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Morfologia

I morfemi grammaticali ed i morfemi lessicali: In fonologia, i fonemi contribuiscono a differenziare una


parola dall’altra, però in sé un fono (come ‘’t’’ o ‘’d’’) non ha significato, invece in quest’altro livello di
organizzazione delle strutture linguistiche, cioè la morfologia, l’unità minima, cioè il ‘’morfema’’ è un’unità
che a differenza del fonema è dotata di significato (che in morfologia non è solo il significato lessicale, ma
anche grammaticale). In inglese, il morfema ‘’s’’ nella parola ‘’rocks’’, indica solo una categoria, il plurale.
Questa parola presenta due significati in quanto ‘’rock’’ (la prima parte della parola ‘’rocks’’) ci fornisce il
significato generale della parola (ovvero ‘’roccia’’), mentre la ‘’s’’ finale ci dà un significato diverso dal primo,
un significato grammaticale, che ci dà come informazione la pluralità. I morfemi che danno un significato di
tipo lessicale come ‘’rock’’ o come ‘’tavol’’ si chiamano morfemi lessicali, mentre i morfemi come la ‘’s’’ di
rocks o la ‘’o’’ di ‘’tavolo’’ si chiamano morfemi grammaticali. Se ci dà il significato, la semantica di quella
determinata parola o unità, il morfema è lessicale, se ci dà una qualsiasi informazione sulla grammatica come
il plurale, il genere, il tempo, la persona, il modo, l’aspetto, ecc.. è un morfema grammaticale. In morfologia si
opera con la divisione in morfemi.
Gli allomorfi: Come il fonema ha una serie di varianti (allofoni), così il morfema può dividersi in una serie di
varianti. In inglese la ‘’z’’ di ‘’/fogz/’’, non da un significato diverso rispetto alla ‘’s’’ di ‘’/rocks/’’, perché indica
sempre una pluralità, il numero grammaticale, sono quindi varianti dello stesso morfema (o allomorfi). Stessa
cosa vale per l’inglese ‘’houses’’ e ‘’rocks’’, dove le finali ‘’es’’ e ‘’s’’ che indicano sempre pluralità, sono
diverse nella forma ma non nel contenuto, sono quindi varianti dello stesso morfema/allomorfi. Nell’italiano
‘’amico’’,’’amici’’,’’amic’’,‘’amich’’, il morfo lessicale è lo stesso. L’allomorfia può presentare anche forme molto
lontane nel significante es. gli amici/i bambini dove ‘’gli’’ ed ‘’i’’ sono sempre articoli determinativi plurali (in
fonologia sarebbe una variante combinatoria perché a ‘’gli’’ segue vocale, mentre ad ‘’i’’ segue consonante).
Un altro caso di allomorfia è ‘’bei/begli/belli’’, dove il plurale di bello è realizzato in tante forme diverse però il
significato non cambia.
I morfemi flessivi, gli affissi ed il morfema zero: I morfemi grammaticali si dividono in due categorie
principali. 1) La ‘’o’’ di ‘’tavolo’’ e la ‘’s’’ di ‘’rocks’’, sono un classico esempio di morfemi flessivi, cioè
cambiano portando significati diversi (numero, genere, persona, tempo, modo, aspetto ecc..). 2) Gli affissi
sono dei morfemi grammaticali che si aggiungono ad una base lessicale per formare dei derivati, da una
parola si forma un’altra parola per mezzo degli affissi. In italiano esistono solo prefissi e suffissi. In italiano ed
in molte altre lingue, se si forma una parola con l’aggiunta di un prefisso, non si muta la classe di
appartenenza (se per esempio si parte da un aggettivo, al quale viene aggiunto un prefisso, rimane sempre
aggettivo, es. ‘’utile/inutile’’). In ‘’inutile’’ e ‘’consocio’’, l’affisso è prima della base (prefisso). Il suffisso invece
è l’aggiunta di un affisso dopo la base (es. ‘’caffetteria’’). In molti altri casi (con l’aggiunta di altri affissi, eccetto
i prefissi), si può mutare la classe di appartenenza (si può per esempio formare un aggettivo da un nome o da
un verbo, un nome da un aggettivo ecc..). Nella parola ‘’spegnimento’’, la base di partenza è il verbo
‘’spegnere’’ (da un verbo ho ottenuto un nome, ed è quindi mutata la classe di appartenenza, ‘’spegnimento’’
è quindi un ‘’deverbale’’, ovvero nasce da un verbo). In ‘’barbone’’, la base di partenza è il sostantivo ‘’barba’’
(da un nome si ottiene un aggettivo, si chiama quindi ‘’denominale’’, cioè deriva da un nome). Esistono nelle
lingue del mondo altri tipi di affissi: nelle lingue indoeuropee antiche, alcune forme di presente indicativo
erano caratterizzate da un cosiddetto ‘’infisso’’, elemento che si mette dentro la base e che va a spezzare la
sua continuità (era generalmente una nasale, es. lat. rumpo). In tedesco per esempio, a una base,
contemporaneamente si aggiunge un prefisso ed un suffisso per formare una certa categoria grammaticale,
per esempio il participio passato del tedesco si forma con l’aggiunta di un prefisso ‘’ge’’ e di un suffisso ‘’t’’
(es. ‘’gesagt’’ ovvero ‘’detto’’), sono i cosiddetti ‘’circonfissi’’ dove un prefisso ed un suffisso circondano la
base. I ‘’transfissi’’ caratterizzano particolarmente le lingue della famiglia semitica (arabo e dialetti, ebraico,
aramaico ecc..), sono una serie di infissi che si immettono dentro la radice (morfologia a pettine). In queste
lingue, la radice/morfema lessicale è trilittere/triconsonantica (formata da 3 lettere), le vocali si inseriscono
come transfissi come tanti denti del pettine dentro la radice/scheletro lessicale. In semitico ‘’ktb’’ significa
‘’scrivere’’, se inserisco due ‘’u’’ si ottiene ‘’kutub’’ (plurale di ‘’libro’’ in italiano). Le due ‘’u’’ non portano
alcuna informazione di tipo lessicale, ma danno un’informazione puramente grammaticale (che è un
sostantivo di una certa classe e che è plurale). Questo tipo di lingue prende il nome di ‘’lingue introflessive’’:
presentano morfi flessivi (che ci indicano categorie grammaticali come genere, numero, caso ecc..), inseriti
all’interno della radice lessicale. Questa è la ragione per cui in tutte queste lingue, quando si va a cercare una
parola nel vocabolario, non va cercata la singola parola ma la sua radice (che dà il significato lessicale). Può
succedere che un morfema non sia realizzato in superficie, che non abbia un’espressione nel significante, es.
ingl. sing. ‘’sheep’’ (pecora), plur. ‘’sheep’’ (pecore), it. sing. ‘’città’’, plur. ‘’città’’, lat. exul, dove il morfema del
plurale è assente e non vi è alcun morfema flessivo, si tratta quindi di ‘’morfema zero’’. Per determinare
queste categorie (numero, genere ecc..) non bisogna vedere la singola parola, ma gli elementi che la
circondano (i ‘’target dell’accordo’’). Nel morfema zero il plurale non è espresso morfologicamente, ma si
comprende quasi sempre attraverso il verbo/predicato che segue.
Denominali, deverbali, deaggettivali, prefissoidi e suffissoidi, composti e derivati, unità polirematiche e
verbi sintagmatici: L’italiano presenta sostanzialmente solo due tipi di affissi: prefissi e suffissi. Nel caso della
parola ‘’socializzabilità’’ (soci > sociale > socializzare > socializzabile > socializzabilità, nel primo passaggio
viene costruito un ‘’denominale’’ in quanto vi è il passaggio da nome ad aggettivo, nel secondo si costruisce
un verbo da un aggettivo quindi un ‘’deaggettivale’’, nel terzo passaggio si forma un aggettivo a partire da un
verbo quindi un ‘’deverbale’’ nell’ultimo passaggio si costruisce un nome a partire da un aggettivo quindi un
‘’deaggettivale’’). Nel caso di ‘’sociologia’’ (e in gran parte dei composti di origine greco-latina). I nomi che
funzionano come prefissi prendono il nome di ‘’prefissoidi’’, un morfema lessicale che funziona come se fosse
un prefisso senza esserlo (è quindi un prefissoide). Allo stesso modo esistono i ‘’suffissoidi’’ (come in
‘’cronometro’’ o ‘’cronologia’’ in cui ‘’metro’’ e ‘’logia’’ sono dei nomi che però si comportano come suffissi
(sono quindi suffissoidi). ‘’Auto’’ in parole come ‘’autonomia’’ è un derivato del greco ‘’autos’’ (se stesso) ed è
classificato come prefissoide. ‘’Automobile’’ attraverso un processo di accorciamento può essere abbreviato in
‘’auto’’ (non usato come prefissoide ma come morfema lessicale, processo di ‘’trans-categorizzazione’’).
‘’Auto’’ lo si può usare come primo membro di un composto in parole come ‘’autolavaggio, autostazione’’
ecc.. lavaggio dell’automobile (auto non è prefissoide, ma morfo lessicale, così come lavaggio, 2 morfi lessicali
formano un composto di cui generalmente uno dei due è la testa, l’elemento da cui dipende l’altro, invece un
derivato ha un solo morfo lessicale con aggiunta di affissi). Esiste un test morfologico ‘’è un?’’ per sciogliere il
composto, es. ‘’che cos’è un autolavaggio?’’: è un lavaggio (testa) dell’auto (modificatore). Ci sono dei
composti come ‘’posacenere’’ che hanno la testa esterna (composti ‘’esocentrici’’), altri come ‘’capostazione’’
che hanno la testa interna (composti ‘’endocentrici’’), parole come ‘’pianoforte’’ dove nessuno dei due è
testa/modificatore, ambo le parole sono sullo stesso livello (composti ‘’copulari’’). In generale, la testa di un
composto nelle lingue romanze si trova a sinistra del composto (es. capostazione), mentre nelle lingue
germaniche come tedesco ed inglese, tendenzialmente la testa si trova a destra. Accanto ai composti veri e
propri esistono delle unità lessicali in cui le parole non si trovano saldate (non sono morfi legati), ma
costituiscono un’unità semantica e prendono il nome di unità ‘’polirematiche’’ o ‘’plurilessematiche’’, es.
‘’gatto delle nevi’’: il suo significato complessivo non risulta dalla somma meccanica delle parti che la
compongono (non è un gatto che scorrazza sulla neve, ma un macchinario che serve a spianare le piste),
oppure ‘’avviso di garanzia’’ (termine tecnico della giurisprudenza), stessa cosa vale per i verbi sintagmatici (o
‘’phrasal verbs’’ in inglese), costituiti in generale dal verbo più una preposizione, es. ‘’fare pressione’’: oltre al
significato letterale, sviluppa anche un significato metaforico (cercare di convincere). Mentre nei composti i
morfi sono legati, nelle polirematiche i 2 morfi sono liberi, ma il loro significato tende a costituire un’unità
cristallizzata nel lessico (fa parte del nucleo idiomatico di una lingua).
I morfemi cumulativi: In molte lingue, comprese quelle indoeuropee, a un morfema possono corrispondere
varie funzioni (un solo morfema può dare più informazioni), es. lat. ‘’rosas’’ dove ‘’as’’ finale indica il caso
accusativo (complemento oggetto, che appartiene alla prima classe ed è quindi femminile, e che è un plurale,
per un totale di 3 informazioni). Nel caso di ‘’quaderni’’, la ‘’i’’ ci dà 2 informazioni: genere maschile e numero
plurale. Morfemi di questo tipo si chiamano ‘’morfemi cumulativi’’, ovvero possono avere più di una
funzione. In tante lingue del mondo questo tipo di morfemi non è presente (tali morfemi hanno solo una
funzione, per cui vanno messi tanti morfemi quante sono le funzioni da esprimere).
Classificazione tipologica e genealogica: In base al numero di morfemi individuabili all’interno della parola,
ed in base al grado di difficoltà con cui si può individuare il confine di morfema, le lingue del mondo si
possono dividere in 4-5 tipi morfologici (‘’classificazione tipologica’’ per tipi, es. l’inglese è per qualche
aspetto simile al cinese, in quanto entrambe sono lingue isolanti). Un’altra distinzione ancora riguarda invece
il raggruppamento in famiglie (‘’classificazione genealogica’’ es. inglese e tedesco fanno parte del gruppo di
lingue germaniche occidentali). Una lingua non può cambiare classificazione genealogica, tranne quando
rimane un solo parlante o nessun parlante (in quanto non ci sarebbe comunicazione e cesserebbe la sua
appartenenza ad un ramo/famiglia). Una continuità genealogica non cessa mai di esistere (non può spezzarsi,
l’italiano per esempio sarà sempre e comunque una lingua romanza, anche tra migliaia di anni), invece la
continuità tipologica si, può succedere per esempio che un tipo di lingua che aveva morfi cumulativi, a un
certo punto, per vari motivi, diventi un altro tipo di lingua, e può anche ridiventare il tipo originario, secondo
un mutamento che non è del tutto prevedibile o pronosticabile. Quindi all’interno di una continuità
genealogica, possono esserci delle fratture tipologiche, mentre la continuità genealogica non è assolutamente
interrompibile (tranne nei casi di morte della lingua). Una trasformazione tipologica si può vedere bene
quando una genealogia linguistica è documentata per un periodo storico molto lungo (in quanto le
trasformazioni tipologiche sono lente e per osservarle dovremmo avere una documentazione secolare). Se
andassimo a classificare tipologicamente una lingua africana o aborigena d’Australia, sostanzialmente la si può
inquadrare solo in sincronia (in un dato momento, opposto della diacronia, ovvero il divenire di queste nel
tempo) perché la documentazione antica di queste lingue in molti casi è praticamente inesistente (il primo
testo scritto del Dyirbal è stato registrato dallo stesso Dixon). Le lingue romanze per esempio sono lingue ben
documentate (abbiamo una serie di testi che vanno dal latino arcaico, VI sec. a.C fino ad oggi), la storia
tipologica del passaggio dal latino alle lingue romanze è quindi ben documentata.
Le lingue polisintetiche e le lingue isolanti: Il tipo polisintetico caratterizza molte lingue (‘’lingua
polisintetica’’) dell’America precolombiana, in particolare del nord America. Quest’unità è l’insieme di un
numero molto alto sia di morfemi lessicali, sia di morfemi grammaticali, concentrati all’interno della stessa
unità. Le lingue polisintetiche presentano un numero molto alto di morfemi, condensano in un un’unica
parola una serie di informazioni che in lingue diverse costruirebbero una frase intera, hanno un indice di
sintesi elevatissimo e si collocano sull’indice di fusione a livello medio. Al polo opposto vi sono molte lingue
(per esempio tutte quelle del sud-est asiatico, come il cinese mandarino o il vietnamita) dette ‘’lingue
isolanti’’ In queste lingue, le parole sono principalmente mono-morfemiche (composte da un solo morfema e
prive in questo caso di morfemi grammaticali), le parole si distinguono l’una dall’altra attraverso un tratto
soprasegmentale (non presente nelle lingue europee), cioè i ‘’toni’’. Nel cinese mandarino esistono 4 toni,
combinandoli si distingue una parola come ‘’ma’’, che a seconda del tono può voler dire ‘’mamma’’ o avere
altri significati. Per compensare la mancanza di morfemi grammaticali, queste lingue usano ciò che i
grammatici cinesi definiscono le ‘’parole vuote’’(will in inglese). (cioè morfi lessicali privati del loro significato
lessicale per assumere una valenza grammaticale, secondo un processo chiamato ‘’conversione’’, una parola
non ha il suo significato letterale ma è utilizzato come morfema grammaticale, la conversione, è un
meccanismo di derivazione, che consiste nell'attribuire ad un lessema una diversa categoria grammaticale,
senza però modificarne la forma, es. conversione da aggettivo a nome ‘’vuoto’’ → ‘’il vuoto’’). Queste lingue
usano una serie di procedimenti di tipo metaforico in vari casi per esempio per imitare l’inizio di un’azione,
per dire ‘’cominciare’’ usano metaforicamente l’espressione ‘’prendere testa’’.
Le lingue flessivo-fusive e le lingue agglutinanti: Tutte le lingue europee, soprattutto della fase antica sono
‘’lingue flessivo-fusive’’ (o semplicemente ‘’fusive’’). La loro caratteristica principale è quella di avere dei
morfemi cumulativi (morfemi grammaticali che possono avere più di una funzione). Il latino (come varie
lingue indoeuropee antiche) per esempio dà attraverso un solo morfema grammaticale, informazioni sul caso,
sul numero, il genere (quest’ultimo non sempre). Più si va avanti nel tempo, più questa tipologia cambia
diventando sempre meno flessivo-fusiva. Al polo opposto, vi sono lingue come il turco, che non presenta
morfemi cumulativi (è una ‘’lingua agglutinante’’, in cui le parole sono costituite dall'unione di più morfemi);
queste tipo di lingue hanno una serie di morfemi grammaticali non cumulativi (si hanno bisogno quindi di
tanti morfi quante sono le funzioni da esprimere). Da un punto di vista scientifico, questo tipo di lingue (come
il turco, finlandese e giapponese) sono più semplici da imparare (la difficoltà di una lingua si può misurare
attraverso un indice di naturalezza morfologica, cioè di corrispondenza biunivoca tra forma e significato, nelle
lingue più semplici a una forma corrisponde un significato, e a sua volta quest’ultimo è espresso solo da una
forma, il rapporto di biunivocità è molto alto in questo caso). In queste lingue, il confine morfologico è
facilmente individuabile, sono molto trasparenti da un punto di vista formale (non presentano quasi mai
fenomeni di co-articolazione, poiché impediti dalla presenza di un confine morfematico che blocca questi
fenomeni, l’unico fenomeno di co-articolazione (un fenomeno che si verifica durante la fonazione, per il quale
ogni suono linguistico (o fono) subisce l'influenza del contesto nel quale è articolato, vale a dire dei foni che lo
precedono o lo seguono) in queste lingue è l’assimilazione a distanza o ‘’armonia vocalica’’). Un bambino
impiega molto meno tempo ad imparare come lingua madre questo tipo di lingue, rispetto ad una lingua
flessivo-fusiva. Le lingue semitiche invece hanno trasparenza bassissima (vi sono infatti morfi dentro altri
morfi, sono per questo definite ‘’intro-flessive’’ sottotipo delle lingue ‘’flessivo-fusive’’).
Lingue particolari (come l’inglese): Molte lingue non presentano una coerenza assoluta, ma presentano al
loro interno una sorta di mix tra vari tipi morfologici (es. inglese). Ingl. ‘’A beautiful day’’ dove l’aggettivo non
ha alcun tipo di morfo che indica numero o genere, stessa cosa avviene per il sostantivo. L’inglese come
migliaia di lingue del mondo non ha un’espressione dedicata al futuro ma ricorre ad una perifrasi (‘’futuro
perifrastico’’) con l’ausilio del verbo volere (‘’will’’). Il verbo ‘’volere’’ si è privato in questo caso del suo valore
lessicale e ha assunto un valore grammaticale (serve a comporre il futuro, fenomeno di conversione tipico
delle lingue isolanti). Grazie alla conversione, una stessa parola può avere varie funzioni, es. ingl. ‘’round’’ può
avere una funzione di aggettivo (‘’round table’’), valore di sostantivo (‘’rounds of paper’’), secondo elemento
di un verbo basale (‘’go round’’), verbo (‘’surround’’). L’inglese è agglutinante (la ‘’s’’ o ‘’es’’ finale dà solo
informazione sul numero e non sul genere, oppure ‘’er’’ di ‘’taller’’ è solo un morfema di comparazione).
L’inglese è anche una lingua flessivo-fusiva (deriva infatti dall’inglese antico e dall’inglese medio che
mantengono la tipologia flessivo-fusiva). Nella comparazione tra una lingua moderna e la sua versione antica,
i pronomi sono i tratti più conservativi di un sistema grammaticale (i pronomi personali ‘’he’’, ‘’she’’, ‘’it’’
conservano infatti traccia del vecchio sistema flessivo-fusivo perché indicano sia numero che genere, sono
quindi morfi cumulativi).
I target dell’accordo: Il pilota è maschile, quindi la desinenza finale non è sufficiente per indicare il genere,
perché all’interno di queste classi possono esserci una serie di incoerenze. Per dire quanti generi ha una
lingua, non bisogna vedere il nome in sé, ma i cosiddetti ‘’target dell’accordo’’. I generi sono classificabili
come classi di nomi riflessi nel comportamento delle parole associate (ovvero i target). Es. ‘’le forchette
piccole’’ dove ‘’forchette’’ è tecnicamente il ‘’controllore dell’accordo’’ (elemento chiave da cui dipende
l’accordo), i target sono in questo caso ‘’le’’ (articolo) e ‘’piccole’’ (aggettivo). Possiamo quindi affermare che il
morfema ‘’forchette’’ è femminile plurale, analizzando i target dell’accordo. In un morfema zero, sappiamo se
il sostantivo è plurale, solo ed esclusivamente grazie ai target dell’accordo (‘’il bar è chiuso/i bar sono chiusi’’).
Per decidere quanti generi ha una lingua, bisogna studiare quanti schemi di accordo ha un nome. L’italiano
standard (come la stragrande maggioranza delle ling8ue romanze) ha due generi e due numeri, in questa
lingua vi sono però alcuni nomi che si comportano come ‘’uovo’’ o come ‘’braccio’’: ‘’questo uovo
cotto’’/’’queste uova cotte’’, ‘’il braccio lungo’’/’’le braccia lunghe’’ (gli schemi di accordo in questo caso
sono tre: sing. accordo al maschile, plur. accordo al femminile). In italiano standard parole che si comportano
così sono pochissime, sotto il numero minimo per creare un genere a parte. Nei dialetti italiani meridionali,
parole che si comportano così invece sono tantissime (es. 90 nomi del genere nel dialetto di Molfetta,
l’altamurano ad Altamura in Puglia, l’agnonese di Agnone in Molise ecc..). In rumeno c’è una particolarità che
non c’è nelle lingue romanze del blocco occidentale, l’articolo non si mette prima del nome, ma dopo,
agglutinato al nome stesso (articolo posposto); es. it. ‘’l’uomo/il vino’’, ru. ‘’omul/vinul’’ (‘’l’’ finale che funge
da articolo). Nella normalità, gli accordi in rumeno variano (come in italiano per le eccezioni ‘’uovo/braccio’’):
sing. maschile (‘’vinul e bun’’), plur. femminile (‘’vinurile sunt bune’’). Il rumeno ha quindi 3 generi: maschile
sing. e plur., femminile sing. e plur., maschile sing., femminile plur. Vi sono altre lingue non romanze che si
comportano come il rumeno come l’albanese che ha l’articolo posposto (dopo il nome), il bulgaro (lingua
slava) ecc.. Siccome il terzo genere in rumeno non ha desinenze proprie ma si comporta come maschile al
sing. e come femminile al plur., è definito ‘’genere alternante’’. Allo stesso modo si comportava l’italiano
antico: nomi che si comportano come ‘’uovo/braccio’’, in italiano antico sono frequentissimi perché sono (al
plurale) i relitti del neutro latino (o terzo genere). It. ‘’i castelli belli/i prati belli’’, it. antico ‘’le castella
belle/le pratora belle’’ dove la ‘’a’’ di ‘’castella’’ costituisce etimologicamente il relitto del neutro plurale
(conservandolo perfettamente nell’italiano antico). Buona parte delle parole che in italiano antico terminano
in ‘’ora’’ subiscono questo fenomeno. Alcuni dialetti centro-meridionali e dialetti italiani antichi essendo
asimmetrici (avendo 3 generi) hanno creato un quarto genere speculare al terzo, ad esempio il salentino
antico oppure il romanesco antico di prima fase (che si divide in ‘’romanesco prequattrocentesco’’, a tutti gli
effetti un dialetto meridionale e, favorita dalla politica papale, tra ‘400 e ‘500 Roma fu invasa da una serie di
funzionari e lavoratori provenienti dalla Toscana e da altre parti dello Stato Pontificio e fu rianalizzata, ovvero
privata linguisticamente degli elementi tipicamente meridionali, divenendo una varietà molto simile al
toscano e di conseguenza all’italiano standard). Il romanesco di prima fase, aveva un quarto genere
(femminile sing., maschile plur.) speculare al terzo (inversione del terzo) es. ‘’la torre/li torri’’. Finora, è stato
individuato un solo dialetto a Bocchigliero, in provincia di Cosenza che presenta ancora un quarto genere
speculare al terzo. Per decidere quanti generi ha una lingua bisogna contare non il morfema desinenziale, ma
i target dell’accordo e vedere quanti schemi d’accordo ha una lingua. Solo sulla base di questi schemi, posso
decidere il numero di generi presenti in quest’ultima. Tutte le lingue romanze hanno perso il neutro latino,
però in alcune varietà romanze (compresi alcuni dialetti italiani meridionali), è stato introdotto un quarto
genere (neo-neutro) che comprende nomi non contabili/quantificabili (es. zucchero, sale, caffè, vetro). Il
genere neutro (e quindi anche il neo-neutro) non ha un plurale. L’articolo del neo-neutro ha una forma
‘’speciale’’ che lo distingue da tutti gli altri articoli, o è diverso nella forma (napolet. ‘’o rep’’, ‘’o folk’’), o fa una
cosa che tutti gli altri articoli non fanno: provoca raddoppiamento fonosintattico (come nel genere
alternante); es. di neo-neutro: napolet. /ok’kafè/ (caffè come materiale), napolet. /o ca’fè/ (tazzina di caffè).
Schemi di accordo: primo genere (A): neutro; secondo genere (B): maschile; terzo genere (C): alternante;
quarto genere (D): femminile. Molti dialetti alto-meridionali (parte dei dialetti campani, dialetti della Lucania,
del Molise e parte dei dialetti salentini) presentano tutti e 4 gli schemi di accordo.
Dialetti italiani ed italiano standard a confronto: I dialetti meridionali sono tendenzialmente dialetti piuttosto
conservativi (soprattutto nella morfologia e nella sintassi), rimasti ad uno stadio a anteriore (sono più vicini
quindi all’italiano antico), mentre il dialetto toscano (che è diventato lingua letteraria e lingua standard) è
decisamente più innovativo a confronto, venuto a contatto e parlato da molte più persone, ha il ‘’filtro’’ della
letteratura, è una lingua fortemente standardizzata ed ha eliminato caratteri conservativi. L’italiano parlato si
è diffuso in Italia molto più tardi rispetto alle altre lingue nazionali d’Europa: fino agli anni 50-60 del ‘900, gran
parte dell’Italia era dialettofona (o parzialmente dialettofona). L’italiano (a forte sostrato regionale/dialettale)
che si parla ogni giorno è quindi una ‘’creazione’’ molto recente. Ci sono molti dialetti italiani che sono rimasti
parzialmente esenti dall’influsso dell’italiano e quindi mostrano una grammatica diversa (o completamente
diversa) dall’italiano. I dialetti italiani centro-meridionali per esempio sono tutti imparentati, ma da un punto
di vista del tipo morfologico possono essere molto diversi e vanno quindi trattati come se avessero
grammatiche distinte (lo stesso vale per paesi vicini tra di loro). Lo ‘’schwa’’ (‘’ə’’) è una vocale centrale che
caratterizza molti dialetti dell’alto meridione e che quasi non si sente nella pronuncia.
La metafonesi germanica: La metafonesi (o metafonia) è un fenomeno fonetico, ma che ha importanti
ripercussioni sul piano morfologico, è uno dei pochi casi nelle lingue indoeuropee in cui abbiamo una
tipologia a pettine (introflessione). La metafonesi è un’assimilazione (influenza di un suono su un altro)
regressiva a distanza ed è provocata dalla ‘’i’’ e dalla ‘’u’’ (vocali alte) finali sulla vocale radicale (vocale tonica
della base). La ‘’i’’ e la ‘’u’’ metafonizzano quindi la vocale radicale (ovvero la assimilano). La metafonia di ‘’i’’
è la più frequente. Le vocali colpite da metafonia imitano la ‘’i’’ e la ‘’u’’ diventando alte (o tendono verso
l’altezza, salendo di livello nel trapezio vocalico). In generale le vocali centrali tendono a salire a sinistra
(verso il ramo palatale, ciò suggerisce che la vera metafonia era palatale e poi è diventata velare). Nelle lingue
germaniche avviene metafonesi a causa delle leggi di Grimm: il tedesco alto si divide in 3 fasi (antico, medio e
nuovo). Tutte le lingue germaniche antiche fanno il plurale aggiungendo una ‘’i’’ alla base (morfo
grammaticale flessivo), es. antico alto ted. ‘’gast’’ ospite, ‘’gasti’’ ospiti. La ‘’i’’ ha un potere metafonizzante (di
innescare metafonia). Nel medio tedesco si compie questo processo: al singolare rimane immutato (perché
non ci sono ‘’i’’), mentre al plurale, la ‘’i’’ metafonizza la ‘’a’’ facendola salire (diventa ‘’ä’’, ovvero ‘’ɛ’’ in IPA,
‘’e’’ aperta). L’’umlaut’’ (i due punti sopra ‘’a’’, ‘’o’’ ed ‘’u’’ che ne indica la palatalizzazione) rappresenta
graficamente il risultato della metafonesi. Tra la fase medio-tedesca e la fase del tedesco moderno, tutte le
vocali finali si sono centralizzate (sono diventate uno schwa, ‘’ ʧ’’). Prima avviene la metafonia, dopo la
centralizzazione. Nel tedesco moderno (rigo 3) il plurale è dato dalla ‘’ɛ’’, tipologicamente questo è un classico
esempio di lingua introflessiva (cambio di vocale dentro la radice che indica il passaggio da singolare a
plurale). L’opposizione singolare-plurale cambia dall’antico alto tedesco al tedesco moderno (avviene un
cambio tipologico da flessivo a introflessivo). Morfometafonia: metafonia che ha conseguenze sul piano
morfologico.

La metafonia napoletana e sabina: Nei dialetti italiani, soprattutto quelli centro-meridionali la metafonia può
essere innescata dalla ‘’i’’ o dalla ‘’u’’. In gran parte dei dialetti dell’alto meridione, queste vocali dopo aver
metafonizzato sono diventate uno schwa ‘’ə’’. Le vocali medio-alte si chiudono in vocali alte: la ‘’e’’ che si
metafonizza diventa ‘’i’’, mentre la ‘’o’’ diventa ‘’u’’. Le vocali medio-basse, nella metafonesi napoletana
diventano un dittongo metafonetico (col secondo elemento che è una vocale medio-alta, la ‘’e’’ diventa ‘’ie’’ e
la ‘’o’’ diventa ‘’uo’’, es. it. ‘’bambinello’’ diventa in napolet. ‘’bambiniell’’). La ‘’ĭ’’ (‘’i’’ breve), (es. lat. sĭmplĭci)
dà nelle lingue romanze generalmente la ‘’e’’ (it. sémplici). Il toscano da cui deriva l’italiano non ha metafonia.
Il lat. ‘’sĭmplĭci’’ diventa in napoletano ‘’símprəčə’’ dove ‘’č’’ sostituisce (fuori dall’IPA) l’affricata
palatale/postalveolare sorda ‘’ʧ’’. Presenta una ‘’i’’ perché la base latina conteneva ‘’i’’ finale, che ha
assimilato la ‘’e’’ che dopo aver metafonizzato diventa schwa ‘’ə’’. Il lat. ‘’fĭlĭce’’ (felce) diventa in napoletano
‘’féləčə’’ (al sing.) e ‘’fíləčə’’ (al plur.); al sing. la ‘’ĭ’’ (‘’i’’ breve) dà ‘’e’’ (come in italiano) perché la base
terminava in ‘’e’’ che non provoca metafonia, invece il plurale presenta una ‘’i’’ perché deriva dalla base latina
plur. ‘’fĭlĭci’’ dove la ‘’i’’ metafonizza e quindi la ‘’e’’ sale. Il lat. ‘’cĭcĕre’’ (cece) diventa in napoletano ‘’čéčərə’’
(al sing.) e ‘’číčərə’’ (al plur.); al sing. la ‘’i’’ dà ‘’e’’ (come in toscano ed in italiano standard) e non c’è
metafonia, il plurale ha una ‘’i’’ dove l’italiano ha la ‘’e’’ perché deriva dalla base latina plur. ‘’cĭcĕri’’ quindi la
‘’i’’ metafonizza la ‘’e’’ e sale. Il lat ‘’domĭnĭcu’’ diventa ‘’mínəkə’’ (domenico) al maschile e ‘’ménəka’’
(domenica) al femminile, per quest’ultima forma (femminile) si parte dal lat. ‘’domĭnĭca’’: la ‘’a’’ non provoca
mai metafonesi, quindi dalla ‘’ĭ’’ (‘’i’’ breve) del latino abbiamo una ‘’e’’ senza metafonia. In napoletano, nelle
forme non metafonetiche la vocale finale in origine di queste parole non era né ‘’i’’ né ‘’u’’ (sennò ci sarebbe
stata metafonia), di conseguenza nelle forme metafonetiche in origine vi era o ‘’i’’ o ‘’u’’. L’unico modo per
distinguere in napoletano il singolare dal plurale è il meccanismo metafonetico (la vocale metafonizzata sta
dentro la base, è quindi un’introflessione). Nell’Italia meridionale esistono 2 tipi di metafonia: metafonesi
napoletana e metafonesi sabina/ciociaresca (diffusa nell’area della Ciociaria, al confine tra Lazio e Campania,
ancora oggi vari dialetti in questa zona presentano questa metafonesi, come Sora, paese in provincia di
Frosinone). Sulle vocali medio-alte coincide con la metafonesi napoletana, la ‘’e’’ diventa ‘’i’’ la ‘’o’’ diventa
‘’u’’. Mentre nella metafonesi napoletana le vocali medio-basse dittongano, nella metafonesi sabina queste
salgono ([ε] > [e]; [ɔ] > [o], metafonesi per ‘’innalzamento’’, es. [ˈmɔːre] = ‘’egli muore’’, non metafonetico e
[ˈmoːri] = ‘’tu muori’’, metafonetico; oppure [ˈpεːde] = ‘’piedi’’, non metafonetico e [ˈpeːdi] = ‘’piede’’,
metafonetico, vocale medio-bassa che diventa medio-alta). Foneticamente il tipo di metafonesi più naturale è
quella sabina: in passato si diceva ciò per quella napoletana solo perchè più diffusa e documentata, e perché
sono pochi i dialetti odierni ad avere metafonesi sabina, invece quando un fenomeno è recessivo, in via di
scomparsa, è sicuramente più antico rispetto a quello più diffuso. Le aree isolate conservano gli arcaismi, un
fenomeno come la metafonesi napoletana non è riuscito ad andare dalla Puglia fino all’estrema punta sud
della Puglia (Salento) dove invece è rimasto il tipo più antico (metafonesi sabina). Vi sono 3 teorie sul
rapporto tra metafonesi napoletana e sabina: 1) non esiste nessuna relazione (la prima dittonga, l’altra
innalza); 2) la metafonesi napoletana precede quella sabina (in passato era largamente accettata questa
teoria); 3) la metafonesi sabina precede quella napoletana (teoria foneticamente più attesa/naturale). Ci sono
molti dialetti in cui c’è una chiara alternanza tra posizione interna alla frase e posizione finale di frase: quando
un certo elemento si trova in posizione finale subisce una serie di fenomeni di marcatezza, nel caso della
vocale c’è l’alternanza tra la vocale semplice interna alla frase ed il dittongo finale di frase. Il dittongo in realtà
potrebbe non essere lo sviluppo metafonetico, ma semplicemente il risultato di quest’alternanza prosodica.
La metafonesi per innalzamento (sabina) sarebbe quindi più antica e naturale della metafonesi dittongante
(napoletana). Per riconoscere se è avvenuta una metafonesi, bisogna vedere se la base latina di quella
determinata parola terminava in ‘’i’’ o in ‘’u’’. In moltissimi dialetti soprattutto del centro e del meridione,
tutte le vocali atone sono diventate schwa (‘’ə’’), quindi se non si ha l’etimo non si può sapere se quella
originaria era una ‘’i’’ o una ‘’u’’, ma si deve sempre ricostruire sulla base del latino. In alcuni dialetti può
anche succedere che la ‘’i’’ e la ‘’u’’ che provocano metafonia siano sviluppi secondari (non c’erano il latino).
In alcune aree della Calabria, il lat. ‘’octo’’ (la ‘’o’’ non provoca metafonesi) è diventato ‘’uottu’’ (col dittongo)
perché evidentemente la ‘’u’’ che non è quella del latino ma quella del vocalismo siciliano, pur se secondaria,
ha ancora un potere metaforizzante è in grado di dittongare la vocale medio-bassa del latino e ciò spiega
l’origine del dittongo). In alcuni dialetti anche le ‘’u’’ e le ‘’i’’ secondarie possono provocare metafonesi.
La metatesi: La parola italiana ‘’pioppo’’, proviene (dopo vari mutamenti) dal lat. ‘’populu’’ (la consonante
finale è caduta presto). La sequenza ‘’pj’’ (di ‘’pioppio’’ per esempio) in italiano può derivare solo dal lat. ‘’pl’’
(es. plus/più, pluma/piuma, pluvia/pioggia ecc..). Per avere quindi ‘’pioppo’’ da ‘’populu’’ devo postulare tra
la base latina e quella italiana, uno stadio intermedio in cui quel ‘’populu’’ originario, con la caduta della
prima ‘’u’’ è diventato prima ‘’poplu’’ che però non giustifica comunque l’evoluzione in ‘’pioppo’’, quindi va
postulato un ulteriore passaggio per cui da ‘’poplu’’ ho ‘’plopu’’ (populu > poplu > plopu > pioppo, la ‘’l’’ si è
spostata dalla sua posizione originaria alla posizione dopo la ‘’p’’ e quindi dal ‘’pl’’ latino si può finalmente
avere ‘’pj’’ in italiano). Quando un suono si sposta dalla sua posizione, questo spostamento prende il nome di
‘’metatesi’’, particolarmente frequente con le vibranti, le liquide e le nasali (es. ‘’r’’, ‘’l’’, ‘’n’’), soggette
quindi spesso a questo spostamento. Lo spagnolo ‘’espalda’’ (in spagnolo i gruppi ‘’s’’ + consonante sono
sempre preceduti da una ‘’e’’) proviene dal lat. ‘’spatula’’ (diventa ‘’spatla’’ e poi ‘’spalta’’ che con la
sonorizzazione della ‘’t’’ diventa ‘’espalda’’, spatula > spatla > spalta > espalda). L’italiano ‘’fiaba’’ proviene dal
lat. ‘’fabula’’. La sequenza ‘’fj’’ (di ‘’fiaba’’ per esempio) in italiano può derivare solo dal lat. ‘’fl’’ (es.
flore/fiore, flumen/fiume ecc..). Nel lat. ‘’fabula’’ cade la ‘’u’’ diventando ‘’fabla’’, la ‘’l’’ si sposta dopo la ‘’f’’
diventando ‘’flaba’’ (fabula > fabla > flaba > fiaba).
Suppletivismo e allotropia: il suppletivismo è un fenomeno molto frequente nelle lingue del mondo, per cui
può succedere (per ragioni diverse) che all’interno della stessa famiglia lessicale si utilizzino basi/radici
diverse. Es. ingl. presente ‘’go’’ e passato ‘’went’’ stesso paradigma (modello di declinazione) dove le diverse
forme derivano da basi/radici diverse, le due forme sono quindi definite ‘’suppletive’’. Es. verbo andare al
presente dell’indicativo: ‘’vado, vai, va, vanno’’ (con una serie di allomorfie, base italiana ‘’vad’’ che proviene
dalla base latina ‘’vadere’’) e ‘’andiamo, andate’’ (base italiana ‘’and’’ che proviene dalla base latina ‘’andare’’
o ‘’ambulare’’). Un caso particolare riguarda basi che oggi sono diverse nella forma, ma che anticamente (in
origine) avevano una stessa base, es. città di ‘’Chieti’’/’’teatini’’, i suoi abitanti, dove ‘’teatino’’ deriva
dall’antico nome di Chieti ovvero ‘’Teate’’, due basi che il parlante non riconosce più come la stessa (nessun
parlante ricondurrebbe mai Chieti e teatino alla stessa base, poiché le forme sono troppo diverse). In questo
caso l’origine per quanto possa sembrare sorprendente, è la stessa (entrambe derivano da ‘’Teate’’): in
sincronia è quindi un fenomeno di suppletivismo, in diacronia (risalendo all’origine lungo il corso del tempo di
queste 2 forme), sono 2 allomorfi dello stesso morfema (assolvono la stessa funzione, derivano dalla stessa
base e hanno sviluppi diversi). Stessa cosa vale per la città di Ivrea (in passato si chiamava ‘’Eporedia’’) ed i
suoi abitanti (‘’eporediesi’’). Tra i morfi ‘’Eporedia’’ ed ‘’Ivrea’’ è avvenuta una lenizione (passaggio in questo
caso da occlusiva sorda a fricativa sonora). Una stessa forma può dare vita a 2 parole formalmente diverse in
base ad un processo che si chiama ‘’allotropia’’: da una stessa forma si ottengono 2 forme diverse perché
sono diversi i percorsi che hanno fatto queste forme: una forma è passata di bocca in bocca attraverso una
trafila ‘’popolare’’ (esito normale), mentre l’altra è stata reintrodotta in una lingua attraverso i testi scritti
(‘’evoluzione dotta’’). Es. il lat. ‘’circulum’’ ha dato l’it. ‘’cerchio’’ (‘’forma popolare’’, nata dalla trafila
popolare) e ‘’circolo’’ (‘’cultismo’’, molto vicino alla base di partenza latina). Lat. ‘’mirabilis’’ ha dato l’it.
‘’meraviglia’’ (forma popolare) e ‘’mirabilia’’ (forma colta, cultismo). ‘’Sedia’’ (cultismo) e ‘’seggia’’ (forma
popolare). Il lat. ‘’familiaris’’ ha dato l’it. ‘’familiare’’ (cultismo) o ‘’famigliare’’ (forma popolare). In italiano
standard si usa il cultismo/forma colta.
Rianalisi: L’analisi morfologica nel corso del tempo può subire fenomeni di reinterpretazione, per cui quando i
confini di un morfema diventano meno trasparenti, il parlante può ‘’spostare’’ i confini del morfema e
compiere un’operazione che nel mutamento linguistico è molto frequente, ovvero la ‘’rianalisi’’ (spostamento
dei confini morfematici, tra un morfo e l’altro). La rianalisi avviene quando il parlante non è in grado di capire
la parola e quindi reinterpreta i confini tra un morfema e l’altro (avviene spesso nei casi di prestiti tra una
lingua e l’altra), es. ‘’hamburger’’ a cui attribuiamo tutti il significato di pietanza, è un termine nato in
ambiente germanofono, dove ‘’hamburger’’ (con suffisso -er) è letteralmente l’abitante di Amburgo (‘’burg’’
significa città fortificata, e ‘’Ham’’ è il nome del fiume, ‘’hamburg’’ significherebbe quindi letteralmente ‘’città
sul fiume’’). In ‘’hamburger’’ il confine morfematico cade tra ‘’hamburg’’ ed ‘’er’’ (suffisso che indica il nome
dell’abitante). Quando questa parola entrò in ambiente anglofono, quel ‘’ham’’ venne rietimologizzato,
ovvero reinterpretato come l’equivalente dell’inglese ‘’ham’’ (prosciutto), a questo punto il parlante opera
una rianalisi in cui il primo elemento ‘’ham’’ può essere sostituito da qualsiasi elemento che riguardi il cibo e
‘’burger’’ diventa il secondo elemento (si forma quindi una sorta di schema ‘’x-burger’’, da cui provengono
hamburger, cheeseburger ecc..). Nel passaggio da una lingua all’altra, si è perso il significato originale della
parola, il parlante l’ha reinterpretata, rianalizzando il contenuto morfematico (cioè lo sposta in questo caso
dal tedesco ‘’hamburg-er’’ all’inglese ‘’ham-burger’’). La rianalisi è quindi una reinterpretazione di una parola
che non si intendeva più e (in questo caso) rianalizzata con il materiale della lingua ricevente. La rianalisi non
opera solo nel passaggio da una lingua all’altra, ma anche all’interno della stessa lingua.
Grammaticalizzazione, degrammaticalizzazione, phonetic attrition e semantic bleaching: Può succedere che
un morfo che in origine era lessicale con il tempo diventi grammaticale (fenomeno di
‘’grammaticalizzazione’’). Non tutti i morfemi grammaticali nascono come tali, ci sono moltissimi casi in cui i
morfi grammaticali utilizzano morfemi lessicali. Per esempio i nomi delle parti del corpo diventano nelle
lingue del mondo delle preposizioni per un processo ‘’metaforico’’ che si basa su fondamenti cognitivi
universali, elementi che si riferiscono allo spazio che circonda l’uomo prendono origine da nomi di parti del
corpo, es. ‘’fronte’’ è un morfo lessicale, ‘’di fronte a’’ (al bar) è un morfo grammaticale in quanto
preposizione, avviene quindi la grammaticalizzazione della parola fronte che da morfo lessicale è passata a
morfo grammaticale. Nei processi di grammaticalizzazione più avanzati, il morfo quando diventa grammaticale
da lessicale può subire anche alterazioni fonetiche (processo di ‘’phonetic attrition’’ lett. riduzione fonetica)
diventando più corto. Il futuro del latino era un futuro ‘’sintetico’’ (presentava desinenze adatte a formare il
futuro), il latino volgare perde il futuro sintetico e lo forma col verbo avere seguito dall’infinito (es. ‘’cantare
habeo’’, lett. ‘’ho da cantare’’). Nelle lingue del mondo, il futuro può essere formato in 3 modi: 1) con il
presente; 2) con una perifrasi; 3) con gli ausiliari ‘’avere’’, ‘’dovere’’, ‘’volere’’ o ‘’tenere’’. Nelle lingue
romanze, le desinenze ‘’o’’ dell’it. ‘’canterò’’ o ‘’e’’ dello spagnolo ‘’cantaré’’ sono l’ultimo residuo fonemico
del lat. volgare ‘’habeo’’ attraverso una serie di sviluppi fonetici diversi da lingua a lingua. ‘’Habeo’’ in latino
non solo era morfo lessicale, ma anche libero (poteva stare da solo senza essere legato ad altri morfi nella
frase). Da morfo libero diventa morfo legato, da morfo lessicale è diventato morfo grammaticale (diventa
desinenza), da trisillabo diventa monosillabo (o, e, ai ecc.. a causa del phonetic attrition) ed ha subito un altro
processo che si chiama ‘’semantic bleaching’’ (oscuramento semantico) in quanto ha perso il suo significato
originario lessicale (di verbo avere per diventare desinenza) ed è diventato al 100% un morfema
grammaticale. Molti processi di grammaticalizzazione sono irreversibili (sono processi ‘’unidirezionali’’, in
quanto il parlante non sarebbe in grado da solo di ripercorrere all’indietro quest’evoluzione). Stessa cosa vale
per la negazione (in molte lingue del mondo, una piccola quantità/distanza diventano un elemento
fondamentale per la formazione della negazione), es. ‘’non lo faccio mica’’ (dove ‘’mica’’ è un morfo
grammaticale perché non ha valore semantico, ed è un rafforzativo di negazione, la sua reale origine è in una
parola che indica una piccola quantità, ovvero ‘’mollica’’, quindi da una piccola quantità diventa negazione.
Per quanto riguarda il morfo grammaticale ‘’pas’’ francese (lingua che richiede la doppia negazione), esso ha
origine nel lat. ‘’passum’’, passo (quest’ultimo è un morfo lessicale) che indica una breve distanza e quindi
negazione (secondo lo stesso processo metabolico-cognitivo). In fr. ‘’chez moi’’ (da me), ‘’chez’’ (morfo
grammaticale, preposizione) ha origine nel lat. volgare ‘’casa’’. Molti suffissi dell’inglese, del tedesco e delle
lingue romanze sono il risultato di processi di grammaticalizzazione, es. it. ‘’felicemente’’ (felice+mente) dove
‘’mente’’ è un morfo grammaticale (suffisso avverbiale). ‘’Mente’’ da un punto di vista etimologico è il caso
ablativo del lat. ‘’mens/mentis’’. Felicemente significa quindi letteralmente ‘’con mente felice’’.
‘’Mens/mentis’’ (morfo lessicale libero) diventato un suffisso è diventato morfo grammaticale legato subendo
un processo di ‘’semantic bleaching’’ (in quanto il parlante non gli attribuisce il valore di mente). Un caso
molto studiato di grammaticalizzazione è la nascita dell’articolo definito (determinativo) delle lingue romanze
(in it. ‘’il’’ ‘’lo’’ ‘’la’’, in spagn. ‘’el’’, in fr ‘’le’’ ecc..) che derivano tutti dal pronome latino ‘’ille’’ (lett. ‘’quel’’, es.
lat. ‘’ille homo’’ = it. ‘’quell’uomo’’ (specifico), nel passaggio dal latino alle lingue romanze, l’articolo da morfo
lessicale libero diventa grammaticale (sempre libero), mentre in rumeno diventa anche morfo legato (es.
‘’omul’’), l’unica tra le lingue romanze che presenta l’articolo posposto (o agglutinato). Ci sono però alcune
lingue romanze che formano i loro articoli da un altro pronome latino, ovvero ‘’ipse’’ alla base degli articoli
‘’su’’ maschile, ‘’sa’’ femminile (sardo e dialetti delle isole baleari, una parte del catalano, non a caso tutte
aree insulari che hanno subito un’evoluzione isolata rispetto alle lingue romanze). Può succedere che un
morfo grammaticale diventi morfo lessicale (degrammaticalizzazione, fenomeno molto più raro). Es. suffisso
‘’-ismo’’ in ‘’comunismo’’, ‘’nazismo’’, ‘’nazionalismo’’ ecc.. (movimenti politici spesso estremi. Il suffisso
‘’ismo’’ è stato usato in giornalismo come morfo lessicale libero (es. ‘’liberiamoci da tutti gli ismi del nostro
secolo’’. E’ una ‘’degrammaticalizzazione’’ in quanto un suffisso (morfo grammaticale legato) viene usato in
questo caso come morfo lessicale libero (presenta i target dell’accordo). Ogni affisso (come ogni morfo
grammaticale) generalmente è legato.
Genere e classi flessive: Il genere grammaticale si determina in base ai cosiddetti target dell’accordo che
circondano il nome e che permettono vedendo nell’associazione di questi, al nome, di determinare quanti
generi ha una lingua. Le desinenze nelle parole italiane (per esempio) come ‘’tavol-o’’ o ‘’ros-a’’, indicano le
classi flessive. In italiano, nella classe dei nomi che terminano in ‘’o’’ vanno generalmente nomi maschili, in
quelli che terminano in ‘’a’’ vanno generalmente nomi femminili (questa però non è una regola assoluta e non
è sufficiente a determinare il genere, es ‘’pilot-a’’ fa parte della classe flessiva in ‘’a’’ ma non è femminile, cosa
deducibile solo attraverso i target dell’accordo come articolo e aggettivo). Si stabilisce che un nome va nella
classe in ‘’o’’ e un altro nella classe in ‘’a’’ fondamentalmente in base a 2 parametri: Un parametro di tipo
formale (in generale in italiano se un nome finisce in ‘’o’’ va nella classe maschile, se finisce in ‘’a’’ nella classe
femminile) e in base a criteri semantici (come i criteri culturali che riflettono una concezione culturale di
quella determinata società .Talvolta, ma non sempre il genere grammaticale può coincidere col genere
naturale (ciò che in natura è di sesso maschile, va nella classe maschile e ciò che in natura è di sesso
femminile, va nella classe femminile, però ciò non avviene sempre). Il tedesco ‘’das kind’’ (il bambino) con
articolo neutro, perché in tedesco si classificano nella classe neutra tutta una serie di nomi inanimati o non
specificati nel genere naturale (in questo caso perché sotto una certa età non c’è ancora uno sviluppo sessuale
differenziato). In italiano la ‘’Luna’’ è femminile ed il ‘’Sole’’ maschile, ma secondo un criterio puramente
convenzionale (‘’Luna’’ finisce in ‘’a’’, mentre ‘’Sole’’ in ‘’e’’, come molte altre parole maschili), ciò non vuol
dire che in assoluto nelle lingue del mondo, l’una abbia genere maschile e l’altra femminile, perché per es. in
tedesco avviene l’esatto opposto (la ‘’Luna’’ è maschile, mentre il ‘’Sole’’ è femminile) questo succede molto
spesso perché nomi come ‘’Sole’’ e ‘’Luna’’ in varie culture sono il residuo di antiche credenze pagane (o
religiose in generale) che riflettono certe tradizioni. L’assegnazione di un nome ad una classe flessiva, è
un’operazione puramente arbitraria e che varia da lingua a lingua e non ha nulla a che fare con il genere
(nel senso di Greville G Corbett).
Il Dyirbal: Un caso interessante e citato è quello del ‘’Dyirbal’’ (parlato allora nel Queensland a nord-est
dell’Australia) che il linguista inglese Dixon, trasferitosi in Australia, negli anni ‘70 venne mandato per la sua
tesi di dottorato a studiare questa lingua aborigena (feedwork). Il Dyrbal ha 4 classi di nomi (e ciò spiega
come la modifica dei nomi dentro le classi flessive sia puramente arbitraria e convenzionale, riflettendo la
cultura che esprime quella determinata lingua): 1) gli uomini, una serie di animali e la Luna (quest’ultima
personificata al maschile, in quanto sposo del Sole); 2) le donne, il Sole e le stelle, gli uccelli (in quanto spiriti
di donne morte), una serie di animali, tutto ciò che ha a che fare con il fuoco e l’acqua (come per es. le armi
da fuoco, i nomi sono quindi spesso associati metaforicamente, la metafora/associazione non è universale ma
dipende da cultura a cultura); 3) i frutti, le felci, il miele, le sigarette; 4) le parti del corpo, la carne, le api, la
maggior parte degli alberi, il fango, pietre. Una trentina d’anni dopo che Dixon aveva completato il suo
feedwork, un altro studioso è tornato tra i parlanti Dyirbal e ha rianalizzato le classi flessive, che da 4 erano
diventate solo 2: 1) nomi animati; 2) nomi inanimati (proprio come le lingue indoeuropee antiche). La
riduzione delle classi dipende dal fatto che il dyirbal ha subito una massiccia influenza da parte
dell’anglofonia/inglese (sia sul piano linguistico che culturale). Con l’allentarsi dei legami culturali delle 4 classi
di partenza, sono cambiate anche le strutture grammaticali, in particolare il sistema nominale (la cultura
ancestrale indigena andò perdendosi col tempo e così, anche la grammatica e la lingua hanno risentito di
questo cambiamento per cui c’è stata una forte semplificazione delle 4 classi che sono diventate 2). Quindi col
mutare di certe condizioni culturali e sociali, anche il sistema flessivo (delle classi nominali) cambia, questo
sistema come tutti i sistemi di classificazioni dei nomi nelle lingue del mondo, non hanno a che vedere con il
genere naturale, ma riflettono legami metaforici, cognitivi ecc.. che sono instaurati all’interno di una
lingua/cultura e dunque sono ‘’idiosincratici’’ (cioè specifici di una lingua, cambiano da lingua a lingua e
possono cambiare nel tempo anche nella stessa lingua quando certe condizioni sociali e culturali mutano).
Paretimologia o etimologia popolare: Molto spesso la rianalisi morfologica avviene quando il parlante non
riesce più a riconoscere l’origine di un nome e lo codifica nella forma o lo modifica nel significato e (in
entrambi i casi) molto spesso riassegna confini morfematici (cioè li sposta). Questo processo prende il nome
di ‘’paretimologia’’ o ‘’etimologia popolare’’ ed è un fenomeno che effettuiamo nel nostro parlato quotidiano
di continuo. Per esempio in italiano la parola ‘’negromante’’ (ovvero indovino relativo alla morte), in sincronia
la parte ‘’negro’’ viene rianalizzata come ‘’di colore nero/persone di colore’’ perché nella cultura popolare,
questa arte, in tempi antichi veniva associata alla nigrizia (era infatti esercitata soprattutto da uomini di
colore), in realtà quel ‘’negro’’ deriva dal greco ‘’nekros’’ (morto). Quando si è perso il valore originario (i
parlanti non erano più in grado di ricondurre questa parola all’etimo originario, l’hanno rianalizzata,
associandola in questo caso all’aggettivo ‘’negro’’). Anche il nome ‘’ciarlatano’’ (impostore) è una
‘’deformazione paretimologica’’ (o ‘’etimolgia popolare’’) dell’aggettivo ‘’cerretano’’ (abitante di Cerreto, in
Umbra, borgo famoso nel medioevo per una grande festa popolare in cui oltre a commercianti e venditori
c’erano anche una serie di imbroglioni e girovaghi, per cui il nome degli abitanti di Cerreto fu associato in
maniera dispregiativa ad una persona di malaffare; quando si è persa questa tradizione popolare, i parlanti
non riuscendo più a riconoscere l’origine della parola, l’hanno associata al verbo italiano ‘’ciarlare’’, parlare a
vanvera, modificando ‘’cerretano’’ in ‘’ciarlatano’’). Un altro esempio di questo fenomeno è l’inglese
‘’sparrow grass’’ (erba di passero) che era un prestito dall’italiano ‘’asparago’’: quando non si è più intuita
l’origine di questo nome, quest’ultimo è stato scomposto (c’è stata un’arbitraria divisione dei confini
morfologici) secondo un modello molto diffuso nell’assegnazione dei nomi di pianta che prevede che una
certa erba sia chiamata in riferimento alla specie animale che si crede sia interessata a quest’erba. I toponimi
(nomi propri dei luoghi geografici, scelti in Italia dall’Istituto geografico militare) sono spesso il frutto di
etimologie popolari. Secondo un buffo aneddoto, un militare, nonché geografo, che stava mappando le
montagne delle Prealpi Orobie, nel vicentino, per conoscere il nome di una cima, lo chiese ad un contadino
del posto, che gli rispose "So menga!" (non lo so/so mica, fenomeno di lenizione). Fu così che la cima venne
battezzata sulle cartine militari come monte Somenga. Molti nomi di luogo prendono il nome da un
possessore di un terreno es. ‘’Taibon’’ Agordino a Bellino in Veneto, in realtà è un’etimologia popolare che
comporta una rianalisi dei morfemi perché i parlanti hanno diviso il nome originario che probabilmente è un
derivato del nome di Ottavio in latino (Octavione in accusativo, Octavione > Taibon). Chiaramente quando si è
persa l’origine di questo nome, i parlanti non riuscendo più a ritrovarne l’origine hanno associato ‘’Tai’’ a
‘’taglio’’ e ‘’bon’’ all’aggettivo ‘’buono’’ (probabilmente riferito al fieno), ponendo un confine di morfema tra
le due parti (è quindi un’etimologia popolare con rianalisi morfologica). Il principio che sta dietro è che il
parlante non è in grado di riconoscere l’origine del termine (a causa di una mancata percezione della
trasparenza del nome, il quale non più riconoscibile nella sua formazione) per cui lo associa ad altri termini
noti, lo deforma nel significante (parte formale) e molto spesso compie una rianalisi (cioè riassegna/sposta i
confini morfematici, che però non è obbligatorio nell’etimologia popolare). La parola ‘’stravizio’’ è interpretata
da tutti gli italofoni come un vizio eccessivo, con ‘’stra’’ rianalizzato come prefisso (questo però è presente
solo davanti agli aggettivi e non davanti ai nomi). ‘’Stra’’ è stato quindi rianalizzato e rietimologizzato come
tale. Questo termine è infatti uno slavismo entrato in italiano dal serbo-croato ed indica il vizio del bere.
La storia delle lingue indoeuropee: è la storia di lingue che nel tempo perdono sempre di più la trasparenza
tra un morfema e l’altro: nel caso del marebbano, la parola per ‘’trifoglio’’ si dice ‘’trafei’’, tutte e 2 derivano
dal latino ‘’trifolium’’ che a sua volta deriva dal greco. Il marebbano (dialetto con forte accento intensivo,
accento responsabile di un elevato logorio fonetico, dunque il corpo della parola in questi dialetti si è
sensibilmente ridotto, ci sono molti monosillabi, si accelera così il processo di perdita di trasparenza della
lingua) è uno dei tanti dialetti latini delle valli delle Dolomiti (valle di Marebbe, in provincia di Bolzano, dove si
parla ancora una lingua romanza, il ladino, che deriva da ‘’latinus’’ (per lenizione). Se un parlante marebbano
dovesse analizzare in sincronia la parola ‘’trafei’’, questa parola non è analizzabile (non si può scomporre in
morfemi in quanto morfema unico). Questo caso illustra il ‘’segno monoblocco’’ o ‘’segno fisso’’, cioè una
parola che non si può più dividere in morfemi, che il parlante non riesce più a scomporre nelle unità
originarie, ‘’trafei’’ costituisce infatti un solo morfo. Se risaliamo alla parola originaria (alla fase latina), questa
parola per un parlante latinofono era trasparente, perché ‘’trifolium’’ era associabile la prima parte ‘’tri’’ al
numerale ‘’tres’’ e ‘’folium’’ al nome latino per ‘’foglia’’. Quindi più andiamo indietro nel tempo per le lingue
indoeuropee, più la parola appare morfologicamente trasparente, i confini tra un morfema e l’altro sono
molto più facilmente individuabili. La storia del passaggio dal latino alle lingue romanze, è la storia di una
lingua che tipologicamente perde in parte (o in tutto) questa trasparenza e diventa un segno
unico/monoblocco che non si può più dividere nelle sue parti costitutive. Se facciamo ancora un passo
indietro, dal latino all’indoeuropeo ricostruito, la parola è ancora più analizzabile del latino stesso,
nell’indoeuropeo si riescono ad individuare ben 3 morfemi (una radice, un suffisso e una desinenza
grammaticale alla fine). L’indoeuropeo ricostruito a differenza delle lingue storiche avendo moduli
nettamente differenziati con funzioni diverse, aveva un ruolo diverso assegnato alle vocali rispetto al ruolo
assegnato alle consonanti (le consonanti avevano un ruolo lessicale e le vocali interne al consonantismo
avevano un ruolo grammaticale, che ricorda la radice trilittere delle lingue semitiche con la sua struttura a
pettine). Il tipo morfologico dell’indoeuropeo oggi non c’è praticamente più nelle lingue indoeuropee
moderne, tranne in pochi casi (‘’apofonia’’, il cambiamento della vocale in funzione morfologica), il resto delle
lingue affida alle desinenze il ruolo grammaticale. Quando una lingua è trasparente (i confini tra un morfo e
l’altro sono chiari ed evidenti) non esistono (o sono molto rare) alterazioni fonetiche che possono cambiare la
forma di quella parola perché è come se ci fosse tra un morfo e l’altro una sorta di porta che non permette la
comunicazione tra morfi (è necessario che questi morfi non si confondano, ognuno ha la propria funzione e
devono rimanere isolati). Quando la parola diventa monoblocco, non ci sono più moduli/pezzi che la
compongono, i fenomeni di alterazione fonetica (assimilazione, dissimilazione, metatesi ecc..) sono molto più
frequenti perché non c’è più niente da ‘’salvare’’, non si deve più distinguere un morfo da un altro perché c’è
un unico morfo. Nelle lingue romanze moderne, questi segni monoblocco sono molto più frequenti nel nome
che nel verbo. La parte più conservativa della morfologia (modulo trasparente) questa è senz’altro il verbo
rispetto al nome, il verbo deve portare su di sé (rispetto al nome dove vi sono solo numero e classe flessiva)
molte più informazioni (tempo, modo, persona, diatesi, aspetto ecc..). Una forma verbale ha più necessità
di essere riconoscibile nei pezzi che la compongono ed è per questo il morfo più trasparente, il verbo
conserva una struttura morfologica con funzioni abbastanza chiare ed individuabili al proprio interno. Le
lingue indoeuropee antiche avevano i casi che servivano ad esprimere il rapporto della parola con il resto
della frase, se la parola diventa irrigidita/opaca (non più trasparente), nelle lingue romanze moderne con
qualche eccezione in rumeno non vi sono più i casi, ma preposizioni (la grammatica è quindi svolta da
elementi esterni) nel latino volgare, già in testi antichi non si trovano più i casi ma preposizioni che
sostituiscono i casi, il tipo morfologico è quindi modificato completamente: il latino è di tipo ‘’sintetico’’
(svolge funzioni grammaticali all’interno della parola stessa attraverso casi, desinenze ecc..), gran parte le
lingue romanze moderne presentano una tipologia ‘’analitica’’ (svolgono funzioni grammaticali nel nome
attraverso le preposizioni), è avvenuto quindi il passaggio da una grammatica autosufficiente nel corpo
della parola ad una tipologia in cui la grammatica si fa con elementi esterni alla parola.

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