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STORIA CONTEMPORANEA

CORSO MONOGRAFICO: “CULTURE GIOVANILE ANNI ‘60/’80”


Lezioni Alessia Masini, “All’ombra delle altrui rivoluzioni 1”, “Il Sessantotto sequestrato2”

Concetto di gioventù. Definiamo “gioventù” la categoria sociale composta da quegli individui che
appartengono alla fascia d’età che va dall’adolescenza alla maturità. Tuttavia, l’idea di gioventù inteso dal
punto di vista anagrafico, è molto recente. Un’idea che trova le sue basi agli inizi del ‘900, nelle
sollecitazioni alla modernità con le rivoluzioni francese e industriale dalle quali, grazie a una maggiore
consapevolezza della specificità della condizione giovanile, emerge la categoria dei giovani. Da un punto di
vista socio economico, invece, l’idea di gioventù è legata all’idea di incertezza e immaturità che ad oggi
coinvolge anche persone di età superiore rispetto a quelli che raggiungono la soglia dell’età adulta,
arrivando a considerare anche 30enni e 40enni. Per questo, consideriamo il concetto di gioventù tanto
come un fattore anagrafico, che sociale. Possiamo dire che la gioventù è un fatto biologico su cui si innesta
una pratica di classificazione sociale.

Da questa nuova definizione socio-biografica, emerge un nuovo soggetto storico: il giovane, che
dalla rivoluzione francese in poi, sarà sempre considerato l’agente principale del cambiamento, del nuovo.
Nonostante, almeno fino a metà del ‘900, i giovani seguono ancora l’autorità, maschile e adulta,
rappresentata ora dal maestro, ora dal padre, ora dal padrone…. Sarà solo a partire del secondo
dopoguerra, infatti, che i giovani entreranno a far parte dei processi di democratizzazione della società,
affermandosi come soggetti autonomi e indipendenti.

Dalla presa di parola collettiva che prendono i giovani emerge un nuovo soggetto politico, oltre che
sociale, che si farà promotore di tutta una serie di cambiamenti, fra i quali spicca il cambiamento della
maggiore età a 18, invece che 21, anni. Questo soggetto, grazie al boom delle nascite degli anni ’50,
aumenterà poi esponenzialmente nel numero.
E grazie a un aumento di queste proporzioni nella forza lavoro, la categoria dei giovani oltre che
soggetto sociale e politico, si impone come soggetto economico, determinando una crescita economia del
Paese che porterà fra il ’58 e il ’63 al boom economico, al miracolo.

Il giovane, in quanto soggetto storico, abbiamo detto, si fa principale agente del cambiamento, un
cambiamento che si fa modernizzazione e, che coerentemente col ruolo del giovane, si estende a tutti i
campi. Infatti, avremo una modernizzazione
 economica (l’Italia entra nel pieno della produzione industriale),
 politica (sblocco del centrismo),
 sociale (aumento della mobilità sia a livello globale, che anche dalla campagna verso la città)
 e culturale (aumento del tasso di alfabetizzazione e riforme scolastiche che portano l’età della
scuola dell’obbligo a 14 anni)

Distaccandosi dall’autorità paterna, o quanto meno paternalistica, il giovane si rivolge ora a nuove
fonti come fonti educative, che saranno la pubblicità, la televisione, i fumetti, il cinema, ma anche la musica
e le riviste, affermandosi ancora come soggetto culturale. I costumi culturali e il tempo libero sono le
dimensioni essenziali per la costruzione dell’identità giovanile tra gli anni ’50 e ’60 che si ricollegano
strettamente a una profonda trasformazione del sistema dei media.

Il cinema è stata l’attività principale di cambiamento degli italiani tanto che le prime immagini dei
periodici del dopoguerra raffiguravano lunghe file all’entrata di sale e teatri. I giovani in particolare

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Amoreno Martellini.
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Guido Crainz.
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attribuiscono al cinema un alto valore simbolico e attraverso il cinema cercano uno spazio di socializzazione
e di riconoscimento tra pari.
La televisione inizia a mandare le trasmissioni in Italia nel 1954 e viene messa subito al centro di
un’attività comunitaria poi più avanti diventerà un elemento della vita privata. All’interno del mondo
“televisione” sicuramente spicca “Carosello” (1957), che fornisce una rappresentazione, attuale e ideale,
della società dell’epoca. Tra il 1951 e 1957 le pubblicità crescono del 50% e con l’aiuto del piano Marshall si
sedimentò in Italia un modello pubblicitario americano che si basava sulle agenzie di pubblicità e sulla
proclamazione delle campagne. Le protagoniste di queste pubblicità erano soprattutto le donne, spesso,
nelle vesti di casalinghe.

Il neonato consumismo mise in moto una serie di meccanismi, che, dapprima saranno alla base di
processi di emancipazione più ampi, primo fra tutti quella della donna. Attraverso le pubblicità, la
televisione ma anche le riviste assume sempre maggiore rilevanza la figura della donna e la sua libertà.
Negli anni ’50 nacquero, anche, le prime riviste dichiaratamente dedicata alla donna e alla sua
emancipazione, mentre per le riviste giovanile dovremo aspettare gli anni ’60. (“ciao amici”, 1963)

Al cinema si affiancano anche altri mezzi di diffusione della cultura giovanile, ricordiamo la radio e
la musica, che dagli anni ’50 fino agli anni ’90 saranno i mezzi di comunicazione giovanile per eccellenza per
la diffusione di messaggi e modelli che andavano a delineare l’identità del giovane.

Meno scontato è il ruolo dei supermercati che ebbero un ruolo molto importante, in quanto
iniziarono a mettere in circolazione nuovi oggetti provenienti dagli Stati Uniti ponendo le basi per una
rivalutazione del concetto di benessere che già da ora cominciava a coincidere con quello di comunismo.
Infatti, in questo periodo tutta una serie di nuovi oggetti fanno il loro ingresso nell’economia italiana:
Jukebox, giradischi, flipper, jeans, lavatrici, cucine americane, cibi in scatola, plastica, macchine utilitarie…

I giovani che iniziano a interagire col mondo del consumo e i suoi modelli consumistici si ritrovano
ora a dover affrontare il problema della separazione della sfera pubblica e privata. Infatti, secondo molti
studi anglosassoni è molto importante la possibilità di avere uno spazio privato di condivisione (di musica,
di confidenze…) tra coetanei. Una necessità che non può realizzarsi in Italia, date le condizioni di povertà
che la attanagliano negli anni ’50. Quindi, è ancora impossibile stabilire una cesura netta fra la cultura
giovanile da quella familiare.

Oltre questo, bisogna anche fare una distinzione fra i giovani che popolano gli anni ’50, fra quelli:
 nati negli anni ’30, che hanno vissuto la guerra, e hanno socializzato durante il fascismo
 e quelli nati negli anni ’40 che invece hanno fatto esperienza del dopoguerra.

Ovvero, fra quella che viene chiamata “prima generazione” che non ha piena consapevolezza di sé,
non è ancora in grado di rappresentarsi in termini generazionali e che ha una maggiore richiesta di
autonomia personale e quella che viene definita la “generazione dell’impegno”, più consapevole di sé in
quanto soggetto sociale e politico e meglio orientata verso l’autorappresentazione di sé in termini
generazionali.
Generazione, definizione. la generazione è una categoria che raggruppa un gruppo ristretto della
società sulla base di esperienze esistenziali, culturali e politiche comuni, vissute in una specifica fase storica
e durante la stessa fase di vita fra gli individui. La generazione non è in quanto, tale e non gli appartenenti
ad una stessa generazione non devono appartenere ad una stessa classe sociale, ma si definisce attraverso
processi di autoidentificazione da parte degli individui di una stessa fascia d’età, generalmente, in virtù
dell’aver vissuto la fase cruciale della propria formazione, fra i 16 e i 25, in un determinato clima culturale.
Appartenere ad un determinato tempo accomuna i membri di una generazione e li differenzia dalle
generazioni precedenti e successive.
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I giovani a partire dagli anni ’50 sono protagonisti dei processi di modernizzazione e questo gli
permette di adeguarsi molto meglio rispetto alle generazioni precedenti alle novità tecnologiche. E, anche
grazie attraverso queste, cominciano a produrre idee, modelli di comportamenti e forme di espressione che
filtrano determinate trasformazioni sociali e che si concretizzano nelle culture giovanili.

Ne “il secolo breve” Hobsbawm dice che:

“una peculiarità della nuova cultura dei giovani è la dimensione internazionale”.

Negli anni ’50 e ’60 attraverso la musica (pop, rock) in primis, ma anche moda (jeans) c’è una forte
egemonia culturale del mondo anglo-sassone e ancora più particolarmente gli Stati Uniti che porteranno
ad un’uniformazione dei giovani a livello mondiale sotto il modello americano. Per questo un elemento
fondamentale delle culture giovanili di questi anni sarà il viaggio, che si svolgerà tra Europa, Stati Uniti ma
anche verso oriente e che sarà alla base dello scambio culturale e interculturale di questo periodo.

All’arrivo del rock and roll in Italia si fa spesso ricondurre la nascita di una nuova era, un’era che
avrebbe cambiato il corso della pop music. Dello stesso rock and roll, invece, si fa risalire la nascita al 1954,
data dell’incisione del primo disco di Elvis Presley, a conferma del fatto che a fare da modello a questo
nuovo genere sarà quello americano. Il rock and roll americano, nasce come accelerazione del ritmo della
musica blues che incontra il country. Essendo commistione fra la cultura popolare afroamericana e country
bianca, il rock aveva messo in campo un superamento delle barriere etnoculturali che preoccupa la
generazione dei padri americani.

Questa rivoluzione del rock and roll può essere letta sia da un punto di vista sociologico, in quanto
portatrice di un rinnovamento nei costumi (forte impatto sulla sessualità facendosi strumento di
trasgressione) e nei consumi. Con l’impatto che il rock and roll ha sui giovani la società americana non può
non preoccuparsi per la possibilità di una degenerazione, la così detta devianza giovanile rispetto ai valori
dominanti dell’epoca. E quindi nasce una volontà di riportare i giovani della working class sul solco del
perbenismo sociale.

Quindi, tra gli anni ’50 e ’60 gli americani sviluppano una certa paranoia sia verso una minaccia
esterna (siamo inizi Guerra Fredda quindi parliamo della minaccia sovietica) sia verso un nemico interno,
che è il teppista criminale che ascolta rock and roll. (per i beat un giornalista parlerà di beatnik (beat +
sputnik) che pone in relazione la pericolosità di questi giovani a quella dei sovietici)

Intanto, a livello globale, le immagini e i valori del rock and roll si diffondono non solo attraverso la
radio ma anche e soprattutto attraverso il cinema, attraverso il quale la figura del giovane perduto, della
gioventù bruciata approda anche in Italia, pur adattato, nella misura in cui perde alcuni caratteri
trasgressivi, e, per questo, fino al ’58 l’esperienza rock di un adolescente italiano sarà molto diversa rispetto
a quella di un americano.

Sarà nel ’58, infatti, che viene organizzato il primo festival di rock and roll al palazzo di ghiaccio di
Milano, primo di tutta una serie di eventi (festival, cinema, programmi…) che porteranno a una scoperta e
riscoperta del rock and roll italiano, e in modo particolare del suo massimo esponente, Celentano.

Bisogna dire, che fra il 1958 e il ’63 si susseguono una serie di episodi di delinquenza giovanile, che
porterà la stampa italiana a legare sistematicamente il benessere alla delinquenza, nei termini di
“malattia/noia derivata dal benessere”. A questo consegue una identificazione tra la figura del teppista e
del giovane. E in modo particolare del teppista in quanto giovane degenerato, per i prodotti culturali che
consuma, a partire dall’abbigliamento che viene sottolineato, e che porterà alla nascita della figura e del
termine “teddy boy”. Inoltre, la stampa, sostiene che i giovani italiani siano mossi da una rabbia di
imitazione, di quella dei giovani americani.

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Con queste nuove considerazioni del giovane da parte del mondo degli adulti, si comincia ad
incrinare il rapporto fra economia dei consumi e gioventù, che giungerà alle estreme conseguenze agli inizi
degli anni ’60 con la nascita delle controculture.

Con controcultura si intende una forma espressiva e trasgressiva, mei confronti dei valori sociali
dominanti, che nasce da fondamenti individuali e che si riflette sullo stile, ancor prima di assumere i
caratteri di un’organizzazione politicizzante. Alla base di queste controculture, non solo abbiamo
un’insofferenza verso le istituzioni e il mondo degli adulti, ma anche il rifiuto nei confronti della società di
massa e di consumi. In questo momento, poi, si colloca la guerra del Vietnam che fungerà da collante per
le controculture e i movimenti studenteschi dell’epoca (hippie, beat, capelloni). Una particolarità in comune
di queste controculture è l’uso del corpo come strumento per distinguersi da una società che disapprovano
(dimensione spettacolare del corpo e dello stile). Questo determina una nuova appartenenza a una nuova
cultura di contestazione. Fra le controculture di questo periodo ricordiamo:
 la beat generation. Controcultura che nasce negli Stati Uniti negli anni ’50 e che si diffonde
parallelamente al rock and roll. Il termine “beat” è da intendersi secondo una doppia
accezione: come distrutto, prostrato e come ‘beatitudine’. I più grandi rappresentanti della
generazione beat sono un gruppo di giovani outsider americani (Jack Kerouac, Allen
Ginsberg, Jon Anderson, Gregory Corso…) che parlano senza censura e fanno uso di
stupefacenti in contestazione al perbenismo e alla moralità americani dominata dalla
ricchezza.
 Hippie. Dalle radici della beat generation nasce anche la controcultura hippie, che diventa
negli anni ’60 un fenomeno di massa. L’elemento caratterizzante di questa controcultura è
ancora il corpo, l’abbigliamento, che adesso si fa ancora più eccentrico attraverso il quale
sfidavano la cultura dominante e mettevano in pratica una loro forma di protesta, una
contesa etica ed estetica dello spazio pubblico.

Ovviamente caratteri di queste controculture, si fondono e mescolano con il rock and roll e un
giovane non apparteneva unicamente e definitivamente solo ad una controcultura ma subiva l’influenza di
varie controculture contemporaneamente e in varia misura.

Accanto a queste controculture si sviluppano dei movimenti sociali importantissimi (quello per i
diritti neri americani, la nuova sinistra, il movimento pacifista contro la guerra del Vietnam) che queste
controculture fanno propri determinando lo sviluppo delle controculture da quello che era un gruppo
ristretto come quello della beat generation a un fenomeno di massa come quello degli hippie. Inoltre la
cultura beat e rock modificano profondamente il rapporto della musica con i giovani, e come elemento di
aggregazione e socializzazione nasce il festival.

Nella fusione della cultura beat e hippie in Italia nasce la figura del cosiddetto “capellone”, il cui
nome ovviamente rimanda a un modo di portare i capelli lunghi, soprattutto negli uomini, che per i valori
dominanti dell’epoca era inaccettabile.

In Italia la contaminazione delle proteste negli Stati Uniti, con quelle di altri Paesi, che avveniva
grazie ai viaggi, alla conseguente costruzione di reti di giovani e gruppi di studenti fu un passaggio
essenziale per marcare un confine con il passato, una rottura generazionale e cominciare a sentire di
appartenere a una comunità di coetanei che cominciano a scrivere, a riflettere e a indagare su sé stessi (il
caso della zanzara3, 1966) andando a sottolineare i cambiamenti che stavano avvenendo all’interno della
sfera giovanile italiana degli anni ’60 (“ciao 2001” 1963).

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Fu uno scandalo avvenuto nel liceo classico Parini di Milano, dove gli studenti pubblicarono nel loro giornalino
scolastico “La zanzara” un’inchiesta sulla conoscenza dei giovani in merito all’educazione sessuale. Ma lo scandalo non
fu per le tematiche trattate, quanto perché le opinioni degli studenti del Parini non corrispondevano alla morale
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A metà degli anni ’60 queste inchieste e queste riviste contribuiscono a costruir una nuova identità
da e dei giovani. La gioventù consapevole dei propri valori e artefice della sua stessa rappresentazione, che
viene dipinta come insofferente rispetto al moralismo della società, si impone dunque prima come forza
sociale, e poi (1968) anche politica. Questa generazione si pone in netta opposizione rispetto a quella dei
padri, supera i valori della generazione precedente ‘non ti fidare di chi ha più di 30 anni’

Infatti, prima di tutto, la generazione del ’68 è una generazione storica. Si definisce “storica” una
generazione che rivendica un elemento di diversità che la distingua dalle altre. Quella del ’69 si definisce
per il suo carattere politico, perché i giovani si confrontano e reagiscono su eventi di politica internazionale,
primo fra tutti l’indignazione verso la guerra del Vietnam.

LA RIVOLUZIONE DEL ’68 (All’ombra dell’altrui rivoluzioni.)

Un tratto comune dei gruppi giovanili del ’68 è la presa di parola collettiva, nel senso di
protagonismo politico. I giovani, ora identificati come soggetto sociale e politico, si presentano anche come
soggetto del cambiamento, un cambiamento che coerentemente, sarà politico e sociale. Un cambiamento
che procede attraverso una rivoluzione linguistica. I movimenti del ’68 quindi cambiamo i modi di
comunicazione politica contaminandola con la comunicazione di massa (volantini, scritte sui muri…).
Quindi, il linguaggio si fa strumento di questo cambiamento sociale e politico.

“Il linguaggio fu il principale strumento della rivoluzione, e il più stupefacente”


Di questo cambiamento, questa rivoluzione negli anni sessanta fino al Sessantotto in Italia si è
parlato, si è immaginato e aspettato ma non è mai realmente esplosa. Tuttavia, la percezione diffusa di una
imminente esplosione rivoluzionaria: “la rivoluzione è dietro l’angolo” orientò, sul finire degli anni sessanta,
culture e comportamenti individuali e collettivi. In Italia il compito di preparare il terreno a questa
rivoluzione inesplosa venne lasciato ai linguaggi, ai simboli, alle immagini… che spesso si trovavano a
ritrarre le morti dei personaggi che esercitavano maggiore influenza sui giovani. Una rivoluzione dunque
che si nutriva di parole e immagini come se attraverso parole e immagini fosse possibile colmare il gap con
una prassi che latitava.

Tralasciando i caratteri della contestazione, che presto si sarebbero diversificati andando a formare
due linee opposte nei metodi (violenta e non violenta), il fine era lo stesso, che sintetizza anche una prima
definizione della rivoluzione: operare un cambiamento radicale nei rapporti umani, sancire la nascita di un
mondo nuovo, un uomo nuovo e di valori nuovi. Insistenza sull’aggettivo nuovo come contrapposizione
rispetto al vecchio, al passato, il vecchio potere e le vecchie ideologie non più adatte, evidentemente, ad
aderire al nuovo tessuto storico e sociale.

Fra la rivoluzione intesa come violenta e non violenta, infatti, durante il Sessantotto le diverse
posizioni non si trovano distinte così nettamente al punto di impedire contaminazioni e sovrapposizioni, le
quali, a loro volta, crearono elementi di forte contraddittorietà. Anzi, in quei mesi convulsi che
precedettero l’evento ’68 le due anime della contestazione e le due diverse idee della rivoluzione prossima
ventura convivevano mescolate nei comportamenti a volte contraddittori dei giovani.

Andando a tracciare, però, il percorso d’evoluzione della rivoluzione relazionato al metodo bisogna
dire che le basi della contestazione del Sessantotto poggiano sugli slanci nonviolenti e pacifisti dei figli dei
fiori, e degli hippie, ma ora lasciavano spazio a un nuovo modello, quello del guerrigliero.

Anna Bravo sostiene che ai loro esordi nella prima metà degli anni ’60, tutti i movimenti di protesta
(beat, hippie, femministe, capelloni) professavano principi della non violenza e nelle loro forme di protesta

pubblica dominante e dominata dalla Chiesa pubblica. Questo provocò un’indignazione generale e un accanimento
della stampa nei confronti dei giovani ma anche una grande mobilitazione di solidarietà.
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adottavano tecniche di resistenza passiva. La violenza si fece strada negli orizzonti del movimento solo più
tardi e quasi all’improvviso a partire dal ’68 e ancor più negli anni successivi.
O ancora, Valeria Orchetto: “dall’affermazione dei principi della non violenza e della coesistenza
pacifica si sta passando alla teorizzazione della violenza. Questo rovesciamento di tendenza ha fra i suoi
promotori soprattutto giovani intellettuali.”

A determinare e spartire questo prima e dopo fu un concorso di eventi e di esperienze che giorno
per giorno distorsero e plasmarono quelle debordanti e informi esuberanze comportamentali dei giovani.
Fra queste il sentimento di rabbia generalizzato, eventi come quelli di Valle Giulia o Piazza Fontana (che
accrescono quello stesso senza di rabbia), il contesto mondiale e il generale clima di euforia, e forse anche
l’eccesso di ideologia e il collasso degli equilibri dovuto alla radicalizzazione e deriva degli estremisti.

Non solo, a seguito di diversi episodi simbolo per la storia della non violenza italiana, come la
protesta contro la parata militare del 2 giugno 1967, la grande manifestazione non violenta a Firenze, e
quella di Milano… il fatto che a queste fosse contrapposta una risposta violenta da parte dello Stato,
sottolineava il sostanziale fallimento della proposta non violenta, oltre ad andare ad aumentare la
frustrazione, l’insofferenza e la rabbia.

Parallelamente, l’escalation militare americana in Vietnam, il colpo di stato in Grecia ma anche la


stessa morte di “Che” Guevara o dello studente Paolo Rossi, portavano sotto gli occhi di tutti il nuovo
modello violento andando a completare l’ambiguo immaginario giovanile che si andava creando.

Un’ambiguità e una contraddizione che si riesce a leggere anche negli stessi slogan dei giovani, fra i
quali si alternavano contemporaneamente “fate l’amore, non fate la guerra” e “guerra no, guerriglia sì” “il
potere nasce dalla guerra del fucile”, “mettete dei fiori nei vostri cannoni”.

Per cercare di sciogliere questo nodo possiamo dire che la rivoluzione si realizzava, dunque, lungo
due fronti, uno etico-culturale ed è quello che aspira allo sconvolgimento degli asseti della società per
avviare un processo di liberazione degli individui dalla ipocrisia delle convenzioni vigenti. E quindi si faceva
una rivoluzione culturale, sessuale, dei costumi, musicale e non violenta. Dall’altro lato era una rivoluzione
che faceva appello a una dimensione politica, al movimento delle masse, alla mobilitazione delle piazze e,
inevitabilmente, all’organizzazione militare, all’uso delle armi, e in definitiva, della violenza. Alla vigilia del
’68 questi due modelli dell’immaginario giovanile si trovano accavallati.

Ancora, secondo un altro punto di vista (Antonio Zavoli, circolo di cultura cattolica “Maritain”
Rimini) “la rivoluzione planetaria si deve articolare nelle rivoluzioni particolari. Ogni rivoluzione,
rispondendo a situazioni ambientali proprie postula un’imposizione originale”. Secondo questo punto di
vista, l’uso della violenza sarebbe legato alle specifiche caratteristiche che la rivoluzione avrebbe assunto
nelle situazioni particolari. Per esempio, quello che valeva per la situazione boliviana, non necessariamente
valeva per quella italiana.

Ma, in definitiva, ne risulta un magma di passioni e aspettative che veniva racchiuso sotto al nome
di rivoluzione.

Sul piatto della bilancia della violenza, la diffusa accettazione della violenza che in quegli anni venne
condivisa, era ‘giustificata’ dalla necessità della rivoluzione oltre che dalla sua imminenza (o almeno la
percezione della sua imminenza). Una percezione amplificata e dagli apparecchi televisivi che facevano
circolare le immagini dal terzo mondo, che quindi accorciava le distanze. Oltre a questo, i aggiunge il fatto
che si considerasse una forma di autodifesa dei popoli contro la violenza incombente degli stati.

Ma questi elementi, sono presenti e giustificano la violenza anche in Italia, e per estensione in
Occidente?
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In Italia a partire dall’inizio del decennio lo Stato aveva mostrato il suo volto più duro e l’ordine
pubblico in occasione di scioperi, manifestazione o proteste era stato mantenuto facendo ricorso con
sempre maggiore disinvoltura a repressioni violente da parte della forza pubblica. Parallelamente era
cresciuto indisturbato il livello di violenza dei gruppi di estrema destra, di cui la morte dello studente
universitari paolo Rossi (per essere impegnato a fare volantinaggio di fronte all’Università) sarebbe stata
una delle più tragiche conseguenze. Da qui parte un processo di presa di coscienza collettiva del fatto che
l’Italia era un paese a rischio democratico e che la risposta alla violenza dello stato doveva essere la
violenza rivoluzionaria, che ebbe il suo epilogo nella strage di Piazza Fontana.***

Inoltre, alla contestazione giovanile, si contrappone presto una guerra controrivoluzionaria con tra
le sue fila sezioni deviate dei servizi segreti, parte dei vertici delle forze armate e neofascisti.

Ma i nuovi eventi storici, facevano intendere che la rivoluzione se esplosa avrebbe assunto dei
caratteri nuovi. Infatti, la fine del secondo conflitto mondiale e il prolungarsi degli esiti legati ai processi di
decolonizzazione, in corso in molte aree del Terzo mondo, avevano fatto intendere chiaramente che nella
seconda metà del Novecento non ci sarebbe più stato posto per la forma rivoluzionaria tradizionale: una
imponente sollevazione, più o meno spontanea della massa popolare contro il palazzo del potere volta alla
distruzione dell’ordine vigente e alla sostituzione di con un ordine radicalmente diverso. Ma per tutta la
seconda metà del secolo breve i processi rivoluzionari assunsero di volta in volta forme che, per quanto
differenti tra loro, potevano richiamarsi soltanto a due precise soluzioni: il golpe (il colpo di stato Militare) e
la guerriglia.

Il golpe. Il ripetersi di colpi di stato di ogni matrice ideologica, però, oltre a interrogare sulla
effettiva tenuta delle democrazie, mobilitava le ali estreme della protesta a favore o contro i governi
golpisti che di volta in volta irrompevano sulla scena politica.

La guerriglia, invece, arrivò a imporsi grazie, dapprima, alle esperienze di resistenza popolare al
nazifascismo sviluppatesi negli anni del conflitto, e successivamente, all’esperienza maturata durante il
processo di decolonizzazione, dalla rivoluzione cubana al Vietnam.
Nell’Italia degli anni sessanta l’immaginario relativo alla guerriglia si ricollegò ben presto ai ricordi
ancora freschi della guerra partigiana. Il movimento di protesta attinse a piene mani al mito della
Resistenza. Andando a legare la vittoria sul nazifascismo con le lotte dei popoli del Terzo mondo contro
l’Occidente imperialistico. E in particolare ‘l’imperialismo yankee’ contro il Vietnam.

“il napalm non può piegare chi combatte per la propria libertà” (volantino)

Ma, i giovani, contestavano questa appropriazione dell’eredità resistenziale da parte delle


istituzioni statali, e, infatti, il 25 aprile 1967 gruppi di contestatori presero di mira lo svolgimento delle
rituali celebrazioni e interruppero in diverse città i discorsi ufficiali dei politici e dei rappresentanti delle
istituzioni.

In effetti, però, nonostante la frettolosa invenzione di una tradizione, nel nostro paese i giovani non
avevano avuto alcuna esperienza diretta del colpo di Stato né della guerriglia: perciò dovettero
accontentarsi delle rivoluzioni altrui. L’intensificarsi della guerriglia in America Latina, la morte di Che
Guevara, la guerra in Vietnam, il colpo di Stato in Grecia…furono questi gli eventi di cui si appropriarono i
giovani italiani per gridare la loro causa.

Di fronte a questa situazione di contrapposizione fra una rivoluzione e una controrivoluzione, si


sviluppa una stanchezza e un’insofferenza che in quegli anni i soggetti della contestazione iniziarono a
manifestare anche verso i tradizionali linguaggi della politica e verso le consuete forme di trasmissione della
parola dal vertice alla base, primo fra tutti il comizio.

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In alto, sul palco, si materializzava il partito stesso nella persona del leader di turno chiamato ad
officiare il rito, dal palco discendeva la parola ufficiale del partito a istruire le masse e il principio stesso
dell’autorità si identificava con l’oratore ufficiale del comizio.

Al comizio si contrappone, come forma di contestazione, l’interruzione attraverso grida e slogan


che impediscono all’oratore di terminare il suo discorso, come avviene con Bonacina (del partito socialista),
o Vincenzo Gatto del (PSIUP) o ancora, Enrico Berlinguer (partito comunista) …. Altre volte voltavano le
spalle…. Come forma di attacco al principio di autorità, come rottura del monopolio della parola e del
potere.

In alcune occasioni, poi, quella che inizia come contestazione ad un comizio, diventa una vera e
propria manifestazione parallela, come accade a Milano, in occasione del comizio di Pietro Secchia, quando
dei giovani dopo essersi mostrati impazienti, si allontanano dal palco e iniziano un corteo.

Se la profanazione degli spazi sacri della parola si abbatté come un flagello sulle liturgie politiche
non risparmiò neppure le liturgie religiose. Diversi giovani cattolici, infatti, durante le funzioni religiose
interruppero il sacerdote, chiedendo di esporre le proprie idee. Uno dei casi più eclatanti avvenne nel ’68 a
Trento, ma eventi simili accadono anche a Roma, a Milano, a Parma, a Catania….

Ormai questa forma di protesta si diffondeva a macchia d’olio, fino quando arrivò a colpire la
sacralità dello stesso pontefice. Nel giorno di Natale del ’68 fu infatti Paolo VI a subire una contestazione da
parte di alcuni giovani durante la celebrazione della messa natalizia nelle acciaierie di Taranto.

La profanazione degli spazi sacri della parola venne percepita come una sorta di anticipazione del
nuovo ordine sociale prossimo venturo in cui allo strumento verticale dell’omelia e del comizio si sarebbe
sostituito il movimento orizzontale dell’assemblea. Dissacrare il palco del comizio, la cattedra dell’aula, il
pulpito della chiesa, togliere all’officiante della liturgia la possibilità di utilizzare le sue parole era, dunque, il
primo passo per combattere il potere.

Il secondo era quello di sostituire quel linguaggio con un altro, il linguaggio rivoluzionario: un
linguaggio fatto di slogan (sul Vietnam ci si divide, non ci si unisce/rompere le false unità…), ma anche e
soprattutto di immagini. Veniva inaugurata la stagione dei gadget politici, la stagione in cui la politica, dopo
aver assecondato la trasformazione che aveva orientato e regolato in modo nuovo i modi, i tempi e i ritmi
del consumo, diveniva essa stessa oggetto di consumo. La pubblicazione nel ’68 del diario di Bolivia di Che
Guevara, sarà, a conferma di questo, una delle operazioni editoriali di maggior successo. A questo nome, e
alla sua immagine, si aggiungono poi quelli di Mao, di Ho Chi Minh, di Camilo Torres…E il successo di questo
“consumismo rivoluzionario” non si limiterà al mercato editoriale ma invaderà anche quello discografico e
cinematografico. (linea rossa, Giovanna Marini/Giù la testa, Sergio Leone).

La risposta del mondo degli adulti alla contestazione e voglia di rivoluzione giovanile, fu tardiva e
inefficace, infatti se fino alla fine degli anni ’60 la situazione era quella di una rivoluzione e
controrivoluzione, alla fine degli anni sessanta il mondo degli adulti, all’interno di qualsiasi matrice
culturale, rivendicava la propria dimensione rivoluzionaria. Ognuno a suo modo, ognuno con i suoi metodi e
i suoi obiettivi: ma tutti ugualmente impegnati in una corsa a chi fosse più rivoluzionario, a chi fosse più
impegnato nel compito di cambiare radicalmente il sistema, a chi proponesse un modello di uomo e di
mondo più distante da quello dominante. Una rivendicazione che aveva l’obiettivo di stabilire un dialogo
con i giovani contestatori, e quindi contemporaneamente intercettarli e spingerli a votare per loro, ma
anche per limitarli vista la paura di venire scavalcati e travolti dall’onda montante della protesta, di
perderne il controllo e di non riuscire più a governarne le dinamiche.

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Una mania, o tensione, che non risparmiò nessuno. Lo stesso mondo cattolico, in varie riviste e
articoli si definisce “profondamente rivoluzionario” (civiltà cattolica) e che “di rivoluzione perpetua,
autentica e mondiale non c’è che il cristianesimo”.

Sul polo opposto anche il partito comunista, che però si trovava in una posizione più complicata.
Infatti, se la concezione gramsciana del partito rivoluzionario era ormai superata dalla definizione del
partito nuovo di Togliatti, che aveva chiesto di abbandonare l’idea di rivoluzione per trasformare la società
attraverso il partito in quanto strumento politico, ora, non poteva né rinnegare la propria evoluzione, ma
allo stesso tempo non poteva lasciare che gli altri partiti si facessero portatori di un’ideale di rivoluzione sul
quale questo si era fondato, e che ora, a loro dire non possedeva più.

Lo stesso problema, si pone all’estrema destra, dove anche una nuova formazione neofascista, la
Costituente nazionale rivoluzionaria, partecipa alla corsa al rivoluzionario. E se nella sinistra estrema
l’ideale rivoluzionario si definiva sui tanti focolai di guerriglia divampati in tutto il mondo, nell’estrema
destra l’idea rivoluzionaria si sosteneva sui colpi di stato. (e il colpo di stato a un passo dai confini italiana,
in Grecia nel ’67 sarà occasione per scendere in piazza)

Infine, anche i non violenti, per quanto potrebbe sembrare paradossale, tendono a rappresentare la
propria scelta come rivoluzionaria, e lo fanno su un piano più ideologico, non sulla dimostrazione del
modello della guerriglia o del colpo di stato ma perché “la tensione alla pace è rivoluzionaria nella società
attuale” (Aldo Capitini). Anche se, di fronte a certe situazioni limite di questi tempi, come la battaglia di
valle Giulia, anche i nonviolenti si chiedono se la violenza non sia in verità l’unica via. E sarà con questi
dubbi che verrà sancita la fine della “età dell’innocenza” dei primi anni ’60, quella del mondo sognante
degli hippies, poi dei beat e via dicendo. E l’inizio di una nuova fase della rivolta, forse più consapevole delle
strade della politica e delle illusioni sulla pace del mondo.

 PANTHEON4

Ma il ’68, come fenomeno sociale e storico, non si limita all’interno della cortina di ferro ma anche
al suo esterno, in particolare in Polonia, in Cecoslovacchia. Tuttavia, in questi paesi, i giovani rimasero
lontani dai valori e le battaglie dell’68 occidentale che privilegiavano l’asse con la rivoluzione cubana e con
la difesa del Vietnam del nord, ma la loro mobilitazione era volta al raggiungimento della democrazia e alla
liberalizzazione di maggiori diritti.

 IL ’68 SEQUESTRATO5

Ma il ’68 non fu una parentesi che si apre e si chiude, ma aprirà a sua volta ad una fase di
partecipazione e mobilitazione che durerà per tutti gli anni ’70. Una mobilitazione “rivoluzionaria” sia
perché tesa al cambiamento che perché lo faceva inseguendo il mito della rivoluzione.

In questa nuova fase di mobilitazione, oltre ai movimenti studenteschi e operai, emergono nuovi
soggetti. Il primo sarà il movimento femminista, che prende le mosse proprio all’inizio degli anni ’70.

Infatti, fino a questo momento la categoria delle donne era ancora assente all’interno della
rappresentazione dei giovani o dei contestatori del ‘68. Non solo, il movimento studentesco e operaio nelle
sue contestazioni non aveva lasciato spazio alle donne, non aveva mai lasciato la voce alle donne che
adesso, quindi, si organizzano in movimenti femministi per rivendicare, anche loro, uno spazio all’interno
delle dinamiche di potere e di dominio dalle quale erano rimaste escluse.

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Vd. Allegato “Pantheon”.
5
Vd. Allegato “il ’68 sequestrato”
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Si deve però parlare di movimenti femministi, e femminismi, perché pur ambendo agli stessi
obiettivi: l’autodeterminazione del corpo, l’emancipazione fisica e psicologica della donna, la violenza
domestica, la parità di retribuzione, l’educazione dei figli… lo facevano con caratteri e strumenti diversi. I
movimenti femministi, a differenza delle organizzazioni femminili del passato che facevano parte di partiti
politici, occupavano le piazze, erano movimenti di massa e organizzavano cortei facendosi spazio nel
panorama politico e pubblico “il personale è politico”. I movimenti femministi iniziano convenzionalmente
con la pubblicazione del manifesto (1970) di Carla Lonzi e del suo libro “sputiamo su Hegel”.

Gli anni ’70 vengono generalmente ricordati come “la stagione dei movimenti”, che ovviamente
emergono sulla base del terremoto culturale e politico che era stato il ’68, tanto che viene anche chiamato
“stagione del lungo ’68”. Perché proprio i movimenti sociali giovanili e delle donne avevano cambiato
l’identità del paese e avevano accelerato la modernizzazione, andando a contribuire
all’autorappresentazione del paese.

Per questo, negli anni ’70 c’è uno spostamento a sinistra del Paese, e in particolare dei giovani.
Negli anni ’70 avviene quella che è stata definita una trasformazione antropologica, perché i giovani
cambiano, e lo fanno attraverso i movimenti, i media…e cambiano nei loro rapporti con la famiglia, con il
lavoro (non è più il lavoro che identifica la persona, ma il suo tempo libero, la sua cultura le sue amicizie…),
cambia il loro linguaggio e le loro abitudini. Nel ’77 anche l’Università diventa università di massa, con quasi
un milione di studenti.

Oltre al movimento femminista fra le controculture, una parte meno conosciuta anche se
consistente degli anni ’70 sviluppa un discorso legato alle nuove pratiche di riappropriazione della cultura.
Si apre in questo momento il dialogo dei diritti e del copyright. Nascono quindi delle contestazioni per la
fruizione, la produzione e l’accesso libero alla musica che porteranno ad un blocco totale dei tour
internazionali che durerà dal ’75 al ’79. Questo è dunque il periodo delle kermesse e dei festival,
organizzate dalla sinistra extraparlamentare, che prendono il nome di “feste del proletariato giovanile”.

Dai primi anni ’70 si comincia a parlare del proletariato giovanile, che nella sua prima forma
possiamo definire una versione più politicizzata dell’hippie, ma che nella seconda metà degli anni ’70
assume un carattere politico più definito diventando un soggetto contestatore. Questo nuovo soggetto
nasce nella periferia di Milano, e si compone principalmente di giovanissimi (15-20) della classe medio
bassa che vivono, a seguito della crisi del 1973 con lo shock petrolifero, un senso di frustrazione ed
emarginazione, che si organizzeranno in circoli del proletariato giovanile, che è un po’ l’antenato degli
odierni centri sociali.

Queste componenti giovanili sembravano identificarsi con la sinistra rivoluzionaria, che però non
riusciva ad intercettarli. Quindi, anche se la nuova sinistra era all’apice della sua popolarità, entrò in crisi a
causa della corrosiva critica dei movimenti femministi e una crisi interna dovuta al modo di fare politica che
non era ritenuto più adatto ad una società trasformata o a riunire le diversi componenti giovanili (crisi della
militanza).

Il movimento del ’77. Il movimento del ’77 fu un movimento fugace, esplose nel febbraio del ’77 a
Roma, si diffuse a Milano e Bologna, che rappresenterà la capitale culturale del ’77 e si esaurisce entro la
fine dell’anno. Il ’77 rappresenta la sedimentazione di tanti eventi che sono avvenuti dal ’68 in avanti. Con
la crisi economica ed occupazionale degli anni ’70 e la conseguente marginalizzazione dei giovani sotto i 30
anni che si convertono in precari (lo stesso termine “precariato” emerge in questo periodo) e che si battono
per ottenere maggiori politiche welfare, il mercato del lavoro e servizi pubblici.
Il ’77 raccolse il proletariato giovanile e coloro che si sentivano maggiormente colpiti dalla crisi. La
miccia però che fece partire una nuova mobilitazione fu quella del progetto di riforma dell’istituzione che

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tentava di reintrodurre il numero chiuso alle università, prevedeva un aumento delle tasse e non prevedeva
la tutela al diritto allo studio.
L’epicentro del movimento fu l’Università della Sapienza di Roma, dove ci furono accesi scontri fra
gli studenti e il CGL. In particolare, ricordiamo quando la CGL aveva organizzato un comizio nel piazzale
dell’università con l’obiettivo di solidarizzare con gli studenti, ma allo stesso modo tentando di indirizzarli. E
proprio a questa presenza del CGL in quella che considerano il loro spazio gli studenti si ribellano, sintomo
della distanza fra i giovani e altri attori politici. La protesta, quindi, si allarga, si fa movimento contro la
riforma dell’istruzione e contro la riorganizzazione del sistema produttivo che aveva seguito la crisi
(politiche dell’austerità). Per questo il ’77 viene visto come degenerazione dei giovani e fratello cattivo del
’68 e per questo gli anni ’70 vengono definiti “anni di piombo” (dal titolo di un film tedesco).

In questo contesto si impone un nuovo modello di comunicazione e di un nuovo linguaggio politico.


Nel ’75 la corte costituzionale stabilisce che il monopolio statale dell’etere fosse incostituzionale, dopo
questa sentenza nascono molte radio indipendenti. La politica a partire dal ’77 si fa sempre più
comunicazione, e la radio e gli altri media si fanno strumenti della politica e non alternativa della politica
militante.

Il punk è una nuova onda musicale che supera il rock e che rompe con il mercato musicale che lo
aveva seguito. Il punk nasce in Inghilterra come rottura generazionale e di risposta alla crisi. Alla base della
circolazione del punk, e di altre novità, c’è sempre il viaggio e quella vena interculturale che pulsa fra i
giovani passando attraverso la rete dei movimenti giovanili. Grazie inoltre alla riforma del sistema televisivo
del ’75 la televisione comincia sempre più a dedicare programmi ai giovani, alcuni dei quali si fanno
portatori di questa novità del punk, segnando la ricezione di massa del punk in Italia. anche in questo caso
l’industria culturale (programmi televisivi e case discografiche) hanno messo in circolazione nuovo
materiale, che in questo caso è il punk anglosassone, attraverso il consumo del quale una generazione
poteva distinguersi dalle altre, ma immediatamente questo materiale viene rimodellato e reinventato dai
giovani consumatori. Questo avrebbe determinata un nuovo senso di appartenenza, che in seguito avrebbe
rappresentato una nuova cornice ad una nuova stagione di contestazione nei confronti della politica
istituzionale. Una contestazione che si fa attraverso la musica, il cantante punk quando fa musica, fa
politica, le due cose si sovrappongono, rifiutano la politica tradizionale e la fanno in un modo nuovo.

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