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giovedì 11 febbraio 2021

La linguistica

Cap. 3 “Morfologia”
Cos'è la morfologia?
La morfologia (derivante dal greco “morphe” ovvero “forma” + “logia” ovvero
“studio”) studia quella che è la struttura di una parola.
La parola, è la minima combinazione di elementi minori dotati di significato, ovvero i
morfemi, costruita spesso, ma non sempre, attorno a una base lessicale che
funzioni come entità autonoma della lingua.
I criteri che permettono la definizione e individuazione più precisa sono:

• All'interno della parola l'ordine dei morfemi è rigido e fisso;

• I confini di una parola sono punti di pausa potenziale nel discorso;

• La parola è di solito separata nella scrittura;

• Foneticamente parlando la pronuncia di una parola non è interrotta ed è


caratterizzata da un unico aspetto primario;

Se proviamo a scomporre le parole in pezzi più piccoli di prima articolazione,


troviamo allora i morfemi.

Es.: Prendiamo la parola “dentale”. Possiamo scomporre la parola in tre pezzi: il


primo “dent-“ col significato “organo della masticazione”, il secondo “-al-“ con il
significato “aggettivo relativo a”, infine il terzo “-e” con il significato “singolare (uno
solo)”.
La parola “dentale”, quindi, è analizzabile in tre morfemi; ciascuno dei tre morfemi è
suscettibile a entrare come componente di altre parole: per esempio, il primo
morfema “dent-" rientra nelle parole dente, dentario, dentista, dentatura; il secondo
“-al-“ che rientra nelle parole mortale, fatale, globale, internazionale; ed infine il
terzo morfema “-e” che ritroviamo in gentile, abile, feroce, verde;

Un procedimento pratico per scomporre una parola in morfemi è il confronto: la


parola la si confronta con altre parole simili a essa che contengono presumibilmente
uno per uno i morfemi che vogliamo individuare.
Un morfema è, quindi, l’unità minima di prima articolazione, di un valore e una
funzione precisi e individuabili. Possiamo anche dire che il morfema è la minima
associazione di un significante a un significato. Il significato di una parola è dato
dalla somma e combinazione dei significati dei singoli morfemi che la compongono.
Un sinonimo di morfemi, ma usato nella linguistica europea, è “monema”, termine
usato generalmente per le unità minime di prima articolazione che distinguono due

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grandi classi: le “semantemi” (quando sono elementi lessicali) e “morfemi” (quando
sono elementi grammaticali).

Questo uso scaturisce degli equivoci, in quanto possiamo trovare il termine


“morfema” sia come termine generale per le unità minime di prima articolazione, sia
come termine nella nostra trattazione, sia come termine designante una sottoclasse
delle unità di prima articolazione.
Un altro sinonimo di morfema, molto generico, è “formativo”. Analoga, ma non del
tutto equivalente, è la distinzione che in fonologia si fa tra fonema, fono e allofono.
In morfologia la distinzione avviene tra morfema, morfo e allomorfo.

Il morfo è un morfema inteso come forma, dal punto di vista del significante,
indipendente dalla sua analisi funzionale e strutturale. È più corretto dire che “il
morfema del singolare è realizzato dal morfo -e”; non è sbagliato dire “il morfema
del singolare è -e”, ma è più corretto adoperare la prima forma citata. È necessario
dire, in ogni caso, che lavorando sui morfemi, significante e significato vanno
sempre considerati assieme, mai separatamente.

L’allomorfo è la variante formale di un morfema, ma che realizza lo stesso significato


di un altro morfo con cui è in distribuzione complementare; in parole più semplici, è
ciascuna delle forme diverse in cui si può presentare uno stesso morfema. Il criterio
in base a cui possiamo dire che si tratti lo stesso morfema è che l'elemento
individuato abbia sempre lo stesso significato e si trova sempre nella stessa
posizione della struttura della parola.

Le cause dei fenomeni di allomorfia sono solitamente da cercare nella diacronia,


ovvero riportare a trasformazioni avvenute nella forma delle parole e dei morfemi,
spesso per ragioni fonetiche, lungo l'asse del tempo. Gran parte dei fenomeni di
allomorfia è dovuta ai mutamenti fonetici e le diverse trafile con le quali le parole si
sono trasmesse dall'origine latina (o da un altro origine) all'italiano.
Perché si possa parlare di allomorfia occorre, comunque, che ci sia sempre una
certa affinità fonetica tra i diversi morfi che realizzano lo stesso morfema. Questa
vicinanza fonica è normalmente dovuta all'origine stessa, da un punto di vista
diacronico, o anche a modificazioni fonetiche dovute all'incontro di determinati foni
(o più tecnicamente, da fenomeni fonosintattici).
Vi sono anche alcuni casi in cui il morfema lessicale, in certe parole derivate, viene
sostituito da un morfemi ma dalla forma totalmente diversa, ma ovviamente con lo
stesso significato.a tale fenomeno si dà il nome di “suppletivismo”. In questa stessa
categoria si fanno rientrare anche i casi in cui l'origine della base lessicale è in
diacronia la stessa, ma per tra stratificazione storica si hanno due morfi diversi: uno
che mantiene intatta la forma originaria e l'altro che ha subito delle modificazioni
dovute allo sviluppo fonetico.

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Tipi di morfemi

I morfemi e la loro combinazione in parole presentano una fenomenologia molto


vasta e complicata. Esistono due vista principali per individuare differenti tipi di
morfemi:

• Una classificazione funzionale in base alla funzione svolta;

• Una classificazione posizionale basata, quindi, sulla posizione che i morfemi


assumono all'interno di una parola;

Dal primo punto di vista, in “dentale”, abbiamo che dent- è un morfema, ma che
presenta un significato referenziale, concettuale, ovvero fa riferimento alla realtà
esterna rappresentata nella lingua: è un “morfema lessicale” (anche: “radice”,
“base”) sulla cui base è costruito una parola piena. Invece, gli altri due morfemi, (-
al-, -e) recano un significato (o valore) interno al sistema e alla struttura della lingua
prevista dalla grammatica: -al- serve a costruire parole derivandole da altre parole
già esistenti; -e serve per attualizzare una delle varie forme in cui la parola può
comparire, recante il significato previsto obbligatoriamente dal sistema
grammaticale di una lingua. Il primo è un “morfema derivazionale”, il secondo è un
“morfema flessionale”.

Nella classificazione funzionale, dunque, la prima distinzione da fare è tra morfemi


“lessicali” e “grammaticali”; i morfemi grammaticali, a loro volta, si suddividono in
“derivazionali” (o derivativi) e morfemi “flessionali“(o flessivi).
I morfemi lessicali stanno nel lessico di una lingua e costituiscono una classe aperta
di nuovi elementi in maniera non percepibile; i morfemi grammaticali, invece, stanno
nella grammatica e costituiscono una classe chiusa, ovvero non suscettibile ad
accogliere nuove entità, in cui gli elementi sono tutti percepibili e si possono
enunciare uno ad uno.
La differenza fra i valori di queste due tipologie di morfemi si vede bene per
esempio se badiamo che, pur ignorando il significato di un morfema lessicale,
sappiamo sempre qual è il contributo di un significato che portano i morfemi
grammaticali ad essere aggiunti.
Non sempre la distinzione tra queste due tipologie di morfemi è del tutto chiara e
applicabile senza problemi: italiano è questo il caso di molte "parole funzionali" (o
parole vuote), come gli articoli, pronomi personali, le preposizioni e così via; alcuni
degli elementi di queste classi di parole sono scomponibili in morfemi come per
esempio l’articolo.
La distinzione che di solito si ha, e che può essere utile in questo contesto, è quella
tra morfemi liberi (associati ai morfemi lessicali) e morfemi legati (associati ai
morfemi grammaticali): i secondi non possono mai comparire singolarmente, ma
solamente in combinazione con altri morfemi. Tale distinzione, valida per lingue

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come l’inglese. si adatta male alla struttura morfologica dell'italiano, in cui anche i
morfemi lessicali sono perlopiù morfemi legati (gatt-o, buon-o).

Gli affissi (definizione: consiste in ogni morfemi che si combina con una radice) sono
sempre, per definizione, morfemi legati. Adottando tale distinzione, possiamo
trovare una casella per i tipi di elementi come parole funzionali designandole come
morfemi semiliberi. La derivazione, che dà luogo a parole regolandone I processi di
formazione, e la flessione, che dà luogo a forme di una parola regolandone il modo
in cui si attualizzano le frasi, costituiscono i due grandi ambiti della morfologia.si
tenga presente che partendo da determinate radici o basi lessicali la derivazione
agisce prima della flessione: prima costruiamo le parole e poi applichiamo le dovute
flessioni. Questa priorità della derivazione, unita alla caratteristica di “non
interrompibilità” delle parole, ha come conseguenza che di solito i morfemi
flessionali stanno più lontano dalla radice lessicale rispetto i morfemi derivazionali
che invece tendono a disporsi immediatamente contigui alla radice. Mentre la
derivazione non è obbligatoria, la flessione è obbligatoria, cioè si applica
invariabilmente a qualunque base lessicale ad essa soggetta.

Dal punto di vista della posizione, i morfemi grammaticali si suddividono in classi


diverse a seconda della collocazione che assumono rispetto al morfema lessicale (o
radice, che costituisce la "testa" della parola e fa da perno alla sua costruzione).
Una parola piena non è tale se non contiene un morfema lessicale, mentre il
morfema lessicale da solo può costituire una parola piena autonomamente.

Riprendiamo gli affissi. Esistono diverse tipologie di affissi: i prefissi, ovvero degli
affissi che nella struttura della parola stanno prima della radice; i suffissi, ovvero
degli affissi che stanno dopo la radice.
Le desinenze sono dei suffissi con valore flessionale che si trovano sempre
nell'ultima posizione della parola, dopo la radice, con eventuali suffissi derivazionali.
La distinzione fra prefissi e suffissi è fondamentale in italiano, però, nel mondo, vi
sono altre tipologie di affissi, con definizioni più complesse. Abbiamo, infatti, gli
“infissi”: sono quegli affissi inseriti dentro la radice. In italiano non esistono veri e
propri procedimenti di infissazione. Può però essere considerata un infisso la
consonante nasale che i verbi del latino e del greco contrassegna il tema del
presente rispetto a quello degli altri tempi.
Un altro tipo di morfemi sono i “circonflessi”: oltre che morfemi discontinui, sono
anche affissi formati da due parti una che sta prima della radice e l'altra dopo la
radice e che quindi contengono al loro interno la radice.

A questo punto possiamo introdurre alcune convenzioni di rappresentazione


dell'analisi dei morfemi. A un livello di maggiore precisazione può essere fatta una
“trascrizione morfematica”, in cui la forma dei morfemi si può scrivere tra le

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parentesi graffe, indicando, nella riga sottostante, con opportune sigle e
abbreviazioni, il loro significato e valore.

In alcune lingue esistono degli affissi che si incastrano alternativamente dentro la


radice, quindi danno luogo a una discontinuità sia dell’affisso che della radice.
Questa tipologia di affissi si chiama “transfissi”. Su questa tipologia di affissi è
basata la morfologia dell’arabo.

Le realizzazioni morfologiche sono molto varie e possono mostrarsi ancora molto


più complesse. Esistono, per esempio, morfemi in cui i morfi non sono isolabili. Di
questo genere sono i morfemi anche detti “sostitutivi”, poiché si manifestano con la
sostituzione di un fono a un altro fono.. Sì morfemi consistono in mutamenti fonici
della radice e quindi li rende praticamente inseparabili da essa.

Morfemi zero (o più correttamente chiamato morfo zero) si ha solo in alcuni casi.
Questi casi sono delle distinzioni dove bisogna obbligatoriamente marcare le stesse
distinzioni nell'ambito grammaticale di una certa lingua in via eccezionale e queste
non vengono rappresentate in alcun modo nel significante. Un esempio è quello dei
plurali invariabili in lingue, che non hanno normalmente la marcatura del numero
(come per esempio in inglese). Un morfo o morfema zero si ha nei nomi della terza
declinazione in latino, per esempio.

Esistono anche morfemi soprasegmentali (chiamati anche superfissi o soprafissi).


Questi hanno un determinato valore morfologico, che si manifesta attraverso un
tratto soprasegmentale come l'accento o il tono. L'analisi dei morfemi segmentabili
non esaurisce la gamma dei modi in cui si manifesta la morfologia delle lingue. Certi
valori morfologici, in certe lingue, vengono affidati a processi, non riducibili a
specifici morfemi segmentali: per esempio la reduplicazione, che consiste nella
ripetizione della radice lessicale (per esempio in italiano la parola bambino e la
parola bambini dove cambia solo la desinenza).

Un'altra nozione ancora più importante, e che avviene spesso nei morfemi
grammaticali, che recano contemporaneamente più di un significato o di un valore,
sono i morfemi cumulativi.

Per superare problemi come quelli dell'allomorfia delle radici lessicali, alcuni linguisti
hanno introdotto una nuova entità, anche essa prima di forma fonologica concreta e
con un significato esclusivamente morfologico. Questa nuova entità viene detta
“morfoma”. Il morfoma sarebbe rappresentato unicamente da una regolarità
strutturale astratta ricorrente all'interno dei paradigmi morfologici.

Un caso particolare, e un po' più complesso, di morfema può essere ritenuto il


cosiddetto “amalgama” (o morfema amalgamato). Questo è dato dalla fusione di
due morfemi, in maniera tale che nel morfema risultante non è più possibile
distinguere i due morfemi dati all'origine. Un esempio in italiano può essere “i”,

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articolo determinativo plurale in cui si trovano fusi il morfo dell'articolo determinativo
l- e quello del maschile plurale -i. Gli amalgami sono, per definizione, morfemi
cumulativi che si trovano uniti in un solo morfema. Essendo che quesiti trovano uniti
in un solo morfema, allora i significati dei due morfemi, all'origine separati, risultano
amalgamati.
In parole più semplici, essendo gli amalgami l'unione di due morfemi, che all'origine
erano separati e possedevano due significati, adesso, essendo i due morfemi uniti,
anche i due significati sono uniti.

Derivazione e formazione delle parole

Come abbiamo già visto i morfemi derivazione ali mutano il loro significato in base a
dove vengono applicati, aggiungendo nuove informazioni, modificando la classe di
appartenenza della parola e modificando anche la sua funzione semantica. I
morfemi derivazionali svolgono una funzione molto importante: quella di permettere,
attraverso processi di prefissazione e suffissazione, la formazione di un numero
teoricamente infinito di parole a partire da una certa base lessicale.

Es.: prendiamo come esempio la base “socio”. Da questa base, otteniamo diverse
parole come società, socievole, sociale, asociale, sociologia, associare, riassociare,
eccetera.

In ogni lingua esiste una lista infinita di moduli di derivazione che danno luogo a
famiglie di parole. L'esempio appena citato, è proprio una famiglia di parole (o
famiglia lessicale). Queste tipologie di famiglie sono formate da parole che derivano
da una stessa radice lessicale.

Nella grande maggioranza delle forme verbali e derivabili, si pone in italiano il


problema della cosiddetta “vocale tematica”. La vocale iniziale della desinenza
dell'infinito dei verbi rappresenta, per l’appunto, quella che è la vocale tematica.
Con forme verbali e derivabili intendiamo tutte quante quelle parole che derivano da
verbi. Si può ritenere che la vocale tematica abbia un proprio significato, seppure di
natura un po' speciale. Questo suo significato ha un valore del tutto esteriore, in
quanto si indica l'appartenenza della forma a una determinata classe di forme delle
lingue (nel verbo “mangiare”, la prima lettera della desinenza -are, -a-, indica che il
verbo appartiene alla prima coniugazione).

Cosa sono i prefissoidi e i suffissoidi?


Con prefissoidi, possiamo chiamare tutti i morfemi che sono sia lessicali che
derivazionali; invece, i suffissoidi, sono morfemi con significato lessicale, come le
radici, ma che si comportano come suffissi nella formazione delle parole.

Facciamo un esempio di suffissoide: prendiamo la desinenza “-metro” e la parola


termometro; chiaramente queste due parole possiedono due significati
completamente diversi tra di loro: mentre “metro” indica l'unità di misura di

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lunghezza, il “termometro” è il misuratore della temperatura. In questo caso il
suffissoide “metro” funge da radice, per poi generare la parola termometro, ma
anche da sola a un suo significato.

Con "parole composte" intendiamo due parole che si agganciano fra di loro per
formare un'entità unica in cui i due membri sono perfettamente riconoscibili e
recano il loro significato lessicale normale.

Es.: esempi di parole composte sono come asciugamano, altopiano, cassaforte,


portacenere, ecc…

Il procedimento di composizione è particolarmente produttivo in lingue come per


esempio il tedesco, dove troviamo spesso parole formate da parecchie radici
lessicali.

Le parole composte non vanno confuse con l'utilità lessicali plurilessematiche.


Queste ultime sono costituite da sintagmi fissi che rappresentano un'unica entità di
significato, non corrispondente alla semplice somma dei significati delle parole
componenti, comportandosi quindi come se fossero un'unica parola.

Es.: potremmo fare l'esempio di “gatto selvatico”. Non è un comune gatto che è
selvatico, ma una specie felina a sé, diversa dal gatto domestico. Un altro esempio
sarà “gatto delle nevi” che non è un felino abitante sulle distese nevose, ma è un
mezzo per muoversi sulla neve.

Quindi, le utilità lessicali plurilessematiche, costituiscono una categoria molto ampia


e variegata di parole, che può comprendere classi diverse di elementi fra cui anche i
cosiddetti verbi sintagmatici (come andare via, mettere sotto, buttare giù) o quelli
che vengono chiamati “binomi coordinati” (Come le parole sale pepe, anima e
corpo, usa e getta).

La posizione intermedia fra parole composte e unità plurilessimatiche, viene


occupata dalle “unità lessicali bimembri” (sono parole come parola chiave, sedia
elettrica, scuola guida). Questa tipologia di unità lessicale vede il rapporto in cui le
due parole costitutive non hanno raggiunto il di fusione tipico delle vere parole
composte; i due elementi vengono rappresentati separatamente nello scritto,
mentre, nel parlato, sembra che queste parole costituiscano un'unica parola.

Altri meccanismi che formano parole e che hanno aspetti in comune con la
composizione sono la lessicalizzazione delle sigle e l'unione di parole diverse che si
fondono con accorciamento degli elementi consecutivi. Le sigle sono anche dette
acronimi, e sono formate in generale Dalle iniziali delle diverse parole (TG è
l'acronimo di TeleGiornale, IVA è l'acronimo di "Imposta sul Valore Aggiuntivo” e
così via).

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Invece l'unione con accorciamento da luogo a quelle parole comunemente
chiamate "parole macedonia" (per esempio la parola “cantautore” deriva dall'unione
di cantante + autore, oppure la parola “ristobar” deriva dall'unione di ristorante +
bar).

In italiano, il più importante e produttivo dei procedimenti di formazione di parola è


la suffissazione (aggiunge l'affisso alla fine della parola, cioè un suffisso). Il suffisso
può essere:

• Un suffisso nominale, che genera un nome (ad esempio "tristezza" da "triste");


• Un suffisso aggettivale, che genera un aggettivo (ad esempio "normale" da
"norma");
• Un suffisso verbale, che genera un verbo (ad esempio "profetizzare" da "profeta");
• Un suffisso avverbiale, che genera un avverbio (ad esempio "perfettamente" da
"perfetto");

Oltre al processo prima citato, in italiano è ugualmente importante il procedimento


di prefissazione (aggiunge l'affisso all'inizio della parola, cioè un prefisso).
Tra i due vi è una differenza: mentre per la prefissazione la parola rimane la stessa,
nel procedimento di suffissazione la parola può sia rimanere la stessa, che variare,
come abbiamo visto prima.
Nella categoria di suffissazione, può essere introdotto un ennesimo processo di
suffissazione: l’alterazione. Per alterazione si intende la formazione delle parole, a
partire da altre, che non vengono cambiate nei loro tratti fondamentali; cambia
invece il modo in cui il concetto viene considerato (es.: tavolino, ragazzaccio,
donnone). L’alterazione si divide in:
- Diminutivo: gattino
- Accrescitivo: gattone
- Peggiorativo: gattaccio
Nell'inventario dei morfemi derivazionali dell’italiano, non sono rari i casi di
omonimia: per fare un esempio in-, come prefisso, può avere valore di
“navigazione” (come in immobile "che non si muove”) o di "avvicinamento" (come in
immigrare "trasferirsi in un paese”); come suffisso,-in-, può avere anche valore
diminutivo (gattino) o di nome d’agente (imbianchino). In quest'ultima parola
abbiamo in-, prefisso con un significato connesso al secondo dei valori prefissati
sopra detti: Imbianchino è un nome d’agente da imbiancare, ovvero "dare il bianco
a qualcosa”. Queste tipologie di parole sono anche chiamate “verbi parasintetici”:
parole che derivano da verbi. Le parole derivate si possono definire in maniera da
tener conto: del procedimento di derivazione, della classe lessicale della base da
cui derivano e dalla classe lessicale a cui appartiene il risultato.
Nei meccanismi della formazione di una parola, rientra anche il fenomeno della
cosiddetta "conversione": la presenza di coppie di parole, un verbo, nome o un

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aggettivo, aventi la stessa radice lessicale ed entrambi privi di suffisso, dove non è
possibile stabilire quale sia la parola primitiva e quale la parola derivata. Quando la
coppia è costruita da un verbo e da un nome, tuttavia, si deve supporre che la base
in realtà sia il verbo, in quanto il nome designa l'atto indicato dal verbo. Questo
fenomeno viene anche chiamato “derivazione zero”. Quando la coppia è costruita
da un verbo è un and aggettivo, si può intendere che il termine primitivo sia
l’aggettivo, in quanto il verbo indica l’azione (es.: calmo-calmare; taglio-tagliare).
Infine distinguiamo diversi tipi morfologici di parole: le parole basiche o primitive
(esempio: mano), le parole alternate (esempio: manina), le parole derivate
(suffissate: maniglia; prefissate: rimaneggiare), parole composte (esempio:
corrimano), unità plurilessematiche (esempio: mano morta). Il processo di
derivazione di una parola si può rappresentare con un diagramma ad albero:

Flessione e categorie grammaticali


I morfemi flessione ali non modificano il significato della radice lessicale su cui
operano: lo utilizzano nel contesto di enunciazione semplificando la concentrazione
in quel particolare contesto.

Ma, più precisamente, quale genere di significato viene veicolato dei morfemi
flessionali?
I morfemi flessionali danno luogo alle diverse forme in cui una parola può
presentarsi nel suo impiego nel discorso. Per esempio, un aggettivo come “alto”,
può presentarsi sotto quattro forme: alto, alta, alti, alte; un verbo, invece, può avere
molte forme diverse a seconda della sua coniugazione.
Si ricordi che la forma di citazione, ovvero quella forma che rappresenta l'esponente
generale della parola, è per nomi e aggettivi il singolare maschile, in quanto il
maschile e il singolare vengono considerati i valori non marcati della categoria del
genere e del numero; invece per i verbi, in molte lingue, è l’infinito. I morfemi
flessionali operano sulle classi cosiddette “variabili” di parole, ovvero parole
suscettibili ad accogliere la flessione. Realizzano valori delle categorie grammaticali;
più precisamente, un determinato morfema realizza un valore di una determinata
categoria grammaticale; questo è la “marca” di quel valore.

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Le categorie grammaticali, a loro volta, danno espressione ad alcuni significati
fondamentali, più comuni e frequenti, ovvero di portata generale, che diventano
categorici per una determinata lingua e devono obbligatoriamente essere espressi
in quanto previsti dalla grammatica. Fra le categorie grammaticali, vi sono quelle più
propriamente flessionali, che riguardano, per l’appunto, il livello dei morfemi stessi:
ogni categoria è l'insieme dei valori che può assumere una determinata dimensione
semantica basilare elementare, ciascuno rappresentato da morfemi. In generale, si
distinguono le categorie flessionali in due grandi classi: quelle che operano sui nomi
e quelle che operano sui verbi. In lingue come l'italiano, la morfologia nominale a
come categorie fondamentali il genere il numero.in italiano la categoria del genere si
esprime tramite il maschile e il femminile.in altre lingue come per esempio l'inglese
non esiste questa differenza di genere (come per esempio l’inglese) oppure il genere
viene espresso tramite il maschile, il femminile e il neutro (come per esempio il
latino).
Per quanto riguarda, invece, la categoria del numero, questa è marcata in italiano
con i morfemi del singolare e del plurale. Anche qui, altre lingue possono avere più
valori come il duale e il triale.
Un'altra categoria flessionale molto rilevante è il “caso”, che svolge l'importante
funzione di mettere in relazione la forma della parola con la funzione sintattica che
essa ricopre nella frase. La flessione di caso è presente, per esempio, in latino, in
russo, in turco e così via; in italiano esistono resti fossili di flessione casuale nel
sistema dei pronomi personali, dove, per esempio, “tu” e “te” sono appunto distinti
per essere l'uno il soggetto al caso “nominativo” e l'altro l'oggetto al caso
“accusativo”. Il processo attraverso il quale un verbo assegna il caso al suo
complemento viene chiamato "reggenza": si dice così per esempio che in latino il
verbo usare regge l'ablativo (“clipeis uti” significa usare gli studi). Anche le
preposizioni possono essere il caso: sempre come in latino la proposizione “cum”
(con) regge anch'essa l’ablativo.
La notazione di reggenza si applica per estensione anche al rapporto fra verbi e
preposizioni quando vi sono verbi che richiedono determinate preposizioni: pensare
a, dipendere da, cambiare con, eccetera.
In molte lingue gli aggettivi possono essere marcati per "grado": un esempio di
grado è per esempio il grado superlativo e comparativo. L'italiano affida alla
flessione soltanto l'espressione del superlativo.
Altre lingue marcano con morfemi appositi sui nomi la "di finitezza" o il
"possesso".nel primo caso possiamo fare un esempio nella lingua araba nel
secondo caso un esempio è la lingua turca.
La morfologia verbale a cinque categorie flessione ali principali:
• Il modo: esprime la modalità cioè il modo nella quale il parlare si pone nei
confronti del contenuto di quanto viene detto;
• Il tempo: è la collocazione nel tempo che può essere assoluta o relativa. Il tempo
è presente passato o futuro;
• L'aspetto: riguarda la maniera in cui vengono osservati e presentati in relazione al
loro svolgimento l’azione, l'evento o il processo espressi dal verbo. L’aspetto può

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essere imperfettivo (considera un evento da una prospettiva interna al suo
svolgimento, senza fornire indicazioni circa la sua eventuale prosecuzione) o
perfettivo (considera un evento dalla prospettiva esterna al suo svolgimento, nella
sua globalità, visualizzandone il momento finale);
• L’azionalità (o carattere d'azione): riguarda il modo oggettivo in cui si svolge, nello
sviluppo temporale, l'azione, l'evento o il processo espressi dal verbo. Una
distinzione importante è quella fra verbi “telici” (che denotano un’azione, un
evento o un processo dotato di un punto culminante, che ha una fine) e
"atelici" (senza un momento finale, conclusivo);
• La "diatesi" (o voce): esprime il rapporto in cui viene rappresentata l'azione o
l'evento rispetto ai partecipanti e in particolare rispetto al soggetto;
• La persona: indica chi compie l'azione o più in generale riferisce e collega la forma
verbale al suo soggetto e si manifesta con morfemi diettici o di accordo. La
marcatura di persona implica, di solito, anche la marcatura di numero (per
esempio, “lui gioca” indica che il soggetto “lui” è la terza persona singolare).
Mentre in italiano marchiamo sia sul soggetto sia sul verbo, altre lingue marcano
solo sul verbo. Il giapponese ha una complessa morfologia di marcatura sul verbo,
dato dal rapporto sociale gerarchico, di rispetto, confidenza, distanza ,prossimità
sociale, eccetera. Questa complessa morfologia di marcatura sul verbo, in
giapponese, si ha fra il parlante e l’interlocutore.
Categorie grammaticali a livello di parola, che classificano le parole raggruppandole
in classi a seconda della loro natura e del loro significato, del loro comportamento
nel discorso e del loro caratteristiche flessionali e funzionali, sono le classi di parole
o più comunemente conosciute come “parti del discorso” (allora volta dette anche
“categorie lessicali” o "classi lessicali”). Nella grammatica tradizionale le parti del
discorso sono nove: il nome, l’aggettivo, il verbo, il pronome, l’articolo, la
preposizione, la congiunzione, l'avverbio e l’interiezione. La reale natura linguistica
di quest'ultima classe citata è, peraltro, molto dubbia, siccome le interazioni
primarie costituiscono un insieme di espressioni che non appaiono integrate nel
sistema linguistico e condividono molti aspetti la comunicazione non verbale.
L'assegnazione delle parole a categorie o classi lessicali diverse, avviene in base a
tre criteri fondamentali:
• Criterio semantico, ovvero il tipo di significato;
• Criterio morfologico, dato dal comportamento delle parole in relazione alle
categorie morfologiche presenti nella lingua;
• Criterio sintattico, dato dal contesto in cui le parole possono comparire, dalla loro
collocazione all'interno dei sintagmi e delle frasi e delle funzioni sintattiche che
possono svolgere;
L'insieme di tre criteri consente di stabilire l’appartenza di ogni parola a una
determinata classe. Anche le due classi lessicali fondamentali, i nomi (che
designano entità e codificano la realtà esterna in prospettiva statica) e i verbi (che
designano predicazioni e codifica la realtà in prospettiva dinamica) a volte non sono
ben differenziabili. Un esempio sarà la lingua cinese, poiché molte parole possono
funzionare sia da verbi che da nomi.

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giovedì 11 febbraio 2021
Un altro esempio di sovrapposizione di categorie sia nel caso dei “partitivi”: le
preposizioni articolate “del”, “degli”, possono funzionare sia come preposizioni sia
come articoli partitivi, indicanti una quantità indefinita, imprecisa, di cose (per
esempio: del pane, degli studenti).
Mentre le categorie grammaticali fino adesso viste sono definibili, vi sono altre
categorie importanti grammaticali che si individuano sull'asse sintagmatico,
considerano le parole nel loro rapporto con le altre parole all'interno di un
determinato messaggio. A queste categorie grammaticali, si può ritrovare la
definizione di:
• “Funzioni sintattiche”: nozioni tradizionalmente definite dall'analisi logica come
soggetto predicato oggetto complemento di termine complemento di
specificazione di luogo eccetera;
• “Flessione inerente”: riguarda la marcatura a cui viene assoggettata una parola in
isolamento a seconda della classe di appartenenza per il solo fatto di essere
selezionata nel lessico e comparire in un messaggio;
• “Flessione contestuale”: una flessione che dipende dal contesto: specifica una
forma e seleziona i relativi morfemi flessione ali in relazione al contesto in cui la
parola viene utilizzata dipendendo dai rapporti gerarchici che si instaurano fra le
parole all'interno del discorso o della frase;
Un meccanismo che opera in molte lingue, più in generale, è quello della marcatura
di "accordo", che prevede che tutti gli elementi suscettibili di flessione all'interno di
un costrutto prendono le marche delle categorie flessionali per le quali è marcato
l'elemento a cui si riferiscono o da cui dipendono. In italiano, per esempio, è
obbligatorio l'accordo fra verbo e soggetto (esempio: un gatto miagola) e fra i
diversi componenti di un sintagma nominale.
Può anche convenire, nella morfologia contestuale, distinguere “accordo” e
“concordanza”: il primo termine, mette in relazione gli elementi del sintagma
nominale; il secondo mette in accordo le forme verbali con elementi nominali, in
particolare il soggetto.

APPUNTI DI LILIANA MISSANO–ASSOCIAZIONE STUDENTESCA HORIZON💙✈

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