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La comunicazione interculturale nell’era digitale

La comunicazione interculturale

La comunicazione interculturale è il tema centrale delle riflessioni degli studiosi della cultura, della
politica, delle trasformazioni sociali del nuovo millennio. La comunicazione è l’unica via. Non
conflittuale e pacifica, per affrontare la contemporaneità e le sfide che essa ci pone, oltre che per
alimentare la vitalità delle culture capaci di mettersi in gioco.

Accenni di metacomunicazione

Nel 1967, nel suo testo sulla pragmatica della comunicazione umana, Watzlawick formulava un
“assioma* metacomunicazionale”, ovvero, la metacomunicazione (livello comunicativo non
verbale che passa oltre al messaggio verbale e che può quindi rafforzarne il contenuto o
contraddirlo). Anche quando non comunichiamo verbalmente, non possiamo evitare di tenere un
comportamento, poiché il nostro corpo occupa una porzione di spazio, atteggiandosi
inevitabilmente in qualche modo. Per quanto possiamo cercare di assumere una postura neutra o
azzerare la gestualità e controllare la mimica facciale (elementi di comunicazione non verbale),
ovvero sforzarci di non comunicare nulla, anche l’immobilità comunica qualcosa: rifiuto della
situazione, indisponibilità alla relazione o senso di disagio e tante altre. Senza contare gli altri
elementi che dicono qualcosa di noi come l’abbigliamento, acconciatura, il profumo e così via.

*Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione di modo che il secondo classifica il primo ed è
quindi metacomunicazione. In poche parole, sono alcune proprietà semplici della comunicazione che hanno
fondamentali implicazioni interpersonali.
Essi sono:
1° assioma – Impossibilità di non comunicare.
È impossibile non comunicare. In qualsiasi tipo di interazione tra persone, anche il semplice guardarsi negli occhi, si sta
comunicando sempre qualche cosa all’altro soggetto.
2° assioma – Livelli comunicativi di contenuto e di relazione.
In ogni comunicazione si ha una metacomunicazione che regolamenta i rapporti tra chi sta comunicando.
3° assioma – La punteggiatura della sequenza di eventi.
Le variazioni dei flussi comunicativi all’interno di una comunicazione sono regolate dalla punteggiatura utilizzata dai
soggetti che comunicano.
4° assioma – Comunicazione numerica e analogica.
Le comunicazioni possono essere di due tipi: analogiche (ad esempio le immagini, i segni) e digitali (le parole).
5° assioma – Interazioni complementari e simmetriche.
Le comunicazioni possono essere di tipo simmetrico, in cui i soggetti che comunicano sono sullo stesso piano (ad
esempio due amici), e di tipo complementare, in cui i soggetti che comunicano non sono sullo stesso piano (ad esempio
la mamma con il figlio).

La biografia linguistica e “l’altro”

La biografia linguistica la possiamo definire come un processo di analisi circa il proprio repertorio
linguistico, ovvero una riflessione relativamente al nostro modo di parlare, che sia la cadenza o la
scelta di specifici termini o l’uso di particolari espressioni. Più semplicemente, è la vita del nostro
modo di parlare che, come noi, cambia e si trasforma per effetto delle cose con cui viene a
contatto. La particolarità di questa biografia è che una non può mai essere corrispondente a quella
di un altro. Ovviamente la condivisione di un contesto culturale ed esperienziale facilita la
comprensione reciproca, ma allo stesso tempo resta uno scarto tra le diverse prospettive. Si può
dire perciò, che ogni comunicazione è in un certo senso interculturale e che ognuno di noi si
dispone interculturalmente ogni volta che comunica con qualcun altro. Già Simmel, all’inizio del
secolo scorso, affermava che ogni relazione si caratterizza per un mix di lontananza e vicinanza,
che poi in una particolare combinazione producono il rapporto con lo straniero. La presenza e la
prossimità di soggetti provenienti da culture diverse non introduce una questione totalmente
nuova, ma radicalizza le difficoltà legate alla comunicazione interpersonale in quanto tale: l’altro, a
qualunque cultura appartenga, ha sempre un margine di opacità, non può mai essere trasparente
e sfugge sempre in parte ai nostri sforzi di comprensione e categorizzazione.
La comunicazione e i suoi due livelli

La questione della comunicazione interculturale si pone oggi con la consapevolezza diffusa del
mutato rapporto tra le culture nell’era della globalizzazione, e dello sganciamento tra culture e
territori che produce una contiguità tra culture diverse, non è possibile non prendere posizione di
fronte alla mutata situazione. Come scrive Bauman, oggi nessuno può più dire “non so niente”
quindi anche il solo ignorare o non considerare la questione rappresenta già una presa di
posizione: se dal punto di vista comunicazionale con il nostro silenzio non esprimiamo un punto di
vista, da quello metacomunicazionale manifestiamo un fastidio, una presa di distanza, un senso di
inadeguatezza personale o altro. In ogni caso, poiché è impossibile non avere un comportamento
o un atteggiamento, non si può non comunicare. Quindi, non si può pensare di poter evitare di
comunicare interculturalmente. La comunicazione è l’unica alternativa al conflitto o alla ciusura
difensiva, posto che l’indifferenza rappresenta in realtà una presa di posizione e, come in certi
modelli che si definiscono multiculturalisti e che utilizzano metafore come “patchwork” o “mosaico”
delle culture, è quantomeno contraddetto dalle evidenze. La comunicazione interculturale può
funzionare su due livelli:

1. Il primo è quello delle situazioni e riguarda lo scambio dei messaggi e le modalità di


interazione nei singoli contesti della vita quotidiana, nelle istituzioni, nella scuola,
nell’impresa… Poiché le occasioni di contatto interculturale sono sempre più numerose, è
necessario dotarsi degli strumenti per rendere fluida l’interazione, evitare gaffes e incidenti
diplomatici, fraintendimenti e malintesi e per realizzare nel modo più efficiente e
soddisfacente per tutte le parti coinvolte gli obiettivi legati alle singole situazioni.

È questo livello che mira a definire le condizioni e gli strumenti di una *competenza interculturale*,
che si colloca molta della produzione manualistica sulla comunicazione interculturale che la
definisce come la capacità di comprendere le diverse identità culturali coinvolte in una certa
situazione e le attribuisce due dimensioni:

- L’efficacia, intesa come capacità di raggiungere lo scopo in una data situazione


- L’appropriatezza, intesa come la capacità di riconoscere ciò che è adatto all’interno di una
determinata prospettiva culturale.

2. Il secondo livello della comunicazione interculturale è quello che riguarda i presupposti


culturali che ispirano le pratiche, le cornici (frames) di riferimento dell’agire comunicativo, e
la capacità di mettere a tema tali presupposti, riconoscendoli e lasciandoli a “interpellare”
dalle cornici di riferimento degli altri interlocutori. In questo caso la comunicazione
interculturale non si riduce a un insieme di tecniche e strategie per ottenere obiettivi
personali ma diventa un’occasione per approfondire la consapevolezza dei propri
presupposti, raccogliendo le provocazioni.

Le dinamiche di despazializzazione e rispazializzazione che caratterizzano la contemporaneità


globalizzata creano le condizioni strutturali dell’assioma della comunicazione interculturale.
Al primo livello, questo comporta l’impossibilità di evitare il contatto, se non lo scambi, con soggetti
appartenenti a culture profondamente diverse da quella che ci è più familiare e l’inevitabilità di
contribuire alla circolazione di significati a riguardo. Al secondo livello si impone poi il ripensamento
del rapporto tra culture, oltre che dell’idea stessa di cultura: se non è più lo spazio a delimitare
territori culturalmente omogenei e ad assicurare una separazione e un ordine tra sistemi differenti,
occorre dotarsi degli strumenti per affrontare una complessità che non può più essere tenuta a
distanza e che rimette in discussione certezze che parevano acquisite definitivamente.

*La competenza comunicativa interculturale*

La comunicazione competente, consiste di comportamenti che siano ritenuti efficaci e appropriati.


La comunicazione è “efficace” quando le persone sono in grado di raggiungere i risultati che si
prefiggono. Perciò, i comunicatori competenti devono essere in grado di controllare e modificare
il loro ambiente sociale per realizzare tali obiettivi. Si presume quindi, che i comunicatori
competenti sappiano identificare i propri obiettivi, disporre delle risorse necessarie per ottenerli,
prevedere in modo sufficientemente accurato le risposte dell’interlocutore, scegliere le strategie
comunicative più funzionali, metterle in atto e, infine, valutare i risultati dell’interazione.
Una comunicazione “appropriata” comporta l’uso di messaggi che siano attesi in un dato contesto
e di azioni che corrispondano alle aspettative e alle esigenze della situazione. Questo criterio per
la competenza comunicativa richiede che i partecipanti all’interazione dimostrino una
comprensione delle aspettative sul comportamento ritenuto accettabile in quella situazione. Chi
comunica deve essere in grado di riconoscere le costrizioni imposte sul suo comportamento da
diversi insiemi di regole. I due criteri dell’efficacia e dell’appropriatezza si combinano per
influenzare la qualità dell'interazione. Questo primo livello della comunicazione interculturale
riguarda il piano manifesto delle pratiche comunicative e delle tecniche per renderle più
soddisfacenti per chi è coinvolto nelle singole situazioni.

Che cos’è la comunicazione

La comunicazione è un atto di compartecipazione, in cui tutti i partecipanti condividono una stessa


comune condizione e hanno, per così dire, obblighi e doni, oneri e onori.
È un processo attraverso il quale i partecipanti creano e condividono informazioni, ma soprattutto,
è un cammino attraverso il quale si cerca di costruire e condividere un mondo comune, riducendo
le distanze e gli spazi di opacità, attraverso l’utilizzo di uno o più codici che siano comuni. Una
definizione chiara in questa prospettiva è quella di comunicazione come “processo di costruzione
collettiva e condivisa di significato, processo dotato di livelli diversi di formalizzazione,
consapevolezza e intenzionalità”. Sul modello della comunicazione uomo- macchina, poi utilizzato
per analizzare la comunicazione di massa, il modello della trasmissione prevede che il messaggio
passi da un soggetto A (l’emittente) a un soggetto B (il ricevente). Questo modello, è appropriato
per descrivere dinamiche quali quelle che hanno luogo nei processi di acculturazione, o nei casi di
comunicazione strumentale in vista di un obiettivo. In questo modello la comunicazione è efficace
quando riesce a sovrastare il “rumore”, ovvero l’insieme degli elementi di disturbo che possono
ostacolarla. I limiti di questo modello sono però evidenti: la comunicazione è unidirezionale; il
destinatario della comunicazione è passivo, come denota il termine ricevente; il contesto, non è
messo a tema, e comunque, non pare influente rispetto alla comprensione del messaggio; il
messaggio infine, è qualcosa che viene passato attraverso un canale senza risultarne modificato,
come se fosse un pacchetto che il destinatario decodifica per cogliere i significato che vi sono già
contenuti, indipendentemente dal suo contributo interpretativo. Nell’era della comunicazione
digitale e del web 2.0, caratterizzato da interattività, partecipazione, costruzione condivisa del
sapere, generazione del contenuto da parte di altri utenti è fin troppo evidente come il modello
“trasmissivo” sia intanto più formativo che comunicativo. Il modo in cui la rete funziona oggi e viene
usata, ci offre anche una nuova intelligenza e nuovi strumenti di comprensione del fenomeno della
comunicazione in generale. Soprattutto rispetto alla comunicazione interculturale, il modello della
trasmissione è dunque inadeguato e insufficiente.

Caratteristiche della comunicazione

La comunicazione può avvenire attraverso: il dialogo e il con-senso.

 Dialogo deriva dal greco: dià che è una preposizione che indica separazione, discordanza
ma anche reciprocità; légein invece, significa parlare, ma anche legare, raccogliere.
Attraverso il dialogo quindi, si lega ciò che è separato, si uniscono i diversi. Il dialogo
presuppone l’incontro di alterità e uno sforzo di relazione che passa per l’ascolto e il
riconoscimento dell’altro come interlocutore. Attraverso il dialogo è possibile non soltanto lo
scambio di informazioni che arricchiscono la conoscenza, ma anche la costruzione
cooperativa di un mondo comune attraverso lo scambio di simboli. Questo scambio
consente anche l’avanzamento degli interlocutori verso una comprensione reciproca. È una
dinamica evidente nella comunicazione interpersonale, che vale anche per la
comunicazione interculturale.
Quindi, si può dire che le caratteristiche della comunicazione come dialogo sono:

1. Lo scambio, il dialogo non è un processo unidirezionale;

2. È un processo negoziale che implica un feedback e che si aggiusta progressivamente


in base a esso, con esiti che non sono mai totalmente prevedibili a partire dalle
premesse;

3. È un incontro tra soggetti concreti (individui non considerati come membri di una
categoria);

4. Presuppone un rapporto paritetico, in cui tutti i partecipanti sono intesi come


interlocutori a pieno e pari titolo;

5. Presuppone la condivisione di uno stesso tempo (es. videoconferenza).

Quest’ultimo, implica anche il “riconoscimento di coevità” dell’interlocutore. L’antropologo tedesco


Johannes Fabian parla di “allocronismo” come di una strategia retorica di messa a distanza
dell’altro attraverso la “negazione di coevità”: se all’altro viene attribuita una temporalità diversa,
tendenzialmente arretrata, viene in un certo senso anche negata la sua corresponsabilità sul
presente. L’allocronismo rappresenta una modalità ampiamente utilizzata anche nel dibattito
contemporaneo per sostenere l’incommensurabilità delle culture, e, di fatto, l’impossibilità del
dialogo. Perché il dialogo sia possibile, e perché tutti i partecipanti siano a pieno titolo riconosciuti
come interlocutori, occorre convenire sul fatto che tutti, in un certo senso “abitano” lo stesso
presente, sebbene ciascuno sia portatore di storia propria.

 Con-senso è l’uso comunicativo del logos (pensiero, parola), che consente di pensare le
condizioni per un consenso senza coazioni. Oggi, nell’era tattile della sinestesia, l’intesa si
realizza piuttosto attraverso la sintonia emotiva, l’empatia. Il consenso diventa non una
convergenza verso qualcosa di esterno la cui validità viene riconosciuta in modo
intersoggettivo, ma una risonanza interna al soggetto, che ne sintonizza la tonalità
emozionale rispetto ad altri che partecipano della stessa esperienza. Anche questa può
essere una via di integrazione, che non richiede nemmeno il possesso di un codice
comune, ma la possibilità di “immergersi” nello stesso tipo di esperienza sensoriale.

Rispetto ai due livelli della comunicazione interculturale, si può ritenere il modello della
comunicazione come trasmissione quello normalmente utilizzato per la comunicazione come
trasmissione quello normalmente utilizzato per la comunicazione interculturale di primo livello,
mentre quello della comunicazione come dialogo, che implica una disponibilità degli interlocutori a
partecipare e a “lasciarsi modificare” dal processo dialogico, richiede un’apertura a riconoscere e a
mettere in gioco le cornici di riferimento entro le quali la comunicazione ha luogo, è quello che
opera nella comunicazione interculturale. Il consentire invece, non comporta di per sé un
avvicinamento all’altro tale da mettere di per sé in discussione le cornici di riferimento. Tuttavia,
l’empatia può costruire il primo passo di una riduzione della distanza che consenta l’incontro e
l’elaborazione dei significati con un maggiore livello di consapevolezza. La riuscita della
comunicazione non dipende soltanto dallo scambio più o meno riuscito di un messaggio, ma dalla
reciprocità e dalla capacità dei soggetti coinvolti di mettere in gioco anche i presupposti a partire
dai quali si entra in comunicazione con l’altro. Presupposti che non sono unicamente di natura
razionale e argomentabile, ma coinvolgono la dimensione simbolica e più in generale tutti gli
aspetti che vengono rubricati sotto il termine “inconscio culturale”.

Lo studio della comunicazione

Le discipline che hanno come loro oggetto la comunicazione sono numerose:


a) La semiotica: analizza le strategie di costruzione del discorso, i meccanismi di costruzione
e scambio dei significati attraverso testi che possono essere di varia natura, distinguendo
tra una manifestazione superficiale e una struttura profonda del testo, a livello della quale
operano i dispositivi di significazione. La disciplina ha visto emergere come sempre più
cruciale l’attenzione ai processi di interpretazione e allo scambio non solo di sapere,
ma anche di punti di vista e ruoli, che ha luogo attraverso il testo tra l’”autore modello” e il
“destinatario modello”. In anni più recenti e in relazione alla “svolta sensoriale”, si è aperta
agli studi sulla percezione.

b) La sociolinguistica: si colloca all’interfaccia tra lingua e cultura o lingua e società. Studia “i


fatti e i fenomeni linguistici che, e in quanto, hanno rilevanza o significato sociale” e le
variazioni dell’uso della lingua a seconda delle situazioni e dal contesto sociale, come per
esempio i codici comunicativi più o meno elaborati o ristretti, a seconda della classe sociale
di appartenenza o il rapporto tra stile comunicativo (formale o informale) e status sociale
dell’interlocutore, mettendo in relazione l’uso del linguaggio con la produzione e la
riproduzione dei significati e delle relazioni sociali. Cruciale per la sociolinguistica è il
concetto di “comunità linguistica”, un gruppo di parlanti che condivide la stessa prospettiva
culturale, oltre che lo stesso linguaggio, e che serve da “punto per indagare i limiti della
variazione individuale nell’uso linguistico”

c) La psicologia: considera la comunicazione con riferimento al singolo soggetto, ai gruppi,


alle istituzioni. Non si focalizza tanto sul processo di significazione, quanto sull’importanza
della comunicazione per costruire e alimentare le reti di relazioni e per la formazione
dell’identità personale, con l’attenzione crescente alle prospettive cross-culturali e alle
dimensioni applicative.

d) La sociologia: considera il comunicare un modo per riprodurre, trasmettere e trasformare i


significati sociali attorno ai quali il gruppo si riconosce. La comunicazione è indicativa della
cultura e dei rapporti tra gli interlocutori. Il pensiero sociologico subisce verso la metà degli
anni Cinquanta una “svolta comunicativa” con l’affermarsi di correnti microsociologiche che
riconoscono il reciproco costruirsi di cultura e società attraverso le interazioni comunicative
che hanno luogo tra gli attori sociali. La sociologia riflette sullo sganciamento tra cultura,
luogo e identità, sulla centralità delle relazioni per la riproduzione della cultura e quindi sulla
crucialità della dimensione comunicativa,

e) L’antropologia: sottolinea lo stretto legame tra comunicazione e cultura, intesa in senso


antropologico come l’insieme degli elementi materiali e immateriali che caratterizzano la
vita quotidiana di un gruppo.

Il concetto di cultura

Si deve all’antropologia la formulazione di un concetto “scientifico” di cultura, oltre che al


superamento della concezione umanistica. Se la concezione classica insisteva sul rapporto
individuale con la cultura, sul suo carattere universale e sulla sua eccezionalità, quella
antropologica sottolinea il carattere condiviso, particolare e ordinato della cultura. Hofstede ha
definito la cultura come il software della mente umana che fornisce un ambiente operativo per il
comportamento. Si può dire che la cultura consente di operare un’elaborazione tra lo stimolo e la
risposta, costituisce il prerequisito per essere membri di un gruppo, fornisce stabilità e coesione, è
soggetta a mutamento e consiste in idee, pratiche, esperienze trasmesse in forma simbolica
attraverso processi di apprendimento. La cultura include anche valori, norme, atteggiamenti usati
come guida per i comportamenti e per risolvere i problemi. La cultura, è l’insieme delle cornici
condivise. La cultura comporta quindi sia una prospettiva performativa, sia una prospettiva
interpretativa. L’insieme degli elementi costituiscono la cultura, e che armonizzano il
comportamento individuale con quello degli altri membri del gruppo non costituisce un tutto
uniforme ed omogeneo, ma un terreno variegato sul quale si scontrano anche interessi e punti di
vista contrastanti, un terreno di processi negoziali continui.
Definizioni antropologiche di cultura
“A.Kroeber e C.Kluckhon, 1963: la cultura è composta di modelli, espliciti ed impliciti, di e per il
comportamento, acquisiti e trasmessi mediante simboli, costituenti il risultato distintivo di gruppi
umani; il nucleo essenziale della cultura consiste di idee tradizionali […] e specialmente in valori
loro attribuiti; i sistemi culturali possono considerarsi da un lato prodotti dall’azione, e dall’altro
punto di vista sono elementi condizionanti l’azione futura.”

Dopo questa sistematica definizione, gli aspetti che sono stati messi in evidenza sono quello
interpretativo-ermeneutico, quello relazionale, quello negoziale e quello in relazione alla questione
dell’identità. La definizione soprastante, è diventata l’opera di riferimento negli studi culturali e di
oltre 150 definizioni di cultura raggruppabili in diverse categorie:

1. Il modo di vivere di un popolo;


2. L’eredità sociale che un individuo acquisisce nel suo gruppo di appartenenza;
3. Il modo di pensare, di sentire e di credere;
4. La generalizzazione derivata dall’osservazione dei comportamenti;
5. Il deposito di sapere posseduto collettivamente;
6. L’insieme dei comportamenti standardizzati nei riguardi di problemi ricorrenti
7. L’insieme dei meccanismi per la regolazione normativa del comportamento;
8. L’insieme delle tecniche per adeguarsi all’ambiente.

Le diverse definizioni mettono l’accento su cinque dimensioni della cultura, ovvero cinque estremi
di un continuum rispetto al quale la cultura può essere analizzata:

1. La dimensione oggettiva/soggettiva; si riferisce alle forme culturali in quanto collettivamente


condivise; tali forme vengono interiorizzate e declinate in modo soggettivo;
2. La dimensione concreta/astratta della cultura: il primo aspetto riguarda componenti
materialmente osservabili, il secondo, richiede delle inferenze o delle interpretazioni da
parte di un osservatore esterno;

3. La dimensione descrittiva- cognitiva/prescrittiva della cultura: da un lato la cultura è capace


di fornire immagini del mondo, interpretazioni della realtà, rappresentazioni sociali;
dall’altro, in forza di queste immagini del mondo, prescrive o proscrive specifiche modalità
di comportamento sia per l’individuo che per la collettività;

4. La dimensione esplicita/implicita della cultura: c’è una cultura manifesta, che viene appresa
attraverso la parola e la socializzazione ed è quella che può essere riconosciuta da un
osservatore esterno, e una cultura tacita, non verbale, ma fortemente situazionale, che
opera secondo regole non consapevoli, che non vengono insegnate e apprese, ma
acquisite nelle diverse circostanze e nei diversi ambienti dall’esperienza nella vita
quotidiana;

5. La dimensione coerente/incoerente della cultura: ogni sistema culturale presenta un certo


grado di coerenza tra le sue componenti, altrimenti la cultura non sarebbe neppure
riconoscibile come qualcosa di unitario, ma presenta anche un grado di pluralità,
complessità e conflittualità interna che ne garantisce la varietà e il dinamismo. Accanto alle
dimensioni, ovvero ai criteri sulla base dei quali orientare l’analisi delle culture, i sociologhi
hanno identificato quelle che vengono comunemente definite “componenti della cultura”. Si
tratta di valori, norme, concetti e simboli.

 I valori sono ideali a cui un certo gruppo sociale aspira e a cui fa riferimento quando deve
formulare giudizi, prendere decisioni, orientare l’azione. Inoltre, i valori presentano una
pluralità di dimensioni. I valori hanno 4 dimensioni:

1. La dimensione normativa: cosa dovremmo volere, come dovremmo comportarci, quali


sono le cornici dentro le quali orientare le nostre scelte e i nostri comportamenti;
2. La dimensione cognitiva: i valori ci consentono di formulare e argomentare giudizi

3. La dimensione affettiva: i valori non servono solo a stabilire criteri di comportamento e


di giudizio. Si chiama affettiva dal momento che diventano rilevanti per definire l’identità
degli individui e le loro appartenenze;

4. La dimensione selettiva: i valori funzionano come criteri per scegliere come agire.

 Le norme derivano dai valori, poiché li specificano attraverso precise indicazioni di


comportamento;
 I concetti rappresentano gli strumenti per organizzare l’esperienza dal punto di vista
cognitivo. Possono coincidere con le forme di categorizzazione della realtà di un
determinato gruppo o articolarsi in proposizioni descrittive della realtà e modelli di visione
del mondo;
 I simboli: simbolo deriva da un termine greco che significa “mettere insieme”, da allora,
ciascuno di noi è il “simbolo” di un altro uomo, come si rintraccia in alcune espressioni del
linguaggio comune

Il simbolo è dunque caratterizzato dal rinvio, dal momento che “sta per” qualcos’altro, rimanda a
una unità assente. Il linguaggio è il più importante e potente sistema di simboli. I simboli, in sintesi:
 Hanno un significato pubblico, condiviso
 Possono essere impiegati in assenza delle cose che significano.
Se si considera la funzione dei simboli, il loro impatto è relativo al fatto che i simboli trasformano la
natura dell’ambiente in cui vivono gli esseri umani. Poiché non sono legati alla presenza effettiva
delle cose che rappresentano, possono essere invocati a distanza. Ciò è evidente se si pensa ai
mezzi di comunicazione e al loro ruolo. I simboli dilatano lo spazio, ma anche il tempo, rendendo
accessibile ciò che non è più, e consentendo di prefigurare ciò che non è ancora; i simboli
trasformano l’ambiente, perché ne fanno un ambiente denominato. Il secondo aspetto riguarda la
capacità dei simboli si riprodurre in un individuo le disposizioni e gli atteggiamenti di un’altra
persona. I simboli, infatti, sono pubblici e hanno significato in quanto condivisi da una comunità di
parlanti; consentono di condividere una risposta comune al simbolo, di ricreare l’atteggiamento
mentale del parlante in chi l’ascolta. La comunicazione simbolica si caratterizza quindi per la sua
capacità di stimolare risposte condivise tra due o più individui per mezzo di simboli. I simboli
rendono possibili risposte divise intersoggettivamente, ma naturalmente, non le garantiscono.
Infine, il terzo aspetto, i simboli permettono all’individuo o ai gruppi di autodesignarsi dentro un
ambiente.

Comunicazione e cultura
Tutti gli approcci allo studio della comunicazione e della cultura mettono l’accento sulla loro stretta
interconnessione. E.T. Hall sostiene che “la comunicazione costituisce il cuore della vita e della
cultura stessa”. Hall scrive che nella comunicazione, le persone non si limitano a rilanciarsi l’un
l’altro la palla della conversazione; gli studi, rivelano tutta una serie di servomeccanismi controllati
e condizionati dall’ambiente culturale, che consentono alla vita una regolare navigazione.
L’intreccio tra comunicazione e cultura può essere spiegato in almeno due modi:

1. La cultura è un insieme di segni dotati di significati, che si esprime in pratiche comunicative.


Le manifestazioni culturali sono per lo più atti di comunicazione. La comunicazione dà
quindi visibilità alla cultura, e così facendo contribuisce a definirla;

2. La cultura sopravvive se è comunicata, si trasmette attraverso pratiche comunicative tra gli


attori sociali. Prima di tutto attraverso l’apprendimento della lingua, poi attraverso le
modalità verbali di esprimere l’approvazione e la disapprovazione o più in generale,
attraverso la trasmissione di modelli condivisi, tanto nell’interazione faccia a faccia quanto
attraverso forme di comunicazione mediata, e la sanzione della loro trasgressione.
Gran parte della trasmissione della cultura, avviene per imitazione e per immersione in un
ambiente nel quale sono iscritti i significati del gruppo. I principali canali della trasmissione
culturale, oltre alla comunicazione interpersonale, la comunicazione pubblica, la comunicazione
attraverso i media tradizionali e attraverso i nuovi media, in particolare gli smartphones, che
consentono la connessione in mobilità con altri significativi anche quando lontani e con le proprie
cerchie di riferimento e i social networks, permettono di ricreare e mantenere nello spazio virtuale i
propri mondi di riferimento. Gli ambiti entro i quali, attraverso questi canali, opera il processo di
trasmissione culturale sono quelli legati alla socializzazione, primaria (es. famiglia) e secondaria
(es. agenzie, media) e alle istituzioni. Nel processo di trasmissione la cultura subisce
interpretazioni e contaminazioni, e inevitabilmente si trasforma.

Breve storia della disciplina

La comunicazione interculturale come campo di studi cominciò propriamente dopo la seconda


guerra mondiale. A quel tempo, gli Stati Uniti erano la potenza mondiale leader, ma i suoi
diplomatici erano inefficienti. Quindi, il Dipartimento di Stato fondò il Foreign Service Institute con
lo scopo di preparare i propri diplomatici. Preliminarmente, può essere utile considerare che la
nozione di interculturalità è già essa stessa “culturale”, dato che non è separabile dalle culture
nelle quali è apparsa, come modo di affrontare situazioni problematiche e di rispondere alle
sollecitazioni dell’ambiente, e nelle quali è utilizzata, e strategica, dal momento che ciascuno
accoglie la cultura dell’altro solo a partire dalla base della propria cultura, cercando di farla
prevalere: la comunicazione interculturale “fa parte di culture che hanno più spesso scelto delle
procedure di unificazione culturale, prima al proprio interno e poi nelle loro relazioni con culture
altre”. Segno altrettanto evidente della possibile natura strategica dell’idea di intercultura è la sua
tematizzazione quasi esclusivamente nell’area economica e in quella politica, come condizione per
la realizzazione efficace dei rispettivi obiettivi. La cornice, temporale e culturale, in cui la prima
definizione della disciplina è stata formulata, tipicamente occidentale, post- bellica, strategica, è
certamente diversa da quella ove si collocano le riflessioni contemporanee, più diversificate quanto
a provenienza, anche grazie all’apporto degli studi post-coloniali, e collocate in un contesto
globale. Conoscere l’altro vuol dire poterlo dominare, usare o sapere come umiliarlo in modo
efficace. O tempi sono ormai maturi, come accade d’altra parte nelle fasi avanzate di ogni
disciplina, per un ripensamento e un ri-orientamento in chiave più epistemologica, riflessiva e
metacomunicativa. Perché una fase riflessiva sia possibile, occorre dunque partire da una rilettura
del percorso della disciplina che sia in grado di tematizzare motivazioni, presupposti e condizioni
della produzione di questo tipo di sapere.

Gli albori della disciplina

Di fatto, la riflessione sulla comunicazione interculturale nasce, senza la consapevolezza della


creazione di un ambito disciplinare autonomo, in Occidente con la modernità: le innovazioni
tecnologiche da un lato e i processi di urbanizzazione legati all’avvento della società industriale
dall’altro, costituiscono i principali fattori di intensificazione di contatti interculturali e di
consapevolezza dei problemi che essi comportano. Nel primo caso, i mezzi di trasporto veloci
hanno consentito di spostarsi verso paesi lontani e di venire a contatto con altre culture. Il
colonialismo da un lato e l’antropologia dall’altro hanno sfruttato, in maniera diversa ma talora
reciprocamente funzionale, le nuove possibilità di mobilità e di diffusione su larga scala delle
informazioni raccolte. Nel secondo caso è l’arrivo di “altri” a rompere l’omogeneità della
composizione culturale autoctona: le industrie richiamano nelle città ingenti risorse umane da
impiegare come forza lavoro, sollecitando migrazioni sia dalle zone rurali, sia da zone
economicamente depresse situate fuori dei confini nazionali. Il filone di studi più influente a questo
riguardo è quello che ha preso avvio all’inizio del XX secolo, dalla cosiddetta “Scuola di Chicago”.
Intorno agli anni Venti l’attività di ricerca è consolidata e ha assunto una fisionomia ben precisa
attorno a un tema centrale: lo studio della diversità culturale e della devianza sociale nella
metropoli. Il testo di Thomas e Znaniecki, rappresenta lo studio inaugurale di un filone sociologico
estremamente importante. Thomas anticipa anche la teoria dell’*uomo marginale* che sarà poi
ripresa e sviluppata da Park. Vivere tra due mondi significa in un certo senso non riuscire mai ad
appartenere pienamente a nessuno di essi, essere per certi versi stranieri rispetto a entrambi: è
così che Park sviluppa la teoria dell’uomo marginale, osservando tra le altre cose che il trovarsi ai
margini di due culture, senza riuscire a riconoscersi pienamente in alcuna, predispone una
condizione favorevole alla devianza sociale. A Park si deve anche l’elaborazione della nozione
simmeliana di distanza sociale. Secondo Park, la distanza sociale definisce il grado di vicinanza e\
o lontananza, e il senso di familiarità e\o estraneità che lo accompagna, tra soggetti sociali
appartenenti a diverse culture. Nella fase preliminare alla costituzione della comunicazione
interculturale come ambito disciplinare autonomo hanno svolto un ruolo importante anche una
serie di studi, soprattutto in ambito sociologico e psicologico, quali quello di W. G. Sumner sull’
etnocentrismo.

*L’uomo marginale è colui che sperimenta un’incongruenza tra il sistema culturale della comunità da cui proviene e
quello della società di arrivo, vivendola come una duplice perdita: di status, ossia di riconoscimento del proprio gruppo e
di senso del proprio sé, ossia di riconoscimento del suo ruolo all’interno del gruppo.

Il Foreign Service Institute e E.T.Hall

Nel 1946 il Congresso degli Stati Uniti approvò il Foreign Service Act, che stabiliva la costituzione
del Foreign Service Institute (FSI) entro il Dipartimento di Stato, per provvedere alla formazione del
personale da inviare nei paesi stranieri. Incaricati della preparazione del personale erano
soprattutto linguisti e antropologi. Uno degli antropologi dello staff era E.T. Hall che operò un
radicale rovesciamento di prospettiva, mettendo in primo piano gli aspetti microculturali nella
maggior parte dei casi usati in modo consapevole, come la gestualità, la postura, il tono della voce
e l’uso dello spazio. Nel suo volume “The silent lanuage”, riconosce il suo debito intellettuale
rispetto al linguista Worf, per aver messo in luce in modo chiaro il legame tra cultura ed
esperienza. Hall, di fatto, ha applicato il modello della relatività linguistica alla comunicazione non
verbale. In una serie di studi successivi, Hall ha formulato una serie di categorie e di concetti
tuttora utilizzati negli studi della comunicazione interculturale, come l’attenzione all’uso
comunicativo dello spazio e del tempo (prossemica e cronemica) e la distinzione tra culture ad alto
e basso contesto. In sintesi, il contributo di Hall alla definizione della nuova disciplina comprende:

 Un approccio comparativo, focalizzato sull’interazione di soggetti appartenenti a culture


diverse;

 Una prospettiva “micro” attenta alle interazioni di soggetti di diversa provenienza culturale
in situazioni specifiche, ai bisogni e agli obiettivi degli interlocutori rispetto a tali situazioni;

 Una interdisciplinarietà di analisi, che collega in modo esplicito antropologia e studio della
comunicazione;

 Un’idea di comunicazione come comportamento governato da regole, che consente


all’osservatore di rilevare modelli e operare generalizzazioni;

 Il riconoscimento dell’importanza degli elementi non verbali della comunicazione


trasversalmente rispetto alle diverse culture;

 Il riconoscimento dell’importanza dell’esperienza e della pratica per la comunicazione


interculturale;

 La costituzione di un lessico specialistico, tuttora utilizzato.

Nel 2002 l’Handbook and Intercultural Communication individua cinque filoni all’interno della
riflessione teorica sulla comunicazione che, seppure in modo sintetico, possono offrire un quadro
panoramico dello stato dell’arte della disciplina e delle sue proprietà e delle sue più recenti
direzioni di sviluppo.
1. Le teorie che si concentrano sull’efficacia comunicativa: in particolare, le teorie sulla
convergenza culturale secondo la quale, attraverso l’interazione tra individui o gruppi, i
partecipanti possono avvicinarsi a una comprensione reciproca, pur senza mai
raggiungerla completamente; le teorie sulla gestione dell’ansietà e dell’incertezza; le teorie
sull’efficacia dei processi decisionali dei gruppi interculturali, dove diventano rilevanti
variabili quali il carattere individualista o collettivista delle culture.

2. Le teorie che si focalizzano su accomodante e adattamento reciproco tra culture diverse. Si


possono riconoscere in questo ambito tre filoni principali: la teoria sulla comunicazione-
accomodamento; la teoria dell’adattamento interculturale; la teoria co-culturale.

3. Le teorie focalizzate sulla negoziazione o il management dell’identità; appartengono a


questo ambito la teoria del management dell’identità; la teoria della negoziazione
dell’identità; la teoria dell’identità culturale, basata sull’interpretazione di come le identità
culturali entrano in gioco nelle interazioni interculturali.

4. Le teorie focalizzate sui networks comunicativi. Si possono distinguere in questo ambito: le


teorie sulla competenza comunicativa outgroup; la teoria dei networks interculturali versus
interculturali; la teoria dei networks e dell’acculturazione.

5. Le teorie focalizzate su acculturazione e aggiustamento. Si articolano in teoria della


comunicazione- acculturazione; la teoria del management dell’ansietà\incertezza; teoria di
assimilazione, devianza e stati di alienazione.

Questo spostamento da una prospettiva occidentale a un punto di vista più globale va a grande
beneficio della comunicazione interculturale. Un’ulteriore considerazione può essere fatta a
proposito della natura “applicata” della comunicazione interculturale. Questo attributo, che ha sin
dall’inizio caratterizzato la disciplina, non ha sempre avuto lo stesso significato. Se nella fase di
assestamento disciplinare il termine indicava la natura strumentale, orientata alle pratiche e basata
su metodi di training che implementassero la competenza comunicativa valorizzando il lavoro sul
campo, successivamente la dimensione strumentale rappresenta solo un aspetto della
comunicazione interculturale, e l’esperienza mantiene un ruolo centrale in un senso meno legato
alla contingenza delle situazioni. Nell’ambito di quella che abbiamo definito comunicazione
interculturale di secondo livello, l’esperienza diventa luogo di apprendimento in quanto
caratterizzata per la rottura del senso di ovvietà che accompagna la vita quotidiana nella sua
dimensione irriflessa. In questo senso l’esperienza interculturale costituisce un contesto che
sollecita tutte le parti coinvolte ad attivare risorse di comprensione non ancora strutturate in modelli
cognitivi, dato che quelli disponibili si rivelano inadeguati. In questo senso l’esperienza del contatto
interculturale sollecita quello che Beteson ha definito deuteroapprendimento, ovvero un
“apprendere ad apprendere”

SINTESI

Nelle definizioni della disciplina proposte nei manuali, la comunicazione interculturale viene definita
come lo studio della comunicazione interpersonale eterofila tra individui che appartengono a
differenti culture, in relazione a un obiettivo. In questa prospettiva, la comunicazione interculturale
analizza le difficoltà e mira ad aumentare la mutua comprensione tra i membri delle culture e a
ridurre i fraintendimenti. Oggi la comunicazione interculturale, come mostrano soprattutto le
riflessioni di matrice europea e quelle sviluppate nell’ambito degli studi post-coloniali, ma come
indicano anche i più recenti sviluppi della disciplina in ambito statunitense, va più proficuamente
intesa come un ambito insieme più esteso e più profondo. Più esteso, perché non può limitarsi alla
sola comunicazione interpersonale: parlare di comunicazione interculturale nel mondo globalizzato
oggi senza considerare, per esempio, il ruolo dei media tradizionali o di internet pare quantomeno
riduttivo. Più profondo, perché, come si è cercato di spiegare attraverso la metafora dei due livelli,
anche i presupposti culturali che stanno alla base degli atti concreti di comunicazione in contesti
specifici vanno resi espliciti e lasciati interagire. La comunicazione interculturale si configura in
questo senso come un’interazione dialogica, un processo di negoziazione tra frames, dove per
negoziazione si intende un processo bidirezionale.

La scelta terminologica non è irrilevante, dal momento che la definizione del campo semantico
orienta gli atteggiamenti e comportamenti. Per questo è opportuno evidenziare le differenze che
sussistono tra una serie di termini considerati sinonimi o comunque alla stessa area semantica. In
particolare consideriamo, nelle loro vicinanze e differenze rispetto a “interculturale”:

1. Multiculturale\multiculturalismo
2. Internazionale\ transnazionale
3. Cross-culturale
4. Interetnico
5. Interrazziale

a) Il termine multiculturale significa solamente l’esistenza di parecchie o multiple culture co-


presenti in uno stesso ambiente. Tali culture sono co-presenti, ma relativamente separate
in diversi modi e per diverse ragioni. Il termine multiculturalismo invece, assume una
valenza più programmatica e politica. È un termine che mette l’accento sulla diversità
culturale, piuttosto che sullo scambio tra culture. Il multiculturalismo rischia di essere
un’etichetta che denota una “indifferenza alla differenza”, il riconoscimento di una
molteplicità senza un interesse a conoscere il diverso.

b) La comunicazione internazionale (transnazionale) riguarda il livello societario anziché


quello interpersonale; si occupa di temi quali la direzione dei flussi di informazione, i rischi
dell’imperialismo culturale, le conseguenze dei satelliti e di internet, il digital divide. Negli
ultimi anni grazie all’incremento dei flussi migratori e allo sviluppo delle nuove tecnologiche
della comunicazione, la dimensione transnazionale delle relazioni umane ha assunto un
ruolo significativo e forme e obiettivi diversificati che sollecitano la ridefinizione delle
categorie di analisi, come quella di “superdiversità”. Lo sviluppo è un processo
partecipativo su larga scala di cambiamento sociale in un determinato contesto, finalizzato
al conseguimento di vantaggi sociali e materiali come una maggiore uguaglianza, libertà e
altri aspetti positivi, per la maggior parte delle persone e attraverso una loro graduale
acquisizione di sempre maggior controllo sul proprio ambiente.

c) La comunicazione cross-culturale, implica un approccio di tipo astratto ed etico alla cultura.


“Compara i sistemi di comunicazione di diversi gruppi, considerandoli astrattamente o
comunque indipendentemente dalle forme effettive di interazione sociale”. Si configura
quindi come un’analisi delle differenze e una comparazione delle specificità della
comunicazione attraverso le culture. A differenza della comunicazione interculturale, che si
concentra soprattutto sulla comunicazione tra persone di diverse culture, la comunicazione
cross-culturale ha come proprio oggetto la comunicazione tra sistemi e l’analisi delle
differenze del comportamento comunicativo in quanto legate a differenze culturali.

d) La comunicazione interetnica riguarda la comunicazione tra gruppi etnici diversi all’interno


di una stessa cultura, per esempio l’interazione tra co-culture sullo stesso territorio.

e) La comunicazione interrazziale, si concentra sull’interazione tra i membri della cultura


dominante e altre co-culture sullo stesso territorio.

È dunque riconosciuta e istituzionalizzata la collocazione della comunicazione interculturale da un


ambito linguistico-antropologico all’ambito degli studi sulla comunicazione. Oggi in epoca di
globalizzazione e contatti multiculturali, la comunicazione non può non essere interculturale.
Perché questo passaggio non diventi riduttivo, va salvaguardata la ricchezza del retroterra
antropologico, sociologico e linguistico che ha caratterizzato la nascita della disciplina.
La comunicazione non verbale

La modalità originaria di esperienza dell’altro è la comunicazione interpersonale nella forma della


relazione faccia a faccia, che caratterizza in modo significativo e imprescindibile la nostra vita
quotidiana, nei diversi contesti che attraversiamo. Per comunicazione interpersonale si intende una
interazione comunicativa tra due o più soggetti, tendenzialmente in situazione di compresenza.
Tale tipo di comunicazione è caratterizzata da una grande varietà di elementi che entrano in gioco
oltre al linguaggio verbale, dalla possibilità di feedback e dalla interscambiabilità dei ruoli di
emittente e destinatario del messaggio.

La comunicazione interpersonale: verbale e non verbale

Nella comunicazione interpersonale sono in gioco due livelli:

1. Il livello della comunicazione verbale. Il comportamento linguistico consiste nella


produzione, per mezzo dell’apparato vocale, di suoni istituzionalizzati organizzati in modelli
anch’essi istituzionali. La comunicazione verbale richiede infatti la presenza di un codice
nel quale tradurre i messaggi da scambiare e una intenzionalità comunicativa, ovvero
l’intenzione consapevole di volere scambiare quel particolare messaggio in quel codice. La
lingua rappresenta un codice che deve essere condiviso dagli interlocutori perché la
comunicazione possa avere luogo. Questo pone il problema della traduzione o
dell’asimmetria nella competenza linguistica, qualora uno o più interlocutori debba parlare,
per comunicare, una lingua diversa dalla propria lingua madre. In quest’ultimo caso si
verificano delle difficoltà a padroneggiare le sfumature linguistiche e si produce una
maggiore insicurezza e asimmetria all’interno della situazione comunicativa. Il piano
verbale media soprattutto i contenuti scambiati nella comunicazione, anche se le scelte dei
termini, del modo di rivolgersi e così via, sono indicative sia del tipo di situazione
comunicativa, sia delle relazioni tra i partecipanti alla comunicazione, oltre che di eventuali
differenze di status.

2. Il livello della comunicazione non verbale (analogica). È tale perché presenta delle
“analogie” con il contenuto che comunica ad esempio, il gesto di portarsi il cibo alla bocca,
mima l’azione di mangiare in assenza di una competenza linguistica adeguata e così via. È
analogico ogni tipo di comunicazione che prescinde dall’uso di parole. Esso comprende
un’ampia gamma di comportamenti comunicativi in grado di trasmettere significati: la
postura e i movimenti del corpo, i gesti, le espressioni del viso e i movimenti oculari,
l’aspetto fisico, l’uso e l’organizzazione dello spazio, il modo di strutturare il tempo, le
sfumature del modo di parlare. Riveste un ruolo cruciale negli scambi comunicativi tra
persone appartenenti a diverse culture, ma anche nella comunicazione interpersonale in
quanto tale: secondo Hall, i nostri comportamenti siano solo in parte consapevoli, la
comunicazione non verbale è il luogo dove si manifesta l’”inconscio culturale”. L’inconscio
culturale dà forma alle nostre azioni: “la cultura controlla il comportamento in modo
profondo e persistente per lo più fuori dalla consapevolezza e quindi al di là del controllo
consapevole degli individui.

Ma la comunicazione non verbale può anche veicolare contenuti intenzionali. Per esempio, è ricca
di informazioni sull’immagine di sé che si vuole proiettare, sulla definizione delle situazioni e sulle
relazioni tra i partecipanti. Dato che è impossibile non avere un comportamento, è impossibile non
comunicare. Sapir ha definito la comunicazione non verbale come un codice elaborato e non è
scritto da nessuna parte, non è conosciuto da nessuno ma è compreso da tutti. Essa comprende
l’insieme delle modalità non verbali di dare forma al discorso (paralinguismo) e tuti gli elementi non
verbali e che non riguardano direttamente l’emissione vocale, come la mimica e la gestualità del
soggetto (cinesica), l’organizzazione delle distanze tra i soggetti (aptica) e degli elementi spaziali
(prossemica) e temporali (cronemica). La comunicazione non verbale in sintesi, si occupa dei
fenomeni comunicativi extralinguistici, che includono sia le variazioni consentite nell’ambito del
comportamento linguistico istituzionalizzato, sia i fenomeni di comportamento non linguistico.
La comunicazione verbale e non verbale non rappresentano due canali di comunicazione separati,
ma si integrano dando luogo a un flusso di informazioni che si avvale di più codici e di più canali.
Entrambi i livelli sono fondamentali per l’interazione, sebbene nella cultura occidentale
contemporanea si tenda ad attribuire una centralità molto maggiore al piano verbale. La relazione
tra la comunicazione verbale e non verbale può assumere diverse forme: si realizza una
convergenza quando tra le due modalità c’è sintonia e reciproco sostegno; si è in presenza di una
divergenza quando una delle due forme di comunicazione contraddice l’altra, dando luogo effetti di
menzogna o spiazzamento; si ha sostituzione quando, a fronte di una inadeguata competenza
linguistica, la comunicazione non verbale svolge il ruolo di trasmissione dei significati; si realizza
una funzione di regolazione quando la comunicazione non verbale serve a disciplinare quella
verbale, come nel caso in cui si distribuiscano con i gesti i turni di parola o si invitino con lo
sguardo i parlanti a terminare il loro discorso; si ha metacomunicazione quando una delle due
forme di comunicazione svolge la funzione di consentire l’interpretazione dell’altra. Anche la
metacomunicazione è in un certo senso una forma di divergenza, ma mentre la divergenza è
fondamentalmente non intenzionale, la metacomunicazione rappresenta un uso per lo più
consapevole dei canali comunicativi che mira a dare istruzioni su come interpretare il livello
verbale.

La comunicazione non verbale e la sua importanza

La comunicazione non verbale ha costituito, soprattutto a partire dal lavoro di Hall, l’oggetto
principale della comunicazione interculturale. La percezione e l’organizzazione dello spazio e del
tempo e il modo in cui i soggetti si muovono, si mettono in relazione e comunicano tra loro entro
queste dimensioni dell’esperienza, rappresentano infatti quell’elemento implicito della cultura
senza la comprensione del quale anche la componente esplicita della comunicazione risulta
difficile da interpretare, generando fraintendimento sia intra che interculturale. La prospettiva
culturalista, che vede la comunicazione non verbale come espressione della cultura, è condivisa
anche da Birdwhistell: essa mette l’accento sulle differenze culturali contrapponendosi in questo
alla concezione innatista che affonda le sue origini nella prospettiva evoluzionista di Darwin, e
sostiene l’universalità delle espressioni e la loro funzione di adattamento e risposta all’ambiente.
Le prospettive contemporanee tendono a enfatizzare piuttosto l’interdipendenza tra natura e
cultura. Come scrivono anche Samovar e Porter, “la cultura è principalmente un fenomeno
implicito e non verbale […] Il livello base della cultura è cominciato implicitamente, senza
consapevolezza, principalmente attraverso mezzi non verbali.” Ci sono situazioni in cui la
comunicazione non verbale acquista un’importanza molto superiore a quella verbale: per esempio,
nelle occasioni ufficiali e formali, la disposizione delle persone secondo il grado d’importanza.
All’estremo opposto, per esempio nelle situazioni altamente informali come quelle di intimità
affettiva, la dimensione della gestualità, del contatto corporeo, e così via, acquistano un ruolo
preponderante e fortemente indicativo della profonda relazione. Secondo Rogers e Steinfatt, si
possono identificare diverse ragioni dell’importanza della comunicazione non verbale:

1. La comunicazione non verbale non può essere evitata; anche la decisione di rimanere muti
e immobili significa qualcosa, sia essa la non volontà o l’incapacità di comunicare. Inoltre,
gran parte della comunicazione non verbale è non intenzionale;

2. La comunicazione non verbale, di solito precede quella verbale; prima ancora di parlare
abbiamo già comunicato una serie di messaggi, attraverso il nostro abbigliamento, postura
eccetera. Nei casi di incertezza e di scarsa padronanza della situazione, la comunicazione
non verbale gioca un ruolo critico nel determinare l’impressione iniziale che si è in grado di
produrre;

3. La comunicazione non verbale è generalmente ritenuta particolarmente affidabile; a causa


della difficoltà di controllare pienamente i messaggi non verbali, nel caso di una divergenza
con il livello verbale, si tende a dare maggiore credito alla comunicazione non verbale;

4. La comunicazione non verbale può essere fonte di profonde incomprensioni, specie


quando il messaggio verbale è insufficiente; questo è particolarmente vero se si adotta una
prospettiva interculturale, dal momento che gesti, colori, atteggiamenti che hanno un
significato entro un sistema culturale possono averne uno opposto in un altro. Se i
partecipanti a una situazione comunicativa non associano gli stessi significati alla
comunicazione non verbale, il risultato dell’interazione sarà il fraintendimento.
5. La comunicazione non verbale è particolarmente importante nelle situazioni di
comunicazione interculturale; quando le difficoltà linguistiche impediscono una
comunicazione fluida, la comunicazione non verbale acquista un ruolo decisivo. Per questo
è fondamentale imparare a conoscere le regole che valgono nei diversi contesti culturali.

Universalità delle espressioni

Un problema fondamentale da studiare nella cinesica è quello del confine esatto fra movimenti,
espressioni e atti istintivi, rispetto ai numerosi codici cinesici basati sulla cultura che quindi devono
essere appresi come qualsiasi sistema simbolico arbitrario inventato. Se dal punto di vista di una
gamma delle espressioni facciali e della loro correlazione con particolari stati d’animo alcuni autori
riconoscono la presenza di “universali transculturali”, dal punto di vista dell’ampiezza delle
espressioni e della loro pertinenza nelle diverse situazioni le variazioni tra le culture sono
considerevoli. È la cultura a stabilire gli standard, le condizioni e le modalità di espressione delle
emozioni. L’influenza della cultura sulla comunicazione non verbale può essere considerata
secondo due prospettive:

 Nella prima prospettiva, la cultura tende a determinare il comportamento non verbale che
rappresenta o esprime simbolicamente specifici pensieri, sentimenti o stati di chi comunica.

 Nella seconda prospettiva, la cultura determina quando è appropriato mostrare o


comunicare diversi pensieri, sentimenti o stati d’animo, questo è particolarmente evidente
nell’esternazione delle emozioni.

La cinesica

La cinesica nasce come disciplina socio-antropologica che studia la comunicazione attraverso le


posture e i movimenti del corpo e del volto, identifica e definisce il linguaggio del corpo e i suoi
“vocaboli”, ovvero i cinémi, intesi come fatti culturali. Intorno agli anni Cinquanta alcuni antropologi
e linguisti che svolgevano ricerche per il Fsi raccolgono una significativa quantità di materiale sui
movimenti del corpo, a partire da quella zona estremamente mobile ed espressiva che è il volto,
fino a includere l’intera gamma delle nostre modalità di occupare spazio con il corpo. Possiamo
comprendere nella cinesica la mimica facciale, la gestualità e la postura.

La fisiognomica

Il volto è il luogo in cui, nell’interazione comunicativa, concentriamo maggiormente la nostra


attenzione e rappresenta, ancora prima della comunicazione verbale, la prima fonte di informazioni
sull’interlocutore. La nascita della fisiognomica come scienza, è strettamente collegata alla
criminologia e in Italia è fondamentale l’opera di Lombroso. Inoltre, la fisiognomica si collega anche
ai tentativi numerosi nel XVIII secolo, di fondare il razzismo su basi “scientifiche”.

La mimica facciale

In realtà, se il determinismo fisiognomico è da tempo risultato privo di ogni fondamento scientifico,


non si può non negare che la fisionomia abbia una sua capacità comunicativa, ampiamente
utilizzata, per esempio, nel fumetto e nell’animazione. Il volto possiede un doppio registro
comunicativo, costituito di due livelli in relazione reciproca: la fisionomia, che non è un puro dato,
ma dipende dalla sedimentazione delle nostre espressioni e dalle tracce dei nostri vissuti e le
espressioni, vincolate alla fisionomia e alle abitudini espressive che prefigurano una gamma non
illimitata di possibilità. Il volto può essere considerato scomponibile in tre aree dalla diversa
capacità espressiva:

 L’area frontale, che comprende la fronte siano alle sopracciglia, è considerata nobile nella
cultura occidentale, in quanto sede del pensiero. Quest’area è scarsamente mobile e
presenta una limitata gamma di possibilità espressive.
 L’area mediana, è quella che comprende gli occhi e il naso, è estremamente espressiva,
non tanto per il naso che è scarsamente mobile. Gli occhi non sono solo espressivi in sé,
attraverso la vasta gamma dei loro possibili movimenti, ma soprattutto per la loro capacità
di stabilire un primo, pre- verbale livello di contatto intersoggettivo, oltre che un prezioso
canale di feedback comunicativo.

Il contatto oculare

Nel suo “excursus sulla sociologia dei sensi”, Simmel si esprime sul potenziale relazionale del
contatto oculare: “tra i singoli organi di senso, l’occhio è fatto per offrire una prestazione
sociologica assolutamente unica: la connessione è l’azione reciproca tra individui, che consiste nel
guardarsi l’un l’altro. Questa è la relazione reciproca più immediata e più pura che esista in
generale; e questo legame è così forte che viene sorretto soltanto dalla linea più breve, la linea
retta tra gli occhi, e la minima deviazione da questa, il più leggero guardare di fianco, distrugge del
tutto l’elemento caratteristico di tale legame. La reciprocità dello sguardo può essere inquietante
poiché lo sguardo rende oggetto ciò che vede, si preferisce guardare senza essere visti e si teme
l’effetto alienante dello sguardo altrui. Nella conversazione quotidiana, lo sguardo serve per
i8nviare e raccogliere informazioni, nonché per acquisire il feedback. Senza contatto oculare le
persone non hanno l’impressione di essere pienamente in comunicazione fra loro.

L’area inferiore

Benché meno nobile delle altre due aree, l’area inferiore del volto, che comprende la bocca e il
mento, è fortemente espressiva. La bocca è estremamente esplicita nelle sue capacità di
esprimere una vasta gamma di emozioni.

Il sorriso

Il sorriso è uno dei segnali fondamentali della specie umana. Il sorriso non è un segnale uniforme e
univoco, ma copre una gamma estesa di fenomeni assai diversi tra loro. Sono state individuate
varie configurazioni diverse di sorriso; si possono ricordare: il sorriso spontaneo, riguarda tutto il
volto intero e consiste nel sollevare gli angoli della bocca verso l’alto, mostrare i denti e contrarre i
muscoli orbicolari dell’occhio; il sorriso simulato, consiste nell’attivare soltanto i muscoli zigomatici
della parte inferiore del volto senza il coinvolgimento dei muscoli orbicolari; il sorriso miserabile,
manifesta l’accettazione di una condizione di necessità spiacevole e che comporta un
prolungamento dell’espressione nella zona inferiore del volto. Diversi studi hanno dimostrato come
il sorriso oltre ad avere funzioni psicologiche diverse tra loro, è strettamente connesso con
l’interazione sociale. Il sorriso va inteso come promotore di affinità relazionale, in quanto è
impiegato in condizioni di simpatia ed empatia, di rassicurazione e di rappacificazione al fine di
stabilire e mantenere una relazione amichevole con gli altri. Dunque, il sorriso è un comportamento
espressivo che segnala sentimenti positivi, come felicità, piacere, tenerezza, e un atteggiamento di
disponibilità relazionale, di vicinanza interpersonale, di volontà di affiliazione.

La gestualità

I gesti sono azioni motorie coordinate e circoscritte, volte a generare un significato e indirizzate a
un interlocutore, al fine di raggiungere uno scopo. I movimenti del corpo sono legati tanto a fattori
individuali quanto a elementi situazionali oltre che a caratteristiche culturali. Lo studio della
gestualità si concentra sui movimenti del capo, del busto, degli arti superiori e inferiori. La
gestualità è profondamente legata alla definizione della situazione, al ruolo che in essa si gioca,
oltre che al carattere della persona e alla sua appartenenza culturale. I gesti possono essere
descritti sulla base della loro velocità e della loro ampiezza. I gesti possono essere classificati in
una o più delle seguenti categorie:
 Emblemi: i segni con significato verbale traducibile;

 Illustratori: i segni che sottolineano il discorso verbale; possono essere:


o Bacchette: movimenti con cui si enfatizza una determinata parola o frase;
o Ideogràfi: movimenti che indicano una direzione di pensiero;
o Deittici: tesi a presentare un oggetto, una direzione, un evento a distanza indicandoli;
o Mimetici: imitano un’azione;

 Regolatori: gesti con funzione fàtica, che mirano a mantenere fluido il flusso della
conversazione, a disciplinare i turni di parola e i comportamenti, a sincronizzare gli scambi
comunicativi;

 Ostentatori di affetti: i vari movimenti facciali che mostrano dolore, gioia, disgusto, paura e
così via;

 Adattatori: movimenti di autoregolazione della posizione corporale o di regolazione del


rapporto tra due corpi, o del rapporto tra sé e gli oggetti, con funzione di allentamento della
tensione.

I linguaggi dei gesti

La gestualità può assumere forme più o meno codificate, dove i codici variano a seconda della
cultura o della subcultura di appartenenza. Tra le forme particolari si possono riconoscere i gesti
idiolettali, tipici di una persona o significativi entro un contesto ristretto. Come il linguaggio verbale,
anche quello dei gesti ha i suoi “gerghi”, le forme specialistiche che valgono e risultano condivise e
comprensibili solo in determinati contesti. Altri esempi sono i gerghi sportivi, quelli teatrali eccetera.
A un livello superiore di codificazione si trova la lingua dei segni utilizzata dai sordomuti, che
tuttavia non è universale, ma varia da paese a paese: in Italia è denominata LIS. Secondo
Goffman, la cultura presenta un repertorio di “gesti iper ritualizzati”, immediatamente riconoscibili
dai membri del gruppo e indispensabili per cogliere la definizione della situazione rispetto alla
quale allinearsi e organizzare le proprie azioni: si tratta di strumenti per semplificare la complessità
della realtà sociale ed evitare di esibire forme di incompetenza negative per il mantenimento della
propria immagine e per la possibilità di interazioni fluide con gli altri attori sociali.

La postura

Il modo in cui gli individui dispongono e controllano il proprio corpo nello spazio è la postura. Le
principali posture che possono essere assunte da un individuo rientrano in tre modelli: eretta,
seduta, rannicchiata o in ginocchio e distesa. Sull’atteggiamento posturale influiscono diversi
fattori: il patrimonio genetico, l’età e lo stato di salute; gli atteggiamenti psichici, come riflesso del
carattere o come legati alla situazione. Il volto invece, è il luogo privilegiato per l’espressione delle
emozioni specifiche, il corpo esprime stati d’animo più generali, come tensione, rilassatezza,
eccitazione, noia, interesse e così via. Come altri aspetti cinesici, la postura può tradurre le diverse
dimensioni culturali: per esempio l’immediatezza si rende visibile nell’inclinazione in avanti del
corpo, nella prossimità e nel contatto.

I tratti paralinguistici

Il termine “paralinguistica” è stato coniato da Trager. I tratti paralinguistici comprendono tutte le


componenti vocali non verbali del parlato come il tono, l’intensità e la velocità del parlato e le
emissioni vocali e non verbali come i suoni ehm, uhm o ah, che servono da riempitivi nell’eloquio.
La voce va intesa come una sostanza fonica, composta da una serie di fenomeni e processi vocali.
Fra di essi ricordiamo i principali:
a. I riflessi (starnuto, tosse o sbadiglio); i caratterizzatori vocali (riso, pianto o singhiozzo); le
vocalizzazioni (mhm, ah o eh);
b. Le caratteristiche extralinguistiche, intese come l’insieme delle caratteristiche anatomiche
permanenti ed esclusive dell’individuo; esse sono ulteriormente suddivise in caratteristiche
organiche e in caratteristiche fonetiche:

c. Le caratteristiche paralinguistiche, definite come l’insieme delle proprietà acustiche


transitorie che accompagnano la pronuncia di qualsiasi enunciato e che possono variare in
modo contingente da situazione a situazione

Anche i fenomeni paralinguistici come quelli cinesici, possiedono una funzione comunicativa, che è
anche culturalmente modellata. Si può dire che gli elementi paralinguistici svolgano una doppia
funzione: da un lato danno forma all’eloquio, contribuendo a specificare il contenuto; dall’altro
costituiscono un atto comunicativo in sé, che si rivela informativo di altri aspetti. Le variazioni
dell’eloquio possono dipendere da fattori biologici, come il sesso e l’età, dalla personalità del
parlante e dal suo umore, da fattori sociali come la provenienza geografica, il livello di istruzione, la
classe sociale e la professione.

Il potere comunicativo dello spazio: la prossemica

Nella comunicazione le persone non si limitano a scambiarsi la palla della conversazione, ma


mettono in atto una serie di comportamenti automatici che consentono alla vita quotidiana un
andamento fluido. Secondo Hall, come il linguaggio organizza il pensiero, così lo spazio organizza
le attività. Il potenziale comunicativo dell’organizzazione dello spazio è l’oggetto della prossemica:
“prossemica è il termine usato per le osservazioni e le teorie che concernono l’uso dello spazio
dell’uomo, inteso come una specifica elaborazione della cultura.” L’organizzazione dello spazio
rappresenta la dimensione nascosta della cultura, che produce e riproduce una grande quantità di
significati dentro i quali sappiamo muoverci, pur senza esserne consapevoli. La prossemica è il
linguaggio della prossimità e riguarda gli usi sociali comunicativi dello spazio e della distanza
interpersonale. Lo spazio è, insieme al tempo, la coordinata fondamentale della nostra esperienza
e una risorsa importante per darle un ordine. La dimensione spazio temporale è inerente alla
costituzione di ogni interazione sociale. Il nostro rapporto con lo spazio può essere sia passivo che
attivo: noi percepiamo lo spazio circostante, che ci arriva attraverso i nostri organi di senso e\o
agiamo nello spazio, dandogli una forma e un ordine.

Lo spazio percepito

I sensi ci offrono due tipi di percezione: una rivolta verso il soggetto che percepisce, l’altra rivolta
verso l’oggetto percepito, che viene così conosciuto. Ogni cultura ha il suo modo di valutare gli
apporti dei sensi. McLuhan definiva la cultura stessa come “un ordine di preferenze sensoriali”.
Persone di culture diverse non solo parlano lingue diverse ma abitano differenti mondi sensoriali:
filtri specifici, disposti secondo i condizionamenti culturali, orientano infatti la percezione, che non è
un fenomeno di pura registrazione di stimoli. Ciò che noi vediamo della realtà che ci sta di fronte, è
un processo di attenzione, selezione, valorizzazione rispetto al quale la cultura di appartenenza
gioca un ruolo significativo. La percezione come la psicologia della Gestalt ha messo in evidenza,
è una forma di interpretazione che privilegia una certa configurazione degli elementi osservati
attribuisce loro un significato, che a sua volta orienta il comportamento. I modelli di interpretazione
tendono a essere condivisi e rafforzati all’interno di gruppi culturalmente omogenei, dando luogo a
definizioni della realtà in cui essi si riconoscono e che orientano i comportamenti. L’appartenenza
culturale costruisce una serie di aspettative condivise che orientano il nostro modo di vedere il
mondo e di atteggiarci rispetto ad esso. I sensi sono usati in modi diversi da persone di diverse
culture. Benché la percezione non si riduca a un processo neurofisiologico, ma implichi una
componente culturale importante, il punto di partenza è rappresentato dagli stimoli che
attraversano i nostri sensi arrivano al cervello, dove vengono riconosciuti ed elaborati.
Alcuni dei nostri organi di senso possono essere definiti ricettori di distanza, poiché consentono di
percepire oggetti anche lontani: occhi, orecchie e naso.
Altri organi di senso sono i ricettori immediati, perché forniscono informazioni sull’ambiente
prossimo. Ognuno dei nostri organi di senso consente di identificare un tipo specifico di spazio.
Come afferma Hall, possiamo distinguere analiticamente, a seconda della dimensione sensoriale
che tende ad avere il sopravvento, tra uno spazio visivo, acustico, olfattivo, termico e tattile.

Lo spazio visivo

L’occhio ha la capacità di raccogliere molte informazioni, che riescono a essere precise fino a un
centinaio di metri di distanza. Naturalmente l’occhio non registra passivamente gli elementi che
entrano nel suo campo visivo, ma attribuisce rilevanza, seleziona e nota alcuna cose e non altre;
questo processo varia da cultura a cultura. L’occhio riesce a cogliere i tratti comuni, a favorire
generalizzazioni e astrazioni. La vista rileva i tratti che accomunano soggetti diversi da chi li
osserva in un’unica categoria che occulta le differenze specifiche tra di loro, mentre altri sensi si
presentano meglio a una relazione individualizzante: per esempio, sentire la voce di una persona,
dopo averla soltanto vista, fa procedere la relazione verso una maggiore individualità e verso
un’uscita dalla generalizzazione. Come scriveva McLuhan, “l’udito include, la vista esclude”.

Lo spazio acustico

Dal punto di vista della precisione informativa delle percezioni uditive, possiamo considerare
affidabili le informazioni fino ad una distanza più ridotta rispetto alla vista. A differenza dello spazio
visivo, che è uno spazio “esclusivo”, lo spazio acustico, è uno spazio “inclusivo”. A partire da una
sorta di fisiologia simbolica dell’orecchio, Simmel stabilisce delle differenze interessanti tra questi
due mondi sensoriali. Sotto il profilo sociologico, l’orecchio si differenzia dall’occhio per la
mancanza di quella reciprocità che lo sguardo istituisce tra occhio e occhio. Per sua essenza
l’occhio non può prendere senza contemporaneamente dare, mentre l’orecchio, prende ma non
dà. Possiamo considerare i diversi ambienti della nostra vita quotidiana come soundscapes,
ovvero paesaggi sonori. I suoni che ascoltiamo e riconosciamo non sono solo il mero risultato della
ricezione passiva dell’ambiente esterno. I nostri paesaggi sonori sono modellati dall’esperienza
culturale e dalla circostanza particolari in base alle quali scartiamo alcuni suoni, mentre
consideriamo e prestiamo attenzione ad altri. In un certo senso, noi stessi produciamo i mondi
sonori all’interno dei quali interagiamo.

Lo spazio olfattivo

L’odore, come afferma Hall, “è uno dei più primitivi e dei più fondamentali mezzi di
comunicazione”. Dal punto di vista neurofisiologico, la percezione degli odori inizia con l’ingresso
dal naso di sostanze, fino ad arrivare al nervo olfattivo e poi al cervello, in particolare, nell’emisfero
destro. Il cervello, elabora il segnale e produce la sensazione che associamo all’odore. La funzione
dell’olfatto è altamente informativa e importante sia nell’animale che nell’essere umano, perché
permette di riconoscere ciò che si ha davanti.

Esperienza, memoria e spazio olfattivo

L’olfatto, è considerato nel mondo occidentale, il senso della soggettività e in quanto tale, una
sorta di velo alla conoscenza oggettiva della realtà. L’olfatto, come l’udito, è un senso
coinvolgente: non solo perché crea un’intimità tra soggetti avvolti nella stessa atmosfera olfattiva,
ma anche perché funge da catalizzatore degli altri stimoli sensoriali di natura non verbale,
soprattutto nel ricordo. L’olfatto non svolge solamente una funzione soggettiva, ma può assolvere
funzioni sociali importanti; per esempio come i rituali. (Olfatto e sincronie sociali)

Rimozione e recupero dello spazio olfattivo

Le differenze tra gli odori, non svolgono solo una funzione informativa, offrendo preziose
coordinate all’orientamento individuale e contribuendo alla ricchezza dell’esperienza sensoriale,
ma svolgono anche un’importante funzione sociale, agevolando la costruzione dei rapporti di
intimità\ estraneità, inclusione\esclusione e, più in generale, l’organizzazione dello spazio sociale.

Olfatto e gusto

L’apparato olfattivo e quello gustativo sono in strettissima relazione tra loro: contigui e collegati
anche dal punto di vista anatomico, presentano una similitudine di funzionamento e interferiscono
reciprocamente. Sia le sensazioni olfattive sia quelle gustative, poi, sono difficili da rendere col
linguaggio verbale. Il gusto, si colloca all’incrocio tra il soggettivo della singola persona e
l’oggettivo della cultura di appartenenza e ha a che fare con il modo in cui gli esseri umani si
situano nella “trama simbolica” della propria cultura. È la cultura infatti, che definisce ciò che è
commestibile e ciò che non lo è, ciò che è buono da mangiare e ciò che è “disgustoso”, ciò che è
puro e ciò che è impuro; esiste una serie di regole che disciplinano i comportamenti alimentari. Il
gusto presenta anche una correlazione con le classi sociali, come aveva dimostrato Bourdieu in
una sua celebre ricerca, dalla quale appariva come certi gruppi sociali prediligano le quantità
abbondanti, i sapori forti, l’elevato apporto nutritivo dei cibi, mentre altri le piccole quantità,
l’estetica della presentazione eccetera.: il gusto sarebbe dunque un elemento di discriminazione
sociale, nonché parte di quel “capitale culturale” che si collega al capitale sociale e al capitale
economico. Ma anche il “gruppo dei pari” gioca un ruolo rilevante nella socializzazione al gusto. Il
gusto è un elemento culturalmente rilevante anche nella delimitazione dei confini tra le culture, e
diventa una chiave di accesso potenzialmente significativa agli universi culturali “altri”, così come
anche un potenziale ambito di distanziazione e semplificazione che produce stereotipi e pregiudizi,
dove spesso la differenza è marcata tramite l’identificazione spregiativa dell’altro con alcuni cibi o
habitus alimentari tipici della sua cultura.

Lo spazio termico

La pelle ha straordinarie capacità di emettere e avvertire calore raggiante. Ciascuno di noi tende a
emettere e ricevere segnali sulla propria condizione emotiva, con sbalzi di temperatura e afflusso
sanguigno alterato in alcune zone del corpo. L’aumenti di afflusso sanguigno provoca un aumento
della temperatura dell’area interessata. La temperatura è strettamente connessa all’esperienza
personale dell’affollamento. In un luogo troppo affollato cresce la temperatura e si generano diversi
tipi di relazioni. Le culture del non- contatto tendono a manifestare fastidio, per esempio, lasciando
il calore corporeo su una sedia.

Lo spazio tattile

Il tatto certamente è una delle nostre principali fonti di conoscenza e relazione: l’interazione
attraverso il senso del tatto costituisce uno dei fondamenti della socialità umana. L’esperienza di
toccare fisicamente qualcuno, ci assicura di essere in contatto sia con il mondo esterno sia con la
nostra interiorità. Uno dei principali modi in cui gli esseri umani s’interconnettono è tramite
l’interazione corporea, cioè l’atto di toccarsi. La pelle è la superficie estesa attraverso la quale
siamo coinvolti nell’intensa esperienza di interconnessione corporea con glia altri. Tatto e vista
sono inizialmente molto legati. Le mani costituiscono un “sistema esperto” che può essere allenato
ad un notevole grado di sensibilità (esempio lettura alfabeto Braille). Nella cultura occidentale,
occhio e mano si autonomizzano, e i due percorsi conoscitivi procedono separatamente; la vista
acquisisce, almeno nelle culture occidentali, un riconoscimento. Mentre, il “canale dermico” è
invece svalutato, e il tatto diventa in questa prospettiva una sorta di strumento conoscitivo più
primitivo, usato da chi non ha ancora sviluppato un’adeguata competenza visiva. L’aptica, studia il
tatto come forma di conoscenza e comunicazione. Il tatto è il senso della reciprocità, insieme attivo
e passivo; come ogni altro spazio sensoriale, anche quello tattile ha le sue convenzioni che sono
socialmente e culturalmente variabili. L’aptica svolge anche una funzione rituale rilevante nelle
diverse culture: dalla stretta di mano che ratifica un accordo alle diverse forme di saluto che
implicano contatto o sfregamento al divieto del contatto, che è ancora vigente in alcune culture.
Secondo McLuhan, per il quale i media sono estensioni dei nostri sensi, con la televisione si
inaugura l’era “elettrica” che ha un carattere “tattile”, intendendo con questo termine la
“convergenza sensoriale” e la sinestesia che il tatto, diversamente dalla vista che allontana e
esclude, sembra poter realizzare: “la tecnologia elettrica detronizza il senso della vista e ci
restituisce la sinestesia e le strettissime implicazioni tra gli altri sensi”. Infatti, di ciò che tocchiamo
sentiamo l’odore, la temperatura, la consistenza. L’annullamento della distanza, che è condizione
del contatto, restituisce una ricchezza e complessità di sollecitazioni sensoriali, intensificando il
senso di coinvolgimento.

Lo spazio agìto: i comportamenti spaziali

Con il nostro movimento nello spazio, in particolare con il nostro avvicinamento e allontanamento,
esprimiamo le nostre intenzioni di affiliazione o di distanza e più in generale organizziamo i nostri
territori.

Territorialità

Ogni corpo si situa in uno spazio e ne occupa una porzione e, a partire da tale collocazione, si
mette in relazione con l’ambiente circostante e con le persone che lo popolano. Chiamiamo “luogo”
la porzione di spazio significativa per noi e può anche essere definito come il “corrispettivo
fenomenologico”. All’interno del luogo tendiamo a ritagliarci delle aree privilegiate, fondamentali
per il nostro senso di sicurezza e per la nostra comunicazione con gli altri, che chiamiamo territori.
La territorialità è definita come la condotta caratteristica con cui un organismo afferma i propri diritti
su di un’area, difendendola contro membri della sua stessa specie. Secondo Hall, la territorialità è
una condotta infraculturale, dal momento che si tratta di un comportamento che precede la cultura,
ma che viene poi elaborato al suo interno. Ha a che fare con la presa di possesso e la difesa del
territorio. Fornisce una sfera di sicurezza. Ha funzioni personali e sociali, ed è oggetto di
rivendicazione, come esplicitazione del diritto al possesso, al controllo, all’uso o alla disponibilità.
Lo spazio che fa da teatro alle nostre azioni e interazioni è diversificato. Hall distingue tra uno
spazio preordinato, semideterminato e uno informale: la nostra capacità di prendere possesso del
territorio e di piegarlo alle nostre esigenze comunicative cresce col decrescere della
predeterminazione dello spazio e raggiunge quindi la pienezza delle sue possibilità nello spazio
informale.

1. Lo spazio preordinato è alla base dell’organizzazione delle attività individuali e sociali (il
paesaggio urbano, gli edifici e la loro struttura, ne sono un esempio). Questi costituiscono
un po' lo stampo in cui si riversa e si modella gran parte del nostro comportamento senza
che noi possiamo fare nulla per alterarlo. Lo spazio preordinato ha una funzione
disciplinante.

2. Lo spazio semideterminato è quello che può subire delle modifiche, che a loro volta
agiscono sul tipo di attività e socialità che può avere luogo in un ambiente (ad esempio, la
sistemazione dei mobili in una stanza appartiene a questa dimensione spaziale). Come
nota Hall, ciò che è determinato in una cultura può non esserlo in un’altra.

3. Lo spazio informale è quello che viene organizzato intenzionalmente e con relativa libertà
in funzione della relazione e della comunicazione.

Territori e relazioni

La territorialità delimita sia lo spazio dell’esclusione, sia i perimetri di aree relazionali. Come scrive
Goffman, i territori variano a seconda della loro organizzazione:
Alcuni sono fissi, geograficamente delimitati, attribuiti a un rivendicante (i campi, recinti, le case ne
sono esempi). Alcuni territori sono invece situazionali; fanno parte dell’equipaggiamento fisso
dell’ambiente, ma sono resi accessibili alla gente come beni che è possibile rivendicare finché
sono in uso (le panchine, i tavoli del ristorante ne sono esempi). Ci sono infine le riserve
egocentriche che si spostano con il rivendicante, che ne è il centro (le borse ne sono un esempio).
I movimenti dello spazio vengono usati come mosse durante l’interazione sociale, che segnalano
l’inizio e la fine dell’interazione, ne è un esempio il grado di formalità dell’incontro o la definizione
della situazione.

Territori del Sé

Goffman identifica una serie di possibili articolazioni della territorialità dell’individuo, che riguardano
sia la dimensione situazionale che il Sé, osservando che più è elevato il livello sociale, più ampia è
la dimensione di tutti i territori del Sé e maggiore è il controllo sui loro confini, tanto che le intrusioni
vengono vissute come vere e proprie “offese territoriali”.

1. Lo spazio personale è quello spazio circostante di un individuo, il cui ingresso di un’altra


persona in un punto di questo spazio provoca nell’individuo in questione la sensazione di
essere insediato. È uno spazio che si configura come un contorno ed è un territorio mobile.
La rivendicazione di questo spazio varia molto a seconda delle situazioni: Goffman trae una
serie di esempi significativi dalla vita quotidiana che vanno dai comportamenti spaziali che
si assumono. Il nostro comportamento si muove tra due opposte tendenze, ovvero quella di
ottenere il massimo di distanza dagli altri e quella di evitare di produrre un’impressione di
fuga, che potrebbe però risultare offensiva.

2. Il posto è uno spazio oggetto di rivendicazione temporanea, normalmente legata all’uso; il


posto può essere fisso nell’ambiente oppure portatile. A differenza dello spazio personale, il
posto può essere temporaneamente abbondonato, continuando a mantenere una
rivendicazione su di esso. Ha limiti esterni facilmente visibili e difendibili.

3. Lo spazio d’uso è il territorio immediatamente intorno o di fronte all’individuo, che può


rivendicarlo per un’evidente necessità strumentale.

4. Il turno è l’ordine in cui in una situazione specifica un rivendicante riceve rispetto ad altri un
bene di qualche tipo. Il turno può essere marcato da contrassegni o da dispositivi
mnemonici come la fila.

5. Il rivestimento è la pelle che copre il corpo o i vestiti. Il corpo è culturalmente segmentato in


zone cui si presta maggiore o minore attenzione e che sono più o meno protette dal
contatto con l’esterno.

6. Il territorio di possesso è costituito dall’area che l’individuo possiede, ha in uso esclusivo o


controlla. È lo spazio della privacy e dell’intimità sociale. Comprende l’insieme degli oggetti
che possono essere identificati con il Sé, e il controllo sugli elementi che costituiscono
l’ambiente prossimo del soggetto.

7. La riserva di informazioni è l’insieme dei fatti che riguardano un individuo e rispetto ai quali
si cerca di controllare l’accesso (le password sono un esempio).

8. La riserva di conversazione è relativa al diritto di un individuo di proteggersi dagli inviti alla


conversazione, così come al diritto di un gruppo di proteggere la propria conversazione
dall’ingresso o dall’ascolto di estranei.

I territori domestici

Quando l’unità di osservazione non è l’individuo, ma il gruppo, è possibile identificare aree spaziali
frequentate abitualmente da gruppi particolari e rivendicate come territori di possesso in quanto
fortemente legate al senso di identità. Possiamo identificare almeno alcune aree che sono rilevanti
per la definizione della nostra identità, per il nostro senso di sicurezza e per le relazioni
significative per noi, e osservare come dalla definizione di territorio sia costitutiva la distinzione
dentro\fuori, e nel mantenimento di suoi confini la costruzione di meccanismi di esclusione\
inclusione. C’è una territorialità:

1. geografica delimitata da confini che coincidono con quelli degli stati nazionali, per definire e
difendere i quali tanto si è combattuto a partire dalla modernità.

2. pubblica, intesa come quell’insieme di aree accessibili ma regolate da norme di


comportamento, spesso espresse in forma simbolica, che se trasgredite comportano
sanzioni.

3. sociale, diversificata al proprio interno in una varietà di formazioni di gruppi e subculture,


ciascuno con i propri luoghi di aggregazione e i propri segni distintivi che costituiscono
potenti strumenti di inclusione ed esclusione.

4. domestica in senso stretto, riguarda l’area percepita come luogo abituale dell’intimità e del
radicamento, in cui ci si sente a proprio agio e che si percepisce come soggetta al proprio
controllo, almeno da punto di vista emotivo si presenta come estremamente coinvolgente
(un esempio è la casa).

La casa è un territorio suddiviso in aree funzionali e relazionali: nel mondo occidentale si tende a
destinare singole stanze a funzioni specifiche, distinguendo tra aree pubbliche e private, mentre in
altre culture, lo spazio è polifunzionale.

La distanza sociale

La distanza tra le persone è generalmente un buon indicatore delle relazioni tra soggetti. Gli studi
hanno consentito di individuare quattro tipi di distanza tra gli animali, che possono essere trasposti
anche alle relazioni intrapersonali. In particolare, la distanza può essere:

1. Di fuga: è quella a cui ci si lascia avvicinare da un nemico potenziale, oltre la quale si


fugge;

2. Critica: è l’intervallo che separa la distanza di fuga dalla distanza di attacco;

3. Personale: è la distanza che si intrattiene con i propri simili;

4. Sociale: è la distanza oltre al quale l’individuo perde contatto col gruppo.

Il territorio personale si organizza secondo diversi tipi di distanza, indicativi delle relazioni:

1. La distanza intima, che va dalla superficie corporea a qualche centimetro di distanza, lo


spazio occupato dall’avambraccio. A questa distanza gli stimoli sensoriali sono molteplici e
intensi. Rappresenta un’area a cui ha accesso solo chi è con noi in una relazione di
intimità, rispetto alla quale siamo noi a decidere chi è autorizzato ad accedere e in quali
circostanze;

2. La distanza personale, è la distanza che teniamo dalle persone di cui abbiamo fiducia. A
questa distanza è possibile il tatto attivo e passivo, ma l’olfatto è scarsamente utilizzabile;

3. La distanza sociale, è la distanza delle relazioni meno personali come per esempio, la
distanza di sicurezza per parlare con uno sconosciuto;

4. La distanza pubblica, è quella che si mantiene in situazioni pubbliche e ufficiali, quando si


comunica a un numero elevato di persone. Rende necessaria un’enfasi nella
comunicazione verbale e nella gestualità. In molti casi viene mantenuta attraverso una
disposizione preordinata dello spazio o attraverso misure di sicurezza.
La distanza appropriata quindi, viene definita in funzione:

a. Dell’attività

b. Della relazione

c. Della cultura: i criteri della distanza o della vicinanza sono legati e variabili culturali come
l’individualismo o il collettivismo, l’alto o il basso contatto, le caratteristiche e la gamma di
comportamenti appropriati attribuiti ai diversi generi e così via.

Se la territorialità, come sosteneva Hall, è un prolungamento del corpo umano, le diverse protesi
tecnologiche di cui oggi siamo dotati possono essere considerate a pieno titolo prolungamenti del
Sé e strumenti di ridefinizione territoriale che ci costringono anche a ripensare gli strumenti
interpretativi della comunicazione non verbale, sulla base dell’accessibilità reciproca degli attori e
della direzione della comunicazione.

L’azione creatrice di territori: rispazializzazione e flussi

Lo spazio non è solamente un dato ma è anche qualcosa che noi produciamo, a cui diamo forma
attraverso il nostro movimento e le reti di relazioni che tessiamo. Il modo di descrivere e
interpretare lo spazio nella modernità è stato principalmente quello della mappa. La prossemica e
gli studi sulla territorialità, con il loro tentativo di mappare una realtà mobile come quella della
distanza interpersonale, attraverso l’associazione di certe configurazioni di oggetti e persone a
significati sociali, che si collocano in un certo senso al confine tra i sistemi spaziali, che definiscono
un ordine e le operazioni spazializzanti, ovvero le azioni che organizzano lo spazio, delle
“operazioni organizzatrici di territori”. In questa prospettiva lo spazio non è un insieme ordinato e
uniforme, ma un’unità polivalente di programmi conflittuali e di prossimità contrattuali. Il movimento
dei soggetti ristruttura lo spazio: anche lo spazio predetermianto può diventare almeno
semideterminato, se trasformato da strategie di microesistenza che ridefiniscono, se non la
struttura dello spazio, almeno i suoi significati e la gamma di azioni possibili al di là di quelle
prefigurate e incorporate nell’ordine spaziale. Più che le mappe, sono i percorsi e le traiettorie degli
attori sociali a dare ordine e senso allo spazio, disegnando nuove “geografie di azioni”. Lo spazio è
un incrocio di entità mobili. È in qualche modo animato dai movimenti che si verificano al suo
interno. È spazio l’effetto prodotto dalle operazioni che l’orientano, lo circostanziano, lo
temporalizzano e lo fanno funzionare come unità polivalente di programmi conflittuali o di
prossimità contrattuali. Dal momento che il movimento di ciascuno incontra, ostacola, si scontra
con quello dia altri, si producono inevitabilmente conflitti, negoziazioni, nuovi regimi d’ordine, per
quanto locali e provvisori. Spazio e tempo si intrecciano nella dimensione del flusso, che meglio di
ogni altra coglie il carattere fondamentale della contemporaneità. I flussi sono sostenuti da network
di infrastrutture e soprattutto di relazioni.

I territori di chi non appartiene

Come scrive Simmel, lo spazio si presenta come un insieme di unità contornate da confini, che
costituiscono i territori dei gruppi sociali. Noi concepiamo lo spazio riempito in un senso qualsiasi
da un gruppo sociale come un’unità che esprime e sorregge l’unità di quel gruppo nello stesso
modo in cui è sorretta da esso. La cornice, il confine in sé concluso di una formazione, ha per il
gruppo sociale un’importanza molto simile a quella che ha per un’opera d’arte. in questa esso
esercita le due funzioni di delimitare l’opera d’arte. in questa esso esercita le due funzioni di
delimitare l’opera d’arte rispetto al mondo circostante e di chiuderla in sé stessa; la cornice,
proclama che al suo interno si trova un mondo soggetto soltanto a norma proprie, che non è
inserito nelle determinatezze e nei movimenti del mondo circostante. Raramente ci si rende conto
di come l’estensione dello spazio venga mirabilmente incontro all’intensità delle relazioni
sociologiche. Così come la delimitazione territoriale svolge un ruolo fondamentale nel sostenere
legami di appartenenza, così rappresenta altresì un potente strumento di massa a distanza e di
esclusione sociale (un esempio è il ghetto). La messa a distanza e la segregazione come puro
rifiuto della “contaminazione”, sono logiche che si ripropongono anche in condizioni profondamente
mutate, quali quelle contemporanee segnate dalla crisi e dalla ridefinizione continua dei luoghi. Un
paradigma di questa trasformazione è dato da quei non- luoghi, proliferanti nel mondo
contemporaneo, rappresentati dalle cosiddette emergency temporary locations, di fatto aree di
istituzionalizzazione di una precarietà disumanizzante.

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