vuole comunicare qualcosa di implicito e di non detto.
F) Questo implicito deve essere vero se voglio considerare il mittente cooperativo.
- Gli impliciti comunicativi prodotti dalle massime vengono detti “Implicature”.
- Una caratteristica che distingue le Implicature dalle Implicazioni consiste nella cancellabilità:
Se si afferma che X e X implica Y, non è possibile negare Y senza contraddirsi. Invece in un
contesto in cui X produce un’implicatura Y è possibile negare X senza correre in contraddizione.
Ex. [Guardando dalla finestra la pioggia che scende] “Che bella giornata oggi!”
“Davvero, per me lo è, amo la pioggia!”
La seconda parte di frase cancella l’implicatura. Il mittente non parlava ironicamente ma voleva
comunicare esattamente quello che ha detto.

- AMBIGUITA’ E IMPLICATURE: LA CONGIUNZIONE “E”


Ex. A) “Anna è andata al lavoro e Paolo è andato al mercato”
B) “Anna e Paolo si sono incontrati al mercato”
- In A la “e” congiunge due enunciati: tale congiunzione significa che entrambe le affermazioni si
danno. Essendo un’affermazione essa implica l’esistenza di un’eventualità o pluralità di
eventualità che impegnano il parlante all’esistenza di andare al lavoro di Anna e quella di andare
al mercato di Paolo.
- In B “e” congiunge due nomi: poiché la funzione di un nome è quella di riferirsi ad oggetti, “e” in
questo caso ha la funzione di aggiungere al riferimento del primo nome quello del secondo.
- Tuttavia a volte “e” sembra significare qualcosa di più del darsi dei suoi congiunti:
Ex. “Paolo si è alzato e si è lavato i denti”
Questo enunciato sembra significare che prima Paolo si è alzato e poi si è lavato i denti —> “e”
avrebbe la funzione di segnalare un ordine temporale fra i due congiunti.
Ex. “Anna girò la chiave e accese il motore”
Questo enunciato sembra affermare che il motore si è acceso perché Anna ha girato la chiave
—> “e” sembra avere la funzione di segnalare il fatto che l’evento descritto dal primo congiunto
ha causato quello del secondo.
- Alcuni studiosi hanno affermato che la congiunzione “e” è ambigua: A volte “X e Y” significa
semplicemente che entrambi si danno, ma altre volte che X precede temporalmente Y o che X
causa Y.
Ci sono tuttavia ragioni per sospettare che questa moltiplicazione dei significati di “e” non sia la
corretta via sa seguire per una questione di economia linguistica.
- Il fatto che la successione temporale si possa ottenere anche senza la “e” (ad esempio tramite
virgole) lascia pensare che non sia questa congiunzione la causa di ambiguità.
- Grice sostiene che “e” ha un significato di base molto semplice e che i significati ulteriori che
pare possedere sono implicature conversazionali.
Ex. “Paolo è biondo e Anna è mora”
Poiché gli enunciati congiunti descrivono stati relativamente stabili e non eventi che possono
succedersi nel tempo a intervalli brevi, l’implicatura non viene di solito prodotta.
Dalla teoria secondo cui i sensi temporali, causali etc di “e” sono implicature consegue che tali
sensi sono parte di ciò che il parlante comunica ma non di ciò che il parlante letteralmente dice.
- Il significato letterale di “e” è quindi uno solo e molto semplice e minimale. A questo significato
minimale se ne aggiunge a volte un altro, che tuttavia non fa parte della semantica di “e”.
- Vantaggi di questa teoria:
A) E’ economica
B) Riesce a spiegare perché i sensi ulteriori si producono anche se “e” non è presente
C) Come tutte le implicature, anche quelle legate alla massima del modo, sono cancellabili.
Ex. “Paolo si è alzato e si è lavato i denti, ma non in quest’ordine”
Questo esempio cancella il senso di successione temporale. Se il significato di “successione
temporale” facesse parte di quello di “e” l’esempio dovrebbe essere contraddittorio in quanto il
parlante prima direbbe qualcosa e poi la smentirebbe subito dopo.

- AMBIGUITA’ E IMPLICATURE: LA CONGIUNZIONE “O”


In italiano la congiunzione “o” pare avere due sensi differenti:
A) “Paolo è casa o è a teatro con Anna”
B) “I bambini potevano giocare o uscire in giardino o parlare fra loro”
- La “o” in A è esclusiva: Paolo può essere solo in uno dei due posti.
- La “o” in B è inclusiva: I bambini potrebbero uscire in giardino e giocare, o giocare e parlare etc
- Si suppone che “o” abbia un solo significato e che l’altro sia frutto di implicatura, ma questa
teoria ha una difficoltà: a volte la disgiunzione sembra esclusiva sebbene i due congiunti siano
compatibili fra loro.
Ex. “La prossima estate andrò in Cina o in India”
I due congiunti non sono esclusivi: nulla impedisce di andare in entrambi i posti. Eppure il
mittente comunica che egli si recherà in solo uno dei due.
- Se il parlante volesse rispettare la massima della quantità (giuste info) dovrebbe usare “e” per
dire che entrambi i congiunti si danno. Ma il parlante ha usato “o”, quindi non prevede di fare un
viaggio in Cina ed in India.
- Possiamo mantenere la teoria per cui “o” è sempre una disgiunzione inclusiva. Il senso
esclusivo deriva o dal fatto che i disgiunti non possano essere realizzati insieme o dal fatto che,
anche se possono, c’è un’implicatura che lo esclude in quanto, posto che il parlante sia
cooperativo, non userebbe “o” ma “e”.

- I DETERMINANTI “ALCUNI”, “DEI” E “QUALCHE”


Questi SN denotato l’insieme degli insiemi di elementi che hanno la proprietà N associata al
nome e che hanno più di un membro.
Ex. “Alcuni studenti hanno passato l’esame”
Fra tutti gli insiemi denotati da “alcuni studenti”, c’è anche l’insieme che contiene tutti gli
studenti. L’enunciato dovrebbe essere vero in una situazione in cui tutti gli studenti hanno
superato l’esame. Fra le somme di eventualità denotate c’è anche quella in cui tutti gli studenti
passano l’esame. Quindi il parlante non dice il falso se la somma di eventualità esistente è
quella in cui tutti gli studenti hanno superato l’esame.
- Esprimere l’enunciato in una situazione in cui tutti gli studenti hanno passato l’esame ci risulta
però inappropriato —> L’inappropriatezza consiste nell’essere poco informativo. Se si sa che
tutti gli studenti hanno superato l’esame, usare “alcuni studenti” al posto di “tutti gli studenti”
significa essere meno informativi di quanto si potrebbe essere.
Una conferma di questa teoria deriva dal fatto che se il parlante sa solo che alcuni studenti
hanno superato l’esame, all’ora l’enunciato risulta appropriato anche in una situazione in cui tutti
hanno passato l’esame.

- DOPO GRICE: NEOGRICEANI E CONTESTUALISTI RADICALI


Le implicature conversazionali funzionano così:
—> Prima viene costruita la proposizione semanticamente espressa dall’enunciato emesso dal
parlante.
—> Poi si valuta se questa proposizione soddisfa le massime conversazionali, se le soddisfa
non viene costruito alcun implicito, se non le soddisfa allora se si vuole continuare a pensare il
parlante come cooperativo bisogna attribuirgli un’intenzione comunicativa differente da quello
che egli letteralmente dice.
- Tuttavia non tutti gli impliciti sono post-semantici: alcuni di essi sembrano essere parte di ciò
che il parlante letteralmente esprime, cioè paiono essere parte della proposizione
semanticamente espressa da un enunciato.
Ex. A) “Due studenti hanno fatto un buon compito”
B) “La macchina è rossa”
Con A) il parlante vuole spiegare che due studenti in una certa classe hanno fatto un buon
compito, e non che due studenti nell’intero universo hanno fatto un buon compito. Tendiamo a
considerare questa precisazione come parte di ciò che letteralmente l’enunciato esprime.
B invece intende dire che la carrozzeria della macchina è rossa, non le ruote, il motore o gli
interni.
- Sembrano esistere quindi degli impliciti che fanno parte della proposizione che il parlante
letteralmente esprime e che non compaiono, come le implicature, dopo aver fatto interagire la
proposizione espressa con le massime conversazionali.
- Ci sono due interpretazioni degli impliciti:
A) Neogriceani —> E’ presente una variabile nascosta: il significato semantico di “studente”
sarebbe “studente in C” ove C è una variabile che varia sui contesti di valutazione. Quando la
parola “studente” viene usata in un contesto la variabile prende un certo valore.
Ex. “Due studenti hanno fatto un buon compito”
In questo caso potrebbe essere “due studenti nella 5C del liceo XYZ hanno fatto un buon
compito” dove “5C del liceo XYZ” è il valore assunto dalla variabile, cioè il contesto in cui lo
studente deve essere valutato.
B) Pragmatisti radicali —> Arricchimento del contenuto semantico convenzionalmente legato
alle parole che li compongono.
Ex. “Due studenti hanno fatto un buon compito”
Viene arricchito dalla specificazione che i due studenti facciano parte di una classe perché è
difficile che il parlante si esprima su quanti studenti nell’intero universo abbiano fatto un buon
compito.
- La differenza fra le due posizioni è che la prima considera il contenuto semantico
convenzionale degli enunciati del A e B incompleto: C e P sono due variabili a cui deve essere
assegnato un valore nelle particolari occasioni d’uso. Se questo non accade non dice nulla di
completo. La seconda posizione ritiene che gli enunciati esprimano un contenuto completo che
tuttavia viene arricchito dai nostri processi di inferenza e dalle nostre conoscenze.
- I neo griceani ritengono che il contesto influisca sul significato dei nostri enunciati in due modi
differenti:
—> completamento di qualcosa di incompleto
—> implicatura conversazionale
- I pragmatisti radicali ritengono che il significato convenzionale associato alle nostre parole
determini quel che i parlanti vogliono esprimere con i loro enunciati —> di conseguenza il
contesto si trova ad operare su quanto viene espresso in maniera più libera ed ampia. Ciò
implica che il significato convenzionale venga arricchito costantemente mediante impliciti
durante gli scambi comunicativi.
Ex. X: “Mi piacerebbe andare al cinema stasera, cosa danno?”
Y: “Niente”
La risposta di Y deve essere integrata con un implicito: Y vuole comunicare che non ci sarà
niente “di interessante”.

- COME IL CONTESTO INFLUENZA LA COMUNICAZIONE


- La dipendenza contestuale è prevista dal significato convenzionale? Due teorie:
A) Neogriceana —> la dipendenza contestuale è prevista dal significato convenzionale dei
nostri enunciati, nel senso che esso lascia aperti dei parametri che il contesto deve soddisfare.
B) Pragmatisti radicali —> il contesto interagisce in modo più libero nell’arricchire i nostri
enunciati e non è prevedibile sulla sola base del significato convenzionale.

- La variazione è prevista dal significato convenzionale o no? Tre tipi di dipendenze contestuali:
X) fenomeni linguistici nei quali la variabilità contestuale è dovuta a certi parametri offerti dal
significato convenzionale dell’enunciato e che spetterà al contesto fissare.
—> Ambiguità semantica: in italiano la parola tema ha almeno due significati, congiuntivo di
temere, sinonimo di argomento. Questi due significati possibili sono dati prima che la parola
entri in un contesto e sarà compito suo decidere quale di essi è espresso dal parlante).
—> Indicalità: gli indicali sono espressioni essenzialmente contestuali. Hanno quindi
intrinsecamente bisogno del contesto per fissare il loro riferimento. E’ stata anche proposta una
teoria secondo la quale essi denotano l’oggetto più saliente che soddisfa il loro contenuto
descrittivo.
Y) E’ il significato convenzionale o l’arricchimento libero a guidare la variazione contestuale?
Sono la restrizione contestuale e la determinazione del significato. Spesso accade che ciò che
diciamo deve essere inteso come valido solo in un certo ambito.
Casi di restrizione contestuale:
- gli SN, l’unicità del referente di una descrizione definita deve essere intesa come relativa a un
certo ambito contestuale.
- ambito all’interno del quale viene affermata l’esistenza di una certa eventualità, quando
diciamo “Anna ha corso” ci stiamo impegnando all’esistenza di una delle eventualità contenute
nell’insieme che costituisce la proposizione espressa da questo enunciato. Stiamo affermando
che una tale eventualità si da in un certo ambito, in una certa porzione spazio-temporale. La
nostra affermazione deve essere relativizzata da un contesto.
Casi di determinazione di un significato:
- Si è scartata la tesi secondo cui “Paolo e Anna hanno sollevato il tavolo” è un enunciato
ambiguo fra un significato collettivo e uno distributivo, preferendo quella che si tratti di un
enunciato dal significato indeterminato, che può essere determinato dal contesto.
—> Si potrebbe affermare che la restrizione contestuale sia un tipo di determinazione del
significato: se si restringe un’affermazione ad un amico più ristretto, allora essa deve essere
intesa in modo più determinato di quanto essa letteralmente non dica.
—> Dibattito sul modo di intendere la Det del Sign, e la Res Cont
A) Neogriceani: quando ci sono fenomeni di questo genere è sempre presente nel significato
convenzionale dell’enunciato un parametro che deve essere contestualmente determinato.
B) Pragmatisti radicali: questi fenomeni sono semplicemente arricchimenti liberi di un significato
che potrebbe anche non essere arricchito.
—> Ci sono ragioni per preferire la seconda.
- CHE COSA E’ IL SIGNIFICATO LETTERALE?
- Dobbiamo includere alcuni impliciti nel significato letterale dei nostri enunciati?
Ex. “La macchina è rossa”
- Stiamo dicendo che la macchina ha la proprietà di essere rossa o è la carrozzeria a farlo? Se
accettiamo la seconda tesi allora ammetteremo che ci entra un implicito.
- Si potrebbe obiettare che questo argomento non sia sufficiente: il fatto che l’integrazione del
significato convenzionale con l’implicito sia un processo automatico e inconscio non implica che
il significato letteralmente espresso coincida con quello arricchito e non con quello
convenzionale.
- Ciò che letteralmente un enunciato significa può non coincidere con ciò a cui i parlanti pensano
quando pensano al significato dell’enunciato. I parlanti possono essere portati a pensare
direttamente al significato arricchito piuttosto che soffermarsi su quello letterale.

- LA CORTESIA
Ex. [Anna a casa di Paolo e vuole che lui apra la finestra] “Fa molto caldo qui!”
Questa richiesta è indiretta. Viola la massima di modo di Grice.
Ex. [Anna vede il vestito brutto di Maria] “Bello, ti starà benissimo”
Anna mente e viola la massima della qualità di Grice.
- In nessuno dei due casi troveremmo il comportamento di Anna inappropriato —> viene guidato
da ragioni di cortesia.
- A volte la cortesia ci porta a violare le norme della cooperazione: essere troppo chiari e dire la
verità a volte è giudicato scortese.
- Robin Lakoff e le norme di cortesia che dipendono da due principi differenti e a volte
contrastanti:
A) Rispettare la privacy e la libertà altrui
B) Dimostrare amicizia e interesse nei confronti dell’altro
Lakoff annuncia quindi le 3 regole per essere cortesi:
—> Stai sulle tue, non ti imporre: tenere la conversazione sul piano impersonale evitando di
esprimere o domandare opinioni su argomenti “delicati”. Se proprio si devono affrontare,
chiedere il permesso prima di chiedere (Posso chiederle quanto l’ha pagato?).
—> Offri all’altro delle alternative: rispetta l’autonomia dell’altro, fai richieste indirette.
—> Sii amichevole: mostrare interesse nei confronti dell’altro ed entrare nella sua sfera privata
(in contrasto con la prima).
- Quale regola abbia la priorità sulle altre dipende dal contesto.
- Le regole sono universali ma non lo è il loro contenuto formale.
- Varia da cultura a cultura l’ordine delle regole e quale viene utilizzata di più (in Italia, la terza
prevale sulla prima).

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