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PRATICA DELLA TEORIA NELLA CULTURA E NELLA SOCIETA –HERZFELD

SENSI

Nel corso degli ultimi anni gli antropologi si sono interessati alla comprensione circoscritta al
mondo fenomenico utilizzando i vari strumenti disponibili ad ogni disciplina. Il contributo
dell’antropologia medica è il piu radicale e gli studiosi individuano nel corpo stesso tale
comprensione. Un piccolo numero di antropologi ha affrontato lo studio dei sensi come tema
chiave della disciplina. Si tratta di un buon punto di partenza che colloca il sensoriale al centro
dell’analisi sistematica. Alcuni studiosi pero suggeriscono il rischio che i sensi simarranno
marginali della descrizione etnografica. Cio che offrono questi nuovi sviluppi è una
VALUTAZIONE SOCIALE DEI MODI IN CUI VENGONO UTILIZZATI I SENSI (opposto alla
psicologia). Come influiscono i sensi nel nostro modo di vivere? INDAGINE ANTROPOLOGICA:
la visione secondo la quale la percezione è condizionata dalla cultura non è sufficiente, non
soltanto i modi in cui le persone percepiscono il mondo variano con il variare delle culture ma
variano anche internamente alle culture: essi vengono negoziati. È utile iniziare con la
COMPRENSIONE LOCALE di ciò che puo essere percepito e in quale modo. i sensi stessi
possono essere collegati a differenti serie di associazioni e certi sensi hanno piu valore di altri.
(nella cucina cinese contano la vista e il gusto VS la cucina balcanica indifferente alla vista).
Significa quindi che la sensazione del corpo e il valore culturale sono legati tra loro. Classen
sottolinea che l’associazione fra facoltà sensoriali e tipi di significato è variabile. Lo scopo è di
individuare queste varietà di associazioni ma soprattutto di capire le conseguenze che
apportano alle relazioni sociali. Noi facciamo esperienza dei nostri corpi attraverso i nostri sensi
che comprendiamo sulla base di codici che abbiamo imparato. Il modello sensoriale normativo
di una società rivela la comprensione individuale. Ad EX: il progressivo abbandono in europa
dell’olfatto e l’enfasi data alla vista sono collegati alle tecnologie di lettura e scrittura e
all’espansione delle relazioni sociali che le tecnologie hanno reso disponibili. Vi sono tre idee
che hanno impedito lo sviluppo di un’antropologia sensoriale: 1. I sensi come finestre sul
mondo”, ma essi non sono trasparenti bensi sono strumenti fortemente codificati e traducono
l’esperienza corporale in forme culturalmente riconoscibili. (in una data cultura due individui
potranno non apprezzare gli stessi cibi). 2. L’idea che la vista sia l’unico senso importante. 3.
La critica all’egemonia del senso della vista negli ambiti di studi culturali. Secondo questa
teoria le società letterate danno importanza alla vista per la natura visuale dello scrivere,
mentre le società illetterate danno importanza all’udito per la natura uditiva del parlare. La
distinzione tra culture orali e letterate è piena di pregiudizi perche l’olfatto, il tatto, il gusto si
pensavano come sensi importanti presso i primitivi e quindi come sensi animali. (SI DEVE
AMMETTERE INVECE UNA VARIAZIONE DEI MODELLI SENSORIALI NELLE DIVERSE CULTURE).
In molte società sia la vista che la scrittura sono direttamente associati al potere, spesso
pericoloso, invasivo; per l’antropologia è una questione di urgenza politica il fatto di prendere
in considerazione messaggi espressi in codici sensoriali alternativi. In ambito antropologico
Levi-Strauss è stato il pioniere dell’esplorazione dei codici sensoriali dei miti ma il suo interesse
era piu rivolto a tracciare le operazioni della mente piuttosto che analizzare la vita sociale dei
sensi. Influenzato da McLuhan e Levi-Strauss, Seeger ha analizzato in che modo i Suya del
Mato Grosso in Brasile classificano gli esseri umani le piante gli animali in base ai tratti
sensoriali (attraverso l’odore il profumo tra umini, donn e bambini, i Suya danno importanza
sociale all’azione del parlare e ascoltare e invece associano la vista a comportamenti antisociali
come la stregoneria). I primi studiosi hanno influenzato anche Feld che ha esaminato il ruolo
del suono nel pensiero e nelle performance dei kaluli, lui ha stabilito che l’udito è il senso piu
importante per loro, esso fornisce espressioni estetica delle emozioni. L’espressione
“antropologia culturale dei sensi” è stata usata per la prima volta da Roy Porter. Nel 1989
Stoller ha affermato che “è necessario produrre etnografie di buon gusto, con vivide descrizioni
di odori sapori, qualità tattile della terra, delle persone e del cibo”. Egli ha raccomandato agli
antropologi di riorientare i loro sensi allontanandoli dal visualismo occidentale e indirizzandoli
verso i paesaggi sensoriali di altre culture. Stoller ha fatto ricerca presso i Songhay del Niger e
ha appreso l’importanza del profumo, le salse, la musica. Seremetakis ha fatto ricerca in grecia
e il suo obiettivo era quello di riscoprire le percezioni sensoriali nascoste delle società
tradizionali e recuperare la memoria culturale. E ha visto come l’evocazione dell’odore ha la
capacità di riprodurre sequenze storiche della storia culturale del luogo. Negli stessi anni negli
Usa e Canada un gruppo di antropologi voleva capire in che modo l’antropologia dei sensi
possa aiutare a scoprire i codici simbolici attraverso cui le società conferiscono unità al mondo.
Howes analizza il significato sociale di varie pratiche sensoriali melanesiane (Nuova Guinea) e
si concentra sull’interazione culturale dei sensi piuttosto che trattare ogni singolo senso in
maniera isolata. (l’uso dell’olio per dare lucentezza al corpo, l’utilizzo di essenze alla menta e
zenzero nella magia dell’amore, il potere sonoro dei nomi…). Oppure Classen esamina i modi in
cui gli Inca hanno ordinato l’universo e la società attraverso i simboli sensoriali e come
quest’ordine si sia spezzato e riconfigurato durante la conquista. I codici sensoriali sono
impiegati da parte delle varie culture per esprimere e rafforzare le divisioni e le gerarchie di
genere. (Seeger ha mostrato che I Suya classificano le donne con odore forte, maschi con
odore delicato= donne associate al tatto dirompente e gli uomini al possesso di poteri superiori
dell’udito) in Occidente le donne sono associate al “dominio inferiore e sensuale del tatto, del
gusto, olfatto al regno della camera da letto, i bambini e la cucina”; gli uomini collegati a “sfere
alte, intellettuali della vista e dell’udito, ai domini sensoriali di ricerca…” le questioni relative
alla politica e al genere sono permeate di valori sensoriali, come lo sono tutte le questioni
importanti per una cultura, dalle credenze e pratiche religiose alla produzione e scambio di
beni.

MEDIA

Intimità su larga scala \ Riferimento: Sara Dickey, cinema Tamil in India.

La riflessione qui proposta riguarda il modo in cui i mass media costruiscono


immaginazioni, identità e rapporti di potere e come essi alternano il modo di concepire
l'etnografia. Il cinema e le narrative sono antropologicamente importanti come fonti
di informazione sulle modalità di definizione delle identità collettive.

I mass media possono essere distribuiti in forma virtualmente identica, ma vi sono


talvolta differenze di scala che li rendono vicini alle più localizzate produzioni locali:
riduzione di concetti a un'unica forma, eventi internazionali espressi in stili linguistici
identificabili localmente (orientamento politico). Spesso una stessa notizia può essere
trasmessa ni diversi modi e con diversi termini (opinioni) in maniera analoga alla
recitazione orale.

Lo scopo dei media pubblici è creare un linguaggio comune con una parvenza di
oggettività che porta chi viene a contatto con essi a credere il più possibile a ciò che
viene affermato. I media elettronici hanno ampliato il raggio d'azione e gli spettatori
sono raggiunti dalla notizia e grazie ai compact disk è possibile non perdere nulla.

La distinzione tra arte bassa e alta qui si fa più marcata, dal momento che viene data
poca importanza al tipo di rappresentazioni artistiche diffuse dai media. I giudizi di
gusto vanno sempre contestualizzati e i media moderni sono materiale sfuggente per
gli antropologi. Si pone quindi un problema metodologico, che richiede per risolverlo
uno spostamento verso i consumatori e produttori (attori sociali). Il Web è un oggetto
interessante da analizzare in quanto permette l'accesso a dimensioni nascoste della
produzione pubblica. L'etnografo è sfidato a farsi coinvolgere attivamente per
rispondere a questi processi.

Un altro problema è costituito dall'atteggiamento sociale del potere che relega la


cultura popolare a uno status basso: media culturali si collocano nel quotidiano anche
per l'analisi antropologica, per questo talvolta sfuggono all'attenzione intellettuale.
Tuttavia non si può negare la loro importanza nella società odierna. I media hanno un
rapporto di continuità con l'esperienza quotidiana e sono vicini alla sfera pubblica più
di quanto non lo siano altri temi, perciò antropologicamente parlando sono utili alla
ricerca per la comprensione delle società che li vivono ogni giorno e che ogni giorno
sono in contatto con diverse parti di mondo grazie ad essi. Le nuove tecnologie hanno
portato a una decentralizzazione e democratizzazione del controllo e ciò disturba i
tradizionalisti, riproducendo una gerarchia estetica delle élites che controllano il
valore. Gli antropologi possono oggi fare una valutazione critica su come ciò influenzi
la gestione del patrimonio culturale mondiale.

I media hanno ruoli sociali e culturali particolarmente dibattuti, in quanto hanno in un


modo o nell'altro toccato tutte le società spesso diffondendo sotto forma di
rappresentazione pubblica significati intimi di una realtà locale (mercificazione della
cultura), oltre ad aver omogeneizzato le rappresentazioni e incanalato i desideri degli
spettatori.

Gli antropologi hanno cominciato a prendere sul serio i media (fiction e informazione)
a partire dall'antropologia visuale e dal cinema etnografico come veicolo per
trasmettere le culture che non si potevano vedere, successivamente ha ampliato il suo
raggio d'azione alla cinematografia indigena fino a giungere a tutta una varietà di
media visuali. Anche altri settori accademici se ne sono occupati: sociologia,
psicologia, comunicazioni, teoria della critica, critica letteraria e teoria psicanalitica, i
quali però davano poca importanza ai processi di ricezione e comprensione. Il pubblico
è fondamentale per l'analisi antropologica e non solo quello omogeneo e consensuale,
ma anche quello che svolge attività di contrattazione che attuano un confronto tra
percezioni e pratiche locali e forme di rappresentazione prodotte a livello di massa. Il
pubblico è diversificato, ma lo sono anche i produttori. I termini "produttore",
"consumatore", "creatore" e "ricettore" sono utilizzati dalla Dickey con una certa vena
critica, poiché non unitari e carichi di ambiguità.

- Produzione: insieme di atti che danno forma al processo creativo (anche


sponsor).
- Consumo: molteplici sensi, ingerire, usare, comprare.

I due non sono necessariamente separati in due figure differenti (produttori:


consumatori dei media che creano; consumatori: ruolo nel dare forma al prodotto),
ma sono entrambi "partecipanti ai media". Ai media si applica il termine testo e la
metafora della lettura che ha tuttavia dei limiti (da sottolineare, es: differenza tra
vedere e leggere). Il film ad esempio è un'area in cui il visuale si combina al verbale e
trattarlo come testo rischia il riduzionismo e non farlo lo compromette come oggetto
di studio per alcuni studiosi. Il pubblico è un interprete attivo e fondamentale e accede
ai media in base alla prospettiva di molteplici soggettività costruite in maniera diversa
(anche dai media, ma non solo). I consumatori producono attivamente il significato,
che non sempre coincide con quello previsto dai produttori. [Caso: India meridionale,
Dickey]

I consumatori differiscono tra loro nelle reazioni in base a diversi fattori che possono
essere anche culturali, ma anche i produttori non sono da meno (Abu-Lughod:
differenza di ideologie tra produttori e stato). Gli altri oggetti che influenzano i media
sono: editori, critici, censori, legislatori e animatori dei fans club.

La poetica della produzione e dell'interpretazione scenica e la poetica sociale della vita


quotidiana interagiscono tra loro e i livelli di interpretazione sono molteplici. La
produzione dell'immagine pubblica di una star diviene attraverso i media parte del
sapere culturale pubblico: intestualizzazione (produzione di modelli di ruolo per li
consumo di massa).

Immaginazione, identita, potere

L'immagine mediatica è un elemento costitutivo della realtà (Dickey): distinzione


realtà vs finzione? I media sono parte della costruzione della realtà dei consumatori,
ma questa distinzione è parte della realtà sociale e della mitologia culturale di molte
culture. Per chi esiste una determinata realtà? Spesso i media vengono trattati "come"
cosa reale e ciò fornisce un buon tema di analisi per l'antropologia, dal quale non
prescindere per la sua importanza a livello sociale. L'analisi dei media permette un
confronto tra la percezione e il suo rapporto con le realtà culturali e sensi comuni. Di
fatto essi amplificano un problema già esistente con le performance "incorniciate".

Esempi: soap opera come continuità dell'opera classica in quanto forme di


intrattenimento popolare gestite da chi ha potere, mettono alla prova lo spettatore
dello scindere realtà e simulazione. I media danno modo agli spettatori di immaginare
realtà differenti e distanti, che si fanno molto più vicine e a portata di mano, ciò anche
al di fuori dell'influenza dello stato-nazione che non ha il monopolio (Appadurai). Oltre
ciò vengono messi in contatto con esperienze e canoni estetici diversi dai propri. Le
identità si formano attraverso una varietà di fonti e tra queste i media hanno il loro
impatto in concomitanza con altre: uso dei personaggi televisivi per rafforzare
l'identità e ricerca di "strategie immaginative" per realizzare le proprie ambizioni,
create all'interno della cultura locale. Con la globalizzazione le immagini che giungono
non sono solo quelle locali e nazionali, ma spesso hanno origini esterne alla cultura
che forniscono nuovi modi di concepire, articolare e contrastare una protesta sociale
(film indiani in Nigeria), come coloro che evadevano la censura trasferendo l'azione in
un tempo diverso (Akutagawa: ambientazione storica differente per criticare la società
Spesso i media mercificano l identità attraverso una concezione materiale del sé, dove
è un bene di consumo a fare l'identità (teenagers). I media hanno perciò effetto sui
desideri, creando emarginazione in coloro che non possono permetterseli oppure
quando le aspettative non corrispondono alla realtà descritta. I media commerciali
forniscono modi semplificati di organizzare significati Inoltre esiste una forma
mediatica per riunire comunità di persone disperse a lottare contro un problema
comune, creando una collettività e plasmando un'identità sociale (video AIDS),
tuttavia non sempre è presentata dai media dominanti. Offre tuttavia sollievo dalle
disuguaglianze presenti e una lieve speranza di emanciparsi da esse.

Contesti mediatici

Il contesto in cui i media si collocano è importante tanto quanto chi li agisce. Dickey
riconosce una molteplicità di contesti, mai neutri nei quali li significato viene rifratto.
Esempi importanti a questo proposito sono i fan clubs, l'attivismo politico o il consumo
di prodotti di derivazione mediatica. I fan costruiscono un mondo di produzione
culturale molto ricca, talvolta considerata subalterna e distante dalle classi superiori:
l'appartenenza al fan club serve loro per colmare questa distanza producendo un
capitale culturale alternativo e mitizzando talvolta una certa figura pongono sé stessi
in una posizione ambigua, ovvero associa attributi dei poveri agli eroi distanziandoli
dalle classi dominanti. Utilizzano le immagini mediatiche con finalità specifiche. Ciò
accade anche nello sport: testo aperto da riempire di significati, ma non sempre,
talvolta la violenza è sinonimo di alienazione (ultras) e talvolta lo sport è utilizzato
come arma politica (Cipro).

La scena politica: spettatori ed elettori

La comunicazione ha implicazioni politiche e viene utilizzata dai politici per scopi


puramente propagandistici, ma è una lama a doppio taglio in quanto potrebbe anche
screditarli (vita privata). Tuttavia l'accusa è relativamente importante nella misura
nella quale il politico è o meno in grado di schivarla attraverso l'esibizione del rimorso.
La campagna elettorale ha impatto se l'attore sa "vendersi" in televisione (Abélès)
attraverso l'esibizione delle proprie emozioni in modo culturalmente appropriato e ben
orchestrato (manager). Nelle elezioni entra maggiormente in gioco il fattore
personalità piuttosto che le idee che di fatto potrebbero cambiare o meno un paese
(Abélès): il personale e il familiare acquisiscono un ruolo centrale e collocano il
dibattito politico all'interno di un contesto tutt'altro che ideologico di contrasti più
sociali che concettuali. I media creano oltre che riflettere questi avvenimenti e ciò
sfuma il confine tra fatto e finzione. Qui emerge una variabilità culturale delle
convenzioni di realismo e come gli attori sociali possano utilizzarle (immagini di
persuasione non valide per tutti i gruppi). La questione della globalizzazione è
strettamente legata all'analisi dei media e gli antropologi hanno ora la possibilità di
comprendere quanto questo concetto sia una finzione realista

Piacere e serietà: in lode del "meramente"

Il piacere induce alla partecipazione agli entertainment media (Dickey) poco presi in
esame dagli antropologi, che difficilmente prendono ciò che è piacevole come oggetto
di studio in quanto considerato non necessario, ma sarebbe utile farlo. Parlando di
piacere si prendono ni esame i "sensi comuni". Collocare li piacere ni un contesto
"naturale" è un'interpretazione occidentale dei media come strumento di
intrattenimento e si accosta la fiction alla natura, temuta dalle élites che la definiscono
popolare e incolta. Tuttavia l'intrattenimento è talvolta nonfictional (dati Web) e le
passioni quotidiane sono parte integrante della costruzione di identità collettive di
partecipzione, dibattito o hobby comune (cinema, tifo). Appadurai sostiene che sia
necessario "incorporare el complessità della rappresentazione espressiva nelle nostre
etnografie" e ni questo i media sono diventati parte integrante della vita delle
persone, che può influenzarle a livello quotidiano. I media sono strettamente legati
alle arti sceniche e quindi ciò influenza la ricerca antropologica, rendendo possibile
oggi una scala di comparazione. Il campo "moderno" è molto più difficile da gestire ni
quanto più ampio, ma offre una maggiore possibilità di comparazione. Non esiste la
mono cultura di cui parlava Lévi-Strauss, la società è complessa e variegata e
chi è al potere dovrebbe concepirla e rispettarla come tale, e l'antropologo
deve far sentire la propria voce.

“LE VITE INEGUALI”


Fassin mette l’accento sul rapporto stretto che esiste tra migrazione e vita, parla proprio di forme
di vita. Parla di cosa significa pensare all’immigrazione come un sistema di vita, come l’esistenza
stessa. FASSIN si chiede se sappiamo veramente di cosa parliamo quando parliamo di vita e quale
valutazione facciamo delle vite umane come realtà concrete. Non c’è niente di più incerto, ed è il
caso d’interrogarsi sul significato della parola stessa.
LOCKE ci dice che “La vita è un termine fra i più familiari. Chiunque riterrebbe quasi un affronto se
gli si chiedesse che cosa intende con esso” e aggiunge “eppure, se si
pone il quesito se la pianta che giace già formata nel seme, abbia vita, se l’embrione nell’uomo
prima dell’incubazione, o un uomo in deliquio privo di senso e di movimento, siano vivi o meno, è
facile percepire che un’idea chiara, distinta e stabilita non accompagna sempre l’uso di una parola
così nota come ‘vita’”. Secondo lo stesso la difficoltà sta prima di tutto nel determinare i limiti
della vita: il suo inizio indeciso nel seme o nell’ovulo, con tutti i relativi dibattiti sull’interruzione di
gravidanza, e la sua fine incerta nel fallimento senza sentimento né movimento.
Ma rispondere alla domanda “cos’è la vita?” il sostantivo stesso richiama ad una polisemia.
Infatti, esso designa tanto una proprietà degli esseri organizzati, un insieme di fenomeni biologici,
in un tempo compreso tra la nascita e la morte, quanto una diversità di eventi che costellano
questo spazio temporale, per non parlare dei suoi usi metonimici o metaforici quando facciamo
riferimento alla vita di uomini illustri o alla vita degli oggetti.
Possiamo distinguere in Due filoni di vita: naturalista e umanista, ovvero “vita come fenomeno
biologico” e la “vita come biografia”. ARENDT e AGAMBEN propongono una distinzione radicale fra
la ZOE’ e la BIOS, ovvero fra il semplice fatto di essere in vita e il ricco compimento di una vita,
pensano che sia impossibile unire i filoni di vita in un vocabolo e in una stessa logica. Vedevano
entrambi nel mondo contemporaneo il rischio mortale che il fatto di vivere prendesse sempre di
più il sopravvento sul compimento di una vita (compiere, vivere a pieno).
Ma un’antropologia della vita è dunque auspicabile e immaginabile? Nonostante gli antropologi
si siano sempre interessati alla vita dei loro interlocutori, solo raramente ne hanno fatto un
oggetto specifico delle loro ricerche. La vita di per sé veniva raramente concepita come oggetto di
sapere allo stesso modo delle altre categorie costruite dalla loro disciplina. Tre progetti hanno la
comune ambizione di costituire le fondamenta di un’antropologia della vita:
- PROGETTO FENOMENOLOGICO: INGOLD afferma che è possibile dare vita all’antropologia
perché la vita è un movimento di apertura e non di chiusura. Gli esseri umani sono i
prodotti della propria vita. La vita va pensata come una linea, o un insieme di linee,
inscritte in delle scale diverse di temporalità entro le quali gli esseri viventi fanno una sorta
di viaggio. L’antropologo deve dare conto a questo movimento, prendendo in
considerazione come gli uomini percepiscono, pensano, creano storie e fabbricano oggetti;
- PROGETTO ONTOLOGICO: KOHN propone un’antropologia oltre l’umano, presuppone che
tutti gli esseri viventi vengano considerati in modo simile. Gli si deve riconoscere che
entrano in relazione fra di loro attraverso dei segni e che sono capaci di produrre
significato. Si tratta di un’asserzione epistemologica in cui si afferma un diverso modo di
vedere il mondo;
- PROGETTO CULTURALISTA: PITROU tramite la visione della vita come oggetto, propone agli
antropologi a concentrarsi su come i popoli percepiscono le caratteristiche funzionali degli
esseri viventi ma anche come assegnano le cause a tali fenomeni, ogni cultura raggruppa in
modo specifico elementi dei fenomeni vitali. L’obiettivo è esaminare sistematicamente le
conoscenze locali (della crescita, riproduzione, degenerazione, cicatrizzazione,
adattamento) e interessarsi alle teorie che rendono intellegibili le cause alla base di tali
fenomeni;

Alla ricchezza di questo mosaico dai frammenti disparati Fassin preferisce la modestia di un
puzzle cui pochi pezzi si aggiustano e si completano fino a formare un’immagine coerente; -come
scrive a proposito di questa “arte sottile” PEREC nel preambolo a La vita istruzioni per l’uso citato
nell’esergo di questo libro, “isolato, il pezzo di puzzle non significa niente”, ma è appena si riesce
“a connetterlo con uno dei pezzi vicini”
che “i due pezzi miracolosamente riuniti sono diventati ormai uno”. Fassin crede nella complessità
delle dimensioni della vita pur conferendo loro una certa unità, e analizza tre elementi concettuali:
1. LE FORME DI VITA;
2. LE ETICHE DI VITA; COMPOSIZIONE ANTROPOLOGICA= INEGUALITA DEL VALORE DELLE
VITE
3. LE POLTICHE DI VITA.
Se è vero, come sostiene PEREC, che è l’insieme a determinare gli elementi, questi 3 concetti si
basano su una riflessione sul trattamento delle vite umane nelle società contemporanee. Un tema
di tale riflessione: DISUGUAGLIANZA. FASSIN non propone un’antropologia della vita, ma una
composizione antropologica formata da tre pezzi il cui assemblaggio fa emergere, proprio come in
un puzzle, un’immagine: l’inegualità del valore delle vite. Avendo svolto da alcuni decenni una
serie d’indagini, soprattutto etnografiche, su tre continenti, mi concentrerò, per ragioni di
coerenza, sul parallelismo fra il Sudafrica e la Francia, a partire da situazioni, scene e racconti che
corrispondono ad altrettanti modi di comprendere le questioni riguardanti la vita.

CAPITOLO 1. FORME DI VITA.


“La vita forma uno strato superficiale In virtù del quale sembra che l’esistenza non possa essere
diversa da come è, ma al di sotto di quella pellicola le cose spingono e urlano.” Robert Musi
L’uomo senza qualità, 1930
Come descrivere la vita umana in relazione alle differenze tanto esterne (manifestazioni del
vivente) quanto interne (fra i gruppi umani) che sembrano dissolverne sia la specificità sia
l’unitarietà?
Fin da Aristotele ci si poneva questi dilemmi. Negli ultimi decenni, tali interrogativi sono stati
tuttavia
oggetto di rinnovato interesse, con la riscoperta della nozione di “forma di vita” fugacemente
presentata nell’opera di WITTGESNSTEIN.
La forma di vita è valida per tutta la specie umana oppure è inscritta in un dato spazio e tempo ?
per rispondere bisogna:
1. allargare il cerchio degli autori ingaggiati in questa conversazione, grazie ai contributi di
due filosofi che si sono interessati alle forme di vita, CANGUILHEM e AGAMBEN;
2. rendere più complesso il dualismo fra naturalismo e umanismo con l’inserimento di tre
coppie antagonistiche, ovvero le opposizioni fra universale e particolare, fra biologico e
biografico, e fra regola e pratica;
3. prendere in considerazione le discordanze che emergono da questi confronti fra autori e
termini non come contraddizioni insormontabili, ma in quanto tensioni produttive.
Per fare tutto ciò, testerò empiricamente questo triplice spostamento teorico basandomi su
alcune ricerche che ho realizzato in Francia e in Sudafrica nel corso degli ultimi dieci anni su una
forma di vita particolarmente significativa del mondo contemporaneo: quella dei nomadi forzati,
che li si chiami rifugiati, migranti,
richiedenti asilo o stranieri in situazione irregolare.

VIVENTE\VISSUTO
FOUCAULT dice che La fenomenologia ha domandato il senso originario di ogni atto di conoscenza
al ‘vissuto’ ma piuttosto non si può o non si deve cercarlo nel ‘vivente’ stesso?”. “Dar forma a dei
concetti è un modo di vivere e non di uccidere la vita”, perché la vita è necessaria per la
conoscenza della vita, l’una conferisce senso all’altra. CANGUILHEM come concepisce la relazione
tra vita e conoscenza della vita, e quali forme di vita ne derivano da questa relazione? A questa
domanda il filosofo ha dedicato due importanti saggi. Nella prima opera, giustifica la conoscenza al
di là di sé stessa: la vita è formazione di forme e la conoscenza è analisi di materie formate, quindi
per CANGUILHEM capire meglio il vivente significa rendere la vita un po’ migliore trovando un
senso nelle forme che essa assume. Nel secondo testo, alla luce dei nuovi saperi della biologia, il
filosofo approfondisce il suo studio dei “rapporti fra concetto e vita”. “per vita, possiamo
intendere il participio presente o il participio passato del verbo vivere, il vivente e il vissuto”. A ciò
si legano due dimensioni: “l’organizzazione universale della materia” e “l’esperienza di un vivente
specifico, l’uomo” fra queste dimensioni si stabilisce una gerarchia per cui la seconda è comandata
dalla prima. La prima dimensione per C è “più fondamentale” (senza la struttura materiale del
vivente, non potremmo avere la dimensione esperenziale del vissuto). Potremmo vedere nella
forma di vita che immagina
La forma di vita si puo considerare come un tentativo di riconciliare i due lignaggi filosofici di cui
parlava FOUCAULT: la combinazione del vivente e del vissuto sarebbe in qualche modo l’alleanza
fra la scienza e l’esperienza. Le due manifestazioni della vita -la materia vivente e l’esperienza
vissuta- sono dunque intimamente legate in una tensione fra la struttura logica comune a tutti gli
esseri umani e l’esistenza soggettiva singolare di ognuno di loro. Ganguilhem afferma che “la
teoria del concetto e la teoria della vita hanno la stessa età e lo stesso autore e questo stesso
autore attribuisce ad entrambe la stessa fonte”. Per Aristotele “il concetto del vivente è il vivente”
allo stesso modo in cui “la conoscenza è più l’universo pensato nell’anima che l’anima che riflette
sull’universo.

TRASCENDENTE\ANTROPOLOGICA
È in una prospettiva diversa che, qualche anno prima, WITTGENSTEIN aveva affrontato questa
tensione parlando di “forme di vita”. Benché la nozione non venga mai definita o esplicitata, e
benché possa essere interpretata in maniera diversa, in genere si ritiene che le forme di vita
consistano in un accordo nel linguaggio ordinario che permette agli esseri umani di capirsi e
d’intendersi nella maggior parte delle situazioni. Come scrive EMMETT: “le osservazioni di
Wittgenstein sulle forme di vita possono essere interpretate in due maniere sorprendentemente
distinte”; la differenza fra esse sta nel fatto di sapere se tutti gli esseri umani di ogni epoca e ogni
luogo hanno le stesse forme di vita o se invece sono possibili variazioni storiche e culturali”. La
prima viene definita trascendente, mentre la seconda antropologica.

Abbiamo in qualche modo due schieramenti di pensiero sulle forme di vita (pp.40).
- Per WILLIAMS può esistere una sola forma di vita, perché al fine di capire l’altro, questo
altro deve appartenere a quello stesso gruppo che consideriamo nostro.
- per CAVELL esiste una pluralità di forme di vita che corrisponde ai contesti nei quali gli
esseri umani si capiscono nei termini del loro linguaggio ordinario, che sia un linguaggio
verbale, corporeo o di altro tipo.
Gli antropologi e i ricercatori in scienze sociali si riconoscono più nella versione di Cavell che in
quella di Williams (appare come una visione più aperta al riconoscimento delle differenze culturali
e anche alla possibilità di superarle, ma ammette anche la necessità e l’importanza di quel lavoro
empirico così centrale per la loro pratica scientifica). Wittgestein ritiene che “ricorrere ad un
approccio etnologico significa rimanere distaccati e vedere le cose con maggiore oggettività.
Canguilhem e Wittgestein intendono in maniera diversa il concetto di forme di vita.
- CANGUILHEM: intende per forme di vita “un’organizzazione della materia”. “La vita è la
forma e il potere del vivente”. Per lui la grammatica è inscritta nel codice genetico delle
specie umane al fine di assicurarne la riproduzione;
- WITTGENSTEIN: intende per forme di vita come “la condizione di intellegibilità”.
“Immaginare un linguaggio significa immaginare una forma di vita”. Per lui la grammatica è
una convenzione che permette agli esseri umani di capirsi e intendersi.
Possiamo così distinguere in LIFE FORM (studi basati sulla multi-specie) e FORMS OF LIFE (studi
basati intorno ai temi della violenza e della sofferenza, considerate come un qualcosa che mette a
dura prova l’umanità degli esseri umani).

REGOLA\LIBERTA
La distanza teorica fra le forme di vita secondo Canguilhem e Wittgenstein è di conseguenza così
invalicabile come sembra? I due termine “forme” e “vita” devono essere per forza distinti, se non
contrapposti? Dobbiamo proprio scegliere tra le forme e la vita? È la domanda principale posta da
Agamben nel suo studio storico dedicato alla regola monastica medievale. Seguendo questa pista,
FASSIN invita a prendere in considerazione una triplice linea di tensione costituita dalle forme di
vita secondo le distinzioni presenti a livelli diversi in Wittgenstein, Canguilhem e Agamben:

- PRIMA DISTINZIONE: fra l’universale e il particolare (il trascendente e l’antropologico);


- SECONDA DISTINZIONE: fra il biologico e il biografico (il vivente e il vissuto);
- TERZA DISTINZIONE: fra la legge e la pratica (la regola e la libertà).

A questa triplice dialettica Fassin vuole aggiungere una doppia dimensione non tanto presente
nelle tre filosofie delle forme di vita ovvero la dimensione politica e morale. Tuttavia, l’approccio
che propone Fassin a partire dalle sue ricerche empiriche in Francia e in Sudafrica segue altre
strade. Si accinge a descrivere una
forma di vita che turba l’immaginario delle società contemporanee: quella dei nomadi
transnazionali precari, rifugiati o migranti, richiedenti asilo o stranieri in situazione regolare.
***
La città di Calais è celebre nel mondo per la cosiddetta “jungle”, vasto campo sorto
in un terreno abbandonato fuori dal centro urbano, dove nel 2014 si sono
raggruppate svariate migliaia di rifugiati e migranti. Dagli anni Ottanta, la città e i
suoi dintorni sono infatti diventati un luogo di passaggio obbligato per le ondate di
persone in fuga da varie zone di conflitto a est e a sud dell’Europa e desiderose di
raggiungere la Gran Bretagna (es. vietnamiti, tamil, kosovari, curdi, afghani,
sudanesi, eritrei, libici, siriani). Nel 1999 quando il Regno Unito attivò un controllo
più stretto delle proprie frontiere, bloccando così la traversata della Manica, il
numero di rifugiati e di migranti fermi attorno a Calais aumentò molto e il governo
socialista dell’epoca predispose degli hangar, con l’aiuto della Croce Rossa. Da
centro di transito si trasformò in un centro di alloggio. Nel 2002 al ritorno al potere
di un governo conservatore una delle prime decisioni fu la chiusura del centro. Da
quel momento i rifugiati e i migranti che continuavano ad arrivare non avevano altra
scelta se non quella di insediarsi in luoghi pubblici (condizioni precarie). Questa
condizione persistette per 12 anni. Con la guerra civile che martoriava la Libia e la
Siria, il numero dei rifugiati e migranti dall’Africa e dal Medio Oriente nella zona di
Calais nel 2014 aumentò bruscamente. Di fronte a questa crisi il governo di sinistra
ha preso la decisione di raggrupparli in un terreno precedentemente utilizzato come
discarica pubblica, ma che la prossimità con due fabbriche chimiche aveva reso poco
utilizzabile. Alcune organizzazioni non governative, principalmente britanniche e
francesi, si sono comunque impegnate a rendere abitabile il posto. Ogni notte,
centinaia di uomini e donne tentavano a rischio della vita di passare in Inghilterra
attraverso il tunnel sotto la Manica o il porto di Calais. Di fronte ai tentativi di
passaggio, le forze dell’ordine intervenivano brutalmente con i loro cani e usavano
di continuo i lacrimogeni. Nel 2016, in un gesto di protesta disperata contro
l’inflessibilità del governo francese che aveva preso la risoluzione di distruggere i
loro ripari di fortuna, otto rifugiati iraniani decisero di cucirsi le labbra e di coprirsi
gli occhi con una benda. Sui loro cartelli si leggeva “siamo esseri umani”, “dov’è la
nostra libertà?”, “sono venuto qui a cercare protezione per i miei diritti umani, ma
non ho trovato niente”. Era per loro difficile capire perché non gli fosse permesso di
beneficiare della protezione di Stati che, per decenni, non avevano mai smesso di
denunciare le violazioni dei diritti umani da parte del regime iraniano. Fassin nel
2016 è tornato a Calais per la seconda volta (quando dopo aver autorizzato il campo,
il governo decise di sgomberarlo). In quel momento, la popolazione della “jungle”
era di 5500 persone (molti giovani studenti che volevano raggiungere la Gran
Bretagna per andare da amici o parenti che già vi abitavano). Ebbe la fortuna di
parlare con alcuni di loro, al momento dello scoppio della guerra studiavano in
un’università di economia, avevano lasciato la Siria quando le truppe del governo
baathista si erano avvicinate alla loro città, scapparono per paura di vivere in
repressione e costrizione. Mostravano le foto del passato e poi quelle del presente,
non cercavano compassione. Queste evocazioni di un passato recente miravano
piuttosto, pareva, a mettere in evidenza l’indegnità della loro situazione presente.
Le fotografie che li rappresentavano in vestiti eleganti di fronte a una bella residenza
familiare erano la testimonianza di uno status economico che contrastava con le
condizioni nelle quali stavano vivendo in quel momento in Siria; e le fotografie che
mostravano le tragedie che avevano vissuto rendevano ingiustificabile la brutalità
del loro trattamento da parte delle autorità francesi. A novemila chilometri da lì, nel
quartiere degli affari di Johannesburg, decide di sontuosi palazzi, una volta simboli
dell’opulenza sudafricana, dove le grandi aziende avevano la loro sede e le classi
superiori bianche la loro residenza, sono diventati negli anni successivi alla fine
dell’apartheid nel 1994 dei dark buildings, edifici abbandonati dai loro proprietari e
ora abitati da occupanti illegali. Sono infatti migliaia i richiedenti asilo e gli stranieri
in situazione irregolare, in maggioranza provenienti dai paesi confinanti con il
Sudafrica, che vi hanno trovato rifugio in condizioni precarie tramite un affitto
pagato a gang locali. Fra questi migranti, i più numerosi erano gli zumbabwesi in
esilio per sfuggire alla repressione del regime autoritari di Mugabe.
Benché le decine di racconti dei richiedenti asilo e degli stranieri in situazione irregolare che ho raccolto
fossero ogni volta unici e specifici, tornavano incessantemente gli stessi temi: nel loro paese d’origine, le
persecuzioni e le penurie che li avevano spinti a partire; nel loro paese d’accoglienza, i malfunzionamenti
burocratici e la corruzione endemica rendevano illusoria la prospettiva di venire riconosciuti, un giorno,
come rifugiati, mentre i tormenti della polizia, i ripetuti arresti, la paura delle espulsioni, i rischi di pogrom,
la mancanza di risorse e il sentimento d’insicurezza che li colpiva rendevano un miraggio l’asilo che avevano
sperato di trovare in Sudafrica.

Al di là delle differenze fra i contesti storici e politici, quei giovani uomini siriani di Calais e quelle giovani
donne zumbawesi di Johannesburg condividevano una stessa forma di vita  È la forma di vita degli
stranieri in erranza che hanno lasciato il paese di cui sono cittadini perché la loro stessa esistenza fisica era
in pericolo, e che si trovano di fronte a una soverchiante precarietà giuridica e sociale nel paese dove hanno
trovato rifugio senza che i loro diritti vengano riconosciuti. – A Calais vengono chiamati “migranti” o
“rifugiati”. A Johannesburg li si indica come
“richiedenti asilo” o “stranieri in situazione irregolare”. In che modo il concetto di vita ci permette di
descrivere la configurazione che caratterizza i rifugiati e i migranti insediati nella “jungle” di Calais o i
richiedenti asilo e gli stranieri senza permesso di soggiorno che occupano gli edifici di Johannesburg? E poi
è proprio necessario giustificare il concetto attraverso cui comprendiamo la loro presenza nel mondo? Lo si
può fare riprendendo i termini della discussione del corpus di studi sorto intorno al pensiero di
Wittgenstein, Canguilhem e Agamben. Ciò che il concetto di forma di vita illumina in maniera unica e
specifica – e ciò in cui si rivela essenziale per dare conto di queste esperienze umane- sta in questo triplice
rapporto dialettico. Da un lato questo concetto permette di ripensare la vulnerabilità, a proposito della
quale Sandra LAUGIER scrive che si tratta di ciò che “ciascuno prova quando tenta d’incarnare nel
quotidiano la proprio soggettività e di esplorare i modi di essere umano, e ciò che appare in modo tragico
nelle situazioni di perdita della vita ordinaria”, ed è ciò che le permette di collegare forme di vita e care
(due osservazioni: In primo luogo, la vulnerabilità non è solo una questione di soggettività, In secondo
luogo, il tragico non si esprime solo nelle situazioni di perdita della vita ordinaria, ma è anche inscritto nella
vita ordinaria stessa). Dall’altro lato il concetto permette di rivisitare la questione della precarietà che
secondo Judith Butler è “fondata sulla consapevolezza di come la vita umana possa essere facilmente
annullata” nei contesti di violenza o di guerra (due osservazioni: dobbiamo distinguere la precarietà in
quanto esperienza universale della finitudine, e di conseguenza della fragilità dell’esistenza umana; e la
precarietà come condizione delle vittime di disparità, discriminazioni, ingiustizie o persecuzioni che
minacciano tale esistenza). Tutte le vite sono precarie, ma alcune lo sono molto più di altre e, soprattutto,
lo sono in maniera molto diversa. Queste persone, la cui esistenza è minacciata nel proprio paese, in genere
non sono benvenute nelle nazioni dove hanno trovato rifugio. Devono allora affrontare le contraddizioni
delle politiche che oscillano fra rigetto e protezione, fra rifiuto della regolarizzazione e affermazione dei
diritti. Sono persone che cercano la sicurezza e che si ritrovano in terreni abbandonati o in edifici in rovina,
quando non in una prigione o in un campo. Tuttavia, spesso queste persone considerano tale nuova
condizione comunque meno disperata di quella che hanno conosciuto nel loro paese. La forma di vita dei
nomadi forzati non descrive solamente la condizione di queste persone. Riflette anche uno stato del
mondo. È infatti il risultato delle impasse in cui si trovano le democrazie contemporanee, incapaci
d’innalzarsi all’altezza dei principi alla base della loro stessa esistenza.

De Certeau- L’invenzione del quotidiano


De Certeau descrive Manhattan guardandola dall’alto, dal 110° piano del World
Trade Center; da quell’altezza viene meno la presa della città, del traffico e della massa,
la distanza che viene posta lo trasfigura in un voyeur. La città panorama descritta
dall’autore altro non è che una finzione nella quale coloro che vivono la sua quotidianità
vivono ciecamente e sono estranei dal loro stesso quotidiano. (lo vivono incosciamente?)
L'aspetto forse più influente di L'invenzione del quotidiano è legato alla distinzione operata
da de Certeau tra i concetti di strategia e tattica. Egli collega le "strategie" alle istituzioni,
mentre le "tattiche" sono invece utilizzate dagli individui per creare degli spazi propri negli
ambienti definiti dalle "strategie", quindi dalle istituzioni. Strategico sono i modi di fare
imposti dagli altri. I modi di fare che vengono dal basso sono tattici, messi in atto dai più
deboli per sfuggire alla forza impositiva del potere.

Dall’alto del WTC De Certeau è capace di vedere nella caotica città un testo da leggere e
interpretare. La visione dall’alto rende decifrabile la complessità della città e fissa in un
testo trasparente la sua opaca immobilità. Vivere la città, camminarla, attraversarla, essere
passanti significa stare in basso. Se chi sta in alto legge un testo, il passante scrive un testo
urbano inafferrabile, illeggibile, che risponde e declina i pieni e i vuoti della città . Una città
che diventa, a questo punto, non più fissa e leggibile ma mutevole, transumante.

La città si definisce all’interno di una triplice operazione:

1. La produzione di uno spazio proprio;

2. La sostituzione di un non tempo alle resistenze tradizionali ( sostituzione di strategia alle


tattiche degli abitanti che approfittano delle occasioni );

3. La creazione di un soggetto universale che è la città stessa (la città, come un nome
prorpio, offre la capacità di concepire e costruire lo spazio a partire da un numero finito di
caratteristiche stabili, isolabili e articolate l’una sull’altra).

Così da un lato c’è la ridistribuzione delle parti e delle funzioni della città (grazie a
inversioni, spostamenti ecc…) mentre dall’altro il rifiuto di ciò che non è trattabile e
costituisce pertanto lo scarto (anormalità, malattia, morte, ecc.)

Il progresso in tal modo può trasformare i deficit del sistema, come quello nella sicurezza o
nella sanità, in mezzi per rinforzare l’ordine ma di fatto effetti contrari a quelli voluti non
cessano di essere prodotti, in quanto la razionalizzazione della città comporta la sua
mitizzazione e privilegiando il progresso, l’organizzazione funzionalista fa dimenticare la sua
condizione di possibilità. Questa città-concetto costituisce l’eroe della modernità, il punto
di riferimento per le strategie socio-economiche e politiche ma ormai si sta anche
degradando. Per capire il motivo di ciò bisogna analizzare le pratiche minute, singolari e
plurali che un sistema urbanistico doveva gestire o sopprimere e che invece sopravvivono
alla sua caduta probabilmente perché rinforzate da tattiche illegittime.

Foucault aveva parlato di strumentalità minori capaci, grazie all’organizzazione dei dettagli,
di trasformare una molteplicità umana in una società e di gestire, differenziare, classificare,
ecc. tutte le devianze riguardanti l’apprendimento, la salute, la giustizia, ecc. Queste
definiscono le condizioni determinanti della vita sociale.

De Certeau esamina alcune procedure che sfuggono alla disciplina senza essere al di fuori
del campo che essa esercita.

Si comincia con l’analisi dei passi. Le successioni di passi sono una forma di organizzazione
dello spazio, costituiscono la trama dei luoghi. E successivamente, paragonando l’atto di
camminare a quello di parlare, l’autore afferma che questo ha una triplice funzione
enunciativa :

È un processo di appropriazione del sistema topografico da parte del pedone, proprio come
il locutore si appropri della lingua assumendola;
È una realizzazione spaziale del luogo, proprio come l’atto locutorio è una realizzazione
sonora della lingua;

Implica dei rapporti tra posizioni differenziate, ovvero contratti pragmatici sotto forma di
movimenti. (allo stesso modo in cui l’enunciazione è allocuzione ovvero pone l’altro di
fronte al locutore e da via a contratti fra co-locutori)

Il camminare diventa dunque uno spazio di enunciazione. L’enunciazione pedonale


presenta tre caratteristiche che la distinguono dal sistema spaziale:

1. Il presente, il camminatore attualizza lo spazio in base alle possibilità che esso offre;

2. Il discontinuo, il camminatore disloca ed inventa alcune altre possibilità creando


discontinuità nelle sue scelte;

3. Il fatico, il camminatore interrompe il suo percorso a causa del contatto con determinati
elementi, perdendo dunque la comunicazione

L’arte di elaborare frasi ha come equivalente un’arte di inventare percorsi e implica e


combina stili e usi. Dato che i percorsi dei passanti seguono traiettorie o deviazioni diverse
si può parlare di retorica del camminare e si possono individuare due figure retoriche: la
sineddoche e l’asindeto.

La sineddoche consiste nel trasferimento di significato da una parola a un’altra in base a


una relazione di contiguità intesa come maggiore o minore estensione, (sostituzione tra due
termini in relazione tra di loro). E l’asindeto , ovvero la soppressione dei termini di
connessione, come congiunzioni e avverbi (detto (e) fatto). Queste rimandano l’una all’altra
nell’atto del camminare in quanto la prima dilata un elemento spaziale per fargli svolgere il
ruolo di totalità e sostituirvisi (oggetti esposti in vetrina valgono per l’intera strada o
quartiere) mentre la seconda crea un meno e ne ritiene solo dei frammenti scelti ; ancora, la
prima sostituisce dei frammenti alla totalità e la seconda li slega, una addensa, l’altra
frammenta. In questo modo lo spazio si trasforma in spazi separati.

I modi di camminare possono anche essere assimilati alla dimensione del sogno; il sogno
infatti si svolge in un non-luogo e camminare significa essere privi di luogo e cercare uno
spazio proprio. Questo ne fa un esperienza sociale della privazione di luogo frantumata in
spostamenti e percorsi, compensata dai rapporti e dalle intersezioni di questi esodi che si
intrecciano, creando un tessuto urbano, e quello che dovrebbe essere un luogo non è altro
che un NOME: la città. L’identità fornita da questo luogo è simbolica.

Vi è un rapporto fra le pratiche dello spazio (camminare) e l’assenza di un luogo grazie ai


giochi con i nomi. Nello spazio della città i nomi propri scavano riserve di significati nascosti
e familiari che indirizzano o sviano l’itinerario dandogli significato. Questi nomi creano un
non luogo, dei passaggi nei luoghi. Per esempio i nomi delle vie possono articolare nella
persona una frase che i suoi piedi costruiscono senza che egli lo sappia, oppure una persona
può rimuovere le vie nominate ma che le significano e imboccare strade senza nome e senza
firma. Queste parole con il tempo perdono il loro valore ma la loro capacità di significare
sopravvive. I passanti assegnano una polisemia a questi nomi che si distaccano dai luoghi
che dovevano definire. Questa indeterminazione assegna ai nomi la funzione di articolare
una geografia secondaria poetica. Nomi che hanno cessato di essere propri ma che
simbolizzano e orientano passi. I rapporti tra il senso del camminare e i sensi delle parole
situano due movimenti apparentemente contrari, l’uno di esteriorità (camminare significa
mettersi fuori), l’altro interiore (una mobilità sotto la stabilità del significante). Si delineano
tre funzionamenti distinti e combinati dei rapporti fra pratiche spaziali e pratiche
significanti:

Il credibile;

Il memorabile;

Il primitivo

Essi designano ciò che autorizza, ovvero rende possibili o credibili, le appropriazioni
spaziali, ciò che in esse si ripete o si richiama a una memoria silenziosa e replicata. Questi
nuclei simbolici li si puo riconoscere nelle funzioni dei nomi: infatti essi rendono abitabile e
credibile un luogo che rivestono con una parola, richiamano o rievocano fantasmi (morti)
che si agitano racchiusi nei gesti dei corpi in cammino, e in quanto essi nominano e
impongono una storia venuta dall’altro, alterano l’identità funzionalista e creano un non-
luogo nel luogo stesso.

La città è un luogo di leggende e di memorie, frutto del viaggio, frutto del cammino . Le
leggende locali consentono sbocchi, possibilità di uscire e rientrare e dunque spazi di
abitabilità, attraverso la possibilità che offrono di immagazzinare ricchi silenzi e storie senza
parole. I racconti di luoghi sono dei bricolage. Sono fatti con i resti del mondo.

La memoria però non è localizzabile, è frutto del parlare, è frutto del ricordo che è
intangibile. La memoria, il memorabile, è ciò che può essere sognato del luogo.

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