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L’Africa nell’orizzonte italiano

degli anni Ottanta e Novanta


di Paolo Borruso

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Il dilemma del Corno d’Africa

Negli ultimi due decenni del Novecento l’Africa esaurisce la fase di una “lunga”
decolonizzazione, quella propriamente delle lotte per l’indipendenza dal colonia-
lismo europeo. Rimangono, tuttavia, alcuni nodi problematici, relativi ad aree che
vanno assumendo nuovi assetti politici e territoriali. Nel Corno d’Africa, prosegue
la lotta per l’indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia fino alla vittoria del Fronte di
liberazione del popolo eritreo nel 1991 e alla proclamazione della Repubblica Eritrea
nel 1993, mentre la Somalia socialista di Siad Barre, uscita sconfitta dalla guerra
dell’Ogaden con l’Etiopia del 1977-78, si avvia rapidamente al collasso dello Stato,
culminato nel 1991 con la fuga dello stesso Barre e il fallimento dell’intervento mili-
tare congiunto Restore Hope nel 1992-94. In Sudafrica, s’incrina il regime di apar-
theid fino alla sua abolizione nel 1990, sotto la presidenza di Nelson Mandela, dopo
la sua liberazione, e alle prime elezioni democratiche del 1994. Vi è anche l’Africa di
Giovanni Paolo ii, che con i suoi numerosi viaggi, le ripetute udienze a leader e capi
di Stato africani, nonché il primo Sinodo dei vescovi africani nel 1994, trasmette una
visione di lungo periodo, capace di cogliere una prospettiva nuova per l’intero con-
tinente, mentre rafforza l’impegno per un ruolo rinnovato della Chiesa nel conti-
nente. Vi è infine un’Africa che comincia a divenire una componente visibile nella
società italiana attraverso crescenti flussi immigratori. Sono scenari con cui l’Italia
degli anni Ottanta e Novanta, presa da problemi di governabilità interna, è costretta
a misurarsi, nel quadro dei rapidi mutamenti globali innescati dal crollo del Muro
di Berlino nel 1989.
Il Corno d’Africa è certamente l’area di maggiore interesse, non solo per i suoi
ex legami coloniali, ma anche per l’impegno cooperativo avviato nel periodo dell’am-
ministrazione fiduciaria in Somalia negli anni Cinquanta e accresciuto nel corso degli
anni Sessanta e Settanta. Mentre proseguono ambivalenti rapporti del pci sia con
l’Etiopia di Menghistu che con il Fronte di liberazione del popolo eritreo – con una
posizione che il leader eritreo Isaias Afewerki non esita a definire contraddittoria –,

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la Farnesina, sotto la guida di Emilio Colombo, persegue la linea dell’“equidi-


stanza”, già sperimentata in occasione della guerra dell’Ogaden del 1977-78, nei
confronti dell’Etiopia e della Somalia, nonché del Fronte eritreo1. Diversamente,
il segretario del psi, Bettino Craxi, si lancia in un rapporto preferenziale con la
Somalia di Siad Barre, nonostante la discussa fama del regime. Gli studi più recenti
non spiegano i motivi che lo spingono a una posizione non coincidente con le
scelte del governo, né citano l’esperienza somala tra i nodi della sua politica2. Sol-
lecitato dal presidente Barre, nel febbraio 1981 Craxi interviene al congresso fon-
dativo dell’Internazionale africana socialista, denunciando i ritardi dell’Italia
nell’utilizzo delle risorse per la cooperazione, e presenta la nuova linea dei socialisti
italiani per un impegno più determinato3. L’incarico di affrontare la questione
somala viene affidato al giornalista Paolo Pillitteri, membro del Comitato centrale
socialista e presidente della Camera di commercio italo-somala, il quale proprio
all’inizio del 1981 pubblica una raccolta di suoi scritti sulla realtà socioeconomica
e politica del paese africano, ribadendo la volontà di rispondere all’appello di Barre
con una solidarietà concreta4.
A partire dall’iniziativa di Craxi, gli interventi socialisti a favore della Somalia si
moltiplicano5. Dopo un viaggio di Margherita Boniver, responsabile della sezione
Esteri del psi, nel settembre 1982 giunge a Mogadiscio il sottosegretario Roberto
Palleschi, che oltre a valutare la possibilità dell’adesione del Partito socialista rivolu-
zionario somalo all’Internazionale socialista, garantisce alla Somalia il sostegno
«politico e difensivo»6. In ottobre, per la prima volta il ministro della Difesa, il
socialista Lelio Lagorio, partecipa personalmente all’anniversario della rivoluzione
nella capitale somala e promette apertamente al ministro della Difesa somalo, gene-
rale Mohamed Ali Samatar, di fornire un sostegno economico e militare. Il 6 gennaio
1983 è lo stesso Craxi a giungere a Mogadiscio, dove afferma il diritto dei popoli
all’autodeterminazione come unico valore in grado di risolvere il conflitto con l’E-
tiopia per l’Ogaden. È una posizione che va a intaccare il principio dell’inviolabilità
delle frontiere, accettato unanimemente sul piano internazionale durante il processo
di decolonizzazione, anche dall’Organizzazione per l’unità africana (oua)7.

1. R. Trionfera, Intervista a Emilio Colombo, in “il Giornale”, 6 agosto 1981.


2. Cfr. E. Di Nolfo (a cura di), La politica estera italiana negli anni Ottanta, Lacaita, Manduria
(ta)-Roma-Bari 2003 e S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell’ago. Craxi, il partito socialista e la crisi
della Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2005.
3. M. Ali Noor a Craxi, 10 dicembre 1980, in Fondazione Bettino Craxi (d’ora in avanti fbc),
Archivio Bettino Craxi (d’ora in avanti abc), Bettino Craxi 1959-2000, sezione i. Attività di partito,
serie 9. Relazioni internazionali, sottoserie 2. Corrispondenza e materiale informativo, ua 51.
4. P. Pillitteri (a cura di), Somalia ’81. Intervista con Siad Barre, SugarCo, Milano 1981, p. 36.
5. A. Savioli, Svolta occidentale verso l’Etiopia?, in “l’Unità”, 23 aprile 1981.
6. “Il Giorno”, 30 settembre 1982.
7. A. Pallotti, M. Zamponi, L’Africa sub-sahariana nella politica internazionale, Le Monnier,
Firenze 2010, pp.  35-54.

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Nell’estate 1983, la crisi di governo in Italia porta Bettino Craxi alla presidenza
del Consiglio. Tra i punti del programma è la soluzione dei conflitti africani, cui
offre la disponibilità italiana, anche per contrastare «imperialismi e sub-imperia-
lismi», che rischiano di ampliarne la portata, con evidente riferimento agli attori
esterni, in particolare all’Unione Sovietica8. La posizione di Craxi sull’autodetermi-
nazione non è condivisa dal ministro degli Esteri, Giulio Andreotti, fautore dell’e-
quidistanza nei confronti dei paesi del Corno d’Africa, e da Giovanni Spadolini,
ministro della Difesa, contrario a un intervento di tipo militare e favorevole a un
ruolo mediatore dell’Italia. Le divergenze sorte in seguito alle dichiarazioni di Craxi
non agevolano le relazioni con la Somalia, entrata in una fase di involuzione e sempre
meno presente nell’agenda delle forze politiche italiane.
Nel settembre 1985, un secondo viaggio di Craxi come presidente del Consiglio
a Mogadiscio, in un clima di accoglienza euforica, esprime la saldatura definitiva del
rapporto con Barre, nonché l’impegno italiano a sostenere apertamente il regime
somalo con uno stanziamento di fondi di 550 miliardi di lire. In Africa, Barre non
è il solo a guardare a Craxi come un riferimento di rilievo. È il caso del presidente
della Tanzania, Julius Nyerere, che lo incontra nel giugno 1988, o del presidente
dell’Uganda, Yoweri Museveni, sollecito a esprimere la propria soddisfazione per la
nomina del leader socialista a consigliere speciale dell’onu per i problemi dello
sviluppo, della pace e della sicurezza e del debito del Terzo mondo9.
Alla fine del 1989, tuttavia, di fronte alla crisi interna della Somalia, dovuta alla
crescente corruzione e a gravi tensioni sociali e politiche, il nuovo ministro degli
Esteri, il socialista Gianni De Michelis, opta per una linea diversa, subordinando gli
aiuti all’avvio di un processo di democratizzazione e di riconciliazione nazionale. È
una posizione ribadita, successivamente, dal nuovo ambasciatore italiano a Mogadi-
scio, Mario Sica, e dal sottosegretario agli Esteri, Susanna Agnelli. I rapporti italo-
somali entrano, così, in una fase di tensioni, dovute anche al rapido cambiamento
dello scenario internazionale, seguito al crollo del Muro di Berlino e all’emergere dei
paesi dell’Est quali nuovi interlocutori della cooperazione occidentale e italiana.
L’arresto dei firmatari di una lettera aperta a Barre – nota come “Il Manifesto”, in
cui si denunciava l’operato del regime e si richiedeva una conferenza di riconcilia-
zione nazionale –, nonché l’uccisione del vescovo di Mogadiscio, Salvatore Colombo,
il 9  luglio, inviso per il suo impegno umanitario e perché favorevole alla riconcilia-
zione, accrescono le tensioni italo-somale. La linea De Michelis è quella di non

8. “Relazioni Internazionali”, 20 agosto 1983, pp.  1126-7. Cfr. anche A. Del Boca, Gli italiani in
Africa orientale, 4. Nostalgia delle colonie, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 513, e Id., Una sconfitta dell’in-
telligenza. Italia e Somalia, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 19-36.
9. E. M. Maryogo, incaricato dell’ambasciata della Tanzania, a Craxi, 23 maggio 1988, e Museveni
a Craxi, 12 marzo 1992, in fbc, abc, Bettino Craxi 1959-2000, sezione i. Attività di partito, serie 9.
Relazioni internazionali, sottoserie 2. Corrispondenza e materiale informativo, rispettivamente ua 54 e
ua 56. Cfr. anche “la Repubblica”, 12 marzo 1992.

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sospendere gli aiuti italiani, come si vorrebbe alla Commissione Esteri della Camera,
ma di utilizzarli come mezzo di pressione per il varo della nuova Costituzione, il 12
ottobre. La guerra civile, malgrado i tentativi dell’ambasciatore Sica di arginarla con
alcune proposte di mediazione, entra in una spirale di crescente violenza, segnata
anche dalla secessione della Repubblica del Somaliland da parte del Movimento
nazionale somalo nel maggio 1991, fino alla fuga di Barre in Kenya e all’assunzione
della questione in ambito internazionale, con l’embargo sulla fornitura di armi e
l’apertura dell’impegno onu in Somalia (United Nations Operation in Somalia,
unosom i) nell’aprile 1992.
Prende così avvio un piano di interventi militari, approvati dalle Nazioni Unite,
ma sotto il controllo usa, finalizzati a garantire gli aiuti umanitari per sopperire alla
carestia, e ad arginare l’anarchia della guerra civile. All’unosom i segue l’operazione
Restore Hope, che inizia nel dicembre 1992 e termina nel marzo 1993, e prosegue
con la unosom ii fino al marzo 1995. L’Italia vi partecipa con la missione Ibis, fino
al marzo 199310. La vicenda somala, conclusasi con il fallimento della missione con-
giunta e l’abbandono del territorio, a seguito di sanguinosi episodi nei confronti dei
militari, tra cui quelli italiani, e di esponenti del giornalismo, come Ilaria Alpi e
Miran Hrovatin – i cui moventi sono tutt’oggi non chiariti –, si fissa nella coscienza
collettiva degli italiani con una triste ammissione di impotenza, innescando forti
tendenze al disimpegno11.

2
L’Africa australe e il movimento antiapartheid

L’Africa australe rappresenta l’altra vasta area di interessi per l’Italia degli anni
Ottanta e Novanta. È in particolare la questione sudafricana, con il suo persistente
regime di apartheid, a suscitare un interesse critico crescente sia nel mondo politico
che a livello di opinione pubblica.
L’azione del governo italiano si colloca in un contesto caratterizzato dalla mobi-
litazione di larghi settori dell’opinione pubblica e dell’associazionismo laico e catto-
lico attorno alla questione sudafricana. Un originale studio di Cristiana Fiamingo,
sulla base della documentazione resa disponibile in rete dall’African National Con-
gress (anc), ha messo in rilievo la visuale critica con cui il movimento antiapartheid
in Sudafrica guarda l’Italia lungo gli anni Settanta, soprattutto per il ruolo avuto a

10. M. Guglielmo, Somalia. Le ragioni storiche del conflitto, Altravista, Torrazza Coste (pv) 2008,
pp. 94-109; sul mutamento degli assetti, cfr. Id., Il Corno d’Africa. Eritrea, Etiopia, Somalia, il Mulino,
Bologna 2013, pp. 65-120.
11. V. Odinzov, onu, addio Somalia, in “la Repubblica”, 1o marzo 1995, e In Somalia si torna a
morire per fame, in “Corriere della Sera”, 4 giugno 1995.

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proposito della fornitura di armi al regime12. Negli anni Ottanta e Novanta, l’anc
comincia a percepire una tendenza nuova della politica italiana, in favore del movi-
mento internazionale antiapartheid, e un interesse inedito per la transizione del
Sudafrica alla democrazia. Infatti, in un quadro di mobilitazione, sollecitata dalle
stesse Nazioni Unite, anche in Italia vanno crescendo movimenti antiapartheid: si
tratta di attivisti di matrice religiosa – stimolati dall’impegno di singole personalità –
e di matrice politico-sindacale.
Nel gennaio 1985 le maggiori forze democratiche sociali, politiche e sindacali
danno vita al Coordinamento nazionale contro l’apartheid in Sudafrica, che, oltre a
esercitare pressioni sul regime di Pretoria, diviene il riferimento delle iniziative antia-
partheid in Italia e sostiene l’attività dei rappresentanti dell’anc in esilio, in collega-
mento con altri movimenti europei tramite il Liaison Group of Anti-Apartheid
Movements within the European Community. Si avviano campagne nazionali per il
boicottaggio dei prodotti sudafricani, specie il carbone e l’oro, per il disinvestimento
delle banche, per la liberazione di Nelson Mandela, per l’applicazione delle sanzioni
al Sudafrica da parte della comunità internazionale. Tra gli oltre 200 enti locali
impegnati con iniziative di solidarietà e di sostegno politico all’opposizione sudafri-
cana, sotto la guida del Coordinamento nazionale, il Comune di Reggio Emilia – già
noto lungo gli anni Settanta per il suo interesse “africano” – stringe un patto di
amicizia con l’anc.
Proprio a Reggio Emilia, dal 1978 – proclamato Anno internazionale della lotta
contro l’apartheid dalle Nazioni Unite –, la rivista ufficiale dell’anc “Sechaba” inizia
la sua pubblicazione in versione italiana, con l’obiettivo di dare impulso alla mobi-
litazione internazionale contro il regime razzista di Pretoria, coinvolgendo i movi-
menti di liberazione, le organizzazioni sindacali e i partiti di opposizione. Con la
supervisione di Anthony Mongalo (con lo pseudonimo di John M’Galo) e, poi, di
Thami Sindelo – rappresentanti in esilio dell’anc –, l’edizione italiana di “Sechaba”
è affidata alla direzione dell’assessore ai Rapporti internazionali del Comune di
Reggio Emilia, Giuseppe Soncini. La rivista, diffusa in Italia tra le organizzazioni
sindacali e di partito, le associazioni laiche e religiose, diviene uno strumento origi-
nale per l’informazione e la sensibilizzazione dell’opinione pubblica italiana sui
crimini dell’apartheid e sulla violazione dei diritti umani. Vi trovano spazio appelli
e documenti dell’anc e delle organizzazioni internazionali, ma anche articoli della
stampa estera, schede di approfondimento sui protagonisti della lotta, discorsi e
interviste ai leader in esilio, poesie. Svolge anche una funzione di rilievo come mezzo

12. C. Fiamingo, Movimenti anti-Apartheid in Italia dalla genesi alla proclamazione del 1978 anno
internazionale della lotta contro l’Apartheid. Documenti (e memoria) a rischio, in “Trimestre, Storia-
Politica-Società”, xxxvii, 2004, 13-14, pp. 369-90. Sulla questione della fornitura delle armi, cfr. anche
M. C. Ercolessi, Italia e Africa sub-sahariana negli anni Ottanta: flussi d’aiuto e politica estera, in “Note
e Ricerche”, 1989, 25, pp. 36-47.

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di comunicazione e di coordinamento delle diverse iniziative, inizialmente isolate,


che si sviluppano sul territorio italiano e come collegamento tra queste e le forze di
liberazione africane. È il caso, ad esempio, della raccolta degli aiuti per la “nave della
solidarietà” – Amanda –, che il 9 maggio 1980, in coincidenza con il ventennale del
massacro di Sharpeville del 1960, salpa dal porto di Genova diretta in Africa australe.
Si tratta di un’iniziativa nata dal Comitato nazionale di solidarietà con i popoli
dell’Africa australe, di cui fanno parte forze politiche e sindacali di diverso orienta-
mento e che mira ad allargare il consenso attorno alla causa sudafricana13. I numeri
del 1980 inoltre salutano la proclamazione dello Zimbabwe indipendente e rivolgono
l’attenzione alla lotta per l’indipendenza della Namibia, portata avanti dalla South
West Africa People’s Organization (swapo). Nel 1982, due monografie vengono
dedicate alla Namibia e alla swapo14. Dello stesso anno è la raccolta di poesie Afrika
Mayibuye (L’Africa ritorni al suo popolo), in occasione del ventennale dell’incarcera-
zione di Nelson Mandela.
Vasti consensi raccoglie, successivamente, la “seconda nave della solidarietà” – Rea
Silvia –, partita il 16 marzo 1984 dal porto di Livorno15. L’evento viene collocato in
una strategia più ampia di mobilitazione a sostegno della swapo e dell’abbattimento
dell’apartheid, mentre il “patto di solidarietà” tra Reggio Emilia e l’Africa australe
viene esteso ai capoluoghi del Lazio, compresa Roma, da dove viene lanciata una
“Petizione nazionale dei detenuti dalle carceri del regime di apartheid in Sudafrica”16.
Negli anni Ottanta cresce infatti la mobilitazione per la liberazione dei prigionieri
politici in Sudafrica, tra cui il leader massimo Nelson Mandela, mentre si saluta la
liberazione di alcuni esponenti dell’anc, come il namibiano Herman Toivo ja Toivo
e Dorothy Nyembe, leader della Lega femminile dell’anc, condannata nel 1969 a
quindici anni di carcere per aver ospitato combattenti dell’organizzazione17. In occa-
sione della visita di Peter Botha in Italia, un folto gruppo di intellettuali italiani
manifesta forte dissenso e lancia un appello per riaffermare la condanna e l’isola-
mento del regime da parte dell’Italia18.
Dai numeri di “Sechaba” emerge la convinzione che tra l’Italia e il Sudafrica vi sia
un terreno comune, quello di una lotta “globale” contro l’azione delle forze antidemo-
cratiche, come si evince dalle espressioni di Oliver Tambo, leader dell’anc, nella pre-
sentazione all’edizione italiana19. Nel 1982, anno della campagna internazionale per la

13. La nave è una realtà, in “Sechaba”, 1980, 9-10, pp. 77-8.


14. G. Soncini (a cura di), Namibia, supplemento a “Sechaba”, 1982, 19-20.
15. Nota informativa sul viaggio e gli aiuti della Seconda Nave, ivi, 1984, 37-38, pp. 73-9.
16. Organizzare la raccolta delle firme sulla “petizione”, ivi, 1984, 34, pp. 20-4.
17. Dorothy Nyembe ritorna alla guida delle donne contro il razzismo, ivi, 1984, 35-36, pp.  16-8, e
Herman Toivo ja Toivo libero tra i namibiani, ivi, 1984, pp. 60-4.
18. Appello degli intellettuali, ivi, 1984, 35-36, pp. 40-2.
19. O. Tambo, Un appello alle forze democratiche italiane, ivi, 1978, 1, pp. 1-2.

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liberazione di Nelson Mandela, il Comune di Reggio Emilia pubblica la prima raccolta


dei suoi scritti in italiano La lotta è la mia vita: il ritratto che l’artista reggiano Nani
Tedeschi dedica nel frontespizio del supplemento alla rivista “Sechaba” al leader suda-
fricano diviene l’emblema ufficiale della lotta all’apartheid, riprodotto in manifesti e
cartoline e utilizzato in tutte le campagne del movimento antiapartheid in Italia20.
Nel 1985, in occasione della Seconda conferenza internazionale dell’anc in
Zambia, Reggio Emilia è l’unica città europea a essere menzionata e dichiarata «forza
costituita contro il regime dell’apartheid». Lo stesso Oliver Tambo intrattiene, in
quegli anni, una fitta corrispondenza con il sindaco del capoluogo emiliano Ugo
Benassi e con l’assessore Giuseppe Soncini. Nel 1987 il Comune conferisce la citta-
dinanza onoraria ad Albertina Sisulu – rappresentante dell’anc e moglie di Walter
Sisulu, compagno di ergastolo di Nelson Mandela – e al vescovo anglicano Desmond
Tutu, premio Nobel per la pace nel 1984. Una delegazione comunale – unica città
italiana a ricevere l’invito – presenzia alla cerimonia di insediamento di Nelson
Mandela alla presidenza del nuovo Sudafrica il 10 maggio 1994, dopo le prime ele-
zioni democratiche del 27 aprile.
Il legame con l’Africa australe appare un elemento caratterizzante della città, che
non esita a dedicare due strade alla lotta contro l’apartheid – via Albert Luthuli e
via Martiri di Soweto –, divenendo riferimento e crocevia per diversi leader e perso-
nalità africane (il presidente della Namibia Sam Nujoma, il leader mozambicano del
Frente de libertação de Moçambique – frelimo Marcelino Dos Santos, il presidente
del Mozambico Joaquim Chissano, Albertina Sisulu, Steven Gawe, la cantante suda-
fricana Miriam Makeba). Più in generale, la mobilitazione italiana offre un contri-
buto non secondario al movimento internazionale antiapartheid, mentre sollecita il
governo italiano a una posizione più definita nei confronti di un regime che appare
sempre più indebolito dall’isolamento e dall’erosione interna, fino alla svolta degli
anni Novanta, con l’indipendenza della Namibia, la liberazione di Mandela, la tran-
sizione alla democrazia del nuovo presidente Frederik Willem de Klerk e la fine
dell’apartheid21. Nel febbraio 1990 Andreotti riceve Mangosuthu Buthelezi, il leader
di Inkhata, il partito dell’etnia sudafricana zulu, accogliendo la richiesta di sospen-
sione delle sanzioni; un mese dopo, il ministro del Commercio estero, Renato Rug-
giero, è a Città del Capo, dove rinnova l’impegno per una politica di cooperazione
economica e commerciale. L’accordo del marzo 1993 – il primo firmato dal Sudafrica
con un paese della neonata Unione Europea – incrementa l’attività delle imprese
italiane, nella convinzione di svolgere un fondamentale ruolo di mediazione tra
Europa e Africa e di poter influire sul processo di democratizzazione.

20. Soncini (a cura di), Namibia, cit., frontespizio.


21. M. Zamponi, Breve storia del Sudafrica. Dalla segregazione alla democrazia, Carocci, Roma
2009, pp. 116-22.

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Un inedito ruolo italiano: il caso del Mozambico

Tra le questioni dell’Africa australe, il Mozambico rappresenta un caso di particolare


rilievo. L’Italia è il primo paese nato a stanziare un fondo di oltre 100 miliardi in
Mozambico, mentre scambi di visite tra delegazioni italiane e autorità mozambicane
e angolane avvengono nel triennio 1980-8222. Il Mozambico, in particolare, vive una
situazione di isolamento rispetto all’Occidente, che lo ritiene inglobato nell’orbita
sovietica. Il presidente, Samora Machel, in visita in Italia nell’ottobre 1981, auspica
un rapporto più stretto con la Comunità Europea e con l’Italia, dichiarando di voler
avvicinarsi alle posizioni di non allineamento23.
Al di là degli aspetti economici, il Mozambico della postindipendenza appare
duramente provato da una lunga guerra di liberazione, conclusasi nel 1975, e da
un’ininterrotta guerra civile, alimentata dalla Resistência nacional moçambicana
(renamo) con il sostegno non dichiarato del Sudafrica (sospeso solo nel 1984 con
l’accordo di Nkomati). Dal 1975 – l’anno dell’indipendenza –, infatti, il paese appare
dilaniato da un conflitto “asimmetrico” tra l’esercito governativo del frelimo e la
guerriglia renamo, che blocca lo sviluppo complessivo del paese e tiene in ostaggio
le popolazioni mozambicane con inaudite violenze e ripetuti massacri. L’accordo di
Nkomati del 1984, con cui il Sudafrica sospende il sostegno alla guerriglia renamo
in cambio dell’espulsione di esponenti dell’anc dal Mozambico, segna una tappa
importante nei rapporti di forza dell’area australe, ma si rivela insufficiente per la
ricomposizione del conflitto: occorre una soluzione “mozambicana” in un paese che,
pur vicino alle posizioni del non allineamento, non ha rinunciato a una dipendenza
ideologica dal modello sovietico, nel contesto della Guerra fredda24. Le gravi lacera-
zioni e la forte instabilità, non solo a livello politico ma anche della società civile,
sembrano compromettere lo stesso consistente impegno cooperativo avviato dall’I-
talia e scoraggiare interventi esterni. La sfida di una possibile mediazione italiana tra
le parti avverse viene colta in ambito non governativo, all’interno di rapporti che la
Comunità di Sant’Egidio aveva stabilito dal 1977 con l’arcivescovo di Beira, Jaime
Pedro Gonçalves, il quale aveva manifestato grave preoccupazione per la situazione
conflittuale che si andava delineando nel paese25.
Il Mozambico soffre, oltre che di carenze strutturali, anche di profonde lacerazioni
tra il governo marxista-leninista del frelimo e la Chiesa cattolica, ritenuta un residuo

22. ipalmo – Istituto per le relazioni tra l’Italia e i paesi dell’Africa, America Latina e Medio
Oriente, Mozambico e cooperazione italiana, Klim, Roma 1982.
23. G. Bimbi, Maggiore impegno per il Mozambico, in “Politica Internazionale”, 1981, 11-12, p. 141.
24. Sull’accordo di Nkomati, cfr. M. Newitt, Mozambique, in P. Chabal (ed.), A History of Post-
colonial Lusophone Africa, Hurst, London 2002, pp. 212-9.
25. R. Morozzo della Rocca, Mozambico: dalla guerra alla pace. Storia di una mediazione insolita,
San Paolo, Cinisello Balsamo (mi) 1994, p. 23.

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del colonialismo portoghese: i limiti imposti dal regime di Maputo comprimono


l’attività del clero e dei missionari, al punto da far temere una rapida estromissione
del cattolicesimo. Matura così l’idea di coinvolgere nella questione il Partito comunista
italiano, per la sua notevole ascendenza sul Mozambico, costruita negli anni della lotta
di liberazione26. È la prima volta che la Comunità si avventura in un ruolo di media-
zione in un ambito politico internazionale. Attraverso primi contatti con Gerardo
Chiaromonte, esponente assai vicino al segretario del partito, Enrico Berlinguer, si
realizzano due incontri, nel 1982 e nel 1984, tra lo stesso Berlinguer e l’arcivescovo
Gonçalves nei locali dell’antico monastero di Sant’Egidio, nel quartiere romano di
Trastevere. Gli incontri avvengono in un clima amichevole, in cui il leader comunista
mostra di accogliere le richieste di libertà del vescovo, impegnandosi a un intervento
personale nei confronti del governo mozambicano27. All’intervento comunista, rive-
latosi assai influente sul governo mozambicano, segue l’incontro inaspettato, organiz-
zato da Sant’Egidio, tra Samora Machel, presidente mozambicano, e Giovanni Paolo
ii, che rappresenta il coronamento degli sforzi per la distensione Stato-Chiesa28.
Lungo gli anni Ottanta, l’impegno di Sant’Egidio prosegue con la raccolta e
l’invio di aiuti umanitari per far fronte all’emergenza siccità e fame. Nel 1986 e nel
1988 due “navi della solidarietà” giungono in Mozambico cariche di derrate alimentari,
medicinali, attrezzi agricoli, che tuttavia aiutano a sopravvivere solo parte della popo-
lazione, escludendo vaste aree di territorio. L’emergenza principale rimane infatti la
guerra civile, senza la cui soluzione non è concepibile alcun piano di sviluppo.
Alla fine del decennio, la pace si profila, per Sant’Egidio, come l’esigenza prio-
ritaria, sollecitata anche dall’uccisione, nel 1989, di un giovane mozambicano della
Comunità, Laurindo Magalhães Bonde, durante un’imboscata della renamo a
80  chilometri da Maputo. Alla ricerca di interlocutori attendibili, Matteo Zuppi,
giovane sacerdote della Comunità (oggi vescovo ausiliare di Roma), entra in contatto
con esponenti della renamo, tramite l’artista mozambicana Bertina Lopes, residente
a Roma. Si apre, così, un canale che permette all’arcivescovo Gonçalves di incontrare
il capo dei guerriglieri, Afonso Dhlakama, nella foresta di Gorongosa, nel cuore del
Mozambico, base principale della renamo29.
Nel settembre 1988 il Mozambico riceve la visita di Giovanni Paolo ii. Il papa
incontra il nuovo presidente Joaquim Chissano – succeduto a Machel, deceduto in
un incidente aereo – in un clima di stretta collaborazione con i vescovi cattolici. È
l’occasione per consolidare i buoni rapporti tra Stato e Chiesa e per porre pubblica-
mente il problema della pace, lanciando un appello alle parti avverse per un “dialogo”

26. Cfr. P. Borruso, Il pci e l’Africa indipendente. Apogeo e crisi di un’utopia socialista (1956-1989),
Le Monnier, Firenze 2009.
27. Ivi, pp.  189-90.
28. Morozzo della Rocca, Mozambico: dalla guerra alla pace, cit., p. 108.
29. Ibid.

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paolo borruso

capace di giungere alla soluzione del conflitto e di promuovere i diritti e lo sviluppo


della persona umana30.
Nell’agosto dell’anno seguente Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio e
professore di Storia contemporanea all’Università Roma Tre, è invitato a parteci-
pare al v Congresso del frelimo in Mozambico. Il suo intervento, dai toni con-
vinti e appassionati, è un forte richiamo alla pace ed è accolto con un sentito
applauso, che rivela una diffusa aspirazione alla soluzione del conflitto. La visita
di Riccardi focalizza l’impegno di Sant’Egidio in vista di una possibile trattativa,
in coincidenza con un crinale epocale che sconvolge gli assetti internazionali: il
crollo del Muro di Berlino nel novembre 1989 e la successiva crisi dell’Est mettono
a nudo la fragilità e l’isolamento del Mozambico. È una fase che può risultare
propizia per rilanciare un’iniziativa di mediazione, benché ritenuta illusoria da
molte diplomazie occidentali. La credibilità ottenuta da Sant’Egidio presso le parti
avverse è la base per instaurare rapporti di fiducia, mentre la sua “imparzialità” rap-
presenta un terreno percorribile dalle controparti. Lo si vede nella visita segreta che
Dhlakama compie a Roma –  la prima fuori del continente africano  – nel febbraio
1990 su invito della Comunità, seguita dalla duplice richiesta da parte del governo
e della renamo di pervenire a un incontro diretto da tenersi presso la Comunità
romana.
I negoziati si aprono nel luglio 1990 presso la sede trasteverina di Sant’Egidio,
con un discorso di Riccardi che richiama le controparti all’alto valore di appartenere
alla «grande famiglia mozambicana» e le esorta a «cercare quello che unisce piut-
tosto che ciò che divide» quale metodo di lavoro, sottolineando l’unità della famiglia
mozambicana nonostante la storia di sofferenze e divisioni31. Assieme a Riccardi, al
tavolo delle trattative figurano don Matteo Zuppi, l’onorevole Mario Raffaelli, ex
sottosegretario agli Esteri e rappresentante del governo italiano, l’arcivescovo di Beira,
Gonçalves. La composizione “volontaria” e non istituzionale della squadra è indice
di debolezza rispetto alle cancellerie europee e occidentali, ma rivela, paradossal-
mente, un’efficacia inaspettata per la credibilità e la libertà d’azione. Tuttavia il
successo dei negoziati, condotti a Roma con grande fatica e lentezza, ma con forti
implicazioni sul territorio mozambicano, è il prodotto di un’azione “sinergica” che
affianca i mediatori: osservatori americani, inglesi, francesi, portoghesi, onu, esperti
militari e giuristi sono presenti a più riprese alle trattative, mentre la macchina nego-
ziale è supportata dal contributo di molti volontari (traduttori, autisti, informatici,
fotografi, medici, giornalisti), finalizzato a mettere gli avversari a proprio agio e ad

30. Discorso di Giovanni Paolo ii durante la visita al presidente della Repubblica del Mozambico,
Joaquim Alberto Chissano, nel “Palacio da Ponta Vermelha” di Maputo, Maputo (Mozambico), 16 set-
tembre 1988, in http://www.vatican.va; cfr. anche “L’Osservatore Romano”, 18 settembre 1988, p. 5.
31. Morozzo della Rocca, Mozambico: dalla guerra alla pace, cit., p.  108, e Id., Mozambico. Una
pace per l’Africa, Leonardo International, Milano 2002, p.  118. Sui negoziati di Roma, cfr. anche M.
Newitt, A History of Mozambique, Hurst, London 1995, pp. 219-26.

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l’africa nell’orizzonte italiano degli anni ottanta e novanta

evitare le minime possibilità di attrito. Nel pieno rispetto di una soluzione “africana”,
la sinergia “italiana” rafforza il lavoro di mediazione.
I mutamenti avvenuti nell’area australe certamente favoriscono la distensione:
l’indipendenza della Namibia nel 1990 e l’avvio di trattative per la soluzione del
conflitto in Angola, il nuovo corso di De Klerk in Sudafrica, la stanchezza crescente
per l’impegno militare dello Zimbabwe sono elementi che incoraggiano la fine delle
ostilità in Mozambico quale fattore di destabilizzazione dell’intera regione. Tra i nodi
decisivi, tuttavia, è il “dialogo tra africani”: una pace raggiunta affrontando punto
per punto le ragioni del conflitto e maturando convinzioni e opportune garanzie
come base di un nuovo assetto della società e dello Stato. Non secondaria, a questo
proposito, è stata la parallela partecipazione della popolazione, protagonista di una
raccolta di firme per accelerare la conclusione delle trattative, i cui fogli giungono
sullo stesso tavolo negoziale, con grande stupore dei negoziandi.
Com’è noto, il 4 ottobre 1992 Chissano e Dhlakama firmano, alla Farnesina,
l’accordo generale di pace per il Mozambico, alla presenza di numerosi capi di Stato
africani e rappresentanti di governi, oltre a quella dei mediatori e del ministro degli
Esteri italiano, Emilio Colombo. I negoziati trasformano gli ex belligeranti in avversari
politici, nella prospettiva di una nuova stagione che sembra orientarsi verso la demo-
crazia. Si tratta di un evento paradigmatico anche per la politica estera italiana, come
ha osservato all’indomani della firma il segretario dell’onu Boutros-Ghali, definen-
dola «formula italiana […] miscela, unica nel suo genere, di attività pacificatrice
governativa e non»32. Anche l’ambasciatore americano Cameron Hume, testimone
diretto del processo negoziale, ha indicato l’esemplarità di un modello negoziale super
partes, fondato sulla complementarità di diverse competenze, che ha permesso la solu-
zione di un conflitto al di fuori degli schemi tradizionali, non procedendo per impo-
sizione di regole o scadenze, ma favorendo l’autentica ricerca di un percorso di
riconciliazione33. La conoscenza del terreno, la capacità negoziale, la flessibilità, la
valorizzazione del campo neutro, la credibilità sono elementi “sinergici”, che rendono
la mediazione particolarmente dinamica ed efficace. Si tratta, per Hume, di un
“modello” riproponibile nei conflitti del dopo Guerra fredda, sempre meno legati a
interessi esterni ma con un’evoluzione tutta interna. È una chance che l’Italia, travolta
proprio in quegli anni dal peso dei problemi interni innescati dal triste epilogo della
Prima Repubblica, non pare cogliere in tutta la sua portata, né spingersi adeguata-
mente nella ricerca di un nuovo e incisivo ruolo nel disordine globale del dopo 198934.

32. Message from the Secretary-General Boutros Boutros-Ghali to the Seventh International Meeting
for Peace of the Sant’Egidio Community, in Arcidiocesi di Milano e Comunità di Sant’Egidio (a cura
di), Pace a Milano, San Paolo, Cinisello Balsamo (mi) 1993, p. 62.
33. C. Hume, Ending Mozambique’s War: The Role of Mediation and Good Offices, us Institute of
Peace, Washington (dc) 1994, p. 142.
34. R. Morozzo della Rocca, Mozambico, una pace all’italiana, in “Limes/Africa!”, 1997, 3,
pp.  227-34.

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paolo borruso

4
L’Africa di Giovanni Paolo ii

Tra il 1980 e il 1998 Giovanni Paolo ii compie 14 viaggi in Africa, di cui due in
Marocco (1985) e in Tunisia (1996), il resto nell’area subsahariana. Lo scenario è
quello di una profonda crisi, che percorre il continente e mette in discussione le
prospettive delle indipendenze e dello sviluppo dei nuovi Stati in senso democratico.
I tentativi di “aggiustamento strutturale” di molti Stati africani, attraverso la ridu-
zione dei mercati interni e l’incentivazione delle economie verso l’esterno, si rivelano
inefficaci a produrre un decollo economico, lasciando ampio spazio ad attività “infor-
mali” e ad “economie parallele” e aprendo la voragine del debito. Tra il 1970 e il 1980
l’indebitamento dei paesi africani sale da 6.000 a 90.000 milioni di dollari, per
giungere ai 290.000 del 1990. La percentuale dell’esportazione globale di beni e
servizi sale dal 96% del 1980 al 362% del 1989, mentre il volume degli scambi dell’A-
frica con il resto del mondo scende dal 4,4% del 1982 all’1,9% del 1990, convogliando
le spese sui servizi del debito in misura 4 volte superiore rispetto ai servizi per la
salute35. Alla crisi sul piano economico si connettono tensioni in campo sociale e
politico, accrescendo la protesta e la domanda di riforme democratiche, mentre la
caduta del Muro di Berlino e il rapido estinguersi della contrapposizione bipolare
esauriscono i motivi di attrazione del continente, lasciando aperte molte crisi di
governabilità, mentre l’Occidente va ritirando progressivamente aiuti e investimenti.
Nel maggio 1980 il papa intraprende il suo primo viaggio nel continente africano
–  proseguendo nella linea già avviata dal predecessore Paolo vi – in occasione delle
celebrazioni per il centenario dell’evangelizzazione del Ghana e dello Zaire36. Nei con-
fronti dell’Africa sente fortemente il compito di una missione, per sostenere il percorso
delle Chiese locali di fronte all’evoluzione dei contesti nazionali, ma anche un profondo
rispetto per le tradizioni e le culture autoctone, che auspica valorizzare37. Il papa è
convinto che l’Africa, pur fra tante tensioni, stia «costruendo la propria storia», con
il contributo di tutti i credenti, non solo cristiani. Si tratta di un passaggio importante,
che apre la prospettiva di un nuovo rapporto con la realtà religiosa dell’Africa contem-
poranea nelle sue diverse espressioni. Al suo arrivo a Kinshasa non manca di presentarsi
sotto quattro diverse angolature: «capo spirituale», «uomo di religione», «messag-
gero di pace», «uomo della speranza»38. Si tratta, in sostanza, del suo programma nei
confronti dell’Africa, volto a confrontarsi con un cristianesimo e un cattolicesimo

35. A. M. Gentili, Il leone e il cacciatore. Storia dell’Africa sub-sahariana, Carocci, Roma 1996,
pp.  390-1.
36. O. K. Kapita, Jean-Paul ii et l’Afrique: analyse du discours sociopolitique, Publibook, Paris 2009,
pp. 206-13.
37. Discorso di Giovanni Paolo ii in partenza per il pellegrinaggio apostolico in Africa, Aeroporto
di Fiumicino, 2 maggio 1980, in http://www.vatican.va.
38. Discorso di Giovanni Paolo ii all’arrivo in Africa, Kinshasa (Zaire), 2 maggio 1980, ivi.

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l’africa nell’orizzonte italiano degli anni ottanta e novanta

“africanizzati”, sia nelle gerarchie locali che nelle forme rituali, ma anche con le diverse
anime religiose radicate nel continente e con le gravi tensioni che lo percorrono, con-
trastando l’“afropessimismo” che va diffondendosi in Occidente.
A Kinshasa, rivolgendosi al presidente Mobutu e richiamando la funzione attri-
buita dal Concilio Vaticano ii alla Chiesa e agli Stati, ciascuno nel proprio campo,
per lo sviluppo integrale dell’uomo, esplicita una prospettiva di scambio reciproco tra
l’Africa e il resto del mondo39. Il papa denuncia espressamente il razzismo su cui si
basano alcuni regimi africani – con un’evidente allusione alla questione sudafricana –,
origine di violenza e di oppressione, ma anche le logiche “neocoloniali” che si celano
dietro certe strategie di mercato occidentali e che bloccano lo sviluppo. A Nairobi,
in Kenya, incontra per la prima volta una delegazione di capi musulmani, ai quali
sottolinea la comune tradizione monoteista, auspicando lo sviluppo di un legame che
aiuti a fronteggiare il “materialismo”, autentico nemico dell’uomo40. È un’apertura che
si ripete anche nei confronti di un uditorio induista presente nel paese.
E ad Accra, in Ghana, è attento a elogiare

una concezione del mondo in cui il sacro occupa un posto centrale; una profonda consape-
volezza del legame esistente fra il creatore e la natura; un grande rispetto per ogni forma di
vita; un senso della famiglia e della comunità, che fiorisce nell’accoglienza e nell’ospitalità
aperte e gioiose; una riverenza per il dialogo quale mezzo per comporre i contrasti e per
condividere i punti di vista: spontaneità e gioia di vivere espresse nel linguaggio poetico,
canto e danza. Tutti questi aspetti manifestano una cultura ricca di una dimensione spirituale
onnicomprensiva. Ecco il tratto distintivo che determina la unicità della cultura africana.
Ecco ciò che unisce i tanti popoli africani, senza minimamente intaccare quella immensa
ricchezza di espressioni locali, o di patrimonio dei singoli gruppi o regioni41.

Nel viaggio del 1985 attraverso Togo, Costa d’Avorio, Camerun, Repubblica Centra-
fricana, Zaire, Kenya, Marocco, rivolto alla comunità islamica di Yoaundé, in
Camerun, lancia quasi un appello a una fraternità che possa rappresentare un fonda-
mento per una convivenza pacifica e costruttiva42. Il viaggio si conclude con lo storico
incontro con i giovani musulmani di Casablanca, in Marocco, il 19 agosto, in cui il
papa incentra il suo discorso sull’esigenza del dialogo come base di una convivenza
in grado di affrontare le sfide dello sviluppo43.
Il papa conosce il quadro dei conflitti in cui si dibatte l’Africa degli anni Novanta,
come ha modo di osservare con i membri del corpo diplomatico in Ciad nel febbraio

39. Discorso di Giovanni Paolo ii al presidente dello Zaire, Kinshasa (Zaire), 2 maggio 1980, ivi.
40. Incontro di Giovanni Paolo ii con i capi musulmani, Nairobi (Kenya), 7 maggio 1980, ivi.
41. Incontro di Giovanni Paolo ii con il presidente del Ghana, Accra (Ghana), 8 maggio 1980, in ivi.
42. Discorso di Giovanni Paolo ii ai rappresentanti della comunità islamica, Yaoundé (Camerun),
12 agosto 1985, ivi.
43. Incontro di Giovanni Paolo ii con i giovani musulmani a Casablanca, Marocco, 19 agosto
1985, ivi.

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paolo borruso

199044. I suoi sono viaggi attraverso i dolori del continente, come nell’isola di Gorée,
dove si reca nel 1992, e usa espressioni appassionate per riconoscere il debito e la
responsabilità verso popolazioni che hanno duramente sofferto l’umiliazione della
schiavitù e dello sfruttamento45.
Il messaggio dei viaggi, tuttavia, richiama una visione di futuro positiva, che sa
cogliere le risorse e le vie di sviluppo dell’intero continente, sovente oscurate dalla
stampa italiana46. Nel giugno 1990, riceve in udienza il leader sudafricano Nelson
Mandela, pochi giorni dopo la sua liberazione da 27 anni di carcere. Il caloroso
scambio di battute e di saluti è l’occasione per riconoscere il ruolo dell’anc ed espri-
mere l’auspicio di un prossimo superamento dell’apartheid e l’avvento di un nuovo
Sudafrica, nel rispetto dei diritti umani47.
L’evento in cui si esprime l’articolazione di un nuovo pensiero sull’Africa è rap-
presentato dal Sinodo dell’aprile 1994, il primo dedicato interamente al continente
nero. Si tratta di un evento inedito nella storia del cristianesimo e del cattolicesimo.
La stampa quotidiana saluta con interesse l’apertura del Sinodo, che colora di “nero”
piazza San Pietro. A Roma, il Sinodo vuole essere innanzitutto un’occasione per
gettare una luce nuova su un continente percorso da gravi crisi, ma anche per richia-
mare l’attenzione su una realtà – quella dell’immigrazione africana – sempre più
visibile anche in Italia48. Fra i temi più dibattuti, l’evangelizzazione e l’“incultura-
zione” del messaggio cristiano, il dialogo ecumenico e interreligioso, la pace, la giu-
stizia e la solidarietà49. Su 211 relazioni individuali, 35 affrontano il delicato problema
dell’accoglienza del messaggio evangelico e della sua “riespressione” secondo le diverse
sensibilità africane50. Le 64 propositiones conclusive dei padri sinodali costituiscono
il materiale su cui il papa elabora l’esortazione apostolica Ecclesia in Africa, nel set-
tembre 1995. Al Sinodo sono presenti, oltre all’intero episcopato africano, i rappre-
sentanti della Chiesa copta d’Egitto e di quella etiopica, delle Chiese riformate. I
destinatari dell’esortazione, tuttavia, non sono solo i cristiani, ma anche i credenti

44. Appello di Giovanni Paolo ii ai membri del Corpo diplomatico, Centro di studio e di formazione
per lo sviluppo (cefod) di N’Djamena (Ciad), 1o febbraio 1990, ivi; cfr. anche “L’Osservatore Romano”,
2 febbraio 1990, p. 7.
45. Incontro di Giovanni Paolo ii con la comunità cattolica dell’isola nella chiesa di San Carlo
Borromeo, Isola di Gorée (Senegal), 22 febbraio 1992, in http://www.vatican.va.
46. Sul ruolo attribuito all’Italia da Giovanni Paolo ii, cfr. M. Impagliazzo, Giovanni Paolo ii e
l’Italia, in E. Guerriero, M. Impagliazzo (a cura di), Storia della Chiesa, 36. I cattolici e le Chiese cristiane
durante il pontificato di Giovanni Paolo ii, San Paolo, Cinisello Balsamo (mi) 2006, pp.  97-125, e
A. Scornajenghi, L’Italia di Giovanni Paolo ii, San Paolo, Cinisello Balsamo (mi) 2012, pp. 29-34.
47. O. La Rocca, Dio benedica le vostre iniziative, in “la Repubblica”, 16 giugno 1990. Sulla posi-
zione nei confronti dell’apartheid, cfr. C. Prudhomme, L’Africa sub-sahariana: la fine della missione e
l’ascesa degli Stati post-coloniali, in Guerriero, Impagliazzo (a cura di), Storia della Chiesa, cit., pp. 165-8.
48. R. Zuccolini, Immigrati speciali, in “Corriere della Sera”, 11 aprile 1994.
49. Cfr. il sito web della Special Assembly of Bishops for Africa and Madagascar, http://www.
afrikaworld.net/synod/index.html.
50. Sinodo africano e dintorni, a cura della redazione, in “Nigrizia”, 112, 1994, 9, pp. 29-44.

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l’africa nell’orizzonte italiano degli anni ottanta e novanta

delle religioni monoteiste e delle religioni tradizionali, e tutti gli «uomini di buona
volontà», soprattutto «gli africani stessi»51.
Oltre alle riflessioni elaborate, Giovanni Paolo ii attribuisce al Sinodo un mes-
saggio forte, finalizzato a riportare l’attenzione su un continente che compare sempre
meno sulla stampa, ma che necessita, al contrario, di un impegno responsabile da
parte dell’Occidente: è questo il senso della denuncia del commercio di armi, incre-
mentato dalla fine della Guerra fredda52. Tra il 1988 e il 1993 l’Africa registra infatti
il picco massimo di proliferazione di nuovi conflitti, con circa 15 guerre civili, che
investono nel triennio 1992-94 un terzo dei 48 Stati subsahariani53. Tra questi il caso
del Ruanda, dove proprio nei giorni del Sinodo si va consumando l’“ultimo geno-
cidio” del secolo. Il papa, nel suo discorso di apertura, non manca di lanciare un
forte appello, a nome dell’Africa rappresentata a Roma, per la fine delle violenze e
la deposizione delle armi, rinnovato un mese dopo, in conclusione dell’assemblea
sinodale54. Giovanni Paolo ii è convinto, inoltre, che l’esperienza dolorosa dell’ucci-
sione di molti cristiani in diverse aree di crisi del continente possa sollecitare una
presa di coscienza e un’assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni poli-
tiche, dell’opinione pubblica e del volontariato55.

5
L’Africa in Italia

All’inizio degli anni Ottanta, emerge in Italia un fenomeno nuovo: l’immigrazione


dal Sud del mondo, principalmente dall’Africa maghrebina e subsahariana. È un
fenomeno che non viene colto in tutta la sua incidenza nella realtà sociale e politica
dell’Italia, presa da gravi episodi interni, come la strage di Bologna e il terremoto in
Irpinia e Basilicata (1980), e dal mutamento degli equilibri politici, che interrompe
nel corso degli anni Ottanta la continuità dei governi democristiani. A più di qua-
rant’anni dall’esperienza coloniale fascista, che per prima aveva portato in maniera
dirompente l’Africa nell’immaginario italiano – non solo attraverso la propaganda
iconografica, ma anche con le scenografiche parate di ascari nella capitale –, il “Nero”
torna sul territorio italiano quasi in sordina, spinto da motivi politici e sociali, in
fuga da paesi in crisi e alla ricerca di una prospettiva di vita dignitosa per sé e per il
proprio nucleo familiare. È una presenza che non si impone, dissimulata tra le “nuove

51. Prudhomme, L’Africa sub-sahariana, cit., pp. 171-3, in http://www.vatican.va.


52. L. Accattoli, Schiaffo all’Occidente dalla Chiesa africana. Documento del Sinodo sulla vendita
delle armi, in “Corriere della Sera”, 7 maggio 1994.
53. G. Carbone, L’Africa. Gli stati, la politica, i conflitti, il Mulino, Bologna 2007, p. 92.
54. Omelia di Giovanni Paolo ii. Concelebrazione eucaristica per l’apertura dell’assemblea speciale
per l’Africa del Sinodo dei vescovi, 10 aprile 1994, in http://www.vatican.va.
55. A. Riccardi, Il secolo del martirio. I cristiani nel Novecento, Mondadori, Milano 2000, pp. 366-91.

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paolo borruso

povertà” emergenti nelle metropoli italiane, e che va a inserirsi nel mondo del lavoro
irregolare o in ambiti lavorativi non più oggetto di interesse da parte degli italiani56.
Episodi di xenofobia –  come quello che colpisce il giovane somalo Ahmed Ali
Jama, ucciso tra le fiamme da una banda di sconosciuti, a Roma, nel maggio 1979  –
portano alla luce un fenomeno sommerso, dalle implicazioni sociali inedite, e segnala
una paura strisciante nella società italiana57. Al di là degli esiti sconcertanti della vicenda
– conclusasi con l’assoluzione piena degli imputati, dopo una prima condanna a 61 anni
complessivi di carcere –, la presenza del “Nero” comincia a costituire un problema non
eludibile, ma che coglie la società italiana totalmente impreparata58. Fino agli anni
Settanta, l’Italia si configura come un paese omogeneo, differente dalla multirazzialità
che caratterizza i paesi della riva sud del Mediterraneo, ma anche paesi europei, come
la Francia, l’Inghilterra, il Belgio, come lascito della passata esperienza coloniale. Anche
a livello di studi, dal secondo dopoguerra la questione coloniale in Italia appare del
tutto rimossa, alimentando lo stereotipo degli “italiani brava gente” e oscurando il volto
brutale del colonialismo italiano, messo in luce solo negli anni Settanta e Ottanta da
attenti studiosi, come Giorgio Rochat e Angelo Del Boca59. Sull’onda delle indipen-
denze africane degli anni Sessanta e Settanta, malgrado la persistenza di una memoria-
listica legata alla generazione coloniale, si era andata affermando la percezione di
un’Africa dal volto inedito, non più oggetto delle mire europee, ma soggetto attivo e
protagonista della storia, fuori degli stereotipi coloniali e con originali elaborazioni
intellettuali, mentre nel panorama editoriale italiano comparivano i primi lavori di
carattere storico60. È, tuttavia, una percezione che sembra declinare rapidamente lungo
gli anni Ottanta, sempre più legata al fattore “crisi”, per le ricorrenti o insolute insta-
bilità politiche e calamità naturali (fame, siccità, desertificazione).
Alla metà degli anni Ottanta, François de Medeiros, giovane studioso del Benin,
osserva acutamente che nella cultura europea «l’immagine dominante del Nero è carat-
terizzata da un pessimismo radicale che riappare costantemente dopo brevi periodi di

56. Id., Da una società omogenea a una società pluriforme: la Chiesa di fronte al problema degli immi-
grati, in Comunità di Sant’Egidio (a cura di), Stranieri nostri fratelli, Morcelliana, Brescia 1989, p. 84.
57. G. Botta, Tra vicolo della Pace e la stazione: la Roma di Ahmed è tutta qui, in “l’Unità”, 23
maggio 1979, p.  10.
58. Assolti, ma chi ha ucciso Alì?, in “l’Unità”, 18 luglio 1981, p. 10.
59. G. Rochat, Il colonialismo italiano, Loescher, Torino 1972; Del Boca, Gli italiani in Africa
orientale, cit., e Id., Gli italiani in Libia, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 1988.
60. Sulla persistenza della memorialistica coloniale, cfr. N. Labanca, Una guerra per l’impero.
Memoria della campagna d’Etiopia (1935-36), il Mulino, Bologna 2005, pp. 309-49; sull’immagine della
nuova Africa, cfr. Id., L’Italia repubblicana fra colonialismo e post-colonialismo. Una ricerca sull’imma-
gine dell’Africa nei periodici illustrati degli anni Cinquanta e Sessanta, in “aft. Rivista di Storia e
Fotografia”, 2000, 31-32, pp.  99-108. In Italia, oltre alla traduzione delle opere di africanisti stranieri,
come Basil Davidson, Catherine Coquery-Vidrovitch, Henry Moniot, John Fage, Joseph Ki-Zerbo, si
segnalano importanti lavori storiografici di Gian Paolo Calchi Novati, Anna Maria Gentili, Alessandro
Triulzi. Cfr., a questo proposito, A. Triulzi, A. Bozzo, G. Valabrega (a cura di), Storia dell’Africa e del
vicino Oriente, collana “Il mondo contemporaneo”, La Nuova Italia, Firenze 1979.

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l’africa nell’orizzonte italiano degli anni ottanta e novanta

idealizzazione»61. Non mi soffermo, qui, sulle radici degli stereotipi che tra Otto e
Novecento hanno assimilato, su basi pseudoscientifiche, al colore della pelle l’ereditarietà
di limitate capacità mentali e di tendenze criminali62. Certo, nell’immaginario italiano,
dopo l’idealizzazione delle indipendenze, l’Africa sembra tornare a vecchi stereotipi, mai
del tutto rimossi, che alimentano una tendenza xenofoba strisciante, ispirata – come
notato da Andrea Riccardi – da una cultura provinciale «poco abituata al cosmopoli-
tismo, che reagisce al primo serio contatto con il non europeo» in casa propria63.
Come rilevato da Vittorio Cotesta, vige un’ignoranza diffusa sull’identità e sui
paesi di provenienza degli immigrati africani, indistintamente associati con un Islam
percepito come potenziale elemento destabilizzatore, specie sull’onda della rivolu-
zione khomeinista del 1979 e delle minacciose reazioni nel mondo iraniano alla
pubblicazione del romanzo I versi satanici di Salman Rushdie nel 198864. Preoccupa-
zioni e timori in molti ambienti politici ed ecclesiastici desta, in questo senso, l’inizio
dei lavori, nel 1984, per la costruzione della moschea nella capitale, la più grande
d’Europa, espressione di una componente religiosa legata all’immigrazione, che va
divenendo la seconda per consistenza numerica dopo quella cattolica – anche se priva
di strutture rappresentative. Non è casuale, qui, l’avvio di un dibattito che investe la
questione più ampia dell’identità nazionale e che rivela, specie dopo il 1989, un
pessimismo di fondo sullo “smarrimento” di una coscienza collettiva degli italiani,
sempre più segnata da un’invadente interconnessione globale, in un contesto non più
orientato dai modelli ideologici65.
Nell’agosto 1989, a dieci anni dalla vicenda di Ali Jama a Roma, un giovane suda-
fricano, Jerry Essan Masslo, accolto a Roma dalla Comunità di Sant’Egidio, viene ucciso
nelle campagne di Villa Literno da parte di una banda di rapinatori. L’episodio ha per
la prima volta un grande risalto mediatico: l’Italia si scopre razzista, infrangendo bru-
scamente lo stereotipo bonario e sornione degli “italiani brava gente”, mentre l’immi-
grazione s’impone come fenomeno irreversibile e questione non eludibile nella società
italiana nel suo complesso66. Vengono concessi i funerali di Stato a Villa Literno, cui

61. F. de Medeiros, L’Occident et l’Afrique, xiiie-xve siècle. Images et représentations, Karthala, Paris
1985, p. 267.
62. G. Mosse, Il razzismo in Europa. Dalle origini all’olocausto, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 55-76.
63. A. Riccardi, Immigrazione e razzismo: storia e immagini, in Comunità di Sant’Egidio (a cura
di), Immigrazione, razzismo e futuro, Messaggero, Padova 1990, pp. 46-7. Sul “ritorno” di uno stereotipo
coloniale, cfr. A. Triulzi, Colonia e post-colonia: il dibattito oggi, in ucsei – Ufficio centrale studenti
esteri in Italia (a cura di), Sguardi incrociati sul colonialismo. Le relazioni dell’Europa con l’Africa, l’Asia
e l’America Latina, ucsei, Roma 2005, pp. 21-43.
64. V. Cotesta, Lo straniero. Pluralismo culturale e immagini dell’Altro nella società globale, Laterza,
Roma-Bari 2002, pp.  81-94. Sul “musulmano” nell’immaginario italiano, cfr. A. Riccardi, Il mondo
musulmano in Italia, in Comunità di Sant’Egidio (a cura di), Cristianesimo e Islam. Un’amicizia pos-
sibile, Morcelliana, Brescia 1989, pp. 125-56.
65. S. Patriarca, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 207-70.
66. Cfr. Comunità di Sant’Egidio (a cura di), L’ospite inatteso. Razzismo e antisemitismo in Italia,
Morcelliana, Brescia 1993, in particolare gli interventi di A. Riccardi, Razzismo ed antisemitismo in

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paolo borruso

partecipano le alte cariche istituzionali, mentre interventi dell’onu, del presidente della
Repubblica e del papa manifestano sdegno e richiamano alla solidarietà. Il 20 settembre
gli immigrati di Villa Literno organizzano uno sciopero, il primo contro il caporalato
gestito dalla camorra; il 7 ottobre un’imponente manifestazione percorre le strade di
Roma all’insegna del giovane Masslo e dell’antirazzismo; alla fine del mese nasce a
Caserta l’Associazione di volontariato Jerry Essan Masslo67. Ai primi di dicembre, viene
convocata a Firenze una prima Convenzione nazionale antirazzista, con lo scopo di
sollecitare l’attenzione governativa a un fenomeno in crescita68.
Con l’omicidio di Masslo la questione immigratoria comincia a politicizzarsi69.
Ma la sua storia, riportata da molti quotidiani, svela anche un volto complesso
dell’immigrato africano, non riducibile a una categoria razziale o sociale generaliz-
zata. Lo si coglie nelle parole quasi profetiche rilasciate dallo stesso Masslo, nei mesi
precedenti, durante un’intervista alla rubrica Nonsolonero del tg2:

Pensavo di trovare in Italia uno spazio di vita, una ventata di civiltà, un’accoglienza che mi
permettesse di vivere in pace e di coltivare il sogno di un domani senza barriere né pregiudizi.
Invece sono deluso… Avere la pelle nera in questo paese è un limite alla convivenza civile. Il
razzismo è anche qui: è fatto di prepotenze, di soprusi, di violenze quotidiane con chi non
chiede altro che solidarietà e rispetto. Noi del Terzo mondo stiamo contribuendo allo svi-
luppo del vostro paese, ma sembra che ciò non abbia alcun peso. Prima o poi qualcuno di
noi verrà ammazzato e allora ci si accorgerà che esistiamo70.

Altri episodi di violenza razzista si registrano nel corso del 1990, come il raid del
“martedì grasso” a Firenze nei confronti di immigrati africani71. Accanto a reazioni
sdegnate e moti spontanei di protesta s’innesca un dibattito mediatico, che fatica a
uscire da una dimensione emotiva o ideologica e che non propone un approccio
culturale corretto. È anche il caso di Roma Capitale, dove Franco Ferrarotti individua
nella diffusa ignoranza l’origine di tendenze xenofobe, mentre rileva un’eccessiva
preoccupazione per «i troppi barbari» che premono alle porte72.
Lungo gli anni Novanta, la produzione mediatica impone una percezione “etni-
cizzata” del “Nero”, che non corrisponde all’identità reale dei diversi gruppi immi-

Italia. L’“inaspettato” ritorno (pp. 17-29), e B. Trentin, Il razzismo non è un incidente, ma una cultura
(pp. 73-81).
67. G. Pepe, Scende in piazza l’Italia antirazzista, in “la Repubblica”, 7 ottobre 1989.
68. G. Bolaffi, Il popolo dei clandestini, ivi, 15 dicembre 1989.
69. L. Einaudi, Le politiche dell’immigrazione in Italia dall’Unità a oggi, Laterza, Roma-Bari 2007,
pp. 132-6.
70. G. Di Luzio, A un passo dal sogno. Gli avvenimenti che hanno cambiato la storia dell’immi-
grazione in Italia, Besa, Lecce 2006, p. 61.
71. G. Sgherri, Firenze sapeva “Il raid era organizzato”, e S. Biondi, Raid razzisti a Firenze, in
“l’Unità”, rispettivamente 3 e 5 marzo 1990.
72. F. Ferrarotti, Tendenze evolutive, in L. De Rosa (a cura di), Roma del Duemila, Laterza, Roma-
Bari 2000, pp. 242-5.

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l’africa nell’orizzonte italiano degli anni ottanta e novanta

grati73. È una semplificazione che riemerge in occasione dell’“ultimo genocidio” del


xx secolo, in Ruanda, nell’aprile 1994. Le immagini cruente che giungono in Italia
producono un impatto emotivo che non favorisce una comprensione adeguata.
Carenti appaiono anche la pubblicistica e la stampa quotidiana, nonostante l’ampio
spazio dedicato all’evento74. Come osservato da Carlo Carbone, la serie di testimo-
nianze, pur toccanti, e di saggi volti a descrivere e a spiegare la natura del conflitto
rivela un allargamento dell’orizzonte di conoscenza dell’Africa, ma pare superficiale
nell’analisi degli elementi all’origine del conflitto. È il caso dell’“etnicità”, categoria
estranea alla cultura italiana ma divulgata come la causa prima del conflitto:
«Mentre il solo ricorso alla categoria valutativa dell’etnicità» scrive Carbone «non
basta certo a dar conto di un conflitto ben più complesso, negare quella categoria
conduce a una visione parziale e distorta, se non all’incomprensibilità, della
questione»75. Come osservato anche da Umwantisi, la stampa italiana e straniera
affronta il fenomeno ruandese con l’ottica distorta della stigmatizzazione o della sot-
tovalutazione di molti elementi, riducendolo «con una visione senza dubbio efficace,
ma eccessivamente semplicistica, a uno scontro etnico fra tutsi e hutu, “lunghi” e
“corti”»76.
Nonostante l’impegno di alcuni studiosi e dello stesso Giovanni Paolo ii, la
rappresentazione prevalente dell’Africa, lungo gli anni Novanta, è quella di una
“deriva” irreversibile e priva di soluzioni, aggravata dalla caduta d’interesse con la
fine della Guerra fredda77. Tra mutamenti globali e difficili crinali interni, le nuove
proiezioni dell’Italia in Africa, sperimentate negli anni Sessanta e Settanta, entrano
in una fase di ripiegamento, non solo in termini di politica estera – con la fine della
cooperazione –, ma anche a livello di interessi collettivi, espungendo progressiva-
mente l’Africa dall’orizzonte italiano, nonostante la crescente presenza africana sul
territorio nazionale78. È una contraddizione destinata a rimanere aperta e a compri-
mere il percorso storico che pur ha legato, in diverse stagioni, l’Italia al continente
africano.

73. L. Gariglio, A. Pogliano, R. Zanini (a cura di), Facce da straniero. 30 anni di fotografia e gior-
nalismo sull’immigrazione in Italia, Bruno Mondadori, Milano 2010, p. 170.
74. Uno spoglio da me eseguito ha rilevato che nel 1994 il “Corriere della Sera” dedica 128 articoli
al Ruanda, “l’Unità” 109, “il Giornale” 107. Cfr. F. Fonju Ndemesah, La radio e il machete. Il ruolo dei
media nel genocidio in Rwanda, Infinito, Roma 2009, e D. Razzoli, La stampa sconvolta: l’irruzione del
sacro nel genocidio del Rwanda. Casi dal Corriere della Sera e Repubblica, in http://www.ec-aiss.it/
pdf_contributi/razzoli_20_3_08.pdf.
75. C. Carbone, Il genocidio in Rwanda fra cronaca e storia, in “Africa”, 51, 1996, 3, pp. 397-406.
76. Umwantisi, La guerra civile in Rwanda, FrancoAngeli, Milano 1997, pp. 10-1.
77. H. d’Almeida-Topor, Naissance des États africains, Casterman, Bruxelles 1996 (trad. it. Africa.
Un continente alla deriva, Giunti, Firenze 2002).
78. G. P. Calchi Novati, L’Africa d’Italia. Una storia coloniale e postcoloniale, Carocci, Roma 2011,
p. 375. Cfr. anche P. Borruso, L’Italia e la crisi della decolonizzazione, in aa.vv., L’Italia repubblicana
nella crisi degli anni Settanta, vol. 1. Tra guerra fredda e distensione, a cura di A. Giovagnoli, S. Pons,
Rubbettino, Soveria Mannelli (cz) 2003, pp. 397-442.

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