Sei sulla pagina 1di 5

PROFILO STORICO DELLA SOMALIA:

Le origini del Colonialismo italiano nel Corno d’Africa (Etiopia, Gibuti, Eritrea, Somalia) risalgono alla seconda
metà dell’800. Dal 1869, quando l’apertura del Canale di Suez avrebbe consentito all’Italia il conseguimento
di due importanti obiettivi: inaugurare una linea di comunicazione diretta tra Mediterraneo e Mar Rosso e
colmare almeno in parte il ritardo accumulato sul terreno delle conquiste coloniali rispetto alle grandi
potenze europee.

Quindi per un carattere economico più che politico-militare. Erano le grandi compagnie commerciali private
del Nord a giocare un ruolo in primo piano. La Somalia non è ancora uno stato unitario, ma un agglomerato
di tribù nomadi e sultanati stranieri. Sulla medesima area convergono gli interessi di Francia (che dal 1862
ribattezza Somalia francese la regione che oggi è lo stato del Gibuti) e della UK (nel 1886 istituisce il
protettorato della Somalia britannica) nei territori sul Golfo di Aden. L’Italia invece occupa la costa
sull’Oceano indiano, il Benadir (Terra di Punt per gli antichi egizi) inclusa la città di Mogadiscio.

1885-1891 il Regno d’Italia acquisisce dal sultano di Zanzibar il controllo sui certi porti, gettando le basi del
protettorato della Somalia italiana, vera e propria colonia dal 1905. 1896 Evento traumatico della sconfitta di
Adua che ridimensiona le mire del regno italiano nei confronti dell’Etiopia. L’atteggiamento di Roma verso le
colonie somale comincia a mutare proprio dalla Pace di Addis Abeba, che sancisce la fine della guerra con
l’impero etiopico. Negli anni ’20 il fascismo contribuisce all’assestamento della Somalia italiana. Le tribù
somale vengono disarmate ed espropriate dei loro territori. Si realizza allora la vera e propria occupazione
territoriale della Somalia. L’opera di assoggettamento e ripopolamento viene affidata a uno dei protagonisti
della Marcia su Roma, il governatore Cesare Maria De Vecchi. Nel 1938 a Mogadiscio gli italosomali
ammontano a 20mila su 50mila abitanti. Dagli anni ’30 la Somalia conosce uno sviluppo economico per
l’esportazione di banane e prodotti agricoli.

Nel 1936 la Somalia italiana ed Etiopia ed Eritrea entra a far parte dell’Africa orientale italiana. Con la
Seconda Guerra Mondiale ha aumentato gli interessi italiani e inglesi nell’aria ed era inevitabile il conflitto.
L’Italia all’inizio ha avuto la meglio ma poi la controffensiva britannica nel 1941 occupa il suo territorio. Con il
Trattato di Parigi nel 1947 la Repubblica rinuncia a tutti i possedimenti coloniali africani. L’ONU era incaricata
della decolonizzazione del Corno d’Africa. Il compito è reso difficile dai fragili equilibri geopolitici e
dall’acutizzarsi della guerra fredda. L’Italia voleva ricostruire un sistema di alleanze internazionali affidabile
senza rinunciare ai propri possedimenti coloniali in toto. Dopo le elezioni politiche del 1948 e la vittoria della
Democrazia cristiana, l’adesione dell’Italia al blocco occidentale è un dato di fatto. Viene lasciato a Roma un
ruolo attivo nel processo di decolonizzazione, anche per bloccare una possibile espansione dell’URSS. 1949
alla Risoluzione 289-A dell’ONU che pone la Somalia sotto l’Amministrazione fiduciaria italiana (afis) per 10
anni (1950-60) dopo avrebbe ottenuto l’indipendenza.

La trusteeship e il periodo si caratterizza subito per la difficile convivenza tra autorità italiana e Lega dei
giovani somali, la principale organizzazione politica del Paese di chiaro orientamento nazionalista e
indipendentista. L’elezione del primo parlamento somalo (1956) e la formazione (anche se con matrice
tribalistica) di una classe politica nel 1960. La Repubblica Somala, con capitale Mogadiscio, nasce nella
fusione della Somalia italiana con il Somaliland inglese. Il primo presidente Abden Abdullah Osman Daar. La
costituzione l’anno dopo, conferma il progetto unitario simboleggiato dalle 5 punte della stella bianca che
campeggia al centro della bandiera a sfondo azzurro: l’unione delle 5 terre con abitanti somali (Somalia
italiana, Somaliland, Somalia francese, Ogaden e parte del Kenya) nella Grande Somalia. La questione dei
confini incerti avrebbe di lì a poco destabilizzato le fragili fondamenta della Repubblica di Somalia e
generato quell’instabilità interna che ancora oggi impedisce la riappacificazione del Paese. Nel 1967
Abdirashid Ali Sharmarke vince le elezioni presidenziali e il mandato dura solo 2 anni perché viene
assassinato. Sei giorni dopo Mohammed Siad Barre, a capo dell’esercito fa un colpo di stato e proclama la
Seconda Repubblica. Sospendendo tutte le istituzioni dello Stato.

In un primo tempo attua un programma illuminato e progressista che mira a: ricomporre la frammentazione
in clan del tessuto sociale nel nome di un ritrovato spirito nazionalista; estendere le cure mediche gratuite e
l’istruzione scolastica; rendere obbligatorio l’insegnamento della lingua somala e promuovere i diritti civili
delle donne. Nel 1970 annuncia l’adesione al marxismo. Nel 1976 nasce il Partito socialista rivoluzionario
somalo. Ma l’accentramento dei poteri in Siad sempre più marcato e il culto della personalità cambiano le
carte. Insieme alla siccità nel 1974-75. Entra in conflitto con l’Etiopia per la regione dell’Ogaden, una delle
punte della stella somala. Il conflitto sancisce la fine dell’alleanza con l’URSS. Nel 1978 viene sconfitto. Cresce
l’opposizione interna. 1978 nasce Somali Salvation Front (Sosaf), Somali Democratic Salvation Front (Sdsf),
Somali National Movemente (Snm) nel 1981 a capo della resistenza alla dittatura. A sud nasce il Gruppo del
Manifesto, movimento d’opposizione non armaot e comporto perlopiù da personalità politiche, economiche
e intellettuali. Il suo nome deriva dal documento con cui il gruppo sollecita la convocazione di una
conferenza di riconciliazione nazionale. Siad Barre reagisce con comportamenti deliranti: carneficina del 1990
allo Stadio di Mogadiscio (aprire il fuoco su spettatori colpevoli di manifestare pubblicamente il loro
dissenso). Nei mesi successivi colpisce una guerra civile dalle conseguenze tragiche.

Fu costretto nel 1991 a fuggire e lasciò il Paese senza governo per 2 anni. 1960 Somaliland indipendente e
poi il Putland. Ci sono anarchia e disordine sociale. Il territorio viene militarizzato. A fronteggiarsi sono le due
anime dello United Somali Congress rappresentate da Ali Mahdi Muhammad, presidente, e dal generale
Mohammed Farah Aidid, che non vuole riconoscergli la nomina. Si stimano 3000 vittime solo in città nel
1991-92, più le vittime

della malnutrizione e malattie. Solo davanti al riacutizzarsi della crisi, il segretario generale delle Nazioni Unie
Boutros Ghali rompe gli indugi e nel 1992 denuncia <<totale inazione>> del mondo nei confronti del
dramma somalo. Bush perde contro Clinton: come ultimo atto manda forze armate per ridare speranze alla
Somalia. Nel 1992 il Consiglio di sicurezza dell’ONU approva la Risoluzione 794 che autorizza l’invio in
Somali del contingente militare statunitense (Unitaf) a cui viene affidato il compito di restaurare l’ordine e
permettere la distribuzione degli aiuti umanitari. L’operazione Restore Hope. Presto tra le UN e USA
emergono contrasti sulla gestione e le finalità della missione: l’ONU mirava al disarmo, USA voleva solo
garantire il controllo dell’ordine pubblico. Per questo, l’ONU decide di rinegoziare i termini della missione,
istituendo una nuova forza internazionale (Unosom II) che nel 1993 subentra.

L’atteggiamento più aggressivo contribuisce a destabilizzare ancora di più il clima del posto. Le milizie dei
due personaggi ricominciano a scontrarsi e i caschi blu assistono impotenti. La Battaglia di Mogadiscio
comporta l’abbattimento di elicotteri americani: Clinton ritira le truppe. Il bilancio della missione è
fallimentare. La giornalista Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin vengono uccisi. Adid autoproclamatosi
presidente muore dopo un anno. Riprendono le violenze negli anni ’90 con i warlords, capi clan che sfruttano
l’anarchia e il vuoto di potere per affermare con le armi il predominio sulle diverse zone del paese e della
capitale, con l’unico obiettivo di consolidare interessi economici locali.

Nel 1999 Ismail Omar Guelleh, presidente del piccolo stato di Gibuti. Con ONU, USA, Italia, Egitto e Libia
convoca la conferenza di pace di Arta che chiude i propri lavori con l’istituzione di un Governo nazionale di
transizione (GNT) e l’investitura del presidente Abdulqassim Salad Hassan. La Conferenza di Nairobi dal 2002
al 2004 si è conclusa con la nomina di un parlamento provvisorio con rappresentanti dei principali gruppi
etnici. Nel 2006 il nuovo governo, con Abdullahi Yusuf Ahmed, firma un protocollo d’intesa con la
Commissione europea per il rientro della Somalia nella comunità internazionale. Ma gli sforzi diplomatici non
riescono a riportare la pace.

Cresce infatti l’influenza delle Corti islamiche, organizzazioni di quartiere che approfittano dello sfascio
istituzionale per assolvere almeno in parte alle normali funzioni di governo: dirimere le controversie locali,
garantire l’ordine pubblico, assistere la popolazione. Cresce il consenso alle corti islamiche e l’ostilità del
governo provvisorio. nel 2006 L’Unione delle corti islamiche (UCI) controlla l’intero territorio di Mogadiscio,
ma dal 2007 la città torna nelle mani del governo provvisorio grazie all’intervento militare dell’Etiopia e degli
USA, preoccupati per una possibile infiltrazione di Al Qaeda. Gli scontri continuano per il 2007. Il numero di
profughi conta 2 milioni. Nel 2008 accordo di pace che sancisce la fine degli scontri, ritiro delle truppe etiopi
e l’ingresso dell’ennesimo contingente internazionale, sotto l’egida dell’Unione africana. L’unico governo
riconosciuto dalla comunità internazionale è il Governo federale di transizione, guidato dal primo ministro
Hassan Hussein, a cui si oppone il movimento insurrezionalista islamico Al Shabaab. Con attentati
dinamitardi, carestia e, nel 2011 la pirateria navale, la Somalia presenta ancora una serie di problemi irrisolti.
Hamid in A. Leogrande, Hamid, in La frontiera (Feltrinelli 2015, pp. 24-38):

Hamid è un giovane somalo di ventun anni. È in Italia da 4 anni, prima invece stava in Libia. È uno dei
pochissimi sopravvissuti a uno dei più gravi naufragi del Mediterraneo del 2011 sulle coste libiche, durante la
guerra contro Gheddafi. Stringendosi le mani e torturandosi le dita, mi racconta quello che è successo in
quella notte di maggio. “Eravamo 760, ne sono morti 650”.

Nei mesi precedenti aveva lavorato come magazziniere in un’azienda alle porte di Tripoli. I libici sono così:
aspetti in strada e quando ti vogliono ti danno lavoretti, ti portano al lavoro, ti spiegano che fare e a fine
giornata ti pagano. Poi, se sei bravo, riesci a trovare qualcosa di più stabile. Dal momento che non riusciva ad
andare in Italia, “perché avevano chiuso il mare”, aveva deciso di rimanere lì. Aveva imparato l’arabo ed era
felice. “Pagavano 900 dinari al mese (700$ ca): uno stipendio molto buono. E il cibo costava poco”. Ma poi la
guerra ha cambiato tutto. La grande paura è che i ribelli e la folla inferocita che vuole la caduta del rais ti
scambino per un mercenario al suo soldo proveniente dal Sud. “Allora, se ti vedevano per strada e capivano
che non eri libico, se vedevano che eri nero, ti ammazzavano. Siamo rimasti chiusi dentro le nostre case un
mese, comprando da mangiare solo una volta”. Poi si sparge la voce che sono gli stessi soldati libici a voler
spingere tutti i neri in città verso l’Italia. Di colpo il mare non è più chiuso, mentre continuano i linciaggi per
strada e gli aerei della Nato bombardano. Gheddafi prova a giocare la sua ultima carta: la bomba dei
migranti, l’abbattimento delle frontiere (“Se cado io, sarete invasi...”). E così spinge migliaia di quelle stesse
persone che- in virtù degli accordi bilaterali con l’Italia- aveva a lungo bloccato nelle carceri e nei campi di
concentramento in mezzo al deserto, verso quelle ricche coste che aveva promesso di proteggere.

Nel racconto di Hamid i soldati libici e i trafficanti sembrano organizzare il viaggio all’unisono, darsi quasi
una mano a vicenda. Il viaggio (per l’Italia) è gratis. Quando li imbarcano tutti, ordinano ai somali e agli
afghani di andare nella stiva ma loro si oppongono: alla fine stanno all’aperto e li fanno salire per ultimi.
Nella stiva vengono ammassati in 400. Ci sono una trentina di donne con i bambini e un soldato libico, dato
che si lamentavano, li fa sistemare in una piccola cabina vicino al capitano. “Loro non si sono salvate. La
porta era chiusa. Il capitano sì invece”. Dopo appena 20 minuti la nave si capovolge.

“In quel momento ero al telefono con un mio amico che mesi prima era andato in Tunisia e da lì lo avevano
mandato in America. Mi stava dicendo che era appena sbarcato, che era andato tutto bene... quando è
entrata l’acqua nella nave”. Hamid sa nuotare e riesce a rimanere a galla. Capisce subito che l’unica cosa da
fare è allontanarsi velocemente dalla nave per evitare di essere risucchiati. Intorno le persone si
aggrappavano l’una all’altra, tirandosi giù. Nel buio intravede le luci della costa e riesce ad arrivare alla
spiaggia, stremato.

Non fa in tempo a riprendere fiato che vede arrivare due navi libiche: uomini in divisa chiedono ai pochi
superstiti di aiutare nel salvataggio. “Ho preso quelli con il giubbotto di salvataggio e le donne con i
sacchetti dei vestiti di ricambio, legati con lo scotch che galleggiavano. Abbiamo salvato anche una donna
con una bambina di 40gg: si era aggrappata a un pezzo di legno”. Quando finisce di dare il suo aiuto nelle
ricerche dei dispersi, può finalmente tornare nella piccola abitazione dove stavano in otto, ora erano rimasti
in 3 (i corpi degli altri non furono mai recuperati). “Per 3 giorni non sono uscito, mi sembrava di impazzire,
rivedevo le persone che in acqua mi chiedevano aiuto. Ho sentito a lungo le loro voci”.

Gli chiedo se si è mai saputo qualcosa delle cause del naufragio, se nei giorni seguenti qualcuno abbia avuto
la forza o la decenza di chiarire il fatto. “Qualcuno ha detto che il capitano ha fatto rovesciare la nave perché
se si fosse allontanata troppo dalla costa non si sarebbe salvato nessuno. Era stato costretto a partire, e così
a deciso”. Io fatico a capire, Amid no. Da una parte c’è il mare finalmente “aperto”, ma denso di morte e
pericoli. Dall’altra un paese in cui continua guerra e violenza. La tv su tutti i canali continua a ripetere che gli
stranieri se ne devono andare se vogliono vivere. Se si è salvato tra tutti sarà stata la “volontà di Dio”: decide
di ritentare. A Tripoli sarebbe sicuramente morto, in mare forse no. Non vuole più viaggiare gratis: paga
300$ per una nave più piccola. Meno di un mese dopo è a Zohara, un villaggio sulla costa. Per una settimana
aspetta in una casupola con altri in attesa. Una notte, all’improvviso, gli comunicano la partenza. Però
succede un altro “casino” (lo usa per una somma indistinta di inconvenienti del Grande viaggio, come un
intoppo): si rompe l’elica del motore. Un ragazzo- meccanico a bordo riesce a dire che se non avessero
trovato qualcuno sulla rotta non si sarebbero salvati. Chiamarono a Lampedusa e dissero di attendere.
“Abbiamo aspettato 5 ore, poi è arrivato un elicottero, ha fatto delle fotografie e se ne è andato. Dopo 2h
sono arrivate due navi militare italiane e ci hanno fratto trasbordare. Quando ho visto i soldati italiani, ho
capito di essere salvo”. Hamid rimane a Lampedusa un solo giorno per le impronte digitali. Poi una nave
militare lo porta in Italia e qui le strade si dividono: secondo il piano Emergenza Nord Africa, elaborato in
fretta e furia con l’esplosione delle primavere arabe, vengono smistati tra le diverse regioni italiane. Prima va
a Campobasso, poi a Latina e ad Aprilia dove trova un centro di accoglienza. Ci rimane per un anno e mezzo
poi mi hanno dato il documento di rifugiato e mi hanno fatto lasciare il centro (scegliere se ricevere 500€ o
essere sbattuto fuori dalla polizia con niente). Abbiamo affittato un appartamento ad Aprilia per 7 mesi, poi
ho trovato un posto dove dormire nel centro di Tor Vergata.

Carolina si è aggiunta a noi. Riesco solo a chiedergli se gli capita ancora di sognare quel naufragio. “Me lo
ricordo ogni volta che sento le notizie al TG di altri naufragi, di tanti morti. Quando sento qualcuno
dall’Africa che dice di voler partire, gli dico sempre quanto è rischioso. Gli dico di non provarci, ma loro non
mi ascoltano, mi dicono che sono bugiardo, che per il solo fatto di essere in Italia la mia vita è migliorata,
che io ho un futuro e loro no. Partono senza ascoltarti e continueranno a farlo”. Poi mi dice che quando stava
in Africa immaginava che al suo arrivo in Italia avrebbe avuto tutto (lavoro, macchina, casa...); ma nemmeno
molti italiani hanno anche loro un lavoro. Non me lo immaginavo”. Prendi 650 corpi, disponili in fila: quanto
è lunga? Pensa solo a quanti sono. C’è qualcosa di incommensurabile in ogni naufragio di massa. A prima
vista, c’è qualcosa che li rende simili, ma allo stesso tempo c’è qualcosa che rende unico ognuno di loro. Se
c’è una cosa che ho capito in questi anni, è che ogni naufragio è un avvenimento a sé stante: pretende di
essere sottratto all’oblio, tanto quanto vuole essere afferrato nella sua unicità. Gli chiedo quanti anni avesse
quando è partito, mi risponde tredici! Cosa muove questa crociata di bambini e ragazzini verso le porte
dell’Europa a lungo sognante? Mi dice “Sono partito con mio fratello, ma poi lui è morto in viaggio. Quando
è successo ero in prigione in Libia: mi avevano catturato in mare. Era più grande di 3 anni”. Mi pare di intuire
che se è riuscito a raccontare con relativa facilità qualcosa che molti sopravvissuti non sarebbero riusciti a
fare, è perché dentro di lui c’è un oggetto indicibile ancora più grande (probabilmente c’entra la morte del
fratello).

Nel 2010 Hamid e il fratello (di cui non ha mai rivelato il nome), riescono finalmente a partire per l’Italia.
Dopo 2 giorni, vengono raggiunti da una nave militare con bandiera italiana, che comunica che li avrebbero
portati in Italia. Ma appena salgono sulla nave si accorgono che accanto agli italiani ci sono anche militari
libici: li stanno riportando dietro in Libia. Nasce una protesta e allora i libici iniziano a picchiare, mentre gli
italiani stanno semplicemente a guardare. Per i feriti più gravi al porto ci sono due ambulanze. Il fratello si
finge malato e si fa portare in ospedale, dove rimane una notte per poi scappare e vivere da “clandestino”.
Hamid invece va in carcere, dove rimane per 7 mesi. Sono in ventitré chiusi in una piccola cella: l’aria è
irrespirabile, la piccola fossa per i bisogni perennemente intasata, il caldo e la puzza sono ingestibili, pieno di
mosche... La mattina danno acqua e pane per l’intera giornata. Hamid per non impazzire decide di imparare
l’arabo, parlando, senza libri. In carcere un altro conoscente somalo gli parla del naufragio del fratello,
ignorando che lui non ne sapesse niente. È uscito per il ramadan, stavolta non c’è stato bisogno di pagare
nessuno. È tornato a Tripoli e a trovato lavoro come magazziniere...

La piaga che scava dentro la mente di Hamid è ancora aperta, ma non è riuscito a raccontarmela. Ho capito
che ci sono drammi che, anche quando razionalizzati, ne celano altri, in un gioco di specchi praticamente
impossibile da decifrare, da sciogliere nella sua interezza, per chi vive al di qua del Mediterraneo. La madre di
Hamid è ancora in Somalia e chiama quando ha un po’ di soldi, l’asilo politico dura 5 anni, gli altri fratelli
ancora in Africa vorrebbero seguirlo... Mi ha confidato che vorrebbe aprirsi una pizzeria a Roma.
JERRY MASSLO

Jerry Masslo è stato un rifugiato sudafricano in Italia ucciso da una banda di criminali e ciò ha portato ad una
riforma della normativa per il riconoscimento dello status di rifugiato.
Masslo diventa sostenitore politico della liberazione del Sudafrica dopo aver assistito, durante una
manifestazione, all’uccisione della sua bambina di 7 anni.
Successivamente al suo assassinio il governo variò il decreto legge secondo cui solo le persone provenienti
dall’est dell’Europa potevano richiedere asilo politico estendendolo anche ai cittadini extraeuropei su
consenso dell’alto commissariato delle nazioni unite e tale legge prende il nome di Legge Martelli.
Jerry Masslo nasce a Umtata, attualmente Mtatha, città del SudAfrica di cui è originario anche Nelson
Mandela.
Jerry Masslo nonostante la sua povertà è riuscito a proseguire gli studi in scuole riservate a neri e il padre
dopo un interrogatorio della Polizia è diventato uno dei tanti missing.
Jerry Masslo è sposato con 3 figli e vede morire sua filgia di 7 anni durante una manifestazione in quanto
colpita da un proiettile vagante sparato dalla Polizia.
In SudAfrica era in vigore l’apartheid ovvero una politica di segregazione razziale istituita in Sudafrica dai
sudafricani di razza bianca che per esempio, proibiva ai neri di frequentare le stesse scuole dei bianchi.
Jerry Masslo partecipò ai movimenti per i diritti della popolazione nera che decisero di opporsi all’apartheid:
per questo lascia sua moglie e i due figli restanti e decide di mettersi in viaggio clandestinamente verso
l’Europa insieme a suo fratello. Aiutati da un loro amico marinaio si mettono in viaggio in una barca nascosti
in una scialuppa di salvataggio e durante il viaggio, Masslo deve scendere dalla nave alla ricerca di alcuni
farmaci per il fratello colpito dalla febbre.
Però, Masslo non riesce a riprendere la nave intanto ripartita e quindi è costretto a vendere i suoi due unici
oggetti di valore, ovvero un bracciale e un orologio per prendere il treno diretto a Roma.
Arrivato a Roma fa domanda di asilo politico ma se lo vede negare. Di fronte al diniego chiede di essere
messo a contatto con l’Amnesty International che dopo aver ascoltato la sua storia mette in contatto Masslo
con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite.
Dopo 2 settimane di trattenimento in una cella a Roma-Fiumicino gli viene concesso il permesso di restare in
Italia senza però ricevere l’asilo politico.
Chiede poi di andare in Canada per riunirsi ala famiglia e intanto nella struttura di sant’Egidio ove risiedeva
incomincia a imparare l’italiano e su suggerimento di altri, l’estate successiva decide di andare a Villa Literno
per la raccolta del pomodoro in attesa di un visto per il Canada.
Arrivato a Villa Literno le condizioni di vita erano durissime: qui veniva richiesto un grande impiego
bracciantile in quanto cittadina prevalentemente agricola non disponibile tra gli italiani.
Lavorava fino a 15 ore al giorno raccogliendo pomodori e veniva pagato a cassette e per ottenere 40000 lire
corrispondenti a 20€ doveva riempire almeno 40 cassette.
Di notte, inoltre, gli immigrati erano costretti a dormire in baracche senza né acqua né servizi igienici.
L’anno successivo vi ritornò dato che ancora non gli avevano rilasciato il visto per il Canada e gli immigrati
stavano prendendo consapevolezza sulle condizioni del loro sfruttamento: gli immigrati si appellarono al
sindacato ma gli episodi di intolleranza verso loro erano sempre maggiori tanto che non potevano
nemmeno passeggiare la sera e i carabinieri stessi incitavano i liternesi ad episodi di violenza contro loro.
Tale situazione destò l’attenzione dei media e una troupe del TG2 raccolse alcune testimonianze tra cui una
di Jerry Masslo in cui diceva che si aspettava un Italia in cui vi era pace e in cui poteva vivere senza barriere e
pregiudizi ma invece è deluso dal fatto che dopo tanto lavoro questo è il ringraziamento.
Il 24 agosto 1989 alcune persone con volto coperto fecero irruzione nel capannone dove risiedevano gli
immigrati compresi Masslo ordinandoli di consegnare loro i soldi. Non avevano posto dove custodirli a parte
i vestiti e quindi alcuni li consegnarono mentre altri si rifiutarono. Alle gesta di rifiuto i terroristi inizirono a
sparare Masslo morì.
Al funerale di Masslo accorsero anche le televisioni di tutta italia e il TG2 trasmise il funerale in diretta
trasmettendo anche la sua intervista.
La morte di Jarry Masslo ebbe un grande risalto mediatico tanto che nell’estate del 1990 a Villa Literno viene
realizzata una tendopoli dotata di servizi igienici intitolata a Masslo nonostante le condizioni igieniche
rimasero comunque scarse.
Nel 1990 inoltre viene introdotta la Legge Martelli per permettere anche agli stranieri extraeuropei di
migliorare le proprie condizioni di vita.

Potrebbero piacerti anche