Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
La metafonia napoletana e sabina: Nei dialetti italiani, soprattutto quelli centro-meridionali la metafonia può
essere innescata dalla ‘’i’’ o dalla ‘’u’’. In gran parte dei dialetti dell’alto meridione, queste vocali dopo aver
metafonizzato sono diventate uno schwa ‘’ə’’. Le vocali medio-alte si chiudono in vocali alte: la ‘’e’’ che si
metafonizza diventa ‘’i’’, mentre la ‘’o’’ diventa ‘’u’’. Le vocali medio-basse, nella metafonesi napoletana
diventano un dittongo metafonetico (col secondo elemento che è una vocale medio-alta, la ‘’e’’ diventa ‘’ie’’ e
la ‘’o’’ diventa ‘’uo’’, es. it. ‘’bambinello’’ diventa in napolet. ‘’bambiniell’’). La ‘’ĭ’’ (‘’i’’ breve), (es. lat. sĭmplĭci)
dà nelle lingue romanze generalmente la ‘’e’’ (it. sémplici). Il toscano da cui deriva l’italiano non ha metafonia.
Il lat. ‘’sĭmplĭci’’ diventa in napoletano ‘’símprəčə’’ dove ‘’č’’ sostituisce (fuori dall’IPA) l’affricata
palatale/postalveolare sorda ‘’ʧ’’. Presenta una ‘’i’’ perché la base latina conteneva ‘’i’’ finale, che ha
assimilato la ‘’e’’ che dopo aver metafonizzato diventa schwa ‘’ə’’. Il lat. ‘’fĭlĭce’’ (felce) diventa in napoletano
‘’féləčə’’ (al sing.) e ‘’fíləčə’’ (al plur.); al sing. la ‘’ĭ’’ (‘’i’’ breve) dà ‘’e’’ (come in italiano) perché la base
terminava in ‘’e’’ che non provoca metafonia, invece il plurale presenta una ‘’i’’ perché deriva dalla base latina
plur. ‘’fĭlĭci’’ dove la ‘’i’’ metafonizza e quindi la ‘’e’’ sale. Il lat. ‘’cĭcĕre’’ (cece) diventa in napoletano ‘’čéčərə’’
(al sing.) e ‘’číčərə’’ (al plur.); al sing. la ‘’i’’ dà ‘’e’’ (come in toscano ed in italiano standard) e non c’è
metafonia, il plurale ha una ‘’i’’ dove l’italiano ha la ‘’e’’ perché deriva dalla base latina plur. ‘’cĭcĕri’’ quindi la
‘’i’’ metafonizza la ‘’e’’ e sale. Il lat ‘’domĭnĭcu’’ diventa ‘’mínəkə’’ (domenico) al maschile e ‘’ménəka’’
(domenica) al femminile, per quest’ultima forma (femminile) si parte dal lat. ‘’domĭnĭca’’: la ‘’a’’ non provoca
mai metafonesi, quindi dalla ‘’ĭ’’ (‘’i’’ breve) del latino abbiamo una ‘’e’’ senza metafonia. In napoletano, nelle
forme non metafonetiche la vocale finale in origine di queste parole non era né ‘’i’’ né ‘’u’’ (sennò ci sarebbe
stata metafonia), di conseguenza nelle forme metafonetiche in origine vi era o ‘’i’’ o ‘’u’’. L’unico modo per
distinguere in napoletano il singolare dal plurale è il meccanismo metafonetico (la vocale metafonizzata sta
dentro la base, è quindi un’introflessione). Nell’Italia meridionale esistono 2 tipi di metafonia: metafonesi
napoletana e metafonesi sabina/ciociaresca (diffusa nell’area della Ciociaria, al confine tra Lazio e Campania,
ancora oggi vari dialetti in questa zona presentano questa metafonesi, come Sora, paese in provincia di
Frosinone). Sulle vocali medio-alte coincide con la metafonesi napoletana, la ‘’e’’ diventa ‘’i’’ la ‘’o’’ diventa
‘’u’’. Mentre nella metafonesi napoletana le vocali medio-basse dittongano, nella metafonesi sabina queste
salgono ([ε] > [e]; [ɔ] > [o], metafonesi per ‘’innalzamento’’, es. [ˈmɔːre] = ‘’egli muore’’, non metafonetico e
[ˈmoːri] = ‘’tu muori’’, metafonetico; oppure [ˈpεːde] = ‘’piedi’’, non metafonetico e [ˈpeːdi] = ‘’piede’’,
metafonetico, vocale medio-bassa che diventa medio-alta). Foneticamente il tipo di metafonesi più naturale è
quella sabina: in passato si diceva ciò per quella napoletana solo perchè più diffusa e documentata, e perché
sono pochi i dialetti odierni ad avere metafonesi sabina, invece quando un fenomeno è recessivo, in via di
scomparsa, è sicuramente più antico rispetto a quello più diffuso. Le aree isolate conservano gli arcaismi, un
fenomeno come la metafonesi napoletana non è riuscito ad andare dalla Puglia fino all’estrema punta sud
della Puglia (Salento) dove invece è rimasto il tipo più antico (metafonesi sabina). Vi sono 3 teorie sul
rapporto tra metafonesi napoletana e sabina: 1) non esiste nessuna relazione (la prima dittonga, l’altra
innalza); 2) la metafonesi napoletana precede quella sabina (in passato era largamente accettata questa
teoria); 3) la metafonesi sabina precede quella napoletana (teoria foneticamente più attesa/naturale). Ci sono
molti dialetti in cui c’è una chiara alternanza tra posizione interna alla frase e posizione finale di frase: quando
un certo elemento si trova in posizione finale subisce una serie di fenomeni di marcatezza, nel caso della
vocale c’è l’alternanza tra la vocale semplice interna alla frase ed il dittongo finale di frase. Il dittongo in realtà
potrebbe non essere lo sviluppo metafonetico, ma semplicemente il risultato di quest’alternanza prosodica.
La metafonesi per innalzamento (sabina) sarebbe quindi più antica e naturale della metafonesi dittongante
(napoletana). Per riconoscere se è avvenuta una metafonesi, bisogna vedere se la base latina di quella
determinata parola terminava in ‘’i’’ o in ‘’u’’. In moltissimi dialetti soprattutto del centro e del meridione,
tutte le vocali atone sono diventate schwa (‘’ə’’), quindi se non si ha l’etimo non si può sapere se quella
originaria era una ‘’i’’ o una ‘’u’’, ma si deve sempre ricostruire sulla base del latino. In alcuni dialetti può
anche succedere che la ‘’i’’ e la ‘’u’’ che provocano metafonia siano sviluppi secondari (non c’erano il latino).
In alcune aree della Calabria, il lat. ‘’octo’’ (la ‘’o’’ non provoca metafonesi) è diventato ‘’uottu’’ (col dittongo)
perché evidentemente la ‘’u’’ che non è quella del latino ma quella del vocalismo siciliano, pur se secondaria,
ha ancora un potere metaforizzante è in grado di dittongare la vocale medio-bassa del latino e ciò spiega
l’origine del dittongo). In alcuni dialetti anche le ‘’u’’ e le ‘’i’’ secondarie possono provocare metafonesi.
La metatesi: La parola italiana ‘’pioppo’’, proviene (dopo vari mutamenti) dal lat. ‘’populu’’ (la consonante
finale è caduta presto). La sequenza ‘’pj’’ (di ‘’pioppio’’ per esempio) in italiano può derivare solo dal lat. ‘’pl’’
(es. plus/più, pluma/piuma, pluvia/pioggia ecc..). Per avere quindi ‘’pioppo’’ da ‘’populu’’ devo postulare tra
la base latina e quella italiana, uno stadio intermedio in cui quel ‘’populu’’ originario, con la caduta della
prima ‘’u’’ è diventato prima ‘’poplu’’ che però non giustifica comunque l’evoluzione in ‘’pioppo’’, quindi va
postulato un ulteriore passaggio per cui da ‘’poplu’’ ho ‘’plopu’’ (populu > poplu > plopu > pioppo, la ‘’l’’ si è
spostata dalla sua posizione originaria alla posizione dopo la ‘’p’’ e quindi dal ‘’pl’’ latino si può finalmente
avere ‘’pj’’ in italiano). Quando un suono si sposta dalla sua posizione, questo spostamento prende il nome di
‘’metatesi’’, particolarmente frequente con le vibranti, le liquide e le nasali (es. ‘’r’’, ‘’l’’, ‘’n’’), soggette
quindi spesso a questo spostamento. Lo spagnolo ‘’espalda’’ (in spagnolo i gruppi ‘’s’’ + consonante sono
sempre preceduti da una ‘’e’’) proviene dal lat. ‘’spatula’’ (diventa ‘’spatla’’ e poi ‘’spalta’’ che con la
sonorizzazione della ‘’t’’ diventa ‘’espalda’’, spatula > spatla > spalta > espalda). L’italiano ‘’fiaba’’ proviene dal
lat. ‘’fabula’’. La sequenza ‘’fj’’ (di ‘’fiaba’’ per esempio) in italiano può derivare solo dal lat. ‘’fl’’ (es.
flore/fiore, flumen/fiume ecc..). Nel lat. ‘’fabula’’ cade la ‘’u’’ diventando ‘’fabla’’, la ‘’l’’ si sposta dopo la ‘’f’’
diventando ‘’flaba’’ (fabula > fabla > flaba > fiaba).
Suppletivismo e allotropia: il suppletivismo è un fenomeno molto frequente nelle lingue del mondo, per cui
può succedere (per ragioni diverse) che all’interno della stessa famiglia lessicale si utilizzino basi/radici
diverse. Es. ingl. presente ‘’go’’ e passato ‘’went’’ stesso paradigma (modello di declinazione) dove le diverse
forme derivano da basi/radici diverse, le due forme sono quindi definite ‘’suppletive’’. Es. verbo andare al
presente dell’indicativo: ‘’vado, vai, va, vanno’’ (con una serie di allomorfie, base italiana ‘’vad’’ che proviene
dalla base latina ‘’vadere’’) e ‘’andiamo, andate’’ (base italiana ‘’and’’ che proviene dalla base latina ‘’andare’’
o ‘’ambulare’’). Un caso particolare riguarda basi che oggi sono diverse nella forma, ma che anticamente (in
origine) avevano una stessa base, es. città di ‘’Chieti’’/’’teatini’’, i suoi abitanti, dove ‘’teatino’’ deriva
dall’antico nome di Chieti ovvero ‘’Teate’’, due basi che il parlante non riconosce più come la stessa (nessun
parlante ricondurrebbe mai Chieti e teatino alla stessa base, poiché le forme sono troppo diverse). In questo
caso l’origine per quanto possa sembrare sorprendente, è la stessa (entrambe derivano da ‘’Teate’’): in
sincronia è quindi un fenomeno di suppletivismo, in diacronia (risalendo all’origine lungo il corso del tempo di
queste 2 forme), sono 2 allomorfi dello stesso morfema (assolvono la stessa funzione, derivano dalla stessa
base e hanno sviluppi diversi). Stessa cosa vale per la città di Ivrea (in passato si chiamava ‘’Eporedia’’) ed i
suoi abitanti (‘’eporediesi’’). Tra i morfi ‘’Eporedia’’ ed ‘’Ivrea’’ è avvenuta una lenizione (passaggio in questo
caso da occlusiva sorda a fricativa sonora). Una stessa forma può dare vita a 2 parole formalmente diverse in
base ad un processo che si chiama ‘’allotropia’’: da una stessa forma si ottengono 2 forme diverse perché
sono diversi i percorsi che hanno fatto queste forme: una forma è passata di bocca in bocca attraverso una
trafila ‘’popolare’’ (esito normale), mentre l’altra è stata reintrodotta in una lingua attraverso i testi scritti
(‘’evoluzione dotta’’). Es. il lat. ‘’circulum’’ ha dato l’it. ‘’cerchio’’ (‘’forma popolare’’, nata dalla trafila
popolare) e ‘’circolo’’ (‘’cultismo’’, molto vicino alla base di partenza latina). Lat. ‘’mirabilis’’ ha dato l’it.
‘’meraviglia’’ (forma popolare) e ‘’mirabilia’’ (forma colta, cultismo). ‘’Sedia’’ (cultismo) e ‘’seggia’’ (forma
popolare). Il lat. ‘’familiaris’’ ha dato l’it. ‘’familiare’’ (cultismo) o ‘’famigliare’’ (forma popolare). In italiano
standard si usa il cultismo/forma colta.
Rianalisi: L’analisi morfologica nel corso del tempo può subire fenomeni di reinterpretazione, per cui quando i
confini di un morfema diventano meno trasparenti, il parlante può ‘’spostare’’ i confini del morfema e
compiere un’operazione che nel mutamento linguistico è molto frequente, ovvero la ‘’rianalisi’’ (spostamento
dei confini morfematici, tra un morfo e l’altro). La rianalisi avviene quando il parlante non è in grado di capire
la parola e quindi reinterpreta i confini tra un morfema e l’altro (avviene spesso nei casi di prestiti tra una
lingua e l’altra), es. ‘’hamburger’’ a cui attribuiamo tutti il significato di pietanza, è un termine nato in
ambiente germanofono, dove ‘’hamburger’’ (con suffisso -er) è letteralmente l’abitante di Amburgo (‘’burg’’
significa città fortificata, e ‘’Ham’’ è il nome del fiume, ‘’hamburg’’ significherebbe quindi letteralmente ‘’città
sul fiume’’). In ‘’hamburger’’ il confine morfematico cade tra ‘’hamburg’’ ed ‘’er’’ (suffisso che indica il nome
dell’abitante). Quando questa parola entrò in ambiente anglofono, quel ‘’ham’’ venne rietimologizzato,
ovvero reinterpretato come l’equivalente dell’inglese ‘’ham’’ (prosciutto), a questo punto il parlante opera
una rianalisi in cui il primo elemento ‘’ham’’ può essere sostituito da qualsiasi elemento che riguardi il cibo e
‘’burger’’ diventa il secondo elemento (si forma quindi una sorta di schema ‘’x-burger’’, da cui provengono
hamburger, cheeseburger ecc..). Nel passaggio da una lingua all’altra, si è perso il significato originale della
parola, il parlante l’ha reinterpretata, rianalizzando il contenuto morfematico (cioè lo sposta in questo caso
dal tedesco ‘’hamburg-er’’ all’inglese ‘’ham-burger’’). La rianalisi è quindi una reinterpretazione di una parola
che non si intendeva più e (in questo caso) rianalizzata con il materiale della lingua ricevente. La rianalisi non
opera solo nel passaggio da una lingua all’altra, ma anche all’interno della stessa lingua.
Grammaticalizzazione, degrammaticalizzazione, phonetic attrition e semantic bleaching: Può succedere che
un morfo che in origine era lessicale con il tempo diventi grammaticale (fenomeno di
‘’grammaticalizzazione’’). Non tutti i morfemi grammaticali nascono come tali, ci sono moltissimi casi in cui i
morfi grammaticali utilizzano morfemi lessicali. Per esempio i nomi delle parti del corpo diventano nelle
lingue del mondo delle preposizioni per un processo ‘’metaforico’’ che si basa su fondamenti cognitivi
universali, elementi che si riferiscono allo spazio che circonda l’uomo prendono origine da nomi di parti del
corpo, es. ‘’fronte’’ è un morfo lessicale, ‘’di fronte a’’ (al bar) è un morfo grammaticale in quanto
preposizione, avviene quindi la grammaticalizzazione della parola fronte che da morfo lessicale è passata a
morfo grammaticale. Nei processi di grammaticalizzazione più avanzati, il morfo quando diventa grammaticale
da lessicale può subire anche alterazioni fonetiche (processo di ‘’phonetic attrition’’ lett. riduzione fonetica)
diventando più corto. Il futuro del latino era un futuro ‘’sintetico’’ (presentava desinenze adatte a formare il
futuro), il latino volgare perde il futuro sintetico e lo forma col verbo avere seguito dall’infinito (es. ‘’cantare
habeo’’, lett. ‘’ho da cantare’’). Nelle lingue del mondo, il futuro può essere formato in 3 modi: 1) con il
presente; 2) con una perifrasi; 3) con gli ausiliari ‘’avere’’, ‘’dovere’’, ‘’volere’’ o ‘’tenere’’. Nelle lingue
romanze, le desinenze ‘’o’’ dell’it. ‘’canterò’’ o ‘’e’’ dello spagnolo ‘’cantaré’’ sono l’ultimo residuo fonemico
del lat. volgare ‘’habeo’’ attraverso una serie di sviluppi fonetici diversi da lingua a lingua. ‘’Habeo’’ in latino
non solo era morfo lessicale, ma anche libero (poteva stare da solo senza essere legato ad altri morfi nella
frase). Da morfo libero diventa morfo legato, da morfo lessicale è diventato morfo grammaticale (diventa
desinenza), da trisillabo diventa monosillabo (o, e, ai ecc.. a causa del phonetic attrition) ed ha subito un altro
processo che si chiama ‘’semantic bleaching’’ (oscuramento semantico) in quanto ha perso il suo significato
originario lessicale (di verbo avere per diventare desinenza) ed è diventato al 100% un morfema
grammaticale. Molti processi di grammaticalizzazione sono irreversibili (sono processi ‘’unidirezionali’’, in
quanto il parlante non sarebbe in grado da solo di ripercorrere all’indietro quest’evoluzione). Stessa cosa vale
per la negazione (in molte lingue del mondo, una piccola quantità/distanza diventano un elemento
fondamentale per la formazione della negazione), es. ‘’non lo faccio mica’’ (dove ‘’mica’’ è un morfo
grammaticale perché non ha valore semantico, ed è un rafforzativo di negazione, la sua reale origine è in una
parola che indica una piccola quantità, ovvero ‘’mollica’’, quindi da una piccola quantità diventa negazione.
Per quanto riguarda il morfo grammaticale ‘’pas’’ francese (lingua che richiede la doppia negazione), esso ha
origine nel lat. ‘’passum’’, passo (quest’ultimo è un morfo lessicale) che indica una breve distanza e quindi
negazione (secondo lo stesso processo metabolico-cognitivo). In fr. ‘’chez moi’’ (da me), ‘’chez’’ (morfo
grammaticale, preposizione) ha origine nel lat. volgare ‘’casa’’. Molti suffissi dell’inglese, del tedesco e delle
lingue romanze sono il risultato di processi di grammaticalizzazione, es. it. ‘’felicemente’’ (felice+mente) dove
‘’mente’’ è un morfo grammaticale (suffisso avverbiale). ‘’Mente’’ da un punto di vista etimologico è il caso
ablativo del lat. ‘’mens/mentis’’. Felicemente significa quindi letteralmente ‘’con mente felice’’.
‘’Mens/mentis’’ (morfo lessicale libero) diventato un suffisso è diventato morfo grammaticale legato subendo
un processo di ‘’semantic bleaching’’ (in quanto il parlante non gli attribuisce il valore di mente). Un caso
molto studiato di grammaticalizzazione è la nascita dell’articolo definito (determinativo) delle lingue romanze
(in it. ‘’il’’ ‘’lo’’ ‘’la’’, in spagn. ‘’el’’, in fr ‘’le’’ ecc..) che derivano tutti dal pronome latino ‘’ille’’ (lett. ‘’quel’’, es.
lat. ‘’ille homo’’ = it. ‘’quell’uomo’’ (specifico), nel passaggio dal latino alle lingue romanze, l’articolo da morfo
lessicale libero diventa grammaticale (sempre libero), mentre in rumeno diventa anche morfo legato (es.
‘’omul’’), l’unica tra le lingue romanze che presenta l’articolo posposto (o agglutinato). Ci sono però alcune
lingue romanze che formano i loro articoli da un altro pronome latino, ovvero ‘’ipse’’ alla base degli articoli
‘’su’’ maschile, ‘’sa’’ femminile (sardo e dialetti delle isole baleari, una parte del catalano, non a caso tutte
aree insulari che hanno subito un’evoluzione isolata rispetto alle lingue romanze). Può succedere che un
morfo grammaticale diventi morfo lessicale (degrammaticalizzazione, fenomeno molto più raro). Es. suffisso
‘’-ismo’’ in ‘’comunismo’’, ‘’nazismo’’, ‘’nazionalismo’’ ecc.. (movimenti politici spesso estremi. Il suffisso
‘’ismo’’ è stato usato in giornalismo come morfo lessicale libero (es. ‘’liberiamoci da tutti gli ismi del nostro
secolo’’. E’ una ‘’degrammaticalizzazione’’ in quanto un suffisso (morfo grammaticale legato) viene usato in
questo caso come morfo lessicale libero (presenta i target dell’accordo). Ogni affisso (come ogni morfo
grammaticale) generalmente è legato.
Genere e classi flessive: Il genere grammaticale si determina in base ai cosiddetti target dell’accordo che
circondano il nome e che permettono vedendo nell’associazione di questi, al nome, di determinare quanti
generi ha una lingua. Le desinenze nelle parole italiane (per esempio) come ‘’tavol-o’’ o ‘’ros-a’’, indicano le
classi flessive. In italiano, nella classe dei nomi che terminano in ‘’o’’ vanno generalmente nomi maschili, in
quelli che terminano in ‘’a’’ vanno generalmente nomi femminili (questa però non è una regola assoluta e non
è sufficiente a determinare il genere, es ‘’pilot-a’’ fa parte della classe flessiva in ‘’a’’ ma non è femminile, cosa
deducibile solo attraverso i target dell’accordo come articolo e aggettivo). Si stabilisce che un nome va nella
classe in ‘’o’’ e un altro nella classe in ‘’a’’ fondamentalmente in base a 2 parametri: Un parametro di tipo
formale (in generale in italiano se un nome finisce in ‘’o’’ va nella classe maschile, se finisce in ‘’a’’ nella classe
femminile) e in base a criteri semantici (come i criteri culturali che riflettono una concezione culturale di
quella determinata società .Talvolta, ma non sempre il genere grammaticale può coincidere col genere
naturale (ciò che in natura è di sesso maschile, va nella classe maschile e ciò che in natura è di sesso
femminile, va nella classe femminile, però ciò non avviene sempre). Il tedesco ‘’das kind’’ (il bambino) con
articolo neutro, perché in tedesco si classificano nella classe neutra tutta una serie di nomi inanimati o non
specificati nel genere naturale (in questo caso perché sotto una certa età non c’è ancora uno sviluppo sessuale
differenziato). In italiano la ‘’Luna’’ è femminile ed il ‘’Sole’’ maschile, ma secondo un criterio puramente
convenzionale (‘’Luna’’ finisce in ‘’a’’, mentre ‘’Sole’’ in ‘’e’’, come molte altre parole maschili), ciò non vuol
dire che in assoluto nelle lingue del mondo, l’una abbia genere maschile e l’altra femminile, perché per es. in
tedesco avviene l’esatto opposto (la ‘’Luna’’ è maschile, mentre il ‘’Sole’’ è femminile) questo succede molto
spesso perché nomi come ‘’Sole’’ e ‘’Luna’’ in varie culture sono il residuo di antiche credenze pagane (o
religiose in generale) che riflettono certe tradizioni. L’assegnazione di un nome ad una classe flessiva, è
un’operazione puramente arbitraria e che varia da lingua a lingua e non ha nulla a che fare con il genere
(nel senso di Greville G Corbett).
Il Dyirbal: Un caso interessante e citato è quello del ‘’Dyirbal’’ (parlato allora nel Queensland a nord-est
dell’Australia) che il linguista inglese Dixon, trasferitosi in Australia, negli anni ‘70 venne mandato per la sua
tesi di dottorato a studiare questa lingua aborigena (feedwork). Il Dyrbal ha 4 classi di nomi (e ciò spiega
come la modifica dei nomi dentro le classi flessive sia puramente arbitraria e convenzionale, riflettendo la
cultura che esprime quella determinata lingua): 1) gli uomini, una serie di animali e la Luna (quest’ultima
personificata al maschile, in quanto sposo del Sole); 2) le donne, il Sole e le stelle, gli uccelli (in quanto spiriti
di donne morte), una serie di animali, tutto ciò che ha a che fare con il fuoco e l’acqua (come per es. le armi
da fuoco, i nomi sono quindi spesso associati metaforicamente, la metafora/associazione non è universale ma
dipende da cultura a cultura); 3) i frutti, le felci, il miele, le sigarette; 4) le parti del corpo, la carne, le api, la
maggior parte degli alberi, il fango, pietre. Una trentina d’anni dopo che Dixon aveva completato il suo
feedwork, un altro studioso è tornato tra i parlanti Dyirbal e ha rianalizzato le classi flessive, che da 4 erano
diventate solo 2: 1) nomi animati; 2) nomi inanimati (proprio come le lingue indoeuropee antiche). La
riduzione delle classi dipende dal fatto che il dyirbal ha subito una massiccia influenza da parte
dell’anglofonia/inglese (sia sul piano linguistico che culturale). Con l’allentarsi dei legami culturali delle 4 classi
di partenza, sono cambiate anche le strutture grammaticali, in particolare il sistema nominale (la cultura
ancestrale indigena andò perdendosi col tempo e così, anche la grammatica e la lingua hanno risentito di
questo cambiamento per cui c’è stata una forte semplificazione delle 4 classi che sono diventate 2). Quindi col
mutare di certe condizioni culturali e sociali, anche il sistema flessivo (delle classi nominali) cambia, questo
sistema come tutti i sistemi di classificazioni dei nomi nelle lingue del mondo, non hanno a che vedere con il
genere naturale, ma riflettono legami metaforici, cognitivi ecc.. che sono instaurati all’interno di una
lingua/cultura e dunque sono ‘’idiosincratici’’ (cioè specifici di una lingua, cambiano da lingua a lingua e
possono cambiare nel tempo anche nella stessa lingua quando certe condizioni sociali e culturali mutano).
Paretimologia o etimologia popolare: Molto spesso la rianalisi morfologica avviene quando il parlante non
riesce più a riconoscere l’origine di un nome e lo codifica nella forma o lo modifica nel significato e (in
entrambi i casi) molto spesso riassegna confini morfematici (cioè li sposta). Questo processo prende il nome
di ‘’paretimologia’’ o ‘’etimologia popolare’’ ed è un fenomeno che effettuiamo nel nostro parlato quotidiano
di continuo. Per esempio in italiano la parola ‘’negromante’’ (ovvero indovino relativo alla morte), in sincronia
la parte ‘’negro’’ viene rianalizzata come ‘’di colore nero/persone di colore’’ perché nella cultura popolare,
questa arte, in tempi antichi veniva associata alla nigrizia (era infatti esercitata soprattutto da uomini di
colore), in realtà quel ‘’negro’’ deriva dal greco ‘’nekros’’ (morto). Quando si è perso il valore originario (i
parlanti non erano più in grado di ricondurre questa parola all’etimo originario, l’hanno rianalizzata,
associandola in questo caso all’aggettivo ‘’negro’’). Anche il nome ‘’ciarlatano’’ (impostore) è una
‘’deformazione paretimologica’’ (o ‘’etimolgia popolare’’) dell’aggettivo ‘’cerretano’’ (abitante di Cerreto, in
Umbra, borgo famoso nel medioevo per una grande festa popolare in cui oltre a commercianti e venditori
c’erano anche una serie di imbroglioni e girovaghi, per cui il nome degli abitanti di Cerreto fu associato in
maniera dispregiativa ad una persona di malaffare; quando si è persa questa tradizione popolare, i parlanti
non riuscendo più a riconoscere l’origine della parola, l’hanno associata al verbo italiano ‘’ciarlare’’, parlare a
vanvera, modificando ‘’cerretano’’ in ‘’ciarlatano’’). Un altro esempio di questo fenomeno è l’inglese
‘’sparrow grass’’ (erba di passero) che era un prestito dall’italiano ‘’asparago’’: quando non si è più intuita
l’origine di questo nome, quest’ultimo è stato scomposto (c’è stata un’arbitraria divisione dei confini
morfologici) secondo un modello molto diffuso nell’assegnazione dei nomi di pianta che prevede che una
certa erba sia chiamata in riferimento alla specie animale che si crede sia interessata a quest’erba. I toponimi
(nomi propri dei luoghi geografici, scelti in Italia dall’Istituto geografico militare) sono spesso il frutto di
etimologie popolari. Secondo un buffo aneddoto, un militare, nonché geografo, che stava mappando le
montagne delle Prealpi Orobie, nel vicentino, per conoscere il nome di una cima, lo chiese ad un contadino
del posto, che gli rispose "So menga!" (non lo so/so mica, fenomeno di lenizione). Fu così che la cima venne
battezzata sulle cartine militari come monte Somenga. Molti nomi di luogo prendono il nome da un
possessore di un terreno es. ‘’Taibon’’ Agordino a Bellino in Veneto, in realtà è un’etimologia popolare che
comporta una rianalisi dei morfemi perché i parlanti hanno diviso il nome originario che probabilmente è un
derivato del nome di Ottavio in latino (Octavione in accusativo, Octavione > Taibon). Chiaramente quando si è
persa l’origine di questo nome, i parlanti non riuscendo più a ritrovarne l’origine hanno associato ‘’Tai’’ a
‘’taglio’’ e ‘’bon’’ all’aggettivo ‘’buono’’ (probabilmente riferito al fieno), ponendo un confine di morfema tra
le due parti (è quindi un’etimologia popolare con rianalisi morfologica). Il principio che sta dietro è che il
parlante non è in grado di riconoscere l’origine del termine (a causa di una mancata percezione della
trasparenza del nome, il quale non più riconoscibile nella sua formazione) per cui lo associa ad altri termini
noti, lo deforma nel significante (parte formale) e molto spesso compie una rianalisi (cioè riassegna/sposta i
confini morfematici, che però non è obbligatorio nell’etimologia popolare). La parola ‘’stravizio’’ è interpretata
da tutti gli italofoni come un vizio eccessivo, con ‘’stra’’ rianalizzato come prefisso (questo però è presente
solo davanti agli aggettivi e non davanti ai nomi). ‘’Stra’’ è stato quindi rianalizzato e rietimologizzato come
tale. Questo termine è infatti uno slavismo entrato in italiano dal serbo-croato ed indica il vizio del bere.
La storia delle lingue indoeuropee: è la storia di lingue che nel tempo perdono sempre di più la trasparenza
tra un morfema e l’altro: nel caso del marebbano, la parola per ‘’trifoglio’’ si dice ‘’trafei’’, tutte e 2 derivano
dal latino ‘’trifolium’’ che a sua volta deriva dal greco. Il marebbano (dialetto con forte accento intensivo,
accento responsabile di un elevato logorio fonetico, dunque il corpo della parola in questi dialetti si è
sensibilmente ridotto, ci sono molti monosillabi, si accelera così il processo di perdita di trasparenza della
lingua) è uno dei tanti dialetti latini delle valli delle Dolomiti (valle di Marebbe, in provincia di Bolzano, dove si
parla ancora una lingua romanza, il ladino, che deriva da ‘’latinus’’ (per lenizione). Se un parlante marebbano
dovesse analizzare in sincronia la parola ‘’trafei’’, questa parola non è analizzabile (non si può scomporre in
morfemi in quanto morfema unico). Questo caso illustra il ‘’segno monoblocco’’ o ‘’segno fisso’’, cioè una
parola che non si può più dividere in morfemi, che il parlante non riesce più a scomporre nelle unità
originarie, ‘’trafei’’ costituisce infatti un solo morfo. Se risaliamo alla parola originaria (alla fase latina), questa
parola per un parlante latinofono era trasparente, perché ‘’trifolium’’ era associabile la prima parte ‘’tri’’ al
numerale ‘’tres’’ e ‘’folium’’ al nome latino per ‘’foglia’’. Quindi più andiamo indietro nel tempo per le lingue
indoeuropee, più la parola appare morfologicamente trasparente, i confini tra un morfema e l’altro sono
molto più facilmente individuabili. La storia del passaggio dal latino alle lingue romanze, è la storia di una
lingua che tipologicamente perde in parte (o in tutto) questa trasparenza e diventa un segno
unico/monoblocco che non si può più dividere nelle sue parti costitutive. Se facciamo ancora un passo
indietro, dal latino all’indoeuropeo ricostruito, la parola è ancora più analizzabile del latino stesso,
nell’indoeuropeo si riescono ad individuare ben 3 morfemi (una radice, un suffisso e una desinenza
grammaticale alla fine). L’indoeuropeo ricostruito a differenza delle lingue storiche avendo moduli
nettamente differenziati con funzioni diverse, aveva un ruolo diverso assegnato alle vocali rispetto al ruolo
assegnato alle consonanti (le consonanti avevano un ruolo lessicale e le vocali interne al consonantismo
avevano un ruolo grammaticale, che ricorda la radice trilittere delle lingue semitiche con la sua struttura a
pettine). Il tipo morfologico dell’indoeuropeo oggi non c’è praticamente più nelle lingue indoeuropee
moderne, tranne in pochi casi (‘’apofonia’’, il cambiamento della vocale in funzione morfologica), il resto delle
lingue affida alle desinenze il ruolo grammaticale. Quando una lingua è trasparente (i confini tra un morfo e
l’altro sono chiari ed evidenti) non esistono (o sono molto rare) alterazioni fonetiche che possono cambiare la
forma di quella parola perché è come se ci fosse tra un morfo e l’altro una sorta di porta che non permette la
comunicazione tra morfi (è necessario che questi morfi non si confondano, ognuno ha la propria funzione e
devono rimanere isolati). Quando la parola diventa monoblocco, non ci sono più moduli/pezzi che la
compongono, i fenomeni di alterazione fonetica (assimilazione, dissimilazione, metatesi ecc..) sono molto più
frequenti perché non c’è più niente da ‘’salvare’’, non si deve più distinguere un morfo da un altro perché c’è
un unico morfo. Nelle lingue romanze moderne, questi segni monoblocco sono molto più frequenti nel nome
che nel verbo. La parte più conservativa della morfologia (modulo trasparente) questa è senz’altro il verbo
rispetto al nome, il verbo deve portare su di sé (rispetto al nome dove vi sono solo numero e classe flessiva)
molte più informazioni (tempo, modo, persona, diatesi, aspetto ecc..). Una forma verbale ha più necessità
di essere riconoscibile nei pezzi che la compongono ed è per questo il morfo più trasparente, il verbo
conserva una struttura morfologica con funzioni abbastanza chiare ed individuabili al proprio interno. Le
lingue indoeuropee antiche avevano i casi che servivano ad esprimere il rapporto della parola con il resto
della frase, se la parola diventa irrigidita/opaca (non più trasparente), nelle lingue romanze moderne con
qualche eccezione in rumeno non vi sono più i casi, ma preposizioni (la grammatica è quindi svolta da
elementi esterni) nel latino volgare, già in testi antichi non si trovano più i casi ma preposizioni che
sostituiscono i casi, il tipo morfologico è quindi modificato completamente: il latino è di tipo ‘’sintetico’’
(svolge funzioni grammaticali all’interno della parola stessa attraverso casi, desinenze ecc..), gran parte le
lingue romanze moderne presentano una tipologia ‘’analitica’’ (svolgono funzioni grammaticali nel nome
attraverso le preposizioni), è avvenuto quindi il passaggio da una grammatica autosufficiente nel corpo
della parola ad una tipologia in cui la grammatica si fa con elementi esterni alla parola.