CAPITOLO 1
La svolta comunicativa inserisce la comunicazione tra i temi fondamentali da indagare per comprendere le
dinamiche sociali, essa si sviluppa in opposizione alla teoria dell’azione razionale di Max Weber. Per cui si
assiste al tramonto della sociologia classica e in questo modo il soggetto dell’azione perde spessore e
intenzionalità progettuale. Si sviluppano quindi delle micro teorie della sociologia contemporanea, che sono
quelle di Schultz, Garfinkel, Goffman e Habermas. In generale le micro teorie della svolta comunicativa
sostengono che la realtà viene definita e interpretata nello scambio interattivo, è una costruzione sociale su
cui mettersi d’accordo. Il senso dell’azione quindi preesiste, in buona parte, come senso comune dato per
scontato, rielaborato e incrementato da tutti nel contesto comunicativo dell’interazione. La razionalità a
questo punto coincide con la ragionevolezza del senso comune, è una dimensione che viene riconosciuta
riflessivamente, infatti un’azione è giunta a buon fine se la pratica interattiva ha funzionato e gli “attori” si
sono trovati d’accordo.
SCHULTZ
Per Schultz il primo livello da indagare è l’esperienza della vita quotidiana, che, per lui, è intrisa di fisicità.
Il mondo infatti è alla mia portata attuale. La vita quotidiana è mediata da ‘tipizzazioni’ che la collocano
sensatamente nel contesto delle altre esperienze. Le tipizzazioni sono costrutti ereditati da ‘predecessori’.
La comunicazione è dunque la lettura dell’altro attraverso i suoi gesti o parole che mettono in contatto l’altro
con la sua individualità, per cui il corpo è percepito come un oggetto materiale importante per i suoi
contenuti immateriali, ma la sua materialità è l’unico accesso ai suoi significati. Nella comunicazione si crea
un comune contesto comunicativo che parte dal presupposto dell’interscambiabilità dei punti di vista e delle
differenze di ‘sistemi di attribuzioni di importanza’ e il senso comune è il presupposto di ogni
interpretazione e attribuzione di senso ed esso è costituito da conoscenze e convinzioni che ereditiamo dai
nostri ‘predecessori’. C’è quindi, nel rapporto faccia a faccia, una fiducia nella possibilità della
comunicazione.
Schultz inoltre distingue tra senso soggettivo del vissuto, che non è mai del tutto penetrabile nemmeno dal
soggetto stesso, e senso oggettivo del vissuto, che è invece ricostruibile a posteriori in modo riflessivo.
Inoltre, in opposizione alla teoria dell’azione razionale, Schultz parla di province di significati e non di sub
universi poiché sostiene che è il significato delle nostre esperienze, e non la struttura ontologica degli
oggetti, a costruire la realtà. A questo proposito Berger e Luckmann, due suoi seguaci, sostengono a favore di
questa tesi che la realtà percepita come strutturalmente salda è di fatto salda rispetto al singolo individuo
perché da lui non dipende ma è ‘costruzione sociale’. Quindi non agiamo razionalmente ma tramite le
tipizzazioni che sono un tentativo di razionalizzare (ma non tipo mezzi-fini), in quest’ottica dunque i valori
non sono più decisioni ultime per il bene o per il male, sono macro definizioni della realtà istituzionalizzate
e legittimate. Praticabilità e rilevanza sono invece i concetti che spiegano le scelte individuali (cognitivo-
pratico).
GARFINKEL
Per Garfinkel la realtà non è distinguibile dai metodi usati per farla sembrare tale, lui infatti parla di
etnometodi, la realtà è costruita nella pratica, dalle attività dei suoi membri come dalle spiegazioni che ne
danno. La riflessività è l’attivazione di produzione di senso data per scontata sui quali gli individui si
accordano. L’ordine morale quindi consiste in attività quotidiane governate da regole e la morale viene a
coincidere con il senso comune. La pratica riflessiva quindi consiste nella proposta di azioni e discorsi
ritenuti ragionevoli in un certo contesto spazio- temporale. Per cui il senso intenzionale del soggetto passa in
secondo piano, la comunicazione tra individui è meno importante del risultato. Garfinkel introduce il
concetto di discorso\ account dotato di senso proprio perché è previsto che sia ‘accountabile’, ulteriormente
riferibile, cioè possa diventare parte di un account futuro il quale sarà diverso dall’account originario.
GOFFMAN
CAPITOLO 3
La società post moderna prevede flussi di mobilità sociale e una classe media sempre più articolata, il
movimento di differenziazione e di imitazione porta al rinnovamento periodico dell’abbigliamento e ad
estenderlo a cerchie più vaste della popolazione. Baudrillard, sociologo, propone che gli oggetti della società
dei consumi vadano indagati come un sistema di segni che cristallizzano le gerarchie sociali. Per Lasch e
Urry l’estetizzazione della produzione è il motore della post moderna ‘economia dei segni’. Crane invece
afferma che ci sono ‘tre distinte categorie di moda: quella firmata di lusso, quella industriale e gli stili di
strada’. Ma la molla dei comportamenti alla moda non è solo l’emulazione dall’altro verso il basso (trickle
down), ma c’è una strumentalizzazione degli street style da parte degli stilisti (bottom up). Il mercato quindi
mira alla creazione di linee diverse per diverse nicchie di mercato (fast fashion). Horkheimer e Adorno
hanno coniato il termine ‘industria culturale’ per riferirsi alla standardizzazione della cultura, ovvero
scadenti produzioni seriali che tendono ad addormentare le menti del pubblico, ne fa parte anche la cultura
trasmessa dai mass media che invece chiamiamo ‘mass culture’. Gli abiti sono oggetti materiali che
rispondono anche o soprattutto a nostri bisogni immateriali, sono perciò da considerare ‘oggetti culturali’.
Si arriva poi alla Popular Culture ovvero la cultura come costruzione cui tutti contribuiscono, una
produzione umana. Tutti ne sono responsabili e non è più esclusivamente in mano alla classe dominante e
passivamente fruita dalla massa della popolazione, non esistono più cesure rigide tra chi produce e chi
consuma. Quindi il consumo è visto non tanto come un uso, ma come un a pratica di riuso e i consumatori
sono ‘produttori misconosciuti’ e che non possiedono le ‘strategie’ organizzate dal potere ma possono
controbattere con ‘tattiche’ a sorpresa. La società della produzione e del consumo di massa funziona proprio
perché i beni sono continuamente riformulati in modi più belli o interessanti, tipico di settori come la moda
in cui i prodotti hanno un valore sul mercato perché riescono a vendere un’idea. Quindi ciò che si vuole
vendere\acquistare non è solo un simbolo di status o di distinzione ma è un elemento identitario che offre
una delle possibili autoidentificazioni. Infatti, versioni diverse dell’oggetto di moda, sue interpretazioni,
sono proposte da attori diversi; attraverso l’oggetto si propone una momentanea interpretazione di sé.
Il paradosso della Popular Colture risiede nella riappropriazione da parte dei consumatori della proposta
avanzata dall’industria culturale. Le pratiche di ‘resistenza’ (John Fiske) impongono alla cultura dominante
di confrontarsi con i gusti del pubblico. La moda offre una proposta ciclica di cambiamento più formalizzata
che negli altri settori. Ma ciò che a lungo si è inteso come moda è sempre meno incidente sul comportamento
e contano più le mode culturali del momento. Esisto più mode e questo implica che gli abiti diventino una
nostra risorsa identitaria, la moda dunque va vista come il risultato di una negoziazione tra attori singoli e
collettivi dotati di potere economico e simbolico differenziato ma di analoga capacità di significare. Se
l’abito è lo strumento per rappresentare la propria identità, la partita tra libertà e costrizione si rigioca ogni
giorno.
Esistono quindi due tipi di imprenditori: chi, investendo in modo identitario nella propria attività, è come
se vendesse elementi utili per la costruzione della propria identità; e chi invece è consapevole di lavorare
sui significati per precise esigenze di mercato. Entrambi manipolano i significati anche come consumatori.
È una cultura del consumo per niente in contrasto con la passione lavorativa, sono ‘nuovi intermediari
culturali’ che credono così tanto in quello che fanno da consumarlo (Bourdieu). La loro produzione culturale
di connessioni sembra tesa all’elaborazione di connessioni piuttosto che di barriere.
CAPITOLO 4
Mettendo a confronto la dimensione estetico emotiva della moda con quella razionale, viene fuori che a
ragione ha un ruolo variabile e si intreccia in ogni caso con quella delle emozioni, del sentire estetico, del
gusto. L’abito riveste il corpo che il mezzo primario per rappresentarsi; l’abito è una specie di membrana che
sistema il corpo per la rappresentazione in società. Si può prevedere un’organizzazione razionale di questa
performance? Per le industrie creative si tratta di un ‘mercato estetico’, in cui il calcolo economico
CAPITOLO 5
La cultura postmoderna è una cultura attendista, che non giudica e osserva i molti stili e li combina in una
patchwork imprevedibile. La cultura postmoderna sembra interessata solo all’apparenza, all’estetica, ma per
principio non esclude niente. L’estetica ha sempre guidato la scelta dell’abito, ma non esiste un bello
assoluto, di conseguenza la ricerca estetica è dunque spesso strumentale a qualche altro scopo. Per Inglehart
i valori postomoderni sono valori post materialistici. Quindi i consumo non è più un soddisfacimento dei
bisogni ma più una ricerca di esperienza di senso identitario.
L’incapacità di mettere da parte qualcosa per qualcos’altro è chiamata ‘onnicomprensiva ambivalenza’ cioè
la necessità di mantenere aperta la propria identità, non precludere niente. C’è un interesse rivolto a
mantenere intatta la differenza dall’altro e il suo diritto alla differenza, trovando quindi piacere nella libertà
degli altri e assumendosi la responsabilità della loro unicità. L’altro mette in discussione ciò che è dato per
scontato, ma esso non è totalmente altro da me. Si parla di ‘modernità liquida’ dove si dissolvono le
distinzioni categoriali. Nell’identità composita c’è un po’ anche dell’altro e quindi il consumo pensa anche
agli altri ed è quindi critico e responsabile.
C’è dunque una nuova possibilità: non dover scegliere drasticamente tra etica ed estetica. Produttori e
consumatori cercano di opporsi alle logiche mainstream o cercano di cambiarle, per cui la certificazione del
biologico o del fair trade possono diventare nuovi brand, nuovi meccanismi reputazionali che puntano alle
qualità sostenibili del prodotto. Le nuove tendenze del consumo rendono morali le nostre scelte e
l’innovazione non è più solo di tipo estetico ma anche morale.
L’immaginazione estetica (IE), ovvero le nostre aspirazioni a un mondo migliore e il potenziale informativo
anche sui popoli lontani ci spinge ad assumerci responsabilità di portata globale, a decolonizzare
l’immaginario, a decentrare le decisioni. Ulrich Beck parla di una prospettiva cosmopolitica. La
cosmopolizzazione intende situare in una dimensione globale questioni fondamentali di ogni tipo.
Apppadurai parla di immaginazione come pratica sociale; immaginazione mass-mediale.
Richard Wilk sostiene che la teoria economica moderna costituisce un paradossale parallelismo tra la vita
degli oggetti e la vita umana. La moda etica sia a livello di senso comune sia come ricerca sociologica è
infatti emersa solo recentemente.
La moda è l’industria culturale per eccellenza e fa della sperimentazione la sua ragion d’essere, smonta la
mentalità dicotomica mostrandone l’obsolescenza e la debolezza costitutiva. Nella moda etica la scelta
economica e quella morale ed estetica trovano equilibrio, oltre ad arricchire di significati la produzione di
moda. Si parla di ‘object-centered sociality’ e ‘emotional home’, in quanto l’oggetto culturale è il
catalizzatore di sentimenti, discorsi e relazioni. La moda è una produzione intellettuale, un lavoro non
alienante in cui gli oggetti hanno un ruolo socializzante, in cui le strategie della produzione possono essere
trasformate in socialità diffusa.
I fashion blogger mettono in atto il processo di deprofessionalizzazione del settore che contrasta poteri
d’influenza consolidati. L’antinomia tra estetica ed etica viene smontata da una nuova sensibilità del
consumatore che ha dilatato la propria competenza da fornire precetti morali e a sindacare sulla
responsabilità sociale delle imprese. La moda è estetica dell’effimero che spinge al consumo compulsivo ma
anche in direzione opposta verso consumi lenti. Scott Lash dopo la ‘riflessività estetica’ introduce il concetto
di ‘riflessività ermeneutica’ o più semplicemente ‘riflessività etica’. La condivisione no profit di contenuti