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Anna Maria Gentili

IL LEONE E IL CACCIATORE

LA MAPPA DELL’OCCUPAZIONE COLONIALE.

Successivamente alla sconfitta nella Prima guerra mondiale, la Germania perse tutte le
colonie in Africa. La Società delle Nazioni istituì in questi territori due tipi di mandati:
1. Tipo B. Sotto tutela delle altre potenze europee incaricate di garantirvi ordine e
buon governo.
2. Tipo C. Africa del sud-ovest ceduta all’amministrazione del Sud Africa.
I mandati di tipo A, che concedevano l’autogoverno, vennero dati solo ai paesi
mediorientali ex ottomani. Nell’ambito del mandato B, la situazione divenne la seguente:
- Togo alla Francia con l’eccezione di una parte che l’Inghilterra annette alla Costa
d’Oro. La comunità ewe resta divisa tra inglesi e francesi.
- Camerun alla Francia con l’eccezione delle province del nord-ovest e del sud-ovest
amministrate come parte della Nigeria.
- Rwanda e Burundi al Belgio, amministrate come appendici del Congo.
- Taganyika all’Inghilterra.

Le colonie francesi vengono inglobate in due federazioni:


1. Africa Occidentale Francese (AOF) composto tra il 1947 e il 1958 da otto unità
territoriali: Dahomey (Benin), Guinea, Costa d’Avorio, Mauritania, Niger, Senegal,
Sudan (Mali), Alto Volta (Burkina Faso). Il governatorato generale è a Dakar.
2. Africa Equatoriale Francese (AEF) composta da Gabon, Congo Brazzaville,
Ubangi-Shari (Repubblica Centroafricana) e Ciad. Il governatorato generale è a
Brazzaville.
Togo e Camerun non vi vennero incluse. Le due federazioni erano guidate da un
governatore assistito da un Consiglio consultivo formato dai funzionari amministrativi, dai
governi delle singole colonie, dai rappresentanti delle principali imprese commerciali e da
alcuni notabili indigeni. Ciascuna colonia, amministrata da un governatore, era divisa in
circoscrizioni (circles) sotto un funzionario detto commandant de cercle.

Le colonie inglesi in Africa occidentale (Nigeria, Costa d’Oro, Sierra Leone, Gambia) erano
multiple dependencies, cioè amalgami di colonie e protettorati. Il Sudan era governato in
condominio con l’Egitto. Il Kenya fu una delle principali aree di insediamento dei settlers
bianchi. Oltre a queste, Londra possedeva l’Uganda, la Somalia settentrionale (British
Somaliland), le Mauritius, le Seyechelles, e il Taaganyka dal 1919 che creava un corridoio
inglese ininterrotto dal Sud Africa all’Egitto. Nell’Africa meridionale, dopo l’autonomia
garantita al Sud Africa nel 1910, il controllo britannico è totale attraverso gli High
Commission Territories di Swaziland, Bechuanaland (Botswana), Basutoland (Lesotho),
Rhodesia del Sud (Zimbabwe), Rhodesia del Nord (Zambia), Nyasaland (Malawi).

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Le colonie italiane nel 1936 consistevano in Somalia, Eritrea e l’appena conquistata
Etiopia. Dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale, la Somalia italiana viene
concessa in amministrazione fiduciaria al governo di Roma fino al 1960, l’Etiopia ottenne
l’indipendenza con la restaurazione del negus e l’annessione dell’Eritrea e dell’Ogaden.
Nel 1962 l’autonomia federale dell’Eritrea venne soppressa e iniziò una lotta di liberazione
con l’Etiopia conclusasi solo nel 1993 con l’indipendenza.

Le colonie belghe si limitano al Congo (Zaire) e, dopo il 1919, al Rwanda e Burundi.

Le colonie portoghesi partono dagli antichi possedimenti delle isole di Capo Verde, Sao
Tomé e Principe, per arrivare ai grandi territori di Angola, Mozambico e Guinea-Bissau.

Ideologia e pratica delle amministrazioni coloniali.


Le strutture coloniali istituite dalle diverse potenze furono, nelle loro linee guida, molto
diverse.

I belgi acquisirono il Congo da una holding privata facente capo a re Leopoldo II, poi
travolta dagli scandali. Nella loro amministrazione proseguirono però il principale intento,
quello dello sfruttamento economico, specialmente minierario. La costruzione di
un’imponente rete infrastrutturale e di un apparato amministrativo articolato ed esteso fu
tutta a vantaggio delle Compagnie concessionarie che sovrintendevano all’estrazione. In
Rwanda e Burundi venne messa a punto una politique des races basata sulla superiorità
di certe razze a seconda della maggior centralizzazione dei loro sistemi politici. Prima
della colonizzazione, in Rwanda i clan dei Tutsi e quelli Hutu vivevano mescolati e
organizzati in rapporti clientelari. I belgi favorirono I Tutsi per via di una loro supposta
superiorità etnica e li misero a capo dell’amministrazione indigena e della monarchia
autocratica che venne mantenuta e consolidata. In Burundi vennero invece favoriti i
principi ganwa, poiché il sovrano manteneva funzioni solo rituali.

Gli italiani non adottarono un reale sistema coloniale fino al fascismo, che effettuò
investimenti in infrastrutture, insediamenti e aziende agricole. Gli effetti furono importanti
soprattutto in Eritrea, che beneficiò di una relativa modernizzazione tale da porla
all’avanguardia rispetto al vicino etiopico. È dunque in epoca coloniale che nasce quel
senso d’identità eritreo che poterà alla guerra con l’Etiopia, non volendo i primi
ricongiungersi all’arretrato e feudale impero.

I portoghesi, come gli italiani, istituirono un sistema coloniale solo negli anni Trenta con
Salazar. Il nazionalismo economico puntò a rinnovare i sistemi di sfruttamento per renderli
più produttivi ai fini dell’industrializzazione della madrepatria.

I francesi si basavano sulla dottrina dell’assimilation lanciata da Louis Faidherbe,


governatore del Senegal. L’idea era che la diversità razziale fosse dovuta solo a fattori
culturali e che perciò le popolazioni africane andassero civilizzate in vista di una loro
assimilazione alla civiltà francese. Il sistema dell’indigénat, funzionante prima in Algeria e
poi esteso alle altre colonie, prevedeva un regime amministrativo autoritario capace di
comminare sanzioni penali senza giudizio e costringere i nativi a prestazioni in natura o
lavoro per opere considerate di pubblica utilità (nonostante la legge francese non
consentisse il lavoro forzato). Esenti dal sistema erano solo i francesi, i senegalesi e gli
abitanti dell’isola di St. Marie in Madagascar che dal 1848 godevano della possibilità di
mantenere il loro diritto consuetudinario. In seguito l’esenzione riguardò i principali i
funzionari e notabili indigeni, oltre a coloro che possedevano un determinato patrimonio. I

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francesi furono però spesso costretti all’alleanza con i capi indigeni, specialmente
musulmani, al fine di consentire il funzionamento della loro amministrazione fortemente
accentrata, difficilmente sopportabile tra popolazione abituate a sistemi politici deboli e
dispersi. Molti musulmani risposero alla colonizzazione con de jihad senza fortuna, ma
nell’area sahariana le tensioni rimasero sempre alte. Diversi “Mahdi” assunsero nel tempo
la guida di rivolte religiose represse nel sangue. Molti intellettuali si allearono tuttavia con i
colonizzatori in modo da garantire la difesa di alcuni interessi. In Mauritania i francesi
strinsero alleanza con i capi locali, a cui delegarono il grosso delle funzioni amministratrici,
effettuando un vero proprio governo indiretto. Dopo la guerra mondiale, il sistema cambiò
e favorì il sistema introdotto in Mauritania: ovunque vennero istituiti Conseils de notables
indigenes con poteri consultivi, affiancati ai “commandant de cercle” e nel 1952 attraverso
elezioni venivano scelti i rappresentanti locali ai consigli d’amministrazione coloniali e ai
consigli di governo federali. Il generale De Gaulle alla Conferenza di Brazzaville del 1944
sostenne l’intenzione di trasformare il sistema coloniale di dipendenza in un rapporto di
cooperazione preferenziale con la Francia. Nacque così, dopo la guerra, l’Union
Française con un’Assemblea composta da 204 membri di cui 40 scelti dalle assemblee
territoriali delle due federazioni africane. Venne inoltre portato a 83 il numero di
parlamentari d’oltremare all’Assemblea nazionale. La loi cadre proposta dal socialista
Gaston Defferrre smantellò poi l’AOF e l’AEF garantendo l’autonomia alle diverse colonie.
La svolta verso la piena indipendenza avvenne in seguito alla sconfitta di Dien Bien Phu in
Indocina (1954) e in Algeria. Divenuto presidente sull’onda dei disastri, nel 1958 De Gaulle
fece effettuare referendum in tutte le colonie francesi per trasformarle in membri di una
sorta di “commonwealth” francofono. Solo la Guinea bocciò il progetto, ma il suo no diede
il via all’ondata indipendentista pacifica che dal 1960 portò alla fine di ogni legame tra le ex
colonie e la metropoli. Vanno analizzati in dettaglio alcuni casi particolari:
• Senegal e Mali. Fin dal 1848 i senegalesi, per via del loro antico legame con la
Francia, godevano di pur limitati diritti politici: nel 1914 venne eletto all’Assemblea
nazionale il primo deputato nero. Nel 1920 vennero introdotti nel Consiglio coloniale
venti capi regionali che potevano esprimere il loro parere. Dopo la Prima guerra
mondiale vennero messi a capo dei cantoni i membri di influenti famiglie locali.
Dopo il sì nel 1958 alla proposta di Comunità (97%), il Bloc démocratique
senegalais di Leopold Sedar Senghor si alleò con le forze musulmane per una
continuità di collaborazione con la Francia. Nel 1959 venne istituita una federazione
tra Senegal e Mali, che si sciolse nel 1960 due mesi dopo l’indipendenza dei due
Paesi. Il Senegal si mantenne filo-francese, il Mali scelse il non-allineamento.
• Costa d’Avorio. Le produzioni di cacao e caffè garantirono a questa colonia grandi
guadagni, limitati però solo al sud-est abitato dai grandi piantatori, mentre il nord-
ovest andò spopolandosi e impoverendosi. Nel 1944 il piantatore Felix Hophouet-
Boigny istituì un sindacato per reclamare pari condizioni tra piantatori indigeni ed
europei, creando poi il partito RDA attraverso il quale dominerò la politica ivoriana
fino al 1993.
• Guinea. Nel 1958 la Guinea di Sekou Touré fu l’unica colonia a votare contro la
Comunità francese. I giacimenti di bauxite e ferro ne facevano una zona ricca,
anche se vennero sfruttati solo dopo l’indipendenza. Dal 1946 un forte sindacato si
fece promotore delle lotte di emancipazione, dal quale poi scaturì il Parti
démocratique de Guinée (PDG) di Touré che vinse le prime elezioni legislative del
1956. I primi atti interni furono l’elezione diretta dei sindaci, l’aumento dei salari
minimi e la riduzione delle tasse. Al no del ’58 seguì il ritiro del personale e dei
capitali francesi dal Paese, al quale Touré rispose con l’alleanza sovietica e la
monopolizzazione del potere.

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• Niger. Al referendum del ’58 il partito al potere, l’Unione démocratique nigerienne
(UDN) di Djibo Bakary sostenne il voto contrario, ma i francesi favorirono
l’opposizione del Bloc nigerian d’action che ebbe la meglio e portò al consenso. Ciò
dimostrò la debolezza di un Paese rimasto sempre poverissimo e completamente
soggiogato dai francesi, che attraverso una politica di “divide et impera” avevano
nel corso della dominazione messo le diverse popolazioni l’una contro l’altra.

Gli inglesi adottarono un’ideologia opposta a quella francese basata sulla sostanziale
universalità del genere umano: la diversità tra le razze è un dato di fatto. Da qui un
sistema teoricamente duale, con la distinzione tra governo coloniale britannico e le native
administrations locali funzionanti attraverso istituzioni tradizionali. Duale in teoria, perché
di fatto il controllo britannico è totale e soprattutto non punta ad alcuna modernizzazione
delle società indigene ma desidera preservare il loro “stato di natura”. Si possono
distinguere comunque tre tipi di dipendenze coloniali:
1. Governo bianco nelle colonie con una forte comunità europea: Sudafrica,
Rhodesia, Kenya) dove e native administrations non si attuano.
2. Sistemi centralizzati esistenti già in precedenza e preservati in virtù dell’idea che i
sistemi gerarchici sono più avanzati (califfato di Sokoto,, Asante, Buganda ecc.).
3. Sistemi acefali, cosiddette backward ribes (arretrate), in maggioranza, dove vi
sono solo forme elementari di alleanze fra clan.
Le native administrations si basano sull’individuazione dei capi legittimi e sulla loro
collaborazione nell’esercizio dell’autorità secondo le leggi consuetudinarie (perciò fu
definito un sistema di administocracy). Laddove non presenti capi legittimi, il governo
britannico individua gli uomini più eminenti della comunità elevandoli al rango di capi. La
costruzione di nuove legittimità si spinge fino alla costruzione di nuove comunità: quelle
più deboli e disperse vengono assorbite dalle maggiori o ristrutturate in modo da andare
incontro alla semplificazione amministrativa britannica. Accanto alle n.a. c’erano poi le
multiple dependencies, misti di colonie e protettorati abitati da sudditi coloniali e dove non
c’era spazio per nessun tipo di rappresentanza degli autoctoni. Una prima apertura verso
una maggior rappresentanza all’interno delle n.a avvenne con il riconoscimento di Consigli
consultivi da affiancare all’eccessiva ingerenza dei re e capi locali, spesso in
contrapposizione col volere dei dominatori. Nel 1947 la riforma Creech-Jones aprì
all’elezione a livello locale di tali rappresentanti, ma non si trattò altro che di un tentativo di
cooptare nel sistema istanze rinnovatrici o voci dissenzienti.

Casi pratici di indirect rule. Il sistema delle n.a fu applicato con casi esemplari in Nigeria
e Uganda.

La Nigeria era in realtà un multiple dependencies ma nei territori prettamente coloniali –


specialmente nel nord - si puntò a far leva sui capi locali. Inizialmente l’autorità fu
concessa solo agli Oba, i “re” dello Yorubaland, a cui negli ’30 vennero affiancati consigli
di notabili per limitare il loro potere autocratico. L’espansione della produzione di cacao,
fortemente osteggiata dai contadini che non volevano sacrificare la loro agricoltura di
sussistenza in favore di una produzione tesa unicamente alla commercializzazione,
garantì forti introiti soli ai capi e aumentò il fenomeno dei senza terra. Ciò provocò un
inevitabile risentimento verso i capi tradizionali, che persero la legittimità e il prestigio agli
occhi della popolazione. Gli Ibo e gli Yoruba divennero le élite istruite poste a capo
dell’amministrazione nigeriana, costruendo di fatto a tavolino una divisione di natura
etnica. Nel 1940 il Colonial Development and Welfare Act puntò al rilancio delle attività
economiche e limitò i poteri delle n.a. attraverso limitate elezioni. Nel 1946 la Costituzione
Richards recepì questo principio in Nigeria permettendo elezioni locali per i tre Consigli

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regionali e per quello legislativo. Nel 1954 alla Costituzione Richards fu sostituita con una
federale che istituì elezioni a suffragio universale garantendo maggiore autonomia per le
tre regioni. All’indomani dell’indipendenza, comunque, la debolezza di un sistema
controllato da una limitata élite istruita fu evidente con lo scoppiare della guerra del
Biafra.

Il ruolo centrale dei britannici nella costruzione di false legittimità ebbe successo
soprattutto in Uganda, che fin dal nome dimostra la volontà dei colonizzatori di porre a
capo di una serie di comunità molto diverse il regno del Buganda, centralizzato e perciò
considerato più moderno. Il kiganda model – il modello amministrativo del Buganda – fu
adottato in tutto il Paese. Questa relazione diseguale non venne limitata dalla blanda
autonomia concessa ai regni di Ankole e Toro: le diverse etnie vennero spesso riunite in
amministrazioni del tutto artificiali. La leadership Buganda fu evidente soprattutto nella
gestione degli introiti derivanti dalle fiorenti coltivazioni di cotone, che negli anni ’20 arrivò
a sottrarre ai contadini i due terzi del prodotto. Il movimento bataka che riuniva i
tradizionali capi-clan terrieri sfidò i latifondisti ottenendo l’appoggio del governo coloniale
che temeva l’abbassamento della produttività. Alla fine degli anni ’30 l’élite nazionalista
buganda si fece interprete di una lotta contro la corruzione e la monopolizzazione del
commercio del cotone da parte degli europei e degli asiatici. Solo nel 1952 questo
movimento condusse alla nascita dell’Uganda National Congress (UNC) slegato
dall’aristocrazia vicina al puramente rappresentativo sovrano buganda, detto Kabaka. A
ciò si contrappose l’Uganda National Movement (UNM) dei latifondisti e dei leader più
tradizionali, che boicottò le elezioni del primo Consiglio legislativo del 1958. Inoltre la
diffidenza tra cattolici e protestanti portò nel 1956 alla nascita del Democratic Party (DP)
cattolico in opposizione al predominio protestante nell’economia e nella società. I cattolici
vinsero nel elezioni nel 1961, ma l’opposizione dei lealisti del Kabaka appoggiati dai
protestanti fece naufragare la leadership del DP e portò a una Costituzione federale
asimmetrica che garantiva al Buganda la sovranità assoluta sul Paese.

Solo nel 1944 un sistema di n.a venne introdotto in Costa d’Oro (Ghana). Il problema qui
riguardava soprattutto la necessità di impedire che lo Stato precoloniale degli Asante
riprendesse il suo antico potere. Deportazioni ed esili garantirono questo risultato per
alcuni decenni finché a partire dal 1935 fu garantita agli Asante la leadership delle n.a. Nel
frattempo si era andata espandendo la fiorente produzione di cacao che fece della terra un
bene prezioso e arricchì molti coltivatori e piantatori locali. Lo Stato coloniale, proprio per
questo, decise di espropriare a proprio vantaggio tutte le terre vacanti. Una forte
opposizione di intellettuali locali a favore del diritto di possesso della terra da parte delle
comunità ebbe esiti molto complessi: l’essere membro di una comunità divenne la ‘conditio
sine qua non’ per l’accesso alle risorse produttive. Perciò si assistette a una continua
ridefinizione dei confini delle comunità, con lotte per il potere spesso violente tra i gruppi.

Nel Tanganyika il sistema delle n.a si introdusse nel 1925. Sotto l’occupazione tedesca
venne riconosciuto alle comunità il diritto di mantenere i propri capi locali, previa
approvazione dell’autorità coloniale e salvo i distretti ribelli che rimasero sotto occupazione
militare. Nonostante l’assenza di autorità indigene identificabili, i britannici applicarono
anche qui l’indirect rule dopo il passaggio delle colonia nelle loro mani. L’arretratezza del
territorio fu contrastata da esperienze associative tra contadini e tra operai, dalle quali
emersero le prime organizzazioni politiche. Nel 1929 si formò il Tanganyika African
Association in opposizione al disegno federativo dei bianchi per un’unione tra
Tanganyka, Kenya e Uganda. Nel 1954 il TAA si trasformò nel TANU (Tanganyika African
National Union) di stampo nazionalista la cui guida fu presto assunta dal giovane

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intellettuale Julius Nyerere, primo presidente dello Stato indipendente nel 1961. Le
difficoltà economiche derivanti dall’arretratezza del periodo coloniale vennero affrontate da
Nyerere con la politica di Ujamaa basata sullo sviluppo dal basso a partire dalle comunità
di villaggio.

Diversa la situazione nell’Africa meridionale. Nella Rhodesia del nord la frammentazione


etnica e tribale permise l’individuazione di due sole comunità conformabili alle n.a.:
1. Lozi godettero di un’amministrazione separata nel Barotseland con a capo il re
tradizionale.
2. Bemba possedevano un sovrano, il Chitimukulu, dai poteri molto ridotti a causa
della forte competizione tra capi locali cosicché l’amministrazione del territorio fu
spesso problematica.
Gli inglesi avevano in Northen Rhodesia un unico interesse: quello dell’acquisizione di
forza lavoro da inviare nelle miniere sudafricane e della Rhodesia del sud. Per facilitare
questo obiettivo la popolazione fu concentrata nei villaggi. Circa il 70% del reddito
autoctono proveniva dal lavoro svolto nelle miniere estere. Nel Nyasaland la situazione
non era dissimile, al punto che da qui proveniva la maggior parte della forza lavoro
dell’Africa australe. L’amministrazione coloniale, attraverso il sistema coercitivo di lavoro
obbligatorio detto localmente thangata, effettuò una completa devastazione del territorio al
punto che già nel 1915 una rivolta, guidata da un reverendo anglicano, aprì il terreno degli
scontri. Nel 1943 le varie associazioni di protesta si riunirono nel Nyasaland African
National Congress (NANC) chiedendo la fine delle n.a. e il diritto alla terra. L’oppressione
coloniale non diminuì e dal 1953 al 1964 il Nyasaland e le Rhodesie vennero fuse nella
Central African Federation che sanciva il completo controllo bianco su quelle terre.
Infine, vanno prese in considerazione le situazioni degli High Commision Territories sotto
protettorato britannico in vista dell’annessione all’Unione Sudafricana:
1. Bechuanaland (Botswana). Qui l’estrema frammentazione del potere tradizionale
portò gli inglesi a favorire il re della principale etnia, quella Ngwato, rispetto ai
principati minori. La sua eccessiva autonomia portò tuttavia prima a una forzata
deposizione imposta dall’alto e poi a un reinsediamento dovuto alle proteste
popolari. Nel 1919 si decise di adottare un sistema che pose i capi locali alle
dipendenze dei magistrati coloniali in qualità di semplici funzionari governativi e
istituì due Consigli, uno tribale e uno europeo a sancire la separazione razziale. La
svolta avvenne allorquando l’erede al trono ngwato, Seretse Khama, ruppe ogni
tradizione sposando una donna inglese: perduta la legittimità di lignaggio, Khama
cercò di conquistarne una nuova rinunciando al trono e proponendosi come leader
nazionalista a capo del Botswana Democratic Party.
2. Basutoland (Lesotho). Questo paese, dove solo un sesto della terra era adatto
all’agricoltura, fu costantemente soggetto all’emigrazione dei lavoratori verso il
Sudafrica. Nel 1910 vi fu istituito un Consiglio nazionale sotto il controllo del re ma
osteggiato dalla classe intellettuale. Nel 1959 il Basutoland Congress Party
ottenne una costituzione che impedì l’annessione al Sudafrica garantendo
l’autonomia del paese, ma gli inglesi e i leader sudafricani si sforzarono fino
all’ultimo momento per mantenervi la monarchia tradizionale e impedire
l’indipendenza che si ebbe nel 1966.
3. Swaziland. Qui l’indirect rule fu adottato molto in profondità: gli affari interni
vennero lasciati in mano alla famiglia reale assistita da un Consiglio tradizionale e
da un’Assemblea generale. Lo sforzo della casa reale fu testo a riappropriarsi delle
risorse agricole, essendo il territorio del paese per due terzi nelle mani di
imprenditori sudafricani. Alla vigilia dell’indipendenza era stato riconquistato metà
del territorio. La casa reale ottenne un’altra vittoria sulle autorità coloniali con una

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Costituzione che garantiva la monarchia e creava un Consiglio interrazziale di 24
membri.

LA DECOLONIZZAZIONE.

L’Africa nel secondo dopoguerra. L’Africa giocò una parte attiva nella Seconda guerra
mondiale, come teatro di guerra in Libia, Egitto, Corno d’Africa, Kenya ecc. e come base di
campi di prigionia soprattutto in Sudafrica. Truppe africane combatterono a fianco degli
Stati colonizzatori e tutto il sistema produttivo africano fu sottoposto a un enorme sforzo
economico per sostenere lo stato metropolitano durante la guerra. Il Congo belga si
schierò con gli Alleati, le colonie portoghesi mantennero la neutralità voluta da Salazar. Il
Sudafrica decise di appoggiare la Gran Bretagna, ottenendone in cambio dal 1948 la
completa indipendenza dal controllo di Londra. Le colonie francesi si trovarono divise tra
quelle controllate dai sostenitori della Repubblica di Vichy – l’AOF e il Madagascar, dove
ogni diritto politico fu soppresso – e sostenitori di Francia Libera – l’AEF e il Camerun,
sull’esempio del governatore del Ciad Felix Eboué. L’ascesa del mondo bipolare fu a
livello internazionale un fattore destabilizzante per il sistema coloniale. USA e URSS erano
fortemente ostili al colonialismo per ragioni diverse.
• L’URSS ideologicamente vedeva nel colonialismo un’espressione dell’imperialismo
capitalista e ne era naturalmente ostile. Più concretamente, mirava a stabilire
rapporti di alleanza con la futura élite indipendentista (in Asia soprattutto, ma
anche in Africa a partire da Egitto, Algeria ecc.).
• Gli USA furono il primo paese al mondo ad aver lottato contro il colonialismo e il
mito della nazione americana si fondava espressamente sulla lotta anticoloniale. Il
capitalismo americano, per prosperare nel secondo dopoguerra, aveva bisogno di
smantellare un sistema coloniale di tipo protezionistico e monopolistico del tutto in
contrasto con i suoi principi del libero mercato.

Le cause della decolonizzazione. Dalla Seconda guerra mondiale scaturiscono le cause


che accenderanno la miccia del decolonialismo:
1. Danneggiamento del già fragile sistema socio-economico prodotto
dall’eccessivo sfruttamento nel corso della guerra.
2. Controsenso di combattere per ideali di libertà e indipendenza che agli africani
erano negati, e dimostrazione che quello dei bianchi non era un fronte compatto ma
presentava spaccature al suo interno.
3. Emergere di élite locali tendenti all’indipendenza. Alle élite si aggiunsero negli
anni ’50 i sindacati.
Dopo la guerra lo sfruttamento produttivo proseguì, per la necessità di ricostruzione dei
Paesi europei: avvenne così una seconda massiccia fase di sfruttamento dopo quella di
fine Ottocento. Vennero alzate le tasse sugli indigeni, aumentò il lavoro forzato, vennero
imposte nuove colture obbligatorie (es. il cotone) su decisione della madrepatria e
s’incrementò l’estrazione di materie prime. L’introduzione dell’indirect rule da parte degli
inglesi fu un tentativo di rispondere alla crescente insofferenza interna, così come le
riforme francesi (“partir pour mieux rester”). Nel 1940 il Colonial Welfare and
Development Act avviò i primi investimenti economici in Africa. Per quanto concerne la
Francia, il piano Monnet vide la costituzione di fondi d’investimento per lo sviluppo. Tutto
ciò ebbe importanti risvolti sul piano politico, dando finalmente voce alle autorità locali
senza l’appoggio delle quali il sistema non può più funzionare. Nel 1944 a Brazzaville, il
generale De Gaulle si pose a favore della decentralizzazione territoriale e di una maggiore
autonomia delle colonie. Il progetto di Union française del 1946 fu un tentativo di porre

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sotto il controllo di Parigi il sistema coloniale, attraverso un’accelerazione del processo di
assimilazione. Nacque poi già dagli anni ’30 e ’40, su incentivi americani, un movimento
pan-africanista che aveva le sue origini in Giamaica e sosteneva il ritorno dei discendenti
africani nel continente (Back to Africa). Il Quinto Congresso Panafricanista del 1945 mise
in discussione la dominazione coloniale, e vide la partecipazione di alcuni dei futuri leader
storici africani: Kenyatta e Nkrumah. Alla Conferenza di Bandung del 1955 nacque il
movimento terzomondista dei Paesi non allineati, 29 in tutto tra Africa e Asia.

La mappa dell’indipendenza. L’anno-chiave è il 1960, proclamato dall’ONU “anno


dell’Africa” grazie alle decine di dichiarazioni d’indipendenza che avvengono. Ci sono
tuttavia numerose eccezioni: l’Africa meridionale – Sudafrica, Namibia – e le colonie
portoghesi dell’Africa australe (Angola, Mozambico). La seconda fase indipendentista
inizia nel 1974-75. Restano esclusi i casi di colonialismo interno dell’Eritrea, incorporata
nell’Etiopia fino al 1993, e del Marocco che rivendica la colonia spagnola del Sahara
occidentale. Il Sudan fu il primo paese indipendente nel 1956, l’anno dopo toccò al Ghana
che fu l’unica colonia francese a votare contro il progetto gollista di unione franco-africana
di quell’anno. Tra il 1960 e il 1961 furono ben 22 gli Stati che dichiararono l’indipendenza.
Nel 1963 venne fondata ad Addis Abeba l’Organizzazione dell’unità africana che si
definì un’organizzazione di Stati sovrani e sancì l’inviolabilità dei confini coloniali, accettati
come tali per non dare adito a spinte separatiste o a dispute nazionali. Ciò creò non pochi
problemi e situazioni paradossali: la nascita di un microstato come il Gambia, ad esempio,
all’interno del territorio del Senegal; l’exclave del Cabinda che, pur essendo territorio
angolano e produttore del 60% del petrolio del paese, è separato dal resto della nazione a
causa del braccio di terra che consente al Congo l’accesso al mare; infine la separazione
di etnie divise dai confini nazionali come gli ewe divisi tra Togo e Ghana.

Decolonizzazione e repressione. La prima ondata di indipendenza si svolse


generalmente in modo pacifico. Non mancarono tuttavia intromissioni anche violente dei
colonizzatori. Nelle colonie francesi si andò dall’eliminazione fisica di leader nazionalisti –
come accadde a Nyobé in Camerun – alla loro emarginazione sia all’interno sia – come
accadde a Touré – sul piano internazionale. Il caso esemplare di intromissione violenta
dello Stato colonizzatore nel processo di decolonizzazione è quello che coinvolse il
congolese Lumumba, primo ministro del nuovo stato indipendente, che osò criticare
pubblicamente la brutalità del dominio belga. Il risultato fu l’assassinio di Lumumba e il
tentativo di secessione del Katanga, entrambi eventi guidati dai potentati economici belgi. I
due casi esemplari della repressione dei tentativi indipendentisti nelle colonie francesi
sono quelli di Madagascar e Camerun.
1. Madagascar. Nel 1947 una rivolta contro la recrudescenza del lavoro forzato
provocò una durissima repressione: oltre 80.000 morti, il movimento democratico
malgascio (DRM) soppresso e i suoi leader giustiziati, incarcerati o esiliati. Le
elezioni del ’56 nell’ambito della loi cadre vennero vinte dal PSD filo-francese di
stampo socialista moderato ma che nascondeva invece la propria natura autoritaria.
Le rivolte del 1971-72 portarono al colpo di stato che non sciolse il nodo della lealtà
alla Francia e nel ’75 un nuovo golpe portò al governo il colonnello Ratsiraka che
proclamò una costituzione unitaria fortemente accentratrice, un partito unico e
un’ondata di nazionalizzazioni.
2. Camerun. Dato in gestione alla Francia nel 1919, poi sotto la tutela ONU nel 1946,
il paese si rivoltò per la prima volta contro i dominatori francesi nel ’45 e nel 1948
nacque l’UPC con l’appoggio di sindacati e delle etnie bamileke (la più numerosa) e
bassa (che avevano usufruito di un discreto livello di secolarizzazione grazie
all’attività missionaria). Tra i bassa scoppiò presto la guerriglia anticoloniale, mentre

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l’UPC e il suo corrispettivo nel Camerun britannico si rivolsero all’ONU per chiedere
la fine della dominazione. A capo del movimento si pose Ruben Um Nyobé,
intellettuale poco propenso alla rivolta armata e favorevole alla soluzione
diplomatica. La reazione fu la messa fuori legge dell’UPC. Nel 1956 le elezioni
locali volute dalla loi cadre si tennero in un clima di lotta armata, biasimata da
Nyobé. La repressione fu durissima, le forze mercenarie al soldo dei francesi
uccideranno Nyobé nel ’58. Il risultato fu che all’indomani dell’indipendenza i
francesi posero alla presidenza Ahmadou Ahidjo che proseguì la collaborazione
con la Francia fino alla sua uscita di scena nel 1982.

LA COSTRUZIONE DEGLI STATI INDIPENDENTI.

Associazionismo e partiti politici nazionalisti. A fianco ai movimenti politici di stampo


nazionalisti, nei Paesi africani c’è una grande azione della società civile che ha avuto un
ruolo fondamentale nel processo di decolonizzazione. Dalla società civile emergono anche
i futuri dirigenti, soprattutto dai sindacati. A livello recente, il fenomeno ha avuto un ruolo-
chiave nel Sudafrica a cavallo tra la fine degli anni ’80 e il 1994: il sindacato nero, i
movimenti studenteschi, femministi, professionali hanno avuto un ruolo decisivo nella
caduta dell’apartheid. L’influenza della società civile è evidente anche nella struttura dei
partiti nazionalisti in Africa, pochi dei quali hanno strutture come quelli occidentali a parte
quelli di stampo comunista e socialista. Non è un caso se nei loro nomi si trova raramente
il termine “party”, che in inglese vuol dire partito ma anche parte di un tutto: le forze
politiche nazionaliste tendono invece a voler rappresentare tutti, perciò guardano con
sospetto alle faziosità politiche e costruiscono grandi partiti di massa con termini quali
“Union”, “Convention”, “Congress”. In realtà, benché quasi tutti siano partiti di massa per
nascita – basandosi sul consenso popolare nella ricerca dell’indipendenza – quasi
nessuno garantisce la partecipazione di massa. Di qui va fatta una distinzione tra:
• Partiti inclusivi di tipo interclassista ed interetnico.
• Partiti esclusivi che non desiderano al loro interno categorie sociali o etniche ben
precise.
Il problema dei partiti inclusivi sta nel fatto che, conquistato il potere, si trovano pur sempre
a dover soddisfare le aspettative divergenti della società civile. In realtà già dai primi anni
Sessanta gli studiosi si resero conto che le istituzioni e i partiti non giocavano un ruolo
concreto nel tessuto politico africano, ma che questo era invece fatto da relazioni extra-
istituzionali: le reti di alleanze tra clan a livello locale, le reti di potere tra il presidente e i
suoi accoliti all’interno del partito, le forze militari.

I problemi della costruzione degli Stati indipendenti. Diverse sono le sfide che i nuovi
gruppi dirigenti devono affrontare nel periodo post-coloniale:
1. Costruzione della nazione (nation-building). Ancora oggi esistono in Africa Stati
senza nazione, cioè privi di coscienza nazionale. Sono Stati artificiali, definiti da
confini artificiali e popolati da culture molto eterogenee. I leader nazionalisti puntano
a superare le peculiari identità tradizionali in favore di una superiore e più
“moderna” identità nazionale. Nascono miti africani, soprattutto quelli intorno agli
eroi della resistenza alla penetrazione coloniale e ai sovrani pre-coloniali. Tranne
che in alcuni paesi (Tanzania, Kenya) la difficoltà maggiore è a livello linguistico,
poiché è impossibile trovare una lingua ufficiale nazionale.
2. Sviluppo socio-economico. Ignorando la necessità di una politica economica di
sviluppo, i leader nazionali ritengono che la semplice rimozione dello sfruttamento
coloniale garantirà lo sviluppo del paese. In un suo libro del 1964, lo studioso
francese René Dumont scriveva che l’Africa era “partita male” e fu presto evidente

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che il sottosviluppo di questi paesi non si sarebbe risolto in breve tempo: gli scambi
commerciali rimanevano infatti sfavorevoli per le economie esportatrici di materie
prime. L’ONU cercò di ovviare al problema chiedendo alle nazioni sviluppate di
rivalutare i prezzi delle materie prime e di destinare l’1% del PIL allo sviluppo. Poco
di ciò fu realmente realizzato.
3. Indipendenza economica. Aspetto legato al precedente, è la consapevolezza che
dopo aver conquistato il “regno della politica” (Nkrumah) sia necessario conquistare
anche le altre sfere ancora in mano ai poteri coloniali, in primi quella dell’economia.
Solo così i paesi neo-indipendenti potranno contare alla pari nello scenario globale.
Mentre diversi paesi scelsero la via socialista, la grande maggioranza si dichiarò
seguace della via liberal-capitalista favorendo gli investimenti stranieri pur
mantenendo ovunque un forte intervento dello Stato nel settore economico.
4. Consolidamento politico dei gruppi al potere. La legittimità dei nuovi leader sta
essenzialmente nell’essere “padri della patria”, fautori dell’indipendenza. Ma, in
seguito alla vittoria, bisogna costruire una nuova legittimità basata sul
soddisfacimento delle attese dell’elettorato.

Africanizzazione e nazionalizzazione. Subito dopo l’indipendenza, l’obiettivo è affidare


alle élite africane l’amministrazione pubblica e le grandi aziende statali. Il personale di
origine coloniale bianca viene sostituito con funzionari locali, soprattutto nella sfera
economica (banche centrali, imprese para-statali ecc.). A ciò si accompagnano processi di
nazionalizzazione che portano nelle mani dello Stato le grandi imprese private
internazionali che controllano le principali risorse economiche. In Tanzania viene subito
nazionalizzata la terra, non più considerata privata. In Kenya invece si fanno poche
nazionalizzazione ma molta africanizzazione, costringendo le imprese multinazionali a far
entrare nei loro consigli di amministrazione una certa percentuale di locali. In Ghana,
Nigeria e Sierra Leone al momento dell’indipendenza – grazie alle riforme britanniche –
oltre il 50% dell’amministrazione pubblica era occupata da africani. Nelle colonie francesi i
burocrati francesi possedevano grande esperienza ma rimanevano pochi. In tutti i casi,
comunque, restavano limitate le capacità tecniche di questa nuova élite a causa di una
desolante mancanza di istruzione e di conoscenze dei processi democratici. Dal termine
africanize si affermò negli anni ’70 quello di nizers, cioè gli “africanizzati”. In maniera più
spregiativa, in swahili questi individui sono chiamati anche wabenzi, “coloro che
possiedono una Mercedes Benz” (segno del prestigio sociale). Le élite dei primi anni
d’indipendenza lottarono contro la frammentazione etnica e si creò presto una spaccatura
tra due correnti:
• Modernisti: strati della popolazione che avevano avuto accesso all’istruzione, molti
dei quali all’estero. Portatori di modelli occidentali, nemici degli elementi
“premoderni” delle società africane, costituiscono la leadership dei nuovi partiti
nazionali.
• Tradizionalisti: strati rurali e leader locali (consigli degli anziani, capi-villaggio)
intenzionati a mantenere le identità “tribali”.
La divisione è soprattutto tra chi gode di privilegi ereditari – tradizionalisti – e chi gode dei
privilegi acquisti dall’istruzione – modernisti.

Il problema della stabilità. La fragilità degli Stati nazione africani deriva proprio dalla loro
nascita artificiale. Non è un caso se non ci siano nella storia post-indipendenza pochissimi
tentativi secessionisti. L’unico riuscito è quello dell’Eritrea, mentre altri due (Katanga e
Biafra) sono falliti. Ciò avviene perché si “sacralizzano” i confini coloniali decidendo di non
metterli in discussione in seguito all’indipendenza, le colonie si trasformano in Stati così
come sono. Il problema non sta però tanto nei confini, quanto nella questione del rapporto

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tra potere e cittadini. Fin dall’indipendenza il problema è stato il potere centrale. In Niger
e Nigeria le popolazioni Hausa non lottano per l’indipendenza ma per maggiore autonomia
dal rispettivo potere centrale. L’unico Stato conosciuto fino all’indipendenza in Africa era lo
stato coloniale, per sue necessità fortemente accentratore. L’Occidente ha esportato in
Africa uno Stato moderno nelle forme ma anti-moderno nella sostanza in quanto privo di
democrazia. Lo Stato indipendente che ne nasce è anch’esso uno Stato privo di forme
democratiche e fortemente accentratore. Ciò ha condotto a due casi particolari:
1. Sistemi a partito unico: rimozione dei particolarismi locali in favore di un solo
partito di cui il governo è espressione. Identificazione Stato-partito.
2. Governi militari: durante i golpe, bastava occupare i centri nevralgici della capitale
per controllate l’intero Paese.
Tutti i Paesi africani prima del 1989 sono stati retti da questi due modelli di tipo autoritario.
Come hanno sottolineato numerosi studiosi, al momento dell’indipendenza i nuovi Stati
moderni nascondono dietro di loro i valori dell’eredità precoloniale fatta di
personalizzazione del potere politico, ruolo crescente dei legami clanici, valore delle
identità tribali ecc. Si è parlato perciò di Stato asimmetrico, laddove il potere centrale
tenta di modernizzarsi seguendo la falsa riga del sistema di dominazione coloniale, mentre
deve affrontare una situazione interna definita “pre-moderna” che è quella fatta di reti di
poteri tradizionali su cui l’autorità centrale deve infine basarsi per ottenere legittimità.

IL PARTITO UNICO.

La Guinea fu la prima ad adottare, sotto Sekou Touré, un sistema politico a partito unico.
Nel periodo 1957-1975 (prima decolonizzazione) in 21 Paesi indipendenti dell’Africa
subsahariana su 26 sono presenti partiti unici. Di questi abbiamo:
• 6 casi per vittoria elettorale. L’esito delle elezioni permette a un partito la
maggioranza assoluta che di fatto esclude ogni altro tipo di alternativa.
• 3 casi per unificazione di altri partiti. Partiti diversi decidono di unificarsi prima o
dopo le elezioni.
• 12 casi per coercizione. Si impedisce costituzionalmente o di fatto agli altri partiti di
competere nelle elezioni.

Partiti unici per unificazione. Il caso classico è quello della Somalia, che mantiene un
regime multipartitico fino al 1969 quando un colpo di Stato militare instaura un partito
unico socialista. La precedente, estrema frammentazione – circa 180 partiti, di cui la Lega
dei Giovani Socialisti (LGS) era l’unico dominante in quanto aveva gestito il processo di
indipendenza – la stragrande maggioranza dei partiti faceva riferimento a clan e sottoclan
che andavano da poche centinaia a più di un milione di persone. La frammentazione era
favorita dal sistema elettorale in quanto la LGS prendeva la maggioranza assoluta (poco
più del 50%) mentre tutti gli altri si limitavano a prendere l’1-2% al massimo sedendo così
in Parlamento con un paio di seggi al massimo. Una volta entrati in Parlamento, però,
questi partitini entravano nel gruppo parlamentare della LGS lasciando pochissimi seggi
all’opposizione. In cambio dell’entrata nella LGS, i partitini ottenevano favori per il proprio
elettorato d’appartenenza, in un vero e proprio sistema di “voto di scambio” post-elettorale.

Partiti unici per coercizione. In questi casi solitamente una forza militare emana una
costituzione o una legge elettorale che impone – ufficialmente o meno – un partito unico. I
regimi militari creano partiti unici del tutto nuovi e calati dall’alto, privi di legami con i
precedenti. Questi partiti hanno caratteristiche diverse: in Somalia, Etiopia, Benin,
Zimbabwe ci sono p.u. socialisti, in Rwanda, Burundi e in altri ci sono p.u. nazional-
conservatori. C’è poca differenza per quanto riguarda invece i p.u. militari e quelli civili:

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solitamente dopo la presa del potere i p.u. militari si istituzionalizzano e diventano civili. Le
differenze restano solo nelle basi regionali, etniche e religiose dell’elettorato mentre a
livello strutturale il funzionamento resta lo stesso, anche riguardo alle loro capacità
repressive. Nell’ambito dei regimi autoritari a partito unico, può essere fatta una distinzione
tra
1. Partiti unici semicompetitivi: sistemi in cui è permessa una certa scelta tra i
candidati.
2. Partiti unici plebiscitari: in cui l’unica tipo di partecipazione elettorale consiste
nella ratifica plebiscitaria delle candidature uniche avanzate dal partito.

Ideologia del partito unico. L’adesione popolare al p.u., al di là della coercizione, è


ovunque molto forte perché il partito viene legittimato da un’ideologia molto convincente.
La giustificazione fondamentale è il discorso sull’unità nazionale, che va difesa dopo la
conquista dell’indipendenza. Nono sono consentite divisioni etniche, tribali, regionali o di
classe in quanto espressione di tribalismo e anti-modernità. Il p.u. non nasce per
contrastare la democrazia ma viene presentato come un’espressione peculiare della
democrazia, anzi la sua massima espressione in chiave africana. I p.u. sono basati su
un’ideologia rivolta al contempo verso il passato e verso il futuro:
• Sono rivolti al passato perché rivalutano la specificità nazionale in funzione anti-
coloniale, recuperando la storia pre-coloniale e sostenendo che le società pre-
coloniali era già democratiche in quanto egalitarie, prive di gerarchie interne, dove
tutte le persone erano poste sullo stesso livello. Tutto si fonda sul principio del
consenso: le decisioni verrebbero prese in modo che tutti coloro che partecipano
alle decisioni discutono finché non si mettono d’accordo. Quest’immagine delle
decisioni prese dalla comunità riunita sotto l’albero al centro del villaggio viene
ripresa per giustificare il p.u. contemporaneo che agisce per consenso e per
giustificare il modello comunitario dove la comunità prevale sull’individuo. Inutile
dire che tutto ciò resta una costruzione mitica e romantica, in quanto lungi
dall’essere egalitarie le società pre-coloniali non garantivano alle donne e ai giovani
nessun diritto di decisione.
• Sono rivolti al futuro in quanto le parole d’ordine sono progresso, sviluppo, tenesse
della nazione anche a discapito di gruppi ristretti (perciò il p.u. rappresenta l’intera
società nazionale). Il leader del p.u. si pone verso la nazione come un padre
benevolo che sa cosa è bene e cosa è male per il suo popolo e lo guida verso un
destino favorevole.

LE FEDERAZIONI ASIMMETRICHE.

All’indomani dell’indipendenza, solo tre Stati decisero di costituirsi in federazioni. Quella


tra Senegal e Mali non durò che un paio di mesi. Quella dell’Uganda resistette anch’essa
poco ma fu più rilevante. L’unica ancora rimasta oggi è quella della Nigeria, i cui stati
federali sono passati dai 3 dell’indipendenza a 30.

Il caso dell’Uganda. L’area dell’odierno Uganda comprende circa una cinquentina di


gruppi etnici. Lo statuto federale adottato con l’indipendenza durò poco: nel 1966 un colpo
di stato lo revocò, eliminando ogni autonomia regionale e costringendo il kabaka del
Buganda all’esilio. Il potere di Milton Obote fu rovesciato nel 1971 dal suo generale, Idi
Amin Dada, che mise su uno spietato sistema di violenza e repressione tale da gettare
l’Uganda nel disastro. Egli cercò vagamente di superare le differenze etniche del paese
attraverso l’appello a un più ampio senso di appartenenza all’identità nubiana. Nel 1972
Amin confiscò le proprietà degli imprenditori asiatici costringendoli a lasciare il paese. Solo

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nel 1979 Amin fu defenestrato grazie all’intervento – col silenzio beneplacito occidentale –
della Tanzania in appoggio all’esercito di liberazione nazionale ugandese (UNLA). I
governi successivi si barcamenarono in una situazione difficilissima in quanto l’estrema
differenza etnica provocò scontri sanguinosi. Il National Resistance Movement di
Museveni si appoggiava alle popolazioni meridionali banyarwanda e baganda, il governo
militare che prese il potere nel 1985 si appoggiava invece sulle etnie più povere del nord. Il
NRM conquistò Kampala l’anno successivo garantendo a Museveni la presidenza. La
soluzione che si adottò fu un sistema di governi locali a livelli di villaggio, parrocchia, sub-
contea, contea e distretto. Nel 1993 uno statuto di decentralizzazione rafforzò i poteri
locali. Nel tentativo di eliminare ogni traccia di faziosità di tipo identitario, Museveni creò
un sistema detto di “democrazia senza partiti”. L’idea è che l’Africa subsahariana fosse
inadeguata all’applicazione di sistemi multipartitici e che la democrazia elettorale dovesse
basarsi sulla competizione di soli individui. Questo modello ha dato risultati positivi, anche
se nel 2006 si sono tenute regolari elezioni multipartitiche che hanno messo da parte
l’esperimento.

Il caso della Nigeria. La Nigeria è divisa in più di 250 etnie. La prima federazione
nigeriana era profondamente asimmetrica in quanto vi prevaleva il nord islamico, che era
la regione più povera e arretrata. L’etnia ibo più modernista ma soprattutto sindacati,
funzionari, professionisti, studenti si unirono per rovesciare il governo nel 1966 con
l’appoggio dei militari. Il governo del generale Ironsi durò poco, giusto il tempo di abolire la
federazione e proclamare lo stato unitario. Il suo assassinio produrre una spirale di
violenze etniche che si conclusero con l’ascesa del generale Gowon, postosi come
mediatore tra le parti. La nuova federazione passò da 3 a 12 stati ma indebolì fortemente il
potere degli Ibo in quanto creava due stati costieri così da sottrarre loro il controllo
petrolifero. Nel marzo 1967 la risposta fu il tentativo di secessione del Biafra che
produsse una guerra protrattasi fino al 1970. Più che una guerra etnica o “tribale”, quella
del Biafra è un conflitto tra opposte concezioni dello Stato, una modernista e una
tradizionalista. Con la fine della guerra, il censimento del 1973 provocò un nuovo
problema in quanto, con metodi assai dubbi, fu conclamato il raddoppio della popolazione
nel nord e la diminuzione di quelle del sud osa che ha portato fino ad oggi il nord a
pretendere un peso maggiore nel parlamento federale. Con l’assassinio di Gowon si creò
una fase di instabilità e di governi militari che produssero una nuova costituzione. La
Seconda Repubblica (1979-1982) di tipo civile potenziò l’economia grazie alle esportazioni
petrolifere, ma la crisi economica produsse un nuovo colpo di stato nel 1983 e un
successivo nel 1985. Il regime del generale Babangida dovette affrontare disordini nello
Stato di Kaduna tra musulmani e cristiani e la crisi economica dilagante. Nelle elezioni del
1989 furono ammessi a competere due soli partiti: il Social Democratic Party (SDP) e il
National Republican Convention, rispettivamente di centro-sinistra e centro-destra. Il
bipartitismo non ha messo però fine alle continue lotte tra fazioni, di nuovo messe sotto
l’autoritario controllo militare del dispotico generale Abacha fino al 1998. L’anno
successivo è salito al potere un nuovo governo democratico che sta tentando di
traghettare il paese verso la normalità.

I SOCIALISMI AFRICANI.

Diversi Paesi si dichiararono socialisti all’indomani dell’indipndenza: la Guinea di Touré, il


Ghana di Nkrumah, il Mali di Keita, la Tanzania di Nyerere. Seguirono poi dal 1968 il
Congo di Ngouabi, dal 1969 la Somalia di Barre, poi l’Etiopia di Menghistu e diversi altri. In
Zimbabwe il leader Robert Mugabe si ispirò al socialismo durante la lotta di liberazione ma
il suo partito, lo ZANU, ha sempre sostenuto un forte liberalismo economico. Il Senegal di

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Senghor e lo Zambia di Kaunda sono stati definiti socialisti ma più nei discorsi ideologici
che nelle pratiche effettive. In Africa ha avuto molto appeal il concetto di “socialismi
scientifici” che è quello diffusosi dopo gli anni ’70 soprattutto nei Paesi di nuova
indipendenza (Angola, Mozambico) che rifiutavano il classico “socialismo africano” e
sostenevano di recuperare la lezione marxista-leninista. La loro base fu soprattutto nella
lotta di liberazione condotta con metodi di guerriglia e molto vicina alla popolazione. Questi
socialismi consideravano la lotta di liberazione come una rivoluzione che doveva
riguardare l’intera struttura socio-economica dello Stato.

Ghana: dal socialismo all’aggiustamento strutturale. Nelle elezioni del 1956 il CPP del
nazionalista Nkrumah ottenne la maggioranza dei seggi al parlamento nazionale: un anno
dopo ci fu la dichiarazione d’indipendenza. I ceti aristocratici e borghesi, detentori del
potere economico in quanto proprietari dei latifondi del cacao, si unirono nello United
Party (UP). Nkrumah ebbe facile gioco a estromette questo partito, espressione di
interessi inglesi e inviso al popolo. Nel 1964 il CPP divenne il partito unico. Nkrumah iniziò
da subito un programma di giustizia sociale diffondendo la scolarizzazione, le
infrastrutture, la differenziazione economica. La caduta internazionale dei prezzi del cacao
(1965-66) provocò nondimeno una grave crisi economica e la fine degli investimenti
internazionali. A ciò contribuirono le politiche stataliste di Nkrumah, che videro la
costruzione di una socialismo di vertice portato avanti con metodi a volte coercitivi e diretti
alla repressione dei poteri tradizionali. Nel febbraio 1966 un golpe esautorò Nkrumah. I
militari erano espressione dei poteri forti filo-britannici e ostili al progetto socialista, specie
dopo l’alleanza militare con l’URSS. Abolito il CPP, nel 1969 si tennero elezioni per la
formazione di un governo legittimo che fu affidato al dottor Busia, ex leader dell’UP. Il
governo si rivelò tuttavia debole e nel 1972 passò la mano nuovamente alla leadership
militare che durò con vari rovesci fino al 1979, allorquando fu concessa la formazione dei
partiti. Un giovante e polare tenente, Jerry Rawlings, acquisì il potere e tra mille difficoltà
avviò un programma di democratizzazione e decentralizzazione del potere. Il suo National
Democratic Council ha vinto le elezioni nel 1992 ma continua ad essere osteggiato dalle
fazioni dell’opposizione.

Tanzania: l’autopia dell’ujamaa. L’unione tra Tanganyka e Zanzibar portò nel 1964-65
alla nascita della Tanzania sotto il governo di Nyerere. Alleatasi con la Cina comunista, la
Tanzania prese subito una svolta verso il socialismo per rispondere alla crisi economica
derivante dalla dipendenza dall’esportazione di poche materie prime. In swahili il termine
adottato, ujamaa, ha un significato controverso e significa famiglia, comunità, e socialismo
nella sua accezione tanzaniana. Con la dichiarazione di Arusha del 1967, l’ujamaa
divenne la dottrina governativa mettendo al centro lo sviluppo dell’agricoltura familiare
attraverso politiche di autosufficienza (“socialismo rurale”). Il mito su cui si fondava
l’ujamaa era quello di una comunità tradizionale collettivista di fatto estranea alla
tradizione rurale africana in quanto la proprietà comune della terra non impediva un suo
usufrutto diseguale basato su priorità gerarchiche e singole famiglie. Nel 1973 si avviò una
sistematica campagna di re-tribalizzazione costringendo la popolazione al reinsediamento
nei villaggi comunitari. Il dirigismo socialista prese da allora una piega sempre più
autoritaria, controllata dalla burocrazia di partito (il TANU) tesa al soddisfacimento dei
propri interessi. La dilagante crisi economica portò nel 1981 all’adozione di una serie di
misure di aggiustamento per il contenimento della spesa e il rilancio delle esportazioni,
che cominciarono a dare frutti solo dopo un nuovo programma adottato nel 1985. Nyerere,
critico verso l’adozione di questo programma liberista, si dimise in quell’anno dalla
presidenza e il suo successore, Mwinyi, accettò i programmi del FMI.

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LE INDIPENDENZE RIVOLUZIONARIE.

Il colonialismo irriducibile del Portogallo. Per lungo tempo, le colonie portoghesi furono
governate da Compagnie a statuto, detentrici di poteri sovrani su vaste regioni e i cui
profitti derivavano non tento dall’attività produttiva ma dall’imposizione di tasse e dalla
requisizione di terre in cui fu reso obbligatorio il lavoro. Con l’Atto coloniale incorporato
nella Costituzione portoghese del 1933, Salazar abolì le compagnie e portò lo Stato ad
assumere la gestione diretta delle colonie. Il nuovo sistema fortemente accentratore si
basava sulla collaborazione dei capi tradizionali (regulos o regedores) destituibili qualora
considerati inefficaci. Lo sfruttamento portoghese fu feroce: i contadini di sussistenza,
incapaci di produrre oltre il loro fabbisogno, erano passibili di lavoro forzato; le imposte di
capitazione vennero applicate anche alle donne e gli evasori erano puniti con il lavoro
forzato e la prigionia per i familiari; il controllo del sistema era affidato ai biechi sipaios, la
polizia indigena. Un tenue riformismo fu avviato nel secondo dopoguerra e favorì la classe
medio-basse delle città allo scopo di controllare meglio il dominio coloniale in un’Africa che
si avviava rapidamente verso la decolonizzazione. La PIDE, la polizia segreta, venne
istituita verso la metà degli anni Cinquanta e costruì un formidabile apparato repressivo
sostenuto dai servizi segreti sudafricani e rhodesiani. Si intensificò la politica di
popolamento (i bianchi in Angola passarono da 30.000 nel 1930 a 200.000 nel 1960, nello
stesso periodo in Mozambico da 18.000 a 85.000) e di assimilazione della piccola
borghesia indigena. Nel 1961 i sudditi coloniali ricevettero la cittadinanza portoghese, ma
ciò non pose fine alla discriminazione. L’avvio delle guerre di liberazione in quegli anni
rese economicamente sconveniente il proseguimento della dominazione, che tuttavia
resse fino alla caduta del governo Caetano nel 1974. I generali della “rivoluzione dei
garofani” si dichiararono a favore della decolonizzazione. Il 10 settembre 1974 si giunse
all’indipendenza della Guinea Bissau. I negoziati per l’indipendenza di Angola e
Mozambico si rivelarono complessi ma si conclusero favorevolmente nel 1975.

Il movimento di liberazione in Angola. In Angola si formarono tra movimenti di


liberazione:
1. MPLA che aveva la sua base nella regione di Mbunidu e negli strati medi urbani.
Appoggiato dall’URSS e dal movimento dei non-allineati.
2. FNLA che aveva la sua base nei bakongo nel nord. Pro-occidentale, appoggiato
dallo Zaire di Mobutu.
3. UNITA con base nella popolazione ovimbundu. Aiutato dalla Cina, er però
appoggiato soprattutto dagli ambienti coloni.
L’11 novembre 1975 si giunse alla proclamazione dell’indipendenza: il potere fu affidato a
un governo di coalizione transitorio tra i tre movimenti. L’invasione del Sudafrica in
appoggio all’UNITA vide il coinvolgimento diretto di truppe cubane a sostegno di Agostinho
Neto a capo dello Stato e del MPLA. Nel 1979 l'MPLA sconfisse le forze dell'UNITA e
costrinse le armate sudafricane ad abbandonare il paese. In quell’anno salì alla
presidenza José Eduardo dos Santos. Solo nel 1991, con la fine della guerra fredda e il
ritiro delle truppe straniere, si giunse a libere elezioni che videro l’affermazione del MPLA
col 49% dei voti. Rifiutando l’esito del voto, il leader dell’UNITA Jonas Savimbi fece
ripiombare il paese nella guerra civile, continuata senza sosta fino al 2002 con l’assassinio
di Savimbi e il successivo cessate il fuoco che ha portato l’UNITA ad abbandonare il suo
braccio armato e a diventare partito politico.

Il movimento di liberazione in Mozambico. In Mozambico lo sfruttamento coloniale si


basò principalmente sul lavoro forzato e le coltivazioni obbligatorie (cotone), e sui redditi

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provenienti dall’emigrazione di forza lavoro in Sudafrica. L’emigrazione e le espropriazioni
di fertili terreni agricoli a favore di coloni portoghesi e asiatici deteriorò fortemente
l’economia mozambicana. Dopo la prima fase delle indipendenze, il ruolo del Sudafrica in
Mozambico divenne dominante in quanto interessato a impedire la decolonizzazione del
paese e a mantenerlo sotto il suo controllo economico (il Mozambico era il principale
serbatoio di forza lavoro nelle miniere sudafricane, e il Sudafrica il maggior esportatore di
beni in Mozambico). Nel 1962 nacque all’estero il FRELIMO, il movimento di liberazione
formato da emigrati mozambicani nei paesi vicini. A capo del movimento si pose
l’intellettuale di origini contadine Eduardo Mondane appoggiato dalle chiese cristiane. Dal
’64 iniziò la lotta armata di liberazione che quattro anno dopo vide le fila dei guerriglieri
superare le 7000 unità, contrapposto a un esercito coloniale grande il doppio. Nel 1969
Mondlane fu assassinato con la complicità dei portoghesi, ma l’anno dopo si ritrovò una
leadership nella figura di Samora Machel. Con gli accordi d Lusaka, si fissò
l’indipendenza al 25 giugno 1975. Ideologicamente il FRELIMO abbracciava il comunismo
(nel ’77 si definisce marxista-leninista), e la scelta delle nazionalizzazioni, dei prezzi fissi,
dei “negozi del popolo”, dei villaggi collettivi derivò da ciò ma anche e soprattutto dalla
necessità di far fronte a uno stato dell’economia disastrosamente arretrato. Finita la fase
movimentista e diventato partito, il FRELIMO svoltò verso un dirigismo autoritario che
favorì la nascita di una resistenza unitasi intorno al RENAMO appoggiato dal Sudafrica.
Nel 1983 si avviò un programma di incremento della produttività nei settori più arretrati che
peggiorò soltanto il bilancio statale. Nel 1986 Machel perse la vita in un incidente aereo, e
l’anno dopo il presidente Chissano adottò un Programma di riabilitazione economica
fortemente liberista. La disuguaglianza sociale, di conseguenza, è aumentata: oggi l’80%
della popolazione rurale è indigente, nelle città il 50%. I negoziati tra FRELIMO e
RENAMO hanno portato alla pacificazione del paese e alle libere elezioni nel 1994 che
hanno visto la vittoria di Chissano e del FRELIMO (pure senza la maggioranza assoluta).

IL SUD AFRICA DELL’APARTHEID.

L’inizio della colonizzazione. I primi settlers bianchi si stabiliscono in Sudafrica alla fine
del XVII secolo: il gruppo è prevalentemente olandese, poi si ingrossa con le fila degli
Ugonotti francesi e dei protestanti. I membri di questo gruppo si chiamavano boeri,
dall’olandase boer che sta per “contadino”. Oggi sono chiamati afrikaner e parlano una
lingua chiamata afrikaans. La definizione di “afrikaner” ha assunto oggi connotati politici, in
quanto si definiscono tali i conservatori bianchi opposti agli inglesi, che storicamente sono
l’altro gruppo di europei sudafricani. La guerra anglo-boera (1899-1902) è il culmine di un
processo durato quasi duecento anni e fatto di contrasti per il controllo del territorio tra
inglesi e boeri. Le colonia del Capo è in mano agli inglesi, mentre nei primi decenni
dell’Ottocento i boeri effettuano il “Grande Trek”, un’epica migrazione verso le regioni
interne del Sudafrica stabilendosi in quelle che diventeranno le Libere Repubbliche Boere
dell’Orange Free State e del Transvaal. Qui i boeri istituiscono governi autonomi di matrice
colonialista opposti all’imperialismo britannico, in quanto assume forme di forte
nazionalismo sudafricano (seppur bianco). Tra il 1860 e il 1880 vengono scoperte
numerose miniere d’oro e di diamanti. Gli inglesi possiedono i capitali per l’estrazione ma i
giacimenti si trovano soprattutto nell’Orange (diamanti) e nel Transvaal (oro), nella regione
del Rand (nome che oggi indica la moneta sudafricana). Da ciò scaturiscono inevitabili
motivazioni economiche per la futura guerra, acuite anche dalla differenza tra due modelli
economici:
• Capitalismo inglese di tipo finanziario e industriale, di portata internazionale.
• Capitalismo boero di tipo agrario e di portata locale.

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In Sudafrica esistono anche altre due minoranze: quella degli asiatici - soprattutto indiani
nel Natal – intorno al 3%, e quella dei meticci o coloured che sono circa il 9%. I bianchi
costituiscono il 15% della popolazione, estremamente alta rispetto a ogni altro tipo di
colonia africana dove la percentuale bianca non supera mai i due punti. Ciò comporta un
precoce sviluppo di attività economiche moderne, tese alla commercializzazione interna e
internazionale e con un precoce sviluppo industriale grazie al reinvestimento dei profitti
minerari. Già negli anni ’40 il Sudafrica è industrializzato: nel 1946 il 36% della
popolazione lavora nelle miniere e nell’industria. Il sorpasso del settore secondario rispetto
a quello primario avviene già prima della Seconda guerra mondiale. Oggi l’agricoltura
conto intorno al 3% del PIL. Di qui dunque la peculiarità del Sudafrica, paese dove convive
modernità economica e arretratezza politica. Nel 1913 viene emanato il primo Land Act
che riserva ai bianchi l’87% della terra, confinando gli africani nelle zone rimanenti
all’interno di riserve (inizialmente 8). Ciò conduce a un’intensa urbanizzazione e
proletarizzazione dei neri, al punto che durante l’apartheid il termine black indica il nero
urbano proletario.

L’affermazione dell’apartheid. Nel 1961 il Sudafrica esce dal Commonwealth, pur già
possedendo una sostanziale autonomia (dal 1910) attraverso il governo di una minoranza
bianca. La dominazione sui neri resta, anche se da parte di una forza interna. Mentre il
resto dell’Africa si avvia alla decolonizzazione, in Sudafrica negli anni ’60 si afferma
l’apartheid. Ufficialmente questo sistema nasce nel 1948, in totale contraddizione rispetto
ai nascenti nazionalismi. Ciò non dipende dal fatto che il nazionalismo sudafricano sia
sorto tardi, in quanto l’African National Congress (ANC) nacque già nel 1912 anche se in
una veste molto moderata, filosoficamente vicino all’insegnamento di Gandhi. L’aumento
della polarizzazione bianchi-neri in tutta l’Africa negli anni ‘50 convince i bianchi
sudafricani a porre un rimedio preventivo alla possibile perdita di potere a favore dei neri:
nel 1960 l’ANC viene bandito insieme a tutti gli altri partiti politici. Nello stesso anno si
verifica una pacifica dimostrazione a Sharpeville della popolazione nera, brutalmente
soffocata nel sangue. Per reazione l’ANC annuncia una politica di lotta armata, mentre il
governo emana una legge sul terrorismo che pone fuorilegge il partito comunista e quello
nazionalista nero. L’apartheid si fonda non solo sulla repressione ma anche su una logica
di colonialismo estremo quasi “teologica” in quanto vede nei boeri i beati che hanno
ricreato sulla terra la nuova Gerusalemme grazie al duro lavoro e alle loro capacità
superori, tali da meritare loro il potere supremo su tutti gli altri. Nel sistema dell’apartheid,
va fatta comunque una distinzione tra:
• Grand Apartheid: il sistema di sfruttamento della forza-lavoro nera.
• Petty Apartheid: il sistema di segregazione razziale in tutti gli ambienti.
Il termine apartheid in realtà non vuol dire segregazione, ma “tenere a parte”. La
traduzione più corretta è “separazione razziale”. All’epoca la traduzione in voga era
“sviluppo separato”: ogni comunità etnica è a se stante e deve seguire la propria strada e
le proprie tradizioni. Definito come un modello plurale, non aveva ovviamente nulla di
democratico ma mirava a costruire entità territoriali separate tra bianchi e neri dove i primi
avrebbero naturalmente avuto quasi tutta la terra, e tutta quella produttiva. Tutto si basa
su un doppio livello di categorizzazione delle persone:
1. Razziale: esistono le categorie dei bianchi, degli asiatici e dei coloured. Nessuna
differenza a livello di nazionalità o etnia.
2. Etnico: non esista la “razza” nera ma una molteplicità di etnie zulu, xhosa, sotho,
ndebele ecc. Non esiste la nazionalità africana.

I pilastri dell’apartheid. Il governo dell’apartheid ha un’enorme attività legislativa. La sua


struttura di controllo e repressione si fonda essenzialmente su due pilastria:

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1. Il controllo sul movimento e sulla residenza della forza lavoro nera. Tutti i flussi di
circolazione tra le riserve nere e le aree bianche sono controllate: il Group Areas
Act effettua una divisione territoriale radicale, al punto che nei casi di quartieri misti
veniva effettuata una pulizia etnica tesa a rimuovere tutti gli abitanti neri. Subito
dopo il 1948 viene istituito il Pass, una sorta di passaporto interno che permette a
un nero d entrare nelle zone bianche al solo fine effettuare una prestazione di
lavoro stipendiato. È una sorta di “contratto di soggiorno”. Successivamente il Pass
è esteso anche alle donne, con conseguenti rivolte molto accese. Il capitalismo
bianco aveva naturalmente bisogno di forza lavoro, che veniva trovata nelle riserve
nere. Tale forza lavoro non poteva però risiedere nelle città bianche, perciò veniva
segregata nelle township - cittadine costruite dal regime per ospitare lavoratori neri
– e negli informal settlements dove risiedono soprattutto clandestini. Saranno i neri
delle township i protagonisti della lotta all’apartheid: si formano infatti forti legami di
solidarietà tra i lavoratori, separati dalle loro famiglie (al punto che si diffondono
costumi omosessuali e matrimoni plurimi, oggi più del 50% delle famiglie nere degli
ex ghetti ha una donna come capofamiglia). Ma la conseguenza è un enorme
rimescolamento etnico, che ha portato anche alla nascita di nuovi idiomi.
2. L’istituzione delle riserve, i bantustan. Il termine vuol dire “terre dei bantu”, poi
viene sostituito con quello di homelands. Inizialmente sono otto, poi dieci. I neri vi
devono abitare a seconda del gruppo etnico a cui appartengono, così che a ciascun
gruppo viene concessa una parte di quel misero 13% di terra rimasta a disposizione
in quanto non riservata ai bianchi. L’obiettivo è giungere al self-government in ogni
homeland, fino addirittura all’indipendenza: nel 1984 quattro bantustan dichiarano la
propria indipendenza, riconosciuta solo dal Sudafrica in quanto la comunità
internazionale condanna il sistema dell’apartheid e non lo riconosce. Il fine del
governo sudafricano è “de-nazionalizzare i neri”, non farli sentire più come
“sudafricani” ma come cittadini dei bantustan. Di qui la giustificazione dell’assenza
di diritti civili e politici, in quanto i neri non sarebbero cittadini sudafricani. All’interno
dei bantustan, i leader dei quattro indipendenti erano capi tradizionali di tipo
autoritario, tesi a ottenere una briciola di potere diventando di fatto collaborazionisti
dell’apartheid. Non c’erano quindi elezioni libere nemmeno nei bantustan. In questi
territori si verificano poi gravissimi problemi demografici, per la mancanza di
risorse tale che presto la terra dei bantustan diventa sterile e priva di ogni traccia di
flora. Necessariamente i neri si trovano obbligati ad andare a lavorare nelle
fabbriche in territorio bianco. Nel 1980 ufficialmente 11milioni di neri vivono nei
bantustan, su una popolazione di 20 milioni: il resto è concentrato nelle città. I
lavoratori occupati internamente nei bantustan non superno il 10%; in media il 70%
dei redditi degli abitanti proviene dal lavoro in territorio bianco.

Cirisi e caduta dell’apartheid. L’inizio della crisi è nel 1976, anno in cui scoppia la rivolta
di Soweto, una delle principali township divenuta ormai sovraffollata: programmata per
ospitare centomila abitanti, è giunta ormai a due milioni molti dei quali squatters, abusivi. È
tra questi che scoppia il malessere più acuto, benché a scatenare la reazione sono gli
studenti che protestano contro l’uso della lingua afrikaans nelle scuole al posto
dell’inglese, una “riforma” vista come tentativo di non emancipare i neri (l’inglese offriva
possibilità internazionali, l’afrikaans era la lingua dell’apartheid e sanciva un confinamento
a vita nel sistema sudafricano). Inizialmente le generazioni più anziane si dissociano dalla
protesta, temendo la repressione. Tra i leader della rivolta c’è Steve Biko, molto vicino alle
lotte degli afro-americani negli USA e al black consciouseness, movimento teso
diffondere l’orgoglio nero, la “negritudine”. Durante un corteo, la polizia spara sulla folla
compiendo un massacro. È la scintilla che scatena la protesta generale, ormai

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inarrestabile. In realtà già nel 1971-772 c’era stata una vasta serie di scioperi nelle
fabbriche, che portarono alla nascita di sindacati neri vietati dal governo ma riconosciuti
dagli imprenditori che cominciano a vedere l’elemento di improduttività latente
nell’apartheid (il sindacato nero farà già all’inizio più di 3 milioni di iscritti). La protesta del
’76 è tuttavia più forte e visibile, in quanto l’anno prima c’erano state le indipendenze di
Angola e Mozambico: gli studenti neri scandiscono lo slogan “la lotta continua” in
portoghese. A livello economico, il sistema comincia ad andare in crisi: le condizioni
misere dei neri impediscono loro di acquistare i prodotti sudafricani così che si avvia una
fase di sovrapproduzione. Per reazione il governo aumenta il tenore di vita della
popolazione, così che all’inizio degli anni ’80 il consumo dei neri supera quello dei bianchi.
Consci del valore della loro domanda, i neri iniziano in questo periodo il boicottaggio degli
esercizi commerciali bianchi. Al contempo il progresso tecnologico richiede sempre più
personale specializzato, assente nella popolazione nera. I movimenti neri che si formano
in questo contesto di uniscono in un carttello, l’United Democratic Front (UDF). La
risposta del governo è quella dell’assedio totale: sentendosi in difficoltà, i leader bianchi
reagiscono con repressioni interne e attacchi verso i Paesi confinanti che danno
protezione ai leader neri. Nel 1983 è tentata una riforma costituzionale per cooptare
all’interno del sistema le minoranze asiatiche e coloured, alle quali si garantisce il diritto al
voto e la rappresentanza in due camere etniche, mentre ai neri si concede il voto a livello
locale e il diritto di residenza permanente tramite l’abolizione del Pass, ma non la
cittadinanza. In realtà le elezioni vengono boicottate sia dai neri che dalle altre minoranze.
Il fallimento apre le prime crepe nel fronte dell’apartheid: la Confindustria incontra in
Namibia i leader dell’ANC, persino il fratello del presidente insieme a un gruppo di
intellettuali incontra i nazionalisti neri all’estero. Tra il 1986 e l’anno successivo, alcuni
dirigenti aprono trattative segrete con il leader dell’ANC Nelson Mandela, in carcere da
decenni. Nel 1990 Mandela viene liberato, non prima di aver ottenuto la liberazione degli
altri suoi compagni e, da parte sua, la promessa della fine delle violenze. Il timore di una
guerra civile è sventato: il giorno dopo la liberazione, nella piazza centrale di Cape Town,
Mandela apre il suo discorso con le parole, rivolte ai compagni in esilio: “Ragazzi, tornate
a casa”. Quattro anni dopo diventerà presidente del Sudafrica.

I failed states: CONGO E CORNO D’AFRICA.

RD Congo (ex Zaire): il fallimento dello Stato post-coloniale. Possedimento personale


del re Leopoldo II del Belgio, poi dello Stato belga, il Congo fu sotto la dominazione
coloniale una terra di sfruttamento a causa delle sue ricche risorse minerarie. Al momento
dell’indipendenza, nel 1960, in Congo c’erano solo 20 laureati: in queste condizioni
l’africanizzazione fu estremamente difficile. Fin da subito il Congo sperimentò un
drammatico tentativo di secessione, quello del Katanga, ricca regione orientale che
l’esercito belga tentò di staccare dal Congo indipendente. Il tentativo fallì per l’opposizione
dell’ONU e degli USA e con l’invio di trentamila caschi blu. Fino al 1964 il paese rimase
una sorta di protettorato ONU. L’esecutivo duale secondo il dettato costituzionale mise
da subito il competizione il presidente Kasavubu e il primo ministro Lumumba. Le tensioni
sfociarono in un golpe guidato dal colonnello Mobutu che portò al rovesciamento di
Lumumba, reo di aver aperto contatti con l’URSS: Lumumba fu arrestato e giustiziato con
l’appoggio indiretto del Belgio e degli USA. Il reinsediamento di Kasavubu non risolse ma
anzi acuì i contrasti di governo, e gli USA chiesero a Mobutu di intervenire nuovamente: il
nuovo golpe aprì tuttavia una stagione di dittatura trentennale. Mobutu riunì in sé la
cariche di presidente, primo ministro, capo delle forze armate e leader del partito unico
(MPR). Il suo potere si basava su una struttura di reti clientelari costituite da poteri
economici e militari. Ciò coincise con una politica predatoria continua, tale da far arricchire

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solo il presidente e i suoi accoliti. Le infrastrutture e gli apparati statali crollarono
inesorabilmente: la fitta rete stradale si ridusse da 80mila miglie del 1960 a 12mila nel
1985, di cui solo mille asfaltate. Su pressione delle opposizioni fu convocata una
Conferenza nazionale che ottenne una costituzione transitoria ma non riuscì a
convincere Mobutu a convocare elezioni multipartitiche. Il suo passo falso avvenne nel
1993-94 con la complicità nel genocidio rwandese: i governi di Rwanda e Uganda posero
Laurent Kabila a capo di una rivolta interna che giunse a Kinshasa nel 1997 spodestando
Mobutu. La cosa non ebbe gli effetti sperati: tra il 1998 e il 2001 una violentissima guerra
internazionale si scatenò nel Congo. Solo nel 2006 si sono avute le prime libere elezioni
da decenni, con la vittoria di Joseph Kabila, figlio di Laurent.

Somalia: crollo dello Stato e smembramento del territorio. La Somalia è, seppur divisa
tra centinaia di clan e sottoclan, unita dalla religione musulmana e dalla lingua comune
parlata dall’85% della popolazione. Ciò aveva convinto Italia e Regno Unito, all’indomani
della decolonizzazione, a unire le due ex colonie della Somalia italiana e del Somaliland. Il
forte nazionalismo che si è sviluppato tra i somali ha visto questo paese l’unico a non
riconoscere i confini ereditati dal colonialismo come richiesto dall’OUA. Il progetto di una
grande Somalia che unisse tutte le popolazione di lingua somala delle nazioni confinanti
– Etiopa, Kenya, Gibuti – ha provocato una serie di conflitti devastanti. Negli anni Settanta
la Somalia occupa la regione dell’Ogaden, in territorio etiope, abitata da somali. L’ascesa
al potere di Siad Barre e la svolta verso il “socialismo scientifico” portò alla nascita di un
partito unico e all’alleanza con l’URSS. Solo tre anni dopo l’alleanza si rompe allorquando
Mosca decide di appoggiare l’Etiopia nella guerra dell’Ogaden, provocando la sconfitta
somala. A partire dal 1981, poi, i favoritismi etnici di Barre provocano l’insofferenza di
diverse comunità che iniziano una lotta interna di guerriglia. Nel 1991 l’affermazione dei
warlords costringe Barre a lasciare il paese, e da quel momento la Somalia diventa uno
stato solo di nome in quanto privo di ogni istituzione centrale e in mano ai “signori della
guerra”. La guerra civile del 1991-92 provoca 300mila morti. La missione umanitaria ONU
e USA tenta nel 1993 un’operazione per la cattura del principale warlord di Mogadiscio,
operazione che finisce con la morte di una ventina di soldati americani e il conseguente
ritiro degli USA e il fallimento dell’operazione ONU. Il Somaliland e il Puntland, nel nord
del paese, proclamano quindi l’indipendenza, non riconosciuta da nessuno: le elezioni del
2003 hanno però rinforzato il governo del Somaliland che resta la regione più stabile
dell’area. L’avvio del processo di pace di Arta vede la formazione di un primo governo
nazionale di transizione insediatosi a Mogadiscio nel 2000 ma impossibilitato a estendere
la sua influenza oltre la capitale. Un secondo governo di transizione si insedia nel 2004 e
vede anche la partecipazione del Puntland, ma non riesce a entrare a Mogadiscio in
quanto la capitale è sotto il controllo dell’Unione delle Corti Islamiche, gli unici capaci di
sconfiggere i warlords e riportare la pace a costo, però, di un esasperato
fondamentalismo. L’attacco delle milizie islamiche contro il governo legittimo è stato
sventato dall’intervento dell’esercito etiope appoggiato dagli USA che ha spezzato la
resistenza islamica fondamentalista.

Etiopia ed Eritrea. Solo alla metà degli anni ’80 l’Etiopia di Manghistu istituisce un partito
unico (WPE) e una Costituzione che definisce lo Stato “unitario e socialista”. I militari che
hanno preso il potere rovesciano il vecchio governo del negus puntano a istituire uno Stato
fortemente accentrato che metta fine alle spinte autonomiste regionali e soprattutto
reprima definitivamente la lunga guerra di liberazione eritrea. La nazionalizzazione della
terra e la decisione di garantirne l’accesso a tutte le famiglie porta alla nascita delle unità
di coltivazione agricola in mano alle associazioni contadine, che ridistribuiscono la terra
alle famiglie e raccolgono la tasse. Nel 1985 si giunge alla villaggizzazione, il

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raggruppamento della popolazione rurale in villaggio designati, inizialmente allo scopo di
combattere la siccità ma poi allo scopo di controllare meglio la popolazione. La crisi
economica che ne deriva e le sconfitte subite da parte del movimento di liberazione tigrino
portano a una serie di misure liberiste nel 1988. la caduta dell’URSS porta alla fine di
Menghistu, rovesciato nel 1991. Ad Addis Abeba si riunisce un’Assemblea
rappresentativa fondata sull’appartenenza etnica. La riorganizzazione dello Stato su basi
etniche lascia aperti i problemi delle minoranze, attraverso il pericolo di una dominazione
esclusiva di un’etnia. Per quanto concerne l’Eritrea, nel 1950 l’ONU ne riconosce
l’autonomia nell’ambito di una federazione con l’Etiopia soppressa dall’imperatore pochi
anni dopo. La nascita del Fronte popolare di liberazione eritreo (FPLE) è la risposta alla
politica di centralizzazione dell’Etiopia. Come per gli altri movimenti di liberazione degli
anni Settanta, il FPLE crea una forte base popolare e avvia esperimenti di democrazia
nelle zone liberate, in vista di un radicale cambiamento socio-politico dell’Eritrea. Nel 1990
il Fronte conquista Massaia, l’anno successivo entra ad Addis Abeba dopo la fuga di
Mengistu. Le elezioni del 1993 conferiscono all’ex comandante generale del FPLE, Issaias
Afworki, la presidenza dell’Eritrea. Ottenuta l’indipendenza, il paese si ritrova
completamente in macerie e con il oltre il 75% della popolazione dipendente dagli aiuti
alimentari.

LA DEMOCRATIZZAZIONE E L’AGGIUSTAMENTO STRUTTURALE.

La crisi africana. La crisi africana inizia negli anni Settanta a causa di una serie di
catastrofi naturali, siccità e carestie. Il Sahel è la regione più colpita: in quest’area la
perdita delle mandrie rovina migliaia di allevatori. Nel 1974 scoppia una grande carestia in
Etiopia, nell’anno della caduta di Hailé Selassié. La carestia si sposta quindi in Somalia e
più a sud. Questi fenomeni mettono in luce debolezze strutturali delle economie africane:
se la siccità è provocata da scarsità di pogge e quindi da fenomeni naturali, la
desertificazione ha dietro di sé caratteri di tipo socio-economico:
1. monocolture che hanno avuto l’effetto di erodere il terreno
2. deforestazione
3. l’eccessivo aumento delle mandrie e il conseguente ridursi della copertura vegetale
ecc.
Anche la carestia non è un fenomeno naturale: può essere provocata dalla siccità, ma il
fatto che si muoia per malnutrizione (o per malattie legate, es. il morbillo nel Sahel) è un
fatto sociale. In Africa si ha carenza alimentare anche nei periodi di piogge abbondanti: c’è
dunque un deficit alimentare strutturale che la siccità conduce al tracollo. L’Africa negli
anni ’90 è più povera di quando ha ottenuto l’indipendenza: sia in termini relativi perché è
aumentato il divario con l’Occidente e con i paesi asiatici, sia in termini assoluti rispetto
agli anni Sessanta in quanto indici come il potere d’acquisto mostrano un calo del 25-30%
tra le popolazioni rurali. Il periodo di crisi socio-economica dura dal 1975 fino all’inizio del
XXI secolo. Avviene però una sorprendente accelerazione dello sviluppo sociale:
l’urbanizzazione assume livelli spaventosi, così come la crescita demografica tale che
oggi in Africa i tre quarti della popolazione è al di sotto dei 25 anni. A ciò si è aggiunto il
dramma dell’AIDS, con punte altissime in Sudafrica dove il 30% della popolazione è
sieropositiva e secondo le stime tra dieci anni moriranno di questa malattia 4 milioni di
sudafricani e un milione di bambini rimarrà orfano. Le popolazioni africane hanno cercato
soluzioni attraverso due strade opposte:
• Exit strategy: l’uscita dal sistema, o attraverso l’emigrazione o col mercato nero, o
con il ritirarsi dal sistema economico dominante ritornando all’economia di
sussistenza.

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• Voice strategy: la richiesta di riforme attraverso manifestazioni, scioperi,
partecipazioni attive alla trasformazione del sistema.

L’aggiustamento strutturale. I regimi neopatrimoniali entrano in crisi verso la metà degli


anni Settanta quando inizia la dilagante crisi economica. Gli indici di crescita economica
calano in tutti i Paesi africani. Le ragioni sono molteplici, in primis la fine del sistema di
Bretton Woods e la crisi petrolifera del 1973, seguita dal secondo shock petrolifero del
1979. Anche se alcuni Stati africani sono produttori di petrolio, la maggior parte ne è
dipendente è all’epoca paesi come l’Angola non avevano ancora cominciato a trarne
profitto così che tutti, più o meno, subirono le conseguenze della crisi energetica. La crisi
del debito estero all’inizio degli anni ’80 dà il colpo di grazia ai sistemi africani: indebitatisi
fino al collo, cominciano a entrare in fasi di decrescita. La causa di ciò sta soprattutto nel
mantenimento del sistema produttivo coloniale improntato all’esportazione di solo pochi
prodotti e solo materie prime. La mancanza di una base industriale, di strumenti e di mezzi
produttivi lascia queste economie vulnerabili all’inevitabile calo dei prezzi delle materie
prime. A parte alcuni beni rifugio come oro e diamanti, poi, anche le risorse minerarie
diventano obsolete. Gli scarsi proventi del commercio sono del tutto inadeguati al
pagamento del debito contratto. La Banca mondiale accusa i sistemi neopatrimoniali di un
eccesso di statalismo e chiede l’avvio di una serie di liberalizzazioni attraverso la riduzione
dei costi correnti dello Stato (stipendi del settore pubblico) e la rimozione della spesa
sociale. I programmi di aggiustamento strutturale (PAS) proposti dalla Banca mondiale
vanno in questa direzione e puntano a creare un’economia tutta tesa al commercio
internazionale attraverso l’aumento dei salari dei contadini così da incrementare la
produzione dei beni agricoli. Il sistema produttivo viene così lasciato inalterato, così come
l’acuta disuguaglianza tra i flussi commerciali tra Nord e Sud del mondo che aumenta nel
momento in cui la sovrapproduzione agricola aumenta le quantità esportate ma ne
diminuisce il valore. Le ambiguità dei PAS sono evidenti e si possono sintetizzare in alcuni
elementi negativi:
1. Riduzione degli investimenti nel capitale umano – l’istruzione, la sanità – con
casi come quello della Tanzania dove il numero di studenti si è dimezzato. Ciò non
incentiva la creazione di un moderno sistema produttivo.
2. Rimozione dei sussidi per favorire l’acquisto interno dei prodotti alimentari e del
petrolio, cosicché la gente si ritrova a dover pagare di più per i beni di prima
necessità. Ciò scatena rivolte popolari e molti governi fanno marcia indietro sui
PAS.
3. Sviluppo di reti informali, economie sommerse che la Banca mondiale vuole far
emergere ritenendo che in esse si nasconda lo “spirito imprenditoriale” africano,
salvo poi scoprire che per il 90% dei casi questi commerci in nero sono dediti alla
mera sopravvivenza.
Oggi si sostiene sempre più che i parametri neoliberisti stiano danneggiando i processi di
democratizzazione dei Paesi africani, attraverso il taglio alla spesa sociale. Resta difficile
stabilire un’effettiva correlazione tra aggiustamento strutturale e crescita economica, oltre
al fatto che alcuni casi di successo – il Ghana, l’Uganda – sono durati solo pochi anni
prima di tornare ai parametri precedenti: i miglioramenti congiunturali sono spiegabili
attraverso altre ragioni (in Ghana il rientro dei lavoratori emigrati in Nigeria sull’onda del
boom petrolifero porta Rawlings a usarli nelle campagne, aumentandone la produttività).
La Banca mondiale si limita a sostenere che quei Paesi che non guadagnano dai PAS
sono debolmente riformatori: ciò conduce a fare delle riforme il fine e non il mezzo delle
politiche di aggiustamento.

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I fattori internazionali della democratizzazione. La dissoluzione di due grandi sistemi
autoritari, e cioè il comunismo sovietico e le dittature sudamericane, sono incentivi alla
fase di democratizzazione. Venuto a mancare l’appoggio militare e di intelligence
sovietico, alcuni regimi sono stati più esposti alle violenze e ai colpi di Stato. L’effetto
diretto della caduta del sistema sovietico non c’è stato in quanto la notizia non ha avuto
molta possibilità di diffusione in Africa. A ciò vanno aggiunte le “condizionalità”, cioè le
condizioni che gli istituti finanziari internazionali cominciano ad anteporre all’elargizione di
prestiti e alle ristrutturazioni del debito estero. Tali condizioni sono di tipo politico e
considerate positive ai fini della crescita e dello sviluppo: democratizzazione e rispetto dei
diritti umani. Nel 1991 Mitterand al vertice franco-africano della Francofonia dichiara di
sospendere gli aiuti ai Paesi con partiti unici: l’incentivo per le nazioni francofone è stato
fortissimo. Allorquando le condizionalità politiche prendono il sopravvento su quelle
economiche, si apre una nuova fase di riforme in Africa: diventa proprietario riforme il
sistema politico e le istituzioni (nell’accezione economica, es. i diritti sull’uso della terra).
Ciò deve garantire la tutela dei consumatori e gli investimenti internazionali. La good
governance sta appunto ad indicare tutto questo: trasparenza politica, correttezza e
neutralità nell’amministrazione, presenza di organi di vigilanza (corte costituzionale, corte
dei conti). Tutto ciò prende il nome di institutions building. I nuovi attori di questa fase sono
gli stakeholders, termine che indica gli azionisti, gli imprenditori, gli investitori ma anche
gli operatori delle ONG.

L’ondata di democratizzazione. La crescita dell’associazionismo neo-tradizione (forme


tradizionali a fini moderni) avviene nella seconda metà degli anni ’80 ed è molto simile a
quanto avvenuto negli anni ’50: diffusione dei sindacati opposti al sindacato unico, e dai
quali vengono fuori i leader dei nuovi partiti d’opposizione: in Zambia il futuro leader viene
dal sindacato dei minatori . Allorquando il sindacato unico si stacca dal partito unico, si
aprono nuovi spazi di indipendenza: ciò avviene in Zimbabwe, in Tanzania e in altri casi.
La rinascita dei partiti avviene attraverso due vie:
1. Riemersione dei partiti storici d’opposizione costretti all’esilio o alla clandestinità
(Senegal, Costa d’Avorio)
2. Nascita di nuovi partiti (Zambia, Tanzania).
La fase di contestazione avviene in diverse fasi: prima c’è la richiesta di una riduzione
dell’autoritarismo e di una maggiore libertà di tipo civile; segue la richiesta di una maggiore
distinzione tra governo e partito unico; infine si giunge alla richieste di apertura al
multipartitismo. Il vento nuovo inizia a soffiare nel dicembre 1988 in Benin. Qui le “forze
nuove” della nazione si riuniscono in una Conferenza nazionale che adotta una nuova
Costituzione. Molti altri paesi tentano di imitare questo modello popolare, ma non ci sono
riusciti in pieno essendo spesso il processo di transizione pilotato dall’alto. Opposto al
modello della “conferenza nazionale” è quello della commissione presidenziale o di
partito: la transizione viene guidata dall’alto e le riforme emanate dalla commissione di
partito. Questo è avvenuto in Tanzania dove Nyerere ha imposto l’apertura multipartitica.
In certi casi, il presidente cerca di rendersi indipendente e neutrale rispetto al partito unico,
sganciandosi dal sistema e ponendosi direttamente in linea con il popolo. Il problema in
questi casi è quello del sistema elettorale: se infatti si decide di tenere prima le elezioni
parlamentari e poi le presidenziali, le opposizioni hanno generalmente la meglio; se si
tengono prima le presidenziali, si favorisce il presidente in carica. Su questo punto si
creano continui bracci di ferro tra presidente e opposizione. Secondo l’associazione
Freedom House, che studia il grado di libertà nel mondo, la fase di democratizzazione in
Africa ha visto tra il 1989 e il 2003 un grande balzo in avanti dei paesi democratici, passati
da 2 a 11, e un analogo balzo dei paesi “parzialmente democratici” da 12 a 20. I non

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democratici sono diminuiti da 32 a 17, e nel 2007 a 15 (altri due sono diventati
“parzialmente democratici”). Il grado di democrazia può essere misurato in diversi modi:
1. Elemento elettorale: se le elezioni si tengono a intervalli regolari, se sono
trasparenti, se l’opposizione accetta il risultato. La stragrande maggioranza dei
paesi africani ha superato lo scoglio dei due turni elettorali regolari di seguito.
2. Limiti di mandato per i presidenti (non più di due, anche se Museveni in Uganda e
Mugabe in Zimbabwe sono riusciti a ottenerne un terzo).
3. Alternanza: un cambiamento di governo a ogni turno elettorale è sintomo di
maturità democratica, in quanto ciò costituisce un forte elemento di controllo
dell’attività di governo.
4. Livello di partecipazione elettorale, che è alto allorquando i cittadini sono
consapevoli di poter con il loro voto cambiare le carte in tavola (come in Etiopia nel
2005).

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