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Morfologia e Sintassi

MORFOLOGIA

La morfologia è lo studio della struttura interna delle parole, della loro forma (in linguistica sono le forme
grammaticali) e dei cambiamenti che subiscono per assumere valori e funzioni diverse. Analizzando la parola
libri distinguiamo due segmenti
1. la radice à libr- che dà il significato;
2. la desinenza à -i che in questo caso segnala la marca di numero (il plurale dei nomi maschili in -o).
ognuno di questi segmenti costituisce un morfema, cioè la parte più piccola unità dotata di significato. Questo
sistema morfologico, per cui cambiano le forme specie nella parte finale, è una caratteristica delle lingue
flessive (la nostra ad esempio ha una lingua flessiva). La morfologia quindi studia la flessione delle lingue. Quali
sono le forme che flettono? I nomi, gli articoli, gli aggettivi, per indicare genere e numero. I pronomi flettono
per indicare numero, persona, e funzione: questa è ancora una modificazione di tipo morfologico che
conserviamo dal Latino, nei nomi lo abbiamo perso, in quanto nel latino nei nomi si indicavano caso, genere e
numero.
Nei pronomi è facile individuare la funzione sintattica: “IO MANGIO” à IO = funzione sintattica del soggetto,
ma se dico “GIOVANNI AMA TE”, questo te ha la funzione di complemento oggetto. E così allora “MI DAI UN
LIBRO?” àmi indica il complemento di termine. Nei verbi abbiamo molte possibilità di indicare, tramite la
flessione, diversi significati: abbiamo la persona, il numero, il tempo, il modo e l’aspetto à “GUARDAVO LA
TELEVISIONE QUANDO ARRIVÒ MARIO” à guardavo indica un’azione duratura. Come vedete quindi rispetto
alle altre componenti della nostra lingua, il verbo riesce ad esprimere molte cose soltanto cambiando la
desinenza finale e talvolta anche in modo analitico e non sintetico per esprimere la diatesi, cioè la funzione
attiva o passiva dei verbi.
Esistono differenti lingue sul piano morfologico: le lingue flessive o sintetiche (perché possono variare il
significato grazie al solo cambiamento di una desinenza) e le lingue analitiche o isolanti che hanno bisogno di
più elementi per indicare un significato grammaticale. Quindi l’italiano è una lingua flessiva, però, ci sono
alcune cose che si indicano in modo analitico, per esempio per esprimere la diatesi passiva “I RAGAZZI SONO
AMATI”, il passato prossimo ha bisogno di due elementi —> “io ho amato” il superlativo in italiano si indica con
il suffisso -issimo ma il comparativo è ‘più bello ’ , quindi per indicare il comparativo ho bisogno di un altro
elemento, per cui se il superlativo assoluto in italiano è in forma sintetica, il comparativo è in forma analitica.
Queste flessioni le otteniamo attraverso la modificazione, la sostituzione o l’alternarsi di morfemi.
I morfemi sono in rapporto al fonema, che è l’unità più piccola della lingua non dotata di significato (ma sono
capaci di distinguere significati àPane, Cane).
Il morfema può veicolare un significato lessicale - morfemi lessicali (o radice lessicale), che indicano la parte
della parola che ci dice effettivamente il concetto a cui rinvia questa parola; oppure informazioni grammaticali
- morfemi grammaticali (o desinenza), non ci indica il concetto, ci rinvia al significato di tipo grammaticale
come il numero, il genere, la persona;
AMIAMOà “am-“ è la radice, “-iamo” è la desinenza
Quindi la morfologia flessiva è caratteristica delle lingue sintetiche e può significare diverse cose
grammaticalmente in base alla morfologia degli elementi linguistici della nostra lingua. La morfologia
derivazionale invece si occupa della formazione delle parole attraverso morfemi che cambiano significato nelle
parole e quindi due parole diverse, mentre ragazzo e ragazza sono la stessa parole con un significato diverso,
ragazzo e ragazzata hanno la stessa radice ma hanno due significati completamente diversi. I morfemi possono
essere costituiti da un solo elemento (-i del plurale) o da più elementi, che possono essere:
• Liberi: in tal caso la parola coincide con il morfema (per esempio la parola “mai”). Gli articolati sono
morfemi liberi, dove appunto non c’è il legame di due elementi nella parola, le congiunzioni (che, come, più),
anche “perché” ha una funzione sintattica di legame tra le parole e tutte quelle parole che esprimo un
significato senza necessità di modificare la parte finale della parola;
• Semiliberi: come le parole grammaticali: articoli, preposizioni... che agiscono sempre in combinazione con
altre parole; (sono legati sempre ad un nome)
• Legati ad altri morfemi (la –e di molti plurali femminili)
• Flessionale: ad esempio il morfema –i di “libr- i" è un morfema flessionale.
• Derivativi: nel caso dei suffissi alterativi “libr-accio", “libr-one”
Nel passaggio dal Latino all’Italiano la morfologia si è semplificata e ci trasmette numero minore di
informazioni, la morfologia verbale conserva dal Latino una maggiore trasparenza. Per opacità di morfologia
nominale parliamo di un qualcosa che essenzialmente ci da poche informazioni come genere e numero, ma
non sul ruolo sintattico che una parola ha in una frase, mentre per quello che riguarda il verbo, abbiamo molte
più informazioni. Ovviamente nel passaggio linguistico ci sono state anche delle aggiunte non solo riduzioni,
tipo un modo verbale in più che è il condizionale, lo stesso articolo in Latino non esisteva, l’articolo in Italiano è
quasi qualcosa di ridondante ovviamente.
In alcune condizioni un morfema può assumere forme diverse che non determinano cambiamenti nel suo
significato: gli allomorfi (è il principio per cui un morfema assume forme diverse, ma che hanno lo stesso di
significato
Il prefisso negativo “IN-” che appare in quattro forme diverse, in parole come “ILLOGICO, IMPOSSIBILE,
INUTILE, IRREALE”. Ciò può dipendere anche dalla diversa realizzazione della consonante finale della radice di
una parola (condizioni fonetiche) “AMICO” occlusiva velare al singolare, “AMICI” affricata palatale al plurale.
Poi abbiamo una allomorfia complementare (anche questa obbligata in realtà) per esempio c’è una diversa
base etimologica: quindi due forme di una stessa coniugazione di uno stesso verbo hanno una origine
differente, però sono entrate tutte e due a far parte dello stesso paradigma. Il presente di andare è io vado alla
prima persona singolare, ma alla prima persona plurale è andiamo e anche qui è obbligata perché noi non
possiamo dire noi vadiamo o io ando, la differenza è che sono etimologicamente diverse, complementare
invece perché si completano l’una con l’altra ma non possono alternarsi.
Allomorfia libera come in buonissimo-ottimo oppure devo-debbo o anche cattivissimo-pessimo. Quest’ultima è stata una
caratteristica dell’italiano almeno fino agli anni finali del 900, a cominciare da Manzoni grande innovatore che ha
rinnovato l’italiano letterario scegliendo forme che si sarebbero poi affermate, nonostante egli avesse cercato di
razionalizzare le doppie forme, nella lingua letteraria talvolta anche giornalistica, fino ai primi del 900, avevamo appunto
oscillazioni e quindi forme diverse tra quistione e questione o anche io amava-io amavo secondo le forme che poi si sono
affermate, anche giovine-giovane, tutte oscillazioni e alternanze di allomorfie libere che si sono avute a seguito di questa
incertezza che gli scrittori avevano tra le forme più antiche, ovviamente, Manzoni fece giustizia delle forme più antiche
ma non tutti l’hanno imitato, si sono solo trascinate alcune forme nel tempo.

Ultima cosa, Per quanto riguarda la formazione dei paradigmi, tutte le forme e tutti gli esiti che un nome può avere
quindi ragazz-o ragazz-a diventano un paradigma di quel nome, e così tutte le forme e le voci verbali di un verbo fanno il
paradigma di questo verbo, in latino comprendeva per i nomi paradigmi più ampi. Il paradigma è l’insieme di tutte le voci
verbali (modi, persone, tempi)

NOMI
La morfologia nominale flessiva indica il genere e il numero. La possibilità di variare solo con la lettera finale
(morfema finale) è molto economica (Amic-o – Amic-i / Amigo – Amig-o-s). Il genere ha valore grammaticale
anche per gli animali (Leone – Leonessa) invece (la tigre sempre femminile; il pappagallo sempre maschile). La
lingua e la realtà non coincidono, la realtà può essere multiforme, la lingua no. Esiste un procedimento, detto
MOZIONE che è il cambiamento da un genere all’altro. Di solito si ottiene con il cambiamento del morfema
grammaticale:
1) Desinenza (ragazzo-ragazza)
2) Aggiunta di suffisso (leone - leon-ess-a)
3) Sostituzione di suffisso (opera-tor-e – operatrice)
Le donne a partire dalla seconda metà del Novecento che si sono affacciate nel mondo del lavoro in ambienti
lavorativi dove prima c’erano solo maschi, hanno chiesto modifiche nei nomi dei lavori. In alcuni casi è stato
facile come Maestro/Maestra, ma alcuni sono recenti come Avvocato/Avvocatessa. Questo passaggio dal
Maschile al Femminile entra nella tipologia della nostra lingua, non c’è una forzatura linguistica perché
entriamo nel campo della mozione, ma il problema nasce quando si tengono conto le persone che si
definiscono neutre, che dal latino all’italiano è sparito, oggi è usato solo per oggetti animati. In inglese si usa il
neutro they. In italiano invece è difficile usare questa metodologia, infatti si è sempre detto che il maschile
plurale ha valore di genere non marcato. (Maria e Giovanni sono venuti a trovarmi). Secondo il GRADIT, genere
non è definito come natura del sesso ma indica una configurazione di tipo sociale e culturale.
Si sta anche affermando, sempre da queste associazioni, di non parlare più di omosessuale, bisessuale ect… ma
di omoaffettivo, biaffettivo ect.. parole, già presenti nei dizionari. Ovviamente c’è da dire che non si può
chiedere di far entrare parole a caso nei dizionari, ma vanno studiate e analizzate e se rientrano in qualche
schema, si sentono in maniera frequente e si hanno molte testimonianze, come l’esempio di PETALOSO, si
possono alla fine accettare.

LE CALSSI DEI NOMI


La morfologia flessiva dell'italiano distingue tre uscite nei nomi che flettono:
1. A
2. O
3. E
Ora, in base al modo in cui i nomi flettono tra singolare e plurale noi distinguiamo, in italiano, 6 classi di nomi:

 I CLASSE (NOMI IN -O)


Lup-o/ lup-i.
È etimologica. In latino la gran parte dei nomi della seconda declinazione avevano il nominativo singolare in -us
ed il plurale in -i. Sono tutti maschili i nomi della prima classe, tranne MANO, che, per altro, ha derivazione
diversa.

 II CLASSE (NOMI IN -A)


Ros-a/ ros-e
Sono sempre tutti femminili. Sono tra le classi più produttive della nostra lingua, nel senso che quando si
formano nuovi nomi si tende a ricondurli, anche per significato, ai nomi in -o ed in -a poiché ormai nel
meccanismo della lingua materna. E' quindi più facile coniare nuovi nomi in questa classe.
La classe dei nomi in -a non ha plurale femminile ma plurale in -i (come poet-i). Sono maschili tranne ala ed
arma, Questa classe di nomi può essere produttiva ma solo per alcune forme. Per esempio per le parole con
suffisso -ista (giornalista) o -ma (enzima).

 III CLASSE (NOMI IN -E)


Sono sia maschili che femminili.
L'occasione/ il cane.
C'è solo un'eccezione che riguarda la convivenza del singolare e plurale e del maschile e femminile perché il
carcere al plurale fa le carceri.

 IV CLASSE (PLURALI) – (NOMI IN -A/ PLU -I)


La classe dei nomi in -e è ancora produttiva però solo per i nomi in -tore/-trice (attore-attrice). O anche nomi
che derivano da participi presenti (cantante, detergente). La classe dei nomi in -a non ha plurale femminile ma
plurale in -i (come poet-i). Sono maschili tranne ala ed arma,
Questa classe di nomi può essere produttiva ma solo per alcune forme. Per esempio per le parole con suffisso -
ista (giornalista) o -ma (enzima).

 V CLASSE (NOMI IN -O/ PLU -A)


La definiamo classe di relitti, cioè di parole che non hanno più alcuna produttività e sono le parole che
terminano in -o al singolare ed in -a al plurale (dit-o/dit-a). Questa classe non è più produttiva, tanto che molti
di questi nomi hanno formato, accanto all'antico plurale neutro latino, anche il plurale in -i (le mur-a/ i mur-i),
avendo come conseguenza, talvolta, anche distinzione di significato: le mura sono quelle che circondano la
città, invece i muri sono quelli della casa.

 VI INVARIABILI
Essi sono in altissima espansione. Intanto ne abbiamo molti, in italiano, che hanno varie possibilità di
derivazione. I nomi accentati sull'ultima sillaba (come virtù, città...) sono derivati dalla forma latina, virtutem,
per esempio, con la sonorizzazione diventò virtude. Con l'apocope della sillaba finale applicata a questa parola
resta la forma invariabile ''virtù''. I nomi invariabili hanno un genere ma non subiscono il cambiamento di esso
nel passaggio da un genere all'altro e non c'è l'implicazione del singolare o del plurale. Sono rimasti invariabili
anche i monosillabi latini come: re, gru, tre. Abbiamo, poi, alcuni nomi in -e (come specie), in -i (come crisi), in
-o, eccetera. Ma la grande affluenza di parole invariate deriva, oggi, dai prestiti. Quando accogliamo i prestiti,
essi non formano il plurale. Le parole straniere diventano invariabili quanto al numero. I prestiti si adattano
sempre, anche quando non sono adattabili alla nostra fonetica, facendoli confluire nella classe dei nomi
invariabili. C'è qualche eccezione: si tratta di parole al plurale sin dall' inizio (come i jeans, per esempio)
GLI AGGETTIVI
Gli aggettivi hanno solo tre classi:
1. Gli aggettivi in –o/-i per i maschili e in –a/-e per i femminili. Comprendono dunque quattro uscite (bello/-
a; belli/-e) e ricoprono entrambi numeri e generi.
2. Gli aggettivi in –e/-i che ha un’uscita per il singolare e una per il plurale, senza indicazione di genere (felice,
infelice).
3. Gli aggettivi invariabili, ad esempio i colori, parole di origine straniera di diversa origine grammaticale,
parole usate occasionalmente come aggettivi (dappoco) e avverbi usati come aggettivi (un quartiere bene);
Gli aggettivi, inoltre, si dividono in due sottogruppi:
1. Quelli che hanno quattro uscite, sia per il maschile singolare e plurale sia per il femminile singolare e
plurale, però hanno la desinenza –e invece di –o: sornione/-i, sorniona/-e. A questa declinazione si
adeguano anche gli accrescitivi (intelligentone, simpaticone ecc...).
2. Quelli che escono in –a al singolare per entrambi i generi, ma si differenziano al plurale con le desinenza –
i/-e: egoista, egoisti/-e.
Nella gradazione dell’aggettivo l’italiano presenta strutture di tipo sintetico, come il latino, e di tipo analitico,
come le altre lingue romanze.
-Per il superlativo assoluto, si ricorre al suffisso -issimo ed è di tipo sintetico;
-Il comparativo è di tipo analitico. Non è possibile fare il comparativo con solo il cambiamento del morfema
grammaticale, dobbiamo ricorrere ad un elemento esterno e quindi ha bisogno di una comparazione (più bello,
meno bello, tanto bello quanto…);
-Anche il superlativo relativo è analitico (il più bello di tutti);
Convivono poi forme arcaiche come più alto = maggiore; più buono = migliore. Abbiamo anche gli alterati che
indicano qualcosa di più piccolo, connotato come bello e bellino, caruccio invece di caro. Questa possibilità di
creare alterati tramite la flessione e quindi il cambiamento del suffisso e poi del morfema grammaticale, è una
caratteristica dell’Italiano. Gli alterati in italiano si ottengono con aggiunta di suffissi (ragazzi, ragazzacci) ecc...
Concorrono alla formazione del superlativo varie strutture analitiche sempre diffuse:
-con intensificatori, avverbi e locuzioni;
-con prefissi e prefissoidi (arci, sopra, iper, mega, super, maxi, stra);
-reiterazione dell’aggettivo (scrivere due volte l'aggettivo, ex. Borghese piccolo piccolo);
-struttura tutto + aggettivo (è tutto sudato).
Posizione
Anche la posizione degli aggettivi è importante. L'aggettivo qualificativo può essere posto sia prima che dopo il
nome (bella ragazza - ragazza bella). La posizione utilizzata più frequentemente è a destra del nome. Infatti, tra
BELLA RAGAZZA e RAGAZZO BELLO, c’è una sfumatura di tono, di comunicazione. È comunque possibile porre
l'aggettivo prima del nome, nel caso in cui esso esprima una qualità intrinseca, descrittiva (adoperata
frequentemente nella lingua letteraria). Possiamo anticipare per dare enfasi al significato (cambiando anche
tono) ma la posizione a sinistra del nome dà e comunica qualcosa di più enfatica, maggiore affettività o enfasi.
L’Italiano ha quindi questa possibilità in più ma si assiste ad una tendenza che si nota soprattutto nelle stesure
giornalistiche, quella di ricollocare a sinistra. Quando comunichiamo non pensiamo solo a quello che c’è
scritto, molti procedimenti hanno valore pragmatico. Esiste una linguistica pragmatica che studia appunto il
modo con cui noi comunichiamo con l’altro, oltre il significato letterale: l’ironia ha valore pragmatico, se una
persona sta attraversando col semaforo rosso, io dirò “bel esempio”, ma con l’intonazione e con la gestualità
etc., comunico qualcosa che va oltre il significato letterale.
Ci sono dei casi in cui è obbligatorio posporre l’aggettivo ossia:
 quando è un alterato (una borsa piccolina/* una piccolina borsa);
 quando regge un complemento (una valigia piena di regali/* una piena valigia di regali);
 quando deriva da un participio (un appartamento ristrutturato/* un ristrutturato appartamento);
 quando è un aggettivo di relazione che specifica il significato del nome (la situazione economica/* la
economica situazione);
 con aggettivi etnici o derivati da un nome proprio (un cittadino greco/* un greco cittadino) (poetica
leopardiana).

Si indicano con * forme o costruzioni agrammaticali, non accettabili in una determinata lingua.

In Italiano l’anticipazione o la posposizione può far cambiare significato all’insieme di aggettivo e nome. “Un
alto ufficiale” è diverso da “un ufficiale alto”: il primo indica una persona di grado elevato nella carriera,
mentre la seconda si riferisce alla statura.
Nel linguaggio giuridico e amministrativo, si possono avere posposizioni o anticipazioni:
-l'aggettivo e il participio prima del nome (con regolare decreto, lo scrivente ufficio);
-avverbio prima del verbo (la informiamo che immediatamente comunicheremo);
-numerale dopo il nome (limite di mesi tre);
Alcuni di questi sintagmi sono entrati anche al di fuori del linguaggio burocratico.
Possiamo trovare delle eccezioni alla posizione solita prenominale degli aggettivi: alcune strutture di tipo
esclamativo o vocativo possono essere solo posposti —> “madre mia!”, in più esistono espressioni cristallizzate
in cui la posizione è postnominale —> “fatti gli affari tuoi!
Inoltre, succede che nei dialetti meridionali invece, la posizione dell’aggettivo non marcata sia proprio a destra,
tipo “a’ casa mìa “e quindi a volte ci possono essere interferenze tra la struttura standard dell’Italiano e quella
appartenente ad un tipo di parlato meno discreto.
Un discorso differente riguarda gli aggettivi possessivi, per essi la posizione non marcata è quella a sinistra e
quando poniamo a destra il possessivo, è perché diamo una certa enfasi all’oggetto in questione, nonostante
ciò la posizione a sinistra è quella più usuale.
Quanto alla sintassi, se si classificano o descrivono le lingue in base all’ordine dei costituenti delle diverse
strutture, si ammette che questi hanno una disposizione NATURALE, o NON MARCATA, e una serie più o meno
ampia di costruzioni ‘devianti’ (dette MARCATE) rispetto a essa, che hanno l’effetto di aggiungere un tratto (la
MARCA) alla frase NON MARCATA.
Per gli aggettivi qualificativi, la posizione non marcata è destra, tuttavia è possibile porre l’aggettivo anche
prima del nome. Esempio: le dolenti parole del nostro capo. Si anticipa con l’aggettivo per sottolineare, quindi
enfatizzare qualcosa. Oggi c’è la tendenza ad anticipare a sinistra quindi si sta perdendo questa possibilità di
marcare, creando la prolessi dell’aggettivo, ossia l’incapacità di enfatizzazione.
PRONIMI E DETERMINANTI- L’ARTICOLO
Intanto la sequenza di base del modo in cui si succedono le parole va sempre da sinistra verso destra, che è il
modo in cui leggiamo e scriviamo, ma il sintagma è costituito da articolo + nome (la testa è costituita
dall’articolo, la coda è costituita dal nome). L’articolo marca due volte però a volte costituisce un elemento
essenziale poiché della parola “ LE VIRTU’ ” senza l’articolo non sapremmo ne genere ne numero. Nel
settentrione c’è la tendenza a porre l’articolo anche davanti ai nomi propri come con “La Maria” ”La Giovanna”.
Al massimo davanti a qualche nome illustre di poeta es. “Il Manzoni” ma è un altro discorso. Sul paradigma
degli articoli molte cose sono convenzionali, però, la stabilità si è avuta nell’ 800-900 (LO ZAINO, prima era IL
ZAINO). Il nostro articolo deriva dal dimostrativo latino, che cominciò ad essere usato davanti i nomi fino a
diventare un marcatore di genere e numero.
Tra i determinativi e gli indeterminativi, è importante, nella scelta, il carattere del referente, il tipo di referenza
e la struttura informativa del testo.

 Un tipo di carattere del referente, si ha quando il nome a cui dobbiamo legare l’articolo indica una
categoria generale: usiamo il determinativo, quindi avremo “IL GATTO È UN MAMMIFERO” in quanto ci
riferiamo ad una categoria generale che per altro è nota ai parlanti. Se invece rappresenta un individuo
specifico: usiamo l’indeterminativo, quindi: “HO VISTO UN GATTO IN GIARDINO”;
 Con il tipo di referenza, se essa è univoca (quindi rinvia ad una cosa precisa) usiamo il determinativo quindi, “MI
SONO FERITO IL GINOCCHIO SINISTRO” , la referenza è solo a quell’elemento a cui l’articolo si riferisce; se non è
univoca ma plurivoca, avremo l’indeterminativo quindi, “MI SONO FERITO UNA MANO L’ALTRO ANNO” . Ma può
essere univoca anche quando circoscriviamo con un particolare determinante, potremmo anche dire “HO VISTO IL
GATTO DI MARTINO” in questo caso è determinativo perché siamo entrati nello specifico, in questo caso;

 Nella struttura informativa del testo la cosa è importante in quanto si adoperano l’articolo determinativo quando ci
riferiamo a qualcosa di già introdotto nel testo, oppure qualcosa di noto agli interlocutori o di visibile, presente nel
contesto spaziale quindi: “C’ERA UNA VOLTA UNA PRINCIPESSA …. MA LA PRINCIPESSA SCAPPÒ”, perché in questo
caso la principessa già era nel testo;

L’errore che si trova spesso nella scrittura giovane è di marcare eccessivamente questo rinvio a qualcosa che è già stata
introdotta sostituendo l’articolo determinativo con un dimostrativo. Nella scrittura risulta eccessivo, anche perché violare
le regole della coesione è un problema. Il parlato risponde ad altre regole quindi non fa niente ma sono regole di
scrittura che vanno ben gestite quando scriviamo un testo argomentativo, una sintesi, una relazione, una recensione,
tutto ciò che serve per la professione. Poi dicevamo, qualcosa di noto agli interlocutori come: “HO UNA NUOVA
INSEGNANTE MA LA PROFESSORESSA È ARRIVATA IN RITARDO”. È tutto costruito con una successione di informazioni
nuove o già date, è tutto un alternarsi di cose che sappiamo e che aggiungiamo.

Morfologia del pronome

La complessità dei pronomi personali, la parte del discorso più ricca di tratti di flessione, si lega alla presenza di una serie
doppia, atona e tonica (è costituita da morfemi liberi), e alla diversificazione in base alla funzione sintattica (soggetto,
complemento). Il sistema inoltre prevede varie asimmetrie e alcuni sincretismi, come forme di significato diverso ma con
lo stesso significante, lo stesso termine e quindi avremo:

Mi --> a me

Mi --> ‘me’ complemento diretto

Anche per la seconda persona singolare è in espansione la forma accusativa con ruolo di soggetto, diffusa molto nel
parlato: “Lo capisci anche te”. I pronomi tonici possono svolgere funzione di soggetto, complemento diretto e indiretto,
però per il complemento indiretto hanno bisogno di una preposizione, come nella frase “ama te”.

In italiano, in alcuni contesti le forme complemento, me e te, si sono grammaticalizzate come soggetto:

 Dopo come e quanto (Sono stufo come te, È felice quanto me);

 Nelle esclamazioni (Povero me! Beato te!)

 Dopo la congiunzione e (Io e te andiamo d’accordo; *io e tu, ma: tu ed io)

Per la terza persona, la semplificazione dell’opposizione tra nominativo (egli/ella, essi/esse) e accusativo (lui/lei, loro)
parte da lontano, e nel tempo si è avvenuto un processo di rivoluzione del paradigma con la scelta di un’unica forma
(lui/lei) in funzione di soggetto e complemento. Egli/ella sopravvive solo nello scritto formale, mentre lui si è esteso a
tutte le posizioni sintattiche. Lui, lei, loro sono inevitabili anche nello scritto più sorvegliato:

- Dopo come e quando à Hanno protestato come loro!;

- Nelle esclamazioni à Evviva lei!;

- Nelle contrapposizioni à Lui ama Leopardi, lei ama Foscolo;

- Quando si vuole mettere in rilievo il soggetto con il pronome postverbale à L’hanno scritto loro;

- Quando il pronome è da solo, per esempio nelle risposte à -Chi è intervenuto? -Lui;

- Dopo la congiunzione e à Io e lui non ci conosciamo;

- (sono preferiti) dopo: anche, pure, neanche, nemmeno, neppure;

Ella sembra ormai uscito dell’uso, mentre esso e essa sembrano sono usati cono riferimento a inanimati.

I paradigmi dei pronomi sono più complessi di quelli dei nomi. Distinguiamo prima di tutto tra pronomi tonici (accentati)
e atoni (non accentati). I primi sono forme autonome e sono quindi considerati morfemi liberi. I secondi, detti anche
clitici, si appoggiano sempre alla parola che segue (proclitici: mi piace) o si legano alla parola che precede dopo il verbo
(enclitici: dimmi); per questo motivo sono considerati morfemi semiliberi. I pronomi, oltre a esprimere nella flessione la
persona, il numero e, talvolta per la terza persona, il genere, esprimono anche la funzione sintattica: cioè cambiano in
base al ruolo che debbono svolgere.

I pronomi tonici possono svolgere la funzione di soggetto o di complemento; per il complemento indiretto si associano
a una preposizione (a me, con te, per lui, ecc.). Nel paradigma dei pronomi tonici in qualche caso le forme per il soggetto
e per il complemento coincidono.  
Ruolo di soggetto Ruolo di complemento

Io Me
Tu Te
Egli/ella/lui/lei [esso/essa] Lui/lei
Noi Noi
Voi Voi
Essi/esse/loro Loro

Le forme di prima e seconda persona plurale sono identiche per entrambi i ruoli sintattici. Si tende sempre più a usare le
forme del complemento per il soggetto: nel parlato è quasi prevalente il ricorso a lui e lei; sopravvive nello scritto molto
formale egli, mentre è considerato sempre più arcaico ed è visibilmente in regresso il femminile ella. In alcune aree della
penisola, inoltre, si tende ad adoperare la forma del complemento te in luogo del soggetto tu e, a causa dell’influenza dei
media, l’uso si sta estendendo. La distinzione più salda rimane dunque quella tra io e me.

I pronomi atoni si adoperano solo per le funzioni sintattiche di complemento diretto (oggetto) o indiretto (di
termine). Per quanto riguarda la distribuzione, i clitici hanno delle restrizioni: devono infatti sempre precedere o seguire
il verbo (ti regalo un libro; regalati un momento di pausa; non voglio regalarti niente). La posizione sintattica dei pronomi
clitici inoltre segue delle regole. Di norma si pongono prima dei verbi (proclisi), tranne nel caso degli imperativi e dei
modi verbali non finiti per i quali il pronome segue il verbo (enclisi): lo ascolti; ascoltalo; ascoltandolo impari. L’enclisi
pronominale è dunque possibile solo con i modi infiniti del verbo (avendolo visto, per comprarlo) con participi in
costruzione assoluta o in funzione aggettivale (fattone uso...; lasciai il libro compratomi da mio padre), con l’avverbio
ecco (eccolo, eccoti), con l’imperativo (mangialo, non dirlo). La posizione è però libera con l’imperativo negativo, che
ammette anche la proclisi: Non ascoltarlo, ma anche non lo ascoltare.

Oggi sta diventando libera anche la posizione in presenza di infinito dipendente da un verbo, soprattutto se verbo
modale come potere, dovere, ecc.: Mario deve ascoltarlo ogni giorno tende a diventare Mario lo deve ascoltare ogni
giorno. Si parla in questi casi di risalita o anticipazione del clitico, un fenomeno recente, ormai ammesso nel parlato e
poco per volta anche nello scritto.

D’altro canto l’anticipazione del clitico è obbligatoria in casi come lo fai dormire o lo sento cantare. In generale, con fare e
lasciare con funzione causativa il clitico precede obbligatoriamente il verbo causativo: lo lascio scrivere non *lascio
scriverlo. I verbi causativi (o fattivi) esprimono un’azione che il soggetto fa compiere ad altri (per es. addormentare
rispetto a dormire). La funzione causativa è quella che assume il verbo fare seguito da un infinito, per indicare che il
soggetto non fa l’azione ma fa in modo che venga fatta da altri (lo hai fatto mangiare finalmente).

Con sembrare e parere + infinito il clitico va obbligatoriamente dopo l’infinito: sembrava vederlo non *lo sembrava
vedere. Non è ammessa, nell’italiano standard, un’eccessiva risalita a sinistra, come nell’esempio che segue: non sono
potuto andare a comprarlo non può diventare *non lo sono potuto andare a comprare. In qualche caso la posizione del
clitico può lessicalizzarsi, per es. non posso vederlo ha significato letterale, mentre non lo posso vedere significa ‘non
sopporto qualcuno’.  Rimane ancora in uso l’enclisi in forme come affittasi, vendesi o, come si legge in alcuni testi
burocratici, pregasi.

Pronomi atoni o clitici

Complemento oggetto Complemento di termine


Mi Mi

Ti Ti

Lo/la Gli/le

Ci Ci

Vi Vi

Li/le Gli/[loro]

Anche il paradigma dei pronomi atoni presenta delle semplificazioni: i pronomi di prima e seconda persona, singolari e
plurali, coincidono per entrambi i ruoli sintattici, mentre variano per l’oggetto o il complemento di termine i clitici di terza
persona. Un caso particolare è rappresentato da loro. Si tratta, di una forma in forte regresso in questa funzione
sintattica, anche a causa delle sue limitazioni d’uso:

- Prima di tutto è bisillabo e quindi non è un pronome atono; è estraneo alla serie dei pronomi che servono per i
complementi e non può combinarsi, a differenza di gli, con altri pronomi atoni, come diglielo, mentre dirlo loro è
ormai arcaico;

- Il pronome loro in funzione di complemento indiretto ha poche possibilità di movimento nella frase: deve
collocarsi sempre dopo il verbo (ho detto loro);

Anche per questi motivi il pronome loro nel ruolo di complemento di termine sta quasi scomparendo. Il sistema dei
pronomi atoni per il complemento di termine si sta riducendo a due sole caselle: gli per il maschile singolare e per il
plurale sia maschile sia femminile; le per il femminile singolare. Nell’italiano poco sorvegliato si assiste ancora a
un’ulteriore semplificazione, con il ricorso al solo gli anche per il femminile singolare, ma si tratta ancora di una tendenza
ancora marcata come bassa. Si assiste oggi anche a una sovra-estensione di ci: si dice spesso nel parlato molto informale
ci parlo per dire “parlo a lui, lei, loro” invece di dire gli parlo.

Il pronome si
Il pronome riflessivo ha una forma tonica (sé) e una forma atona tanto per il complemento oggetto quanto per il
complemento di termine (si). Il pronome atono di 3ª persona si nella funzione di riflessivo può:

- rinviare al soggetto in funzione di oggetto diretto (lui si pettina) o indiretto (si lava le mani);

- avere un valore reciproco (Luigi e Carlo non si sopportano)

- avere un uso apparente (come con gli intransitivi pronominali: congratularsi, vergognarsi, pentirsi); in questi casi
non possiamo veramente dire che il si ha valore riflessivo (anche se talvolta c’è una ricaduta sul proprio sentire
interiore, come in rammaricarsi, pentirsi, vergognarsi), ma diciamo piuttosto che si è lessicalizzato.

Il si impersonale, fungendo da soggetto indefinito, consente la costruzione impersonale di qualunque verbo intransitivo
e transitivo senza oggetto espresso (si lotta ogni giorno; si mangia alle 10; si prega di non disturbare). Quando il
complemento oggetto di un verbo transitivo è costituito da un pronome clitico, questo precede il si impersonale (lo si
seguirà con attenzione), mentre non avviene così con il si riflessivo (se lo aspetta).

Il si passivante si adopera con verbi transitivi accompagnati dal loro complemento oggetto si mangiano i dolci a pranzo o
anche i dolci si mangiano a pranzo (cioè ‘i dolci sono mangiati’). Questa forma sintetica di passivo non esplicita l’agente.

Per la distinzione tra si passivante e si impersonale è possibile osservare che il si impersonale può essere considerato il
soggetto vero e proprio della proposizione, mentre il si passivante va considerato come un vero segno della passività del
verbo. In presenza di un verbo intransitivo o transitivo senza oggetto espresso, il si non ha mai valore passivante, ma
soltanto impersonale: si legge (cioè ‘noi leggiamo’; ‘qualcuno legge’); il dubbio può sorgere con un verbo transitivo con
oggetto espresso, come nella frase Alle otto si serve la cena, che può essere interpretata come Alle otto serviamo (o
qualcuno serve) la cena, oppure come Alle otto la cena viene servita.

Il dativo etico
I pronomi atoni possono avere usi particolari, che servono a comunicare sfumature di significato. Tra questi usi rientra il
dativo etico che indica la partecipazione o il coinvolgimento emotivo di una persona rispetto a un’azione o a una
circostanza indicata dal predicato; è sempre espresso da un pronome atono e non è necessario ai fini della compiutezza
sintattico-grammaticale dell’enunciato: Che mi combini? Il piccolo non mi mangia più. Stammi bene; anche in
combinazione con altre parole (ecco): Eccoti qua. Eccomi arrivato.

Pronominalizzazione dei transitivi


Una forte partecipazione del soggetto all’azione, affine a quello del dativo etico propriamente detto, può essere indicata
anche dai pronomi atoni pleonastici accompagnati a un verbo transitivo (pronominalizzazione dei transitivi): Mi faccio
una birra; Ci sentiamo la conferenza; anche con indumenti Mi pulisco le scarpe; Mi tolgo il cappello; con riferimento a un
interlocutore generico: E chi ti vedo?

Il clitico riflessivo ha in questi casi un valore affettivo-enfatico, che non può essere espresso dalla forma libera, Mario si è
bevuto un bicchiere di vino bianco / *Mario ha bevuto per sé un bicchiere di vino bianco. Questo tipo di dativo
pronominale è obbligatorio per riferirsi a parti del corpo: si è rotto il dito (e non *ha rotto il suo dito), si è tinta i capelli (e
non *ha tinto i suoi capelli).

NE, CI, VI
Tra i pronomi atoni sono da includere anche ne, ci, vi (con funzioni diverse da quelle dei personali ci e vi).

 Ne svolge funzioni di partitivo (non ne voglio), di complemento di argomento (non ne voglio parlare), di moto da
luogo (non se ne andrà), ma in questo ruolo sopravvive ormai quasi esclusivamente con il verbo andarsene;

 ci ha funzioni di locativo (non ci sono fiori, non ci vado), di complemento indiretto se riferito a oggetti inanimati
(non ci penso mai = “non penso mai a ciò”) o talvolta a persone ma soprattutto in alcune espressioni tipiche del
parlato (non ci conto = “su di lui”; non ci vado mai insieme = “con lui”);

 vi svolge il ruolo di locativo, ma è sempre più in disuso anche nello scritto(Non vi sono oggetti sul tavolo).

Si assiste per i clitici ci e ne a una progressiva lessicalizzazione: i pronomi ci e ne perdono lo statuto di pronomi e si
legano stabilmente ad alcuni verbi cambiandone il significato: entrarci “essere pertinente”, volerne in frasi come non
volergliene, ecc.

Per quanto riguarda ci, si osserva una sovraestensione degli usi; è usato ormai, infatti, in moltissimi contesti:

 ha preso quasi totalmente il posto di vi come locativo; del resto con essere è obbligatorio: c’è polvere e anche c’è
polvere in casa (non è possibile *è polvere in casa); tuttavia per qui c’è la polvere o qui c’è il maestro sono
possibili con inversione la polvere è qui (e non là); il maestro è qui;

 ha valore attualizzante (ci attualizzante) soprattutto con il verbo avere usato nel suo significato pieno e non
come ausiliare: ci ho mal di testa;

 esserci ha assunto significati particolari in espressioni come ci sei? ci siamo?

Ha assunto significati particolari anche con i verbi

- entrarci: ‘essere pertinente’, non c’entra niente questa storia;

- farcela: ‘riuscirci’, ce l’abbiamo fatta per un pelo;

- volerci: ‘essere necessario’ ci vuole un tecnico;


- starci: ‘essere d’accordo’, ci stai?

E ancora cascarci, arrivarci, metterci, ecc.

 Molti di questi usi sono ammessi prevalentemente nel parlato (anche nel parlato della finzione letteraria) o nelle
situazioni informali.

La stessa cosa, ma in misura meno vistosa rispetto al ci, sta accadendo, come abbiamo detto, con il ne che in alcuni verbi
attenua la sua funzione pronominale:

 importarsene: non me ne importa niente si usa con riferimento a un complesso di cose e non a un referente ben
preciso. Infatti, si può usare anche in presenza del complemento: non me ne importa niente del tuo esame / di
quello che dici.

Casi analoghi sono infischiarsene, convenirne, andarne (ne va del tuo onore) ecc. Qualcosa di analogo si osserva con il
pronome atono la, che può rinviare a un indeterminato ‘cosa, faccenda, questione’, come nei proverbi chi la fa la aspetti,
chi la dura la vince, e come è avvenuto con i verbi piantarla, finirla, contarla, farla (la fa a tutti), farla franca, spuntarla.

ALLOCUTIVI
L'allocuzione è una figura retorica. Quando un politico, per esempio, si rivolge al pubblico, utilizza le
allocuzioni. Dunque, si chiamano allocutivi i pronomi con cui ci rivolgiamo agli interlocutori. Nell’ italiano
standard sono solo due: tu e lei. Al plurale il voi.
Due sono le caselle degli allocutivi in italiano
TU: PRONOME DI FAMILIARITA'
LEI: PRONOME DI CORTESIA
Al plurale, però, non si usa più il loro ma, sia per il pronome di cortesia che per quella di familiarità, si usa il voi.
Questo voi, come pronome di cortesia, esisteva prima in italiano affianco a lei, ed indicava una lieve minore
formalità utilizzata con persone più anziane che si conoscevano o, talvolta, con familiari più anziani. Oggi
questo voi come pronome di cortesia cade.
DIMOSTRATIVI E RELATIVI
Anche qui abbiamo avuto una rapida evoluzione negli ultimi 60-70 anni perché i dimostrativi italiani che
derivavano da altre lingue avevano 3 caselle:
QUELLO: per la distanza da chi parla e ascolta
QUESTO: per la vicinanza da chi parla e ascolta
CODESTO: per la vicinanza solo a chi ascolta
Codesto è oggi un regionalismo dell'area fiorentina e toscana poiché dall'italiano standard è sparito, quindi i
nostri dimostrativi sono, oggi, a 2 uscite: quello per la distanza e questo per la vicinanza Esiste ancora un forte
uso di codesto nei testi burocratici.
I dimostrativi possono avere 2 tipi di funzioni:

 DEITTICA
 ANAFORICA
Nel parlato hanno prevalentemente funzione deittica, mentre nello scritto prevale la funzione anaforica.
Intanto la deissi equivale a tutti i procedimenti che adoperiamo per collegare ciò che stiamo dicendo che
appartiene al mondo linguistico (ci serviamo di parole, suoni, categorie grammaticali...), che non coincide mai
con la realtà extralinguistica. La funzione anaforica, invece, fa riferimento all'anafora. L'anafora è anche una
figura retorica, dal cui nome è venuto fuori anche il nome di questo procedimento della lingua. L'anafora come
figura retorica, è spesso presente nella poesia o nell'oratoria. Essa consiste nella ripetizione, all'inizio di ogni
frase, di una o più parole uguali. L'anafora come procedimento consiste nel rinvio ad elementi già introdotti nel
testo.
I dimostrativi potrebbero, perciò, non rinviare a persone, oggetti o spazi, ma a qualcosa che io ho già
annunciato, introdotto nel testo. Per cui, il dimostrativo che ci ricollega a qualcosa di esterno, a qualcosa che
vediamo, ha un valore deittico. Quello che riaggancia qualcosa che abbiamo già introdotto e che riporta alla
sinistra del testo, ha valore anaforico. Oggi abbiamo un ritorno al latino e assistiamo alla tendenza di usare il
dimostrativo come articolo.
Ho visto dei libri sul tavolo. Questi libri sono annotati.
Il questi sostituisce l’articolo il. Un altro fenomeno frequente nel parlato è il rafforzamento dei dimostrativi,
quindi abbiamo espressioni come questo qui, quello là. Procedimenti adoperati nell’enfasi del parlato. Un’altra
espressione spesso udita oggi è: di quello che è.
Oggi vi parlerò di quelle che sono le considerazioni degli studenti.
Relativi
Le forme dei relativi sono:

- CHE: utilizzato principalmente per soggetto e complemento diretto;


- ARTICOLO + IL QUALE: che può valere per soggetto, complemento diretto e complementi indiretti se preceduto
dalle preposizioni;
- CUI: che vale per i complementi indiretti per lo più accompagnato da preposizione (anche se nel caso del
complemento di termine possiamo anche dire quella fanciulla cui ho dichiarato il mio amore).

Per quanto riguarda soggetto e complemento oggetto viene utilizzato per lo più che. Per i complementi indiretti, si
utilizza il quale ma soltanto per alcune funzioni sintattiche.

Un fenomeno abbastanza diffuso è quello del relativo indeclinato, senza declinazione. Ciò significa che c’è una
maggioranza dei casi in cui viene utilizzato il che anche per altri complementi malgrado questo debba essere usato solo
per soggetto e complemento diretto. Il che indeclinato si va affermando sempre di più, tra le forme più corrette
abbiamo:

il giorno che ti ho visto (non è consigliabile usarlo allo scritto)

il postino che gli ho detto di non suonare? Questo viene definito relativo analitico o indeclinato analitico. Necessita di un
altro elemento per esistere “che + gli” come pronome per indicare la funzione sintattica. Viene considerata una forma
molto bassa e quindi non si adopera in ambienti formali e nello scritto.

Per quanto riguarda i pronomi indefiniti, essi sono quantificatori e sono:

- Universali (tutti, ogni, ognuno)

- Esistenziali (qualche, alcuno)

- Quantitativi (parecchio, molto, poco)

- Negativi (nessuno, niente)


- Identificativi (certo, tale, altro)

- Generalizzanti (qualsiasi, qualunque, chiunque, checché)

Di dubbia grammaticalità invece, anche se in espansione è qualcuno+ di +aggettivo: “Qualcuno di competente, qualcuno
di molto importante”.

Anche i numerali sono quantificatori distinti in:

- Cardinali (uno, due, tre)

- Ordinali (primo, secondo, terzo)

- Frazionari (uno su uno, due su due)

- Moltiplicativi (doppio, triplo, quadruplo)

- Collettivi (un paio, una ventina, un centinaio)

- Distribuitivi (a uno a uno, a due a due)

I numerali italiani sono usati come in altre lingue in molte espressioni idiomatiche e per indicare quantità generiche e
indistinte. Sono molto ricorrenti: due e quattro, in quattro e quattr’otto etc. In alcuni casi differenziano per quantità
minime o quantità importanti quindi: “Vengo fra due minuti” e espressioni verbali come “l’ho rifatto un miliardo di volte”.

Verbo
Il verbo ha come funzione primaria caratterizzante quella predicativa, cioè di dire o affermare qualcosa a proposito di
qualcos’altro. Accanto quella predicativa può avere anche altre funzioni: copulativa, ausiliare e di supporto.

- Un verbo ha funzione copulativa quando il compito di predicare è svolto da un altro elemento (nome, agg,
avverbio). Con funzione di congiunzione come la copula (essere), i verbi copulativi hanno un significato più
leggero (stare, rimanere, diventare, sembrare, restare ecc.) e svolgono una doppia funzione copulativa e
predicativa;

- Gli ausiliari (essere e avere) sono verbi che hanno un valore grammaticale: nella formazione dei tempi composti
accompagnano in verbo predicativo, esprimendo tempo, modo e persona. ESSERE si usa prevalentemente in
costrutti intransitivi e passivi; AVERE in tutti i costrutti transitivi e con una sottoclasse di verbi intransitivi;

- I verbi di supporto sono verbi di significato generico, che fungono fa da appoggio al predicato principale
costituito generalmente da un nome (avere: avere voglia);

Funzione simile a quella degli ausiliari è svolta dai verbi modali o servili -dovere, potere, volere- sempre accompagnati
dall’infinito di un altro verbo, che rappresenta il predicato principale;

I verbi fraseologici o aspettuali descrivono l’aspetto, cioè il modo di svolgersi di un evento nel tempo (accingersi, stare,
continuare, finire, avviarsi ecc.) e si costruiscono con l’infinito preceduto da preposizione, o con il gerundio Sto finendo,
Comincio a mangiare, Sto per partire. Entrano, inoltre, nella costruzione nella costruzione delle cosiddette “perifrasi
verbali”, che servono a indicare un particolare modo di essere dell’azione di un verbo: l’inizio (Inizio a stancarmi), la
conclusione (Ho smesso di parlare), l’imminenza (Sto per andarmene), la durata, lo svolgimento (Non rispondo al telefono
quando sto mangiando), la continuità (Continuai camminare).

Tradizionalmente i verbi vengono distinti in transitivi e intarsiativi.

Nella flessione del verbo in italiano i tratti morfosintattici e morfonematici coinvolti sono: modo, tempo, la persona, il
numero, l’aspetto e la diatesi. La morfologia verbale è più trasparente di quella nominale perché ci informa su più cose.
(Il tempo e il modo sono i fattori più importanti).
Alle radici lessicali (fisse nei verbi regolari: cant-, dorm-, sent; cangianti nei verbi irregolari; andare/vado) seguono le
vocali tematiche differenti per coniugazione (-a, -e, -i; a volte la vocale è neutralizzata, come nella prima plurale: parl-
iamo), la marca temporale e/o modale quando c’è (per esempio: -v- nell’imperfetto), infine il morfema personale o
desinenza verbale.

RADICE VOCALE TEMATICA MARCA TEMPORALE MORFEMA PERSONALE


Am- -a- -v- -amo
Legg- -e- -v- -amo
Dorm- -i- -v- -amo

IL TEMPO: esprime una relazione tra il momento in cui enunciamo (parliamo) e il momento in cui si è verificato ciò di
cui parliamo.

Il momento dell’avvenimento è indicato dalla sigla MA, il momento dell’enunciato ME.

MA può essere contemporaneo, precedere, o seguire ME

Per capire bene la funzione temporale dei verbi, dobbiamo ricordare che il tempo della realtà (o tempo fisico) è diverso
dal tempo grammaticale:

- Il tempo della realtàà si può conteggiare;

- Il tempo grammaticaleà esprime una relazione tra il momento dell’avvenimento di cui stiamo dicendo qualcosa
e quello del momento dell’enunciato, il momento in cui lo diciamo (espresso nella morfologia);

Per quanto riguarda i tempi verbali, dobbiamo distinguere tra tempi deittici, e tempi deittico – anaforici:

- Tempi deittici (i tempi semplici come il presente, il passato remoto, l’imperfetto ecc.) ci danno l’immediata
relazione tra MA e ME:

Ieri ho incontrato tuo padre à il rapporto, espresso dal passato prossimo, tra MA (incontro con il padre) e ME
(momento in cui lo riferisco) è passato.

Domani partirò con Giovannaà il rapporto, espresso dal futuro, tra MA (partenza) e ME (momento in cui lo
riferisco) è futuro.

Il punto di ancoraggio dei tempi deittici è il momento dell’enunciato (ME)

- Tempi deittico-anaforici (trapassato prossimo e futuro anteriore) segnalano il rapporto tra MA e altri
avvenimenti che lo hanno preceduto e che indicheremo con MA 1:

Quando è arrivato Giovanni, avevo da poco finito di lavorare àin ciò che sto enunciando, l’avvenimento “fine del lavoro”
(MA1) precede quello dell’arrivo di Giovanni (MA) e dunque il trapassato prossimo (avevo finito) esprime anche il
rapporto tra MA1 e MA; il passato prossimo (è arrivato) solo quello tra MA e ME

Guarderai la televisione, quando avrai finito di fare i compiti à l’avvenimento “fine dei compiti” (MA1), precederà quello
del guardare la televisione (MA) e dunque il futuro anteriore (avrai finito) esprime anche il rapporto tra MA1 e MA; il
futuro (guarderai) solo quello tra MA e ME.
Il punto di ancoraggio dei tempi deittico-anaforici è al momento dell’avvenimento che è espresso nell’enunciato

Il presente indicativo, tende a prendere il posto del futuro, può fare riferimento ad eventi riguardanti un futuro molto
vicino (presente ingressivo: Ora gli telefono), o anche lontano, ma con riferimento a eventi pianificati (Domani vado al
mare, In estate parto per la Germania).

L’imperfetto indicativo ha assunto, rispetto al latino, una gamma più ampia di funzioni, L’imperfetto narrativo o storico
ha valore perfettivo ed è usato in contesti in cui gli eventi indicati dall’imperfetto sono rappresentati come successivi
(Mio padre, qualche ora dopo, ci accoglieva con allegria). L’imperfetto, inoltre, ha alcuni usi modali per esempio:

- Imperfetto di cortesia à- Cosa voleva? – Volevo un succo;

- Imperfetto ludico à Io ero il capitano, tu il soldato;

Nell’espressione del perfetto il passato prossimo è più familiare al Nord, il passato remoto al Sud; vengono quindi usati
nel parlato spesso senza distinzioni di collocamento temporale dell’enunciato, anche se è sempre più diffuso il passato
prossimo.

Il futuro deittico, sta retrocedendo a favore del presente indicativo. Viveva in un ambiente illuminato. Sarà poi il padre
indurlo nell’alta società. Il futuro è usato con diverse sfumature modali:

- Futuro iussivo à Non avrai altro Dio all’infuori di me;

- Futuro deontico à La tassa andrà pagata entro il 30 del mese;

- Futuro attenuativo, che ha lo scopo di mitigare un evento à Ammetterai che non si è trattato di uno sbaglio;

- Futuro epistemico, il parlante esprime una deduzione nel presente à Squilla il telefono, sarà mio fratello;

- Futuro concessivo à Sarà anche economico, ma è un brutto Hotel;

Il participio passato, oltre ai vari usi verbali, viene facilmente rianalizzato come aggettivo: Avevo messo le tende, nel
luogo consentito, lontano dalla spiaggia.

Il participio presente è prevalentemente forma aggettivale (assente, circostante, morente, presente, ubbidiente) o
nominale (dirigente, conoscente, parente, tangente, stampante, cantante, vedente); vale come verbo qualora compaia
con il complemento diretto (il presidente la commissione) mentre è analizzabile solo come aggettivo quando regge un
complemento preposizionale (Una signora amante della musica).

Il participio presente in italiano è in larga parte costituito da gerundio, ma continua ad essere usato solo nei registri
formali: avente diritto, al dante causa, il dichiarante. Si registra ormai come ben acclimatato l’uso delle frasi di farsi
implicite espresse con un gerundio non riferibile al soggetto della principale frequenti i gerundi con valore testuale
conclusivo, posti soprattutto a inizio di frase o di capoverso: riassumendo, concludendo, sintetizzando ecc.

IL MODO: esprime la modalità del verbo e indica l’atteggiamento del parlante nei confronti di quanto enunciato (vuoi
fare una passeggiata? “Sarebbe bello” – modo condizionale);
Ci sono quattro modi finiti: indicativo, congiuntivo, condizionale, imperativo.

Tre modi non finiti: infinito, gerundio, participio.

Il modo condizionale ad esempio può essere adoperato per esprimere il futuro. Il condizionale passato esprime il futuro
in frasi come: “Disse che sarebbe dovuto andare lì”. (si tratta di un futuro passato) e ha valore anche deittico- anaforico.
Tra i modi, quello che viene considerato un problema è il congiuntivo (il congiuntivo ha moltissime funzioni in italiano).
Possiamo trovarlo in proposizioni indipendenti:
- valore ottativo àdesiderio e speranza che qualcosa accada: volesse il Cielo! ;
- valore esortativo àesortare qualcuno a fare qualcosa: si decida in fretta e scelga bene; (anche con il senso di
imperativo)
- esclamativo à vedessi che prezzi! ;
- dubitativoà per esprimere un dubbio: e se avesse preso la macchina? ;
Il congiuntivo ha una forte connotazione dal punto di vista sintattico perché segna la subordinazione e quindi la cosa più
rilevante per l’uso del congiuntivo è il verbo da cui è retto (si usa o meno il congiuntivo a seconda del verbo della
principale):
- i verbi di opinione chiedono il congiuntivo: suppongo che tu sia pronto;
- i verbi di comando: ordinò che fossero puniti!
I verbi ammettere, capire, supporre e comprendere possono essere seguiti sia dal congiuntivo che dall’indicativo.
Abbiamo altri fattori che influenzano l’uso del congiuntivo nelle subordinate:
1. alcune congiunzioni subordinanti come affinché, benché, sebbene, a meno che, ecc. (sebbene sia stanco andrò a
cena fuori);
2. aggettivi e pronomi indefiniti come qualunque, chiunque, qualsiasi, dovunque (chiunque sia non voglio vederlo);
3. espressioni impersonali come è necessario che, è probabile che, è bene che (è bene che tu vada a casa al più
presto)
4. sequenze fisse (vada come vada! /Costi quel che costi!).
SCELTA DELL’AUSILIARE
Gli ausiliari, sono verbi che hanno un valore grammaticale, oltre a quello predicativo: nella formazione dei tempi
composti, accompagnano il verbo predicativo esprimendo tempo, modo e persona. Tradizionalmente i verbi vengono
distinti in due classi:

1. Transitivi, che ammettono un complemento oggetto e la forma passiva; In alcuni casi i transitivi possono non
avere l’oggetto espresso (fumare, parcheggiare ecc.);

2. Intransitivi, che non ammettono un complemento oggetto e non possono avere la forma passiva. Gli intransitivi
si dividono in due gruppi:

a. Inergativi àche nei tempi composti si servono dell’ausiliare avere à esprimono azioni intenzionali
(lavorare, passeggiare, parlare) o azioni che non sempre sono sorvegliate dalla nostra intenzione
(dormire, russare, ridere, respirare);

b. Inaccusativi àche ricorrono a essere à essi indicano:

- Il rapido mutamento di uno stato che non è determinato dall’intenzione del soggetto (cadere, guarire, morire);

- Uno stato, una situazione immobile (stare, rimanere);

- Il passaggio da un luogo all’altro seguendo un moto direzionale (arrivare, entrare);

- Un avvenimento (accadere, succedere);

Sono dunque verbi intransitivi di numero più alto e per questo si tende a dire che prendono sempre l’ausiliare essere, ma
non è sempre vero.
Ci sono dei test per verificare se si tratta di un verbo inaccusativo o inergativo:

 La scelta dell’ausiliare, quando il verbo richiede l’ausiliare avere abbiamo verbi inergativi, mentre se richiedono
l’ausiliare essere ci troviamo di fronte verbi inaccusativi. Questo n il test più sicuro.

Ci sono altri due test che non sempre sono applicabili:

 La possibilità di pronominalizzare il soggetto con il clitico “ne”à “molti spettatori sono venuti” à “di spettatori
ne sono venuti molti”. “molti spettatori dormivano” non può diventare “di spettatori ne dormivano molto” sono
dunque solo i verbi inaccusativi che possono pronominalizzare.

 L’uso aggettivale del participio è possibile solo per i verbi inaccusativi: la ragazza è sparita all’improvviso - la
ragazza sparita all’improvviso; la pioggia è arrivata all’inizio dell’autunno - la pioggia arrivata all’inizio
dell’autunno; ma da una frase come la bambina ha dormito a lungo non possiamo avere *la bambina dormita a
lungo.

LA DIATESIà esprime il modo in cui la cosa o la persona indicate dal soggetto della frase partecipano all’evento descritto
dal predicato. Nella trasformazione della frase, la diatesi distingue la forma attiva (Carlo mangia la mela), passiva (La
mela è mangiata da Carlo), riflessiva quando c’è coincidenza tra soggetto e oggetto (si lava). L’oggetto diretto, che è il
punto di arrivo nella diatesi attiva, viene messo in primo piano con la funzione del soggetto nella diatesi passiva, mentre
il soggetto della prima diventa argomento indiretto nella seconda.

La costruzione passiva può ignorare l’agente (Il colpevole è stato arrestato) e viene preferita quando non si vuole rendere
esplicito il soggetto (nel caso dei testi burocratici). Nell’espressione del passivo a essere si aggiungono andare e venire.
Essere e venire sono quasi equivalenti, ma possono focalizzare diversamente l’azione; il secondo infatti esprime più
chiaramente il senso dell’azione in corso di svolgimento: Il compito è svolto può essere interpretato come la descrizione
sia di un’azione, sia di uno stato, mentre Il compito viene svolto ammette solo la prima interpretazione. Andare, nella
formazione del passivo, non consente l’espressione dell’agente e aggiunge un valore modale di dovere: Questo edificio va
finito entro il mese prossimo. È possibile realizzare la costruzione passiva solamente con i verbi transitivi, che richiedono
un secondo argomento diretto

L’ASPETTO à può essere dato dal significato del verbo. Un aspetto momentaneo è dato da verbi che descrivono eventi
che si compiono in un momento (esplodere, nascere, sbocciare, scoppiare, uscire, arrivare); altri verbi descrivono eventi
che si svolgono in una certa durata e hanno un aspetto duraturo (camminare, dormire, cantare, viaggiare, studiare).
L’aspetto perfettivo (passato remoto e passato prossimo) descrive azioni delimitate nel tempo, mentre quello
imperfettivo (imperfetto) descrive azioni che non specificano la durata o che durano a lungo o che si ripetono nel tempo.

SINTASSI

In ogni lingua le parole non vivono mai isolate, hanno sempre in qualche modo un legame con altre. I legami
sintagmatici sono quelli che si instaurano all’interno di una frase. “Il fratello di Mario ha indossato una camicia blu” ci
sono sicuramente delle parole che non possiamo separare, come l’articolo e il nome (il fratello) che hanno un legame
molto stretto. Allo stesso modo “di Mario” è un sintagma, due parole che hanno un rapporto molto stretto tra loro e lo
abbiamo realizzato nella frase principale; così come “ha indossato” e “camicia blu”. Anche l’intera sequenza “il fratello di
Mario” ha un suo stretto rapporto per cui costituisce un sintagma superiore. Per indicare i sintagmi utilizziamo la “S” che
a sua volta si dividono in:

- SN se parliamo di sintagma nominale; (Il viaggio di lavoro, l’album di fotografie)


- SV se parliamo di sintagma verbale; (Stava mangiando al bar)
- SPrep, sintagma preposizionale; (Salire per le scale)
- SAgg se parliamo di sintagma aggettivale; (Sono fiducioso del risultato)
- SAvv se parliamo di sintagma avverbiale; (Salire molto rapidamente)

“Il cane mangia l’osso” è un intero sintagma verbale al cui interno abbiamo altri due sintagmi: [SV mangia] costituito da
un solo verbo, l’altro costituito da articolo e nome [SN l’osso]. Abbiamo dunque due sintagmi semplici e poi un sintagma
complesso: si parla in questo caso di sintagmi complessi e sintagmi incassati, ossia all’interno di un sintagma complesso
ne troviamo incassati degli altri.

Legami di tipo paradigmatico: sono legami associativi. È un’associazione che noi facciamo all’interno della lingua fra le
parole sulla base di rapporti:

 GRMMATICALI
 MORFOLOGICI
 LESSICALI
Per esempio io posso sostituire l’aggettivo blu con un altro aggettivo “ha indossato una camicia blu” diventa “ha
indossato una camicia rossa”. In questo caso abbiamo sia un legame grammaticale sia un legame lessicale, perché ho
sostituito un aggettivo con un altro aggettivo. Non si può mettere ad esempio un altro sostantivo come “una camicia
pantalone” non esiste, a meno che non si faccia una parola composta. Quindi al posto di una parola si può mettere
un’altra parola che deve necessariamente avere qualche legame, che può essere un solo legame grammaticale, e quindi
posso dire “Mario ha indossato una camicia nuova” la frase funziona comunque perché le due parole hanno un legame
fra loro grammaticale.

Se invece di “ha indossato” sostituisco questo “indossato” con “il fratello di Mario indossava una camicia blu” parliamo
di legame morfologico perché riguarda la flessione del verbo. Posso anche dire “ha comprato una camicia blu”, e la frase
grammaticalmente regge. “Ha indossato” e “ha comprato” hanno un legame solo di tipo grammaticale, perché sono due
verbi, ma non parliamo di legame lessicale perché appunto hanno due significati diversi tra loro. Quindi la prova della
possibilità di sostituire ci fa capire che le parole sono legate da rapporti paradigmatici.

Infatti per riuscire a capire se le parole hanno dei legami paradigmatici in una frase, se in una frase possiamo sostituire
una parola con un’altra senza costruirne una che non ha senso (agrammaticale). Quindi “il fratello di Mario” può essere
sostituito con “l’amico di Mario” à amico e fratello hanno un legame paradigmatico, in questo caso non lessicale ma
solo grammaticale perché sono due nomi. Posso anche sostituire “il fratello di Mario” con “il fratello di Giovanni/di Rosa”
ecc.

Il linguista Hjelmslev ha efficacemente parlato in questo caso di rapporti in presenza e in assenza: ha detto che i legami
sintagmatici sono rapporti in presenza, cioè rapporti che si creano quando costruiamo una frase, si creano solo
all’interno della frase —> es. Il fratello di Mario ha indossato una camicia verde, abbiamo detto quindi che “il fratello” e
“ha indossato” non hanno una funzione paradigmatica perché non posso sostituire un verbo con un nome e viceversa e
quindi hanno rapporto soltanto all’interno della frase. I legami paradigmatici invece sono rapporti in assenza: rapporti
che conosciamo nella lingua anche se non ci abbiamo mai riflettuto, legami che noi sappiamo utilizzare e sostituire
dando senso ad una frase, legami che possediamo nel momento in cui conosciamo una lingua, ma non corrispondono ai
legami che costruiamo nel momento in cui formiamo la frase.

La denominazione del sintagma dipende dalla testa del sintagma: anche se un sintagma nominale comincia con un
articolo, la testa, l’elemento più rilevante, che è anche portatore di significato, è il nome —> in questo caso quindi “il
fratello” è un SN. “Ha indossato” invece è appunto un SV. Anche un sintagma complesso che ha al suo interno un
sintagma incassato “ha una camicia” —> questo è come sintagma complesso un sintagma verbale, che ha al suo interno
un sint agma nominale ([SV[V ha][SN[Art. una][N camicia]]]). Quindi è sempre la testa che “comanda”

Ci sono altre denominazioni perché il sintagma nominale può iniziare anche con un articolo che chiamiamo articolo
specificatore —> “il fratello” è sempre un SN, la testa è sempre il nome, ma “il” appunto specifica.

Può essere preceduto da un numerale, che chiamiamo numeratore —> “i due fratelli di Mario hanno indossato una
camicia blu”.

Può essere preceduto o seguito da un aggettivo, che diventa un determinante —> “una camicia nuova” o (come
sappiamo in italiano c’è libertà per la posizione degli aggettivi quindi potrebbe essere anche “una nuova camicia”) —>
detto determinante perché lo circoscrive, non è una camicia qualunque, è una camicia “nuova”, anche “blu” è un
determinante —> ha indossato proprio una camicia blu, che non è quella nera... Ma ha valore determinante (a volte
chiamato anche modificatore) —> “il fratello di Mario” è un sintagma nominale complesso, composto da due sintagmi
nominali incassati —> “di Mario” è anche il determinante di “fratello”, perché determina appunto. [SN[Art. il][N fratello]
[SN[Prep di][N Mario]]].

Quindi per riuscire a definire sintagmi complessi e sintagmi incassati dobbiamo guardare sempre alla testa. Esempio: “il
fratello di Carlo (sintagma nominale complesso, composto da due sintagmi nominali) ha visto poca gente per strada”(un
ampio complesso sintagma verbale, al cui interno abbiamo diversi sintagmi incassati).

Anche in questo caso ci sono dei test per capire se ci troviamo di fronte a un sintagma:

1. Criterio dello spostamento: se una sequenza di parole si può spostare in una diversa posizione all’interno della
frase, senza rompere quest’ultima, essa forma un sintagma per esempio:

Domani arriva da noi la zia di Lucia à La zia di Lucia arriva da noi domani à La zia di Lucia arriva da noi

Non sarebbe possibile, invece, spostare liberamente le singole parole, senza compromettere il senso;

2. Criterio della sostituibilità: se una sequenza di parole può essere sostituita da una proforma (per esempio, un
pronome):

Il nuovo museo à Abbiamo visitato il museo nuovo e lo abbiamo visitato tutto à Lo = Museo

3. Criterio della coordinabilità: sequenza di parole che costituiscono i membri di strutture coordinate sono sintagmi.
Per esempio:

Il libro di storia e di geografia non è adatto alla scuola media inferiore

Le due parti coordinate (di storia e di geografia) costituiscono ognuno un sintagma, la coordinazione di sintagmi è detta
“paratagma”

La testa quindi condiziona le nature del sintagma. Generalmente in italiano la testa si trova a sinistra —> l’ordine dei
costituenti in italiano (lingua sintetica come abbiamo visto) va da sinistra verso destra —> detto anche ordine lineare,
proprio perché normalmente noi mettiamo alla base di una frase prima di tutto il soggetto, poi diamo tutte le altre
informazioni. Questo andamento da sinistra verso destra si vede anche in tantissime altre cose, come le nostre parole
composte. Le parole composte sono formate dalla testa (capo -stazione), dove “stazione” è appunto il determinante, ciò
che appunto si pone a destra e in Italia non è possibile la costruzione inversa della “stazione-capo”.

CHE COS’È UNA FRASE? CHE COS’È UN’ENUNCIATO?

È un costituita da una serie di sintagmi, insieme di parole dove è necessario che ci sia un verbo e non solo perché
esistono anche le frasi nominali

Coraggio ragazzi!

Coraggio può essere sostituito con un congiuntivo: abbiate coraggio.

buona giornata a tutti voi

anche La frase ha anche una sua natura grammaticale. Sono relazioni grammaticali governate dalle reggenze e dagli
accordi (o concordanze) la frase non è necessariamente quell'insieme di parole che ruotano intorno a un verbo.

Differenza tra farse e enunciato:

La frase semplice è costituita da una sola preposizione, la frase complessa da due o più di due. Se la frase la troviamo
all’interno di un periodo, allora parliamo di frase complessa.

L’enunciato deve avere un legame con il contesto. “Anna ha comprato una casa” (può essere enunciato se lo si trova
all’interno di un discorso). L’enunciato si ha solo quando esso acquista un senso in base al contesto esterno.
questa è una frase nominale e quindi può essere considerata l’unità minima del discorso dotata di senso compiuto.

Grammatica Valenziale

Abbiamo parlato di frase semplice, essa contiene più elementi, più sintagmi, la indichiamo come preposizione quando va
a costituire una frase complessa o quella che noi chiamiamo periodo. Nella grammatica valenziale invece esiste un
nucleo: frase nucleare, costituita dal verbo e dai suoi argomenti.

Cosa intendiamo con argomenti e grammatica valenziale? Sono definizioni, soprattutto questo di grammatica valenziale,
mutuate dalla chimica. Le molecole, infatti, come sapete sono formate da atomi, che legandosi tra loro formano una
molecola completa.

Secondo Lucien Tesnière colui che ha realizzato la grammatica valenziale, anche i verbi si comportano come molecole,
cioè ad ogni verbo si possono attaccare una serie di argomenti, che sono necessari per darne il pieno significato. I verbi
quindi possono avere necessità di un solo argomento per poter esprimere pienamente il significato compiuto

Ogni verbo si satura, quando alcuni atomi necessari si mettono insieme. Sulla base di questi argomenti che possiede il
verbo, nella grammatica valenziale si distingue in:

 Verbi zerovalenti quasi tutti i verbi atmosferici, non hanno bisogno di alcun argomento e da solo forma una frase
nucleare piena: piovere, tuonare, fare freddo, gelare, lampeggiare, fare giorno, sembrare, bisognare;
 Verbi monovalente con il verbo dormire, anche se sottinteso si completa con l’indicazione del soggetto, per
costruire una frase di senso compiuto: sbadigliare, starnutire, nascere, morire, scoppiare, miagolare, russare;
 Verbi bivalenti hanno bisogno di due argomenti (es. amare c’è bisogno di indicare un’entità che ama e una che è
amata): amare, lavare, giocare, leggere, dipingere, odiare, sporcare, pulire, spettare, giovare, sbattere, piacere,
dispiacere; (anche i verbi copulativi sono bivalenti)
 Verbi trivalenti: regalare, dare, attribuire, dichiarare, annunciare, inviare, spedire, collocare
 Verbi tetravalenti: tradurre, trasportare, trasferire, spostare, catapultare, scaraventare;

La frase nucleare è costituita dal verbo e i suoi argomenti, gran parte delle frasi nucleari non sono formate verbi e
zerovalenti, ma da verbi, monovalenti, bivalenti ecc.

Il soggetto non è considerato come colui che fa l’azione, questa è una definizione antica che si fonda addirittura sulla
logica aristotelica, ma non è così, perché il soggetto può essere:

 Soggetto agente
IO MANGIO UN GELATO à effettivamente colui che sta compiendo l’azione espressa dal predicato, è una
frase nucleare perché ha il verbo con i suoi tempi.
 Soggetto paziente
MARIO RICEVE à in questo caso non è un sogg agente, ma non è neppure un sogg. Passivo;
 Soggetto esperiente à
MARIO È PORTATO PER LA MATEMATICA à qui non c’è nessuna azione che viene compiuta,
nessun’azione che viene ricevuta, ma è un qualcosa che caratterizza la natura di Mario.

Il soggetto è l’argomento che più strettamente si lega al verbo in una frase, ma non colui che fa l’azione.

La posizione del soggetto in italiano può essere piuttosto libera: “Sono arrivati molti amici” tuttavia nel spostare il
soggetto noi cambiamo in qualche modo il significato, diamo delle informazioni aggiuntive, non ma con un forte valore
pragmatica cioè tutto quello che non è inserito nel contenuto delle parole che stiamo usando, ma si aggiunge grazie
all’intonazione, grazie ad alcune figure retoriche, grazie allo spostamento di alcune parole della frase, per esempio
“Giovanni canta oggi” e “Oggi canta Giovanni” , hanno lo stesso significato? “GIOVANNI CANTA OGGI” a quale domanda
può rispondere? “Quando canta Giovanni?” invece “OGGI CANTA GIOVANNI” “Chi canta oggi?”. Quindi questa libertà che
l’italiano ha di spostare alcune parole, serve a comunicare un significato diverso.
Frase nucleare composta da verbo e i suoi argomenti. L’argomento più stretto del verbo è il soggetto, cercando di fare il
punto sul soggetto. La definizione di soggetto di colui che compie l’azione è ambigua e non sempre veritiera, vedendo poi
le funzioni dei soggetti (soggetto paziente, soggetto agente attivo). L’italiano è una lingua PRODROP ovvero quando il
soggetto è rappresentato da un pronome personale, il pronome può e deve cadere, perché la lingua è flessiva, il verbo ha
un’alta trasparenza e quindi ci fa capire chi sia il soggetto e quindi anche il pronome. Nello scritto un’insistenza dell’uso
del pronome rende faticoso la lettura.

Ci sono dei casi (eccezioni) in cui il pronome va messo obbligatoriamente:

1) Se si deve disambiguare la persona del verbo; (non so “se” tu sia venuto -> l’omissione cambia la referenza del
congiuntivo)

2) Quando vogliamo porre un’enfasi maggiore sul pronome che stiamo usando; (sono io che faccio sempre la spesa)

3) Se il pronome soggetto è focalizzato;

4) Se è accompagnato da un determinante; (io che ti conosco da sempre dovrei abbandonarti?) (loro tre verranno
insieme)

5) In strutture contrapposte; (né tu né lui avete capito)

In questi casi si usa il pronome obbligatorio, altrimenti non si ripete. Naturalmente le frasi non sono composte da
soggetto, verbo e argomenti del verbo. Esistono anche altri componenti:

La giovane Luisa legge libri di fantascienza

Luisa legge libri à Frase nucleare

Giovane à è un attributo che modifica solo il soggetto

Di fantascienza à è un determinante che modifica il verbo

Quindi, l’informazione principale à NUCLEO; quali sono le informazioni che modificano i componenti à CIRCOSTANTI;
quali informazioni cambiano l’insieme à ESPANSIONI;

Accanto e al di fuori del nucleo si collocano elementi aggiuntivi, ma non sono strettamente necessari, stiamo parlando
delle circostanti e delle espansioni

- I circostanti sono rappresentati da tutte quelle parole che si legano al verbo e ai suoi argomenti e li specificano
attraverso accordi morfologici (genere e numero). I circostanti del verbo possono essere avverbi o locuzioni avverbiali
(Cammino velocemente), mentre i circostanti degli argomenti possono essere aggettivi, participi, nomi in funzione di
apposizione, espressioni preposizionali ecc., come il complemento di specificazione. Nelle due frasi Il professore di
lettere è entrato in classe e Luisa cucina un risotto di asparagi, il complemento di specificazione di lettere è n
circostante del primo argomento (il soggetto) di asparagi è un circostante del secondo argomento diretto. I
circostanti occupano una posizione ben definita all’interno della frase, ma più libera rispetto al nucleo: gli elementi
del nucleo occupano solitamente posizioni fisse (il soggetto precede il verbo, l’oggetto indiretto segue l’oggetto ecc.),
mentre i circostanti dispongono in qualche caso di maggiore libertà;

- Le espansioni, sono elementi collocati al di fuori del nucleo, che espandono, allargano, modificano il senso
complessivo della frase, senza però avere un legame sintattico con gli altri elementi della frase. Le espansioni non
occupano una posizione fissa, ma possono essere disposte in un punto qualsiasi della frase. Di notte Luigi dorme
profondamente: l'espressione “di notte” è un’espansione che può trovarsi all'inizio, nel mezzo, alla fine della frase
senza che il significato cambi (Luigi di notte dorme profondamente, Luigi dorme profondamente di notte);

Tipi di frase semplice

La frase in generale può essere osservata (e classificata) secondo diversi parametri:


 Dipendenza à principali e subordinate;

 Polarità à affermativa, interrogativa;

 Diatesi à attiva e passiva;

 Segmentazione à Compro il libro, È il libro che ho comprato, Lo compro il libro;

 Modalità à dichiarativa, volitiva;

Una distinzione della frase semplice va fatta tra frasi con presenza del predicato e quelle con assenza di predicato; in
questa seconda tipologia entrano le frasi ellittiche, che la frase con il verbo sottinteso perché è presente nella
precedente (I treni per Roma partono sul binario 30, quelli per Milano sul binario 20) e le frasi nominali.

Le frasi nominali hanno iniziato ad essere numerose da quando si è affermato la scrittura giornalistica che ha il compito
di dover rientrare in un certo numero di parole.

Il presidente alle camere.

In questa frase diamo il compito “alle camere” di spiegare l’azione del presidente (il presidente parla alle camere).
Oppure con forme nominali del verbo

Pagate le tasse sui rifiuti anche a Roma

Abbiamo un participio passato, forma non finita del verbo, che sottintende l’ausiliare (è stata pagata…).

Il processo della nominalizzazione consiste nel costruire sequenze formate da un verbo di significato generico seguito da
un nome che ha un significato pieno cui si affida la descrizione dell’azione.

È stata data lettura del decreto di legge

Abbiamo affidato al nome “lettura” il contenuto dell’azione, perché dare è rimasto un verbo più generico.

Si è dato inizio al lavoro à È iniziato il lavoro

Fare una verifica à Verificare

Questo processo si adopera perché è una preferenza che viene dall’influenza del linguaggio burocratico e anche perché
per molto tempo, quando l’italiano era una lingua non conosciuta dalle persone poco istruite, il massimo possibile era
dato dalle comunicazioni del sindaco (dove appunto si utilizzavano frasi nominali essendo linguaggio amministrativo).

Si possono avere vari tipi di frasi semplici:

1. Frasi dichiarative o enunciativeà contengonoà 1) un’affermazione positiva: i giovani amano la musica; 2)


negativa totale: i giovani non amano la guerra; 3) negativa parziale: non tutti i giovani amano la musica;

2. Frasi volitiveà 1) Esprimono comando: torna presto; 2) Esortazione: state attenti; 3) Concessione: fai con
comodo; 4) Auspicio: abbiate la fortuna che meritate;

3. Frasi esclamativeàSono segnalate dal punto esclamativo nello scritto e da un tono discendente nel parlato à
Sono verbali: come passa il tempo!; o nominali: Che bello!;

4. Frasi dirette àSono segnalate dal punto interrogativo nello scritto e da un tono ascendente nell’oralità; possono
essere introdotte da un pronome/aggettivo/avverbio interrogativo: chi viene a cena? àinterrogative totali che
riguardano l’intera frase e richiedono una risposta sì/no: Verrai a cena?; interrogative parziali che riguardano un
solo elemento: Che cosa vuoi per cena?; interrogative retoriche che hanno già una risposta e non la richiedono
veramente: non vorrai comprare quel libro così scadente?; interrogative disgiuntive che presentano
un’alternativa: Segui inglese o francese?;
Frase complessa

Le frasi semplici possono collegarsi fra loro e formare una frase multipla, che può distinguersi in composta e complessa.

Nella frase composta il collegamento avviene per giustapposizione (asindeto) o per coordinazione. per asindeto le frasi
composte l'una di seguito all'altra, senza elementi di collegamento: Il vecchio si alzò, impugnare bastone, si dice avanti.
La coordinazione (paratassi) avviene per mezzo di diverse congiunzioni coordinative:

 Le coordinate copulative à (e, anche, né, neppure ecc.);


 Le coordinate disgiuntive à (o, oppure);
 Le coordinate avversative à (ma, però, bensì ecc.);
 Le coordinate conclusive à (dunque, quindi, perciò);
 Le coordinate dimostrative o esplicative à (cioè, ossia, infatti);
 Nessi correlativi à (e…e, tanto…quanto, questo…quello, ora…ora, prima…poi, chi…chi);
Tra le proposizioni coordinate introdotte dalle congiunzioni coordinative (e, ma, tanto quanto, o, né) abbiamo quelle
proposizioni che servono a spiegare meglio o a concludere un qualcosa che stiamo dicendo à”Non hai studiato infatti
sei stato bocciato” (esplicativa). L’esplicativa serve a dare quindi una conseguenza di quello che abbiamo detto (infatti,
simile ad effetti, quando si trova in una frase a sé stante viene preceduta dai due puntini come forma di dichiarazione). Ci
sono poi le conclusive come nel caso di à”Non hai studiato: quindi non uscirai” (conclusiva coordinata).

Una frase multipla complessa è costituita da un insieme di frasi non collegate tra loro alla pari, come nella coordinazione,
ma in modo gerarchico con un rapporto di subordinazione (ipotassi) attraverso vari tipi di congiunzioni subordinative o
con preposizioni. La frase complessa è costituita da (almeno) una frase semplice di senso compiuto, principale, la quale è
l’elemento fondamentale che regge la struttura sintattica e da significato a tutta la frase complessa (o periodo). Da essa
dipendono due più subordinate (o dipendenti), che non hanno da sole un senso compiuto, ma lo acquisiscono o lo
completano in unione con la reggente.

Per quanto riguarda le subordinate, esse fanno parte di una struttura gerarchica dove c’è sempre una sovraordinata che
regge, da cui a mano a mano si creano le subordinate. Bisogna tenere presente che la subordinazione dell’italiano antico
era molto più complessa di quella odierna perché la nostra sintassi si stabilizza soprattutto con la sintassi del Decameron
di Boccaccio. Abbiamo visto che nel ‘500 il modello che viene indicato da Bembo per la prosa è quello utilizzato da
Boccaccio (per quanto riguarda la prosa della cornice). Boccaccio costruisce molto la prosa sull’imitazione del Latino,
quindi una prosa che cerca di essere più libera. Con il passare del tempo negli ultimi 50 anni però, la sintassi si è radicata
avvicinandosi a quella delle lingue moderne e quindi in una fase complessa difficilmente si va oltre le 3-4 subordinate.
Solitamente esse si dispongono dopo la principale (tranne per le temporali e le implicite). Spesso troviamo anche i
cosiddetti periodi mono proposizionali, cioè costruiti con una sola frase.
Implicite e esplicite
La prima distinzione che possiamo fare per quanto riguarda le subordinate è tra proposizioni subordinate:
1. Esplicite àquando il verbo è di modo finito
2. Implicite àquando il verbo è un infinito, un gerundio o un participio (Non vorrei fare tardi; appena uscita, l’ho
vista; lavorando così lentamente non finirò in tempo).

 Subordinate argomentali: le completive


Esistono subordinate che possono avere funzione di soggetto o di complemento diretto (oggetto) :
L’insegnante ha ammesso che Giovanna è brava;
Che tu sia coraggioso è chiaro a tutti.

Dal punto di vista della grammatica valenziale, le completive sono subordinate argomentali: svolgono la stessa funzione
di soggetto e oggetto del verbo e fanno dunque parte del nucleo. La subordinata che Giovanna abbia già mangiato si
comporta come argomento del verbo della frase principale ammettere (che è verbo bivalente); allo stesso modo che tu
sia coraggioso è il soggetto che funge da argomento di è chiaro.
- Le interrogative indirette
Le interrogative indirette contengono un dubbio o esplicitano una domanda contenuta nella reggente:
Mi chiedo che cosa pensi di me;
Sono da considerarsi argomentali, perché si comportano come oggettive e divengono argomento del verbo della
principale. Sono introdotte, tuttavia, da diverse congiunzioni di subordinazione (se, quando, come, perché, che cosa...) e
inoltre riferiscono un dubbio o una domanda mentre le oggettive contengono un’enunciazione.
Abbiamo interrogative indirette esplicite che in un registro informale possono servirsi dell’indicativo (non errato) e in un
registro formale del congiuntivo, preferibile quando la reggente è negativa (non so se sia arrivato). Le interrogative
indirette implicite sono costruite con l’infinito presente (mi chiedo se uscire o restare) e i due soggetti, della reggente e
della subordinata, coincidono.

 Subordinate non argomentali o extranucleari:

TIPO DI SUBORDINATA FORMA ESEMPI


CAUSALE esprimono la -Esplicite: introdotte da perché, Giacché tutti gli invitati erano giunti in tempo, la
causa di una determinata siccome, dato che, poiché + cerimonia poté iniziare subito.
azione espressa nella l’indicativo;
reggente -Implicite: per/a/con/per il fatto non torna per non soffrire;
di+ infinito; avendo perduto al gioco non sa come arrivare a fine
gerundio; mese;

FINALI spiegano il fine di -Esplicita: congiuntivo presente o Ti dico questo perché/affinché tu sia più attento;
una data azione descritta imperfetto+ perché/ affinché/ Ho telefonato per avvisare della riunione;
nella frase reggente acciocché;
-Implicite: l’infinito + da per/ a/ da

CONSECUTIVE indicano la -Esplicite: che/sicché/così/a tal Era così strana che tutti si giravano a guardarla;
conseguenza dell’azione punto che+ indicativo; Parlò tanto da allontanare tutti gli ospiti;
della reggente -Implicita; l’infinito + da, per, di;

*IPOTETICHE indicano la Di solito la protasi, introdotta da Se tu fossi in casa, verrei


condizione per cui accade o congiunzioni come se, qualora, nel O anche
potrebbe accadere quanto caso che, ecc., precede l’apodosi Verrei se tu fossi in casa
espresso nella principale. La ma può avvenire anche il contrario **continua giù
reggente (apodosi) e la **continua giù
subordinata ipotetica
(protasi) formano insieme il
periodo ipotetico

CONCESSIVE introducono -Esplicite: benché, sebbene, Benché sia anziano, non ha dolori di nessun tipo
un elemento di rottura tra nonostante, quantunque, Pur avendo ottenuto ciò che desiderava, non si sentiva
una causa e l’effetto quand’anche+ congiuntivo soddisfatto;
supposto, una condizione -Implicite: pur+ gerundio Per essere così giovane. Se la cava bene
cioè la cui conseguenza Per+ infinito
sarebbe in contrasto con il
contenuto espresso dalla
principale

-Esplicite: mentre/prima/dopo/ Prima che piova chiudi le finestre


TEMPORALI Indicano la nel frattempo/ quando/ non
appena/ intanto che + indicativo 1 Chiacchierando, si scioglieva lentamente la cravatta;
relazione di tempo
sussistente tra subordinata -Implicite può indicare i diversi 2 Prima di ricorrere a un medico, ho voluto consigliarmi
e reggente in un rapporto di rapporti temporali con te;
anteriorità, 1 contemporaneità; 3 Dopo esserci resi conto della situazione, decidemmo
contemporaneità, 2 anteriorità; insieme il da fars;i
posteriorità. 3 posteriorità;

*A seconda del modo verbale richiesto si distinguono in due tipi di periodo ipotetico:
1. Realtà (o certezza) con verbi al modo indicativo à Se non ti sposti, non riesco a passare;
2. Possibilità – Irrealtà si usano il congiuntivo nella protasi e il condizionale nell’apodosi à se ti riuscisse di venire,
sarei contento (possibilità); se fossi ricco, comprerei una Ferrari (irrealtà),
Nel parlato molto informale si sta diffondendo un periodo ipotetico con il doppio imperfetto indicativo: Se lo sapevo, non
ci venivo. La protasi può avere una costruzione implicita: a saperlo sarei venuto; lavorando guadagneresti di più; una
volta convinto, accetterebbe.

Frasi relative
Le frasi relative possono sviluppare un concetto presente in un circostante, cioè in un elemento che si riferisce a un
costituente del nucleo, della frase principale o della reggente- detto antecedente o testa- e sono introdotte da un
pronome relativo o anche da un avverbio relativo (dove, ove).
Nella frase Ho trovato un vestito che cercavo da tanto tempo, vestito funge da antecedente o testa su cui la relativa
aggiunge informazioni.
Nella frase Ho incontrato Maria, che ti stava cercando, il che ha funzione di soggetto della frase relativa, ma il pronome
relativo può avere altre funzioni sintattiche: le stanze in cui studio sono gelide; la casa che vedi non è mia.
Le relative si distinguono in:

1. relative restrittive (o determinative) sono fondamentali per definire il significato dell’antecedente (senza
di esse la frase rimarrebbe sospesa)à Prendi le medicine che ti ha dato il dottore = solo quelle medicine che…
(Non vuole mai la virgola);

2. relative appositive (o esplicative) costituiscono un’aggiunta di cui la frase reggente potrebbe fare a

meno à Sono appena arrivati Mario e Giovanni, che erano stati bloccati nel traffico

La sintassi marcata
La marca è qualcosa che definisce, caratterizza, fornisce una qualche identità all’oggetto o alla cosa in considerazione,
allo stesso in modo in cui “marca verbale e di accordo verbale”:

“Maria ha comprato una casa e l’ha arredata” qui ci basta la marca che identifica l’oggetto.

La sintassi marcata ha soprattutto valore pragmatico, e serve a comunicare qualche sfumatura di significato che va oltre il
significato letterale, marca di particolare enfasi e accentuazione con valore pragmatico, e influisce sulla struttura delle
informazioni, è qualcosa che sta al confine tra sintassi e testo, nel senso che quando parliamo dobbiamo
necessariamente strutture in modo chiaro le informazioni e la struttura delle informazioni di base della nostra lingua è
quella che si associa alla sequenza SOGGETTO+ VERBO+ OGGETTO ( sintattica di base ). L’italiano è una lingua che ha
come costruzione, questo ordine lineare SVO, esistono lingue che hanno un ordine totalmente diverso SOV VOS ecc…
questo ordine delle parole, si sposa con questo andamento progressivo della nostra lingua che va da sinistra verso destra,
poiché la struttura di base delle informazioni in italiano è noto - nuovo o anche, tema- rema o anche topic- comment.

Di solito, come base comunicativa, mettiamo a sinistra il tema di cui stiamo parlando, e subito dopo l’informazione
nuova quindi su ciò che è noto a noi emittenti, aggiungiamo il rema, un’informazione nuova. Nella struttura SVO italiana,
tutte queste cose coincidono, perché di solito il soggetto è ciò che è noto ed e il tema, mentre il verbo e l’oggetto sono il
rema, quindi le altre ulteriori informazioni. Ora, però, l’italiano ha anche mantenuto una certa libertà esplicativa, specie
nel parlato, come nel latino in cui le sequenze potevano essere trasformate grazie alla presenza dei casi e della flessione
dei nomi che indicava anche la funzione sintattica e quindi: “PAULUS AMAT MARIUM, MARIUM AMAT PAULUS”. Le due
frasi sono esattamente la stessa cosa, ma se io in italiano dico “Paolo ama Mario, Mario ama Paolo”, il significato cambia.
Nonostante ciò pur mantenendo una maggiore rigidità rispetto al latino, esso ha conservato qualcosa, spostando l’ordine
lineare dei componenti soggetto verbo e oggetto, possiamo aggiungere sfumature di significato. Il caso più frequente è la
dislocazione a sinistra à “Mario compra il giornale” “Il giornale lo compra Mario”

Tutti e due portano lo stesso significato letterale, però abbiamo cambiato l’ordine dei costituenti, rispondono infatti a due
domande diverse. Nella dislocazione a sinistra quindi l’oggetto lo metto a sinistra, utilizzo un pronome clitico con valore
anaforico (lo, la ecc. e le particelle pronominali ci, ne). La dislocazione a sinistra non si costruisce solo col complemento
oggetto ma anche con complemento di luogo à” Quando vai a Roma?” “A Roma ci vado domani”, anche in questo caso
anteponiamo il complemento, tematizzandolo, e lo riprendo con un pronome e ovviamente trattandosi di un luogo si
precede con una particella locativa “ci”, così come “A Luigi non gli dire niente” nella normalità sarebbe “Non dire niente a
Luigi”, le domande sarebbero due e diverse, ma si può tematizzare il complemento. Anche un’intera proposizione può
essere dislocata, una che avviene ormai di frequente è “Di questo non ne parliamo oggi”, in questo il “ne” ha la funzione
di specificare il soggetto dislocato. “Che tu sia bravo lo dicono tutti” la costruzione lineare sarebbe “Tutti dicono che tu sei
bravo” ma intorno a questo argomento della bravura già ci stiamo parlando e quindi sposto l’oggettiva a sinistra e lo
riprendo con un clitico con valore anaforico (lo - dicono – tutti). Anche la costruzione “A me mi piace”, complemento
anticipato a sinistra e poi ripreso con un clitico. La dislocazione a sinistra ha una frequenza molto alta e antica, che
riguardava già tutti i volgari dell’Italia tant’è che anche nel Placito Capuano “sao ko kelli terre por quei fini ke ki kontene,
trent’anni le possette parte sancti bendicti” “so che quelle terre trent’anni le ha possedute la parte di san benedetto”. La
dislocazione comunque è molto usata quando nello scritto si vuole imitare il parlato, in molti tipi di scrittura tra i quali
quella giornalistica, ma non in quella scientifica in quanto non potrei dire “la relatività l’ha scoperta Einstein” ma dovrò
dire “Einstein ha scoperto la relatività” al passivo.

Focalizzanti
Che mentre le tematizzanti mettono in evidenza il tema le costruzioni focalizzanti danno un focus più al rema, ossia
l’informazione nuova.

Tra le strutture focalizzanti abbiamo una forma molto usata nel parlato ma non nello scritto, ossia la dislocazione a
destra. In realtà qui avviene non una dislocazione vera e propria ma lasciamo a destra il rema, l’elemento nuovo della
frase e lo facciamo precede da un pronome (lo prendi un caffè? - falli questi compiti). Non si tratta di un vero e proprio
spostamento di un elemento, ma di un’enfasi diversa che prevede una pausa prima dell’elemento tematizzato.
L’elemento dislogato può essere:

 Un oggetto indiretto (Lo compro, il libro);


 Un oggetto indiretto (Le parlo più tardi, a Maria);
 Un altro complemento (Ci vado domani, a Roma);
 Un’intera proposizione (Lo sanno tutti che sei bravissimo);

Lo compra Mario il giornale – il giornale lo compra Mario

La dislocazione a sinistra o a destra è possibile sempre quando c’è un pronome clitico nella frase. Non è detto che ogni
volta che troviamo un clitico possiamo dislocare (l’ho visto ieri; era proprio tuo fratello).
Dislocazione a sinistra – clitico di valore anaforico
Dislocazione a destra – clitico di valore cataforico

Abbiamo un altro modo per visualizzare il rema; parliamo della posposizione del soggetto:
Mario canta oggi à Oggi canta Mario
Anche con la posposizione del soggetto possiamo mettere il rema della frase in evidenza.
Questo però non è un fenomeno marcato ma fa parte di una mobilità dell’italiano

Questa serie di fenomeni della sintassi marcata ha anche tra i focalizzanti la TOPICALIZZAZIONE o ANTEPOSIZIONE
CONTRASTIVA e poi la FRASE SCISSA.

La topicalizzazione è strettamente legata all’intonazione. Essa colloca il rema nella posizione occupata normalmente dal
tema; In una frase del tipo: Il libro compro è accettabile solo in determinati contesti, per indicare per esempio Il libro
compro e non il quaderno. La topicalizzazione viene fatta quasi sempre con il complemento oggetto ma qualche volta
anche con quello di termine (A GIOVANNI devi parlare).

La frase scissa
È usata in molte lingue ed è una scissione di due parti di un unico contenuto. È frequente nel parlato ma usata anche
nella scrittura.

1. Giovanni mangia la mela


2. È Giovanni che mangia la mela

Come posso dare questa informazione scindendola? È Giovanni -> seguita da una pseudo relativa -> che mangia la mela

1. Giovanni è il tema, il resto rema;


2. Nella seconda frase Giovanni è il rema, il resto è il tema.

Perché è una pseudo relativa? Serve proprio per far completare la frase.

La scissione può guardare a diversi elementi:


È lui che deve parlare;
È qui che voglio restare;
È riordinare la casa che mi annoia;

Questa costruzione è molto usata nello scritto, in particolar modo nella scrittura giornalistica (è stato il presidente a
decidere il nuovo provvedimento). Ci sono poi nel parlato altri tipi di frasi scisse, con tipologie diverse, del tipo:

Non è che non mi convinci è che non ti sopporto.


È diversa dalla frase scissa tradizionale in cui mettiamo al primo posto l’informazione nuova.

Ancora più frequente è il CI presentativo, diverso dal CI attualizzante. Questo “ci” spezza, scinde l’informazione (C’è una
cosa che ti devo raccontare subito - Quello che dobbiamo dire, lo diciamo subito, quindi con urgenza).

La punteggiatura
La punteggiatura dopo anni di oscillazioni nei testi a stampa si è fermata ad una funzione logico-sintattica.

Arrivo domani alle 19 vieni a prendermi se piove.

Come la interpretiamo questa frase senza punteggiatura?

Arrivo domani alle 19; vieni a prendermi se piove;


MA ANCHE:
Arrivo domani; alle 19 vieni a prendermi se piove.
Ciò ci dice che la punteggiatura nella scrittura ha un ruolo fondamentale, ovviamente non nel parlato dove non abbiamo
punteggiatura. Quando ci fu l’invenzione della stampa, vennero fuori i segni della punteggiatura, quelli da noi ancora più
usati. Se vediamo le stampe antiche, l’uso della punteggiatura aveva un modo di utilizzo diverso, fino agli inizi dell’800
dove poi si stabilizzò. Dal punto di vista logico (tra due virgole si chiude un inciso):

- Verranno domani, quando avranno finito i compiti, per giocare con te.
- Mario ha preso le medicine, che hanno effetti collaterali.

Utilizzando la virgola cambia il significato della frase.

- Arriva domani solo per te: infatti sappiamo che non vedrà gli amici. à NO

Non si mettono i due punti per separare il verbo dal complemento.

Negli ultimi 30-40 anni la punteggiatura in altri tipi di scrittura ha assunto una diversa funzione. Per esempio, l’uso
giornalistico del punto fermo è particolarmente diverso dal punto fermo classico che si usa nella scrittura accademica:

- È stato un delitto efferato. Una vera tragedia. à NO

La seconda frase non è indipendente; quindi, la virgola sarebbe stata una miglior scelta. Usando il punto, ci vogliono far
entrare nel vivo della scena. Nella scrittura giornalistica si spezzano anche due frasi indipendenti (gli operai non sentono
più ragioni. Perché hanno subito di tutto). Talvolta (ma non è dovuto all’enfasi) succede anche che non si chiuda l’inciso,
anche per distrazione (Gli studenti, che frequentano il tuo corso, sono ormai stanchi anche loro). Se mettiamo la prima
virgola, dobbiamo poi chiudere la subordinata relativa. Questo è un errore che commettiamo spesso (seconda virgola
messa dopo). Questa novità chiamata rivoluzione intercultoria, iniziata con la scrittura giornalistica, ora si vede
spessissimo nelle chat WhatsApp.

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