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RAPPRESENTARSI NEL

MONDO, LAURA BOVONE


Sociologia Della Comunicazione
Università degli Studi di Roma La Sapienza
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RAPPRESENTARSI NEL MONDO LAURA BOVONE

CAPITOLO 1
La svolta comunicativa inserisce la comunicazione tra i temi fondamentali da indagare per comprendere le
dinamiche sociali, essa si sviluppa in opposizione alla teoria dell’azione razionale di Max Weber. Per cui si
assiste al tramonto della sociologia classica e in questo modo il soggetto dell’azione perde spessore e
intenzionalità progettuale. Si sviluppano quindi delle micro teorie della sociologia contemporanea, che sono
quelle di Schultz, Garfinkel, Goffman e Habermas. In generale le micro teorie della svolta comunicativa
sostengono che la realtà viene definita e interpretata nello scambio interattivo, è una costruzione sociale su
cui mettersi d’accordo. Il senso dell’azione quindi preesiste, in buona parte, come senso comune dato per
scontato, rielaborato e incrementato da tutti nel contesto comunicativo dell’interazione. La razionalità a
questo punto coincide con la ragionevolezza del senso comune, è una dimensione che viene riconosciuta
riflessivamente, infatti un’azione è giunta a buon fine se la pratica interattiva ha funzionato e gli “attori” si
sono trovati d’accordo.
SCHULTZ
Per Schultz il primo livello da indagare è l’esperienza della vita quotidiana, che, per lui, è intrisa di fisicità.
Il mondo infatti è alla mia portata attuale. La vita quotidiana è mediata da ‘tipizzazioni’ che la collocano
sensatamente nel contesto delle altre esperienze. Le tipizzazioni sono costrutti ereditati da ‘predecessori’.
La comunicazione è dunque la lettura dell’altro attraverso i suoi gesti o parole che mettono in contatto l’altro
con la sua individualità, per cui il corpo è percepito come un oggetto materiale importante per i suoi
contenuti immateriali, ma la sua materialità è l’unico accesso ai suoi significati. Nella comunicazione si crea
un comune contesto comunicativo che parte dal presupposto dell’interscambiabilità dei punti di vista e delle
differenze di ‘sistemi di attribuzioni di importanza’ e il senso comune è il presupposto di ogni
interpretazione e attribuzione di senso ed esso è costituito da conoscenze e convinzioni che ereditiamo dai
nostri ‘predecessori’. C’è quindi, nel rapporto faccia a faccia, una fiducia nella possibilità della
comunicazione.
Schultz inoltre distingue tra senso soggettivo del vissuto, che non è mai del tutto penetrabile nemmeno dal
soggetto stesso, e senso oggettivo del vissuto, che è invece ricostruibile a posteriori in modo riflessivo.
Inoltre, in opposizione alla teoria dell’azione razionale, Schultz parla di province di significati e non di sub
universi poiché sostiene che è il significato delle nostre esperienze, e non la struttura ontologica degli
oggetti, a costruire la realtà. A questo proposito Berger e Luckmann, due suoi seguaci, sostengono a favore di
questa tesi che la realtà percepita come strutturalmente salda è di fatto salda rispetto al singolo individuo
perché da lui non dipende ma è ‘costruzione sociale’. Quindi non agiamo razionalmente ma tramite le
tipizzazioni che sono un tentativo di razionalizzare (ma non tipo mezzi-fini), in quest’ottica dunque i valori
non sono più decisioni ultime per il bene o per il male, sono macro definizioni della realtà istituzionalizzate
e legittimate. Praticabilità e rilevanza sono invece i concetti che spiegano le scelte individuali (cognitivo-
pratico).
GARFINKEL
Per Garfinkel la realtà non è distinguibile dai metodi usati per farla sembrare tale, lui infatti parla di
etnometodi, la realtà è costruita nella pratica, dalle attività dei suoi membri come dalle spiegazioni che ne
danno. La riflessività è l’attivazione di produzione di senso data per scontata sui quali gli individui si
accordano. L’ordine morale quindi consiste in attività quotidiane governate da regole e la morale viene a
coincidere con il senso comune. La pratica riflessiva quindi consiste nella proposta di azioni e discorsi
ritenuti ragionevoli in un certo contesto spazio- temporale. Per cui il senso intenzionale del soggetto passa in
secondo piano, la comunicazione tra individui è meno importante del risultato. Garfinkel introduce il
concetto di discorso\ account dotato di senso proprio perché è previsto che sia ‘accountabile’, ulteriormente
riferibile, cioè possa diventare parte di un account futuro il quale sarà diverso dall’account originario.
GOFFMAN

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Goffman sostiene che ci sia un ordine dell’interazione, un insieme di regole implicite condivise dagli
‘attori’ e occasionalmente riaggiustato a partire da un frame condiviso, il frame è la cornice in cui viene
inserita la nostra interazione ‘un consenso operativo’ e contribuisce il contesto in cui gli attori interagiscono.
Non esiste contesto così informale da sfuggire all’ordine dell’interazione, infatti ogni incontro, anche il più
casuale, tende ad auto organizzarsi. Si dà quindi rilevanza agi aspetti pratico- normativi come appunto le
competenze teatrali, gestuali, di sguardi, movimenti e intonazioni che offrono ulteriori informazioni. Di
conseguenza la realtà è ipotizzabile da sintomi o segni, da performance che offre del Self un’immagine
complessa e non univoca. in questa ottica la morale è rilevabile solo osservando le pratiche della vita
quotidiana, perché in queste pratiche si intrecciano diversi tipi di regole, pertinenti all’ordine ‘sostanziale’.
Sono regole rituali che riguardano l’ordine interattivo della rappresentazione quotidiana. A questo punto
Goffman fa una distinzione tra ‘etica’ che governa le regole e le espressioni sostanziali e ‘l’etichetta’ che
governa le regole e le espressioni cerimoniali, ovvero il galateo. In quanto ‘attori’ la nostra azione non la
consideriamo nelle sue conseguenze morali, bensì ci preme di più dare un’immagine morale.
Per Goffman i personaggi sono una serie di autoidentificazioni multiple, infatti nella comunicazione
l’individuo si convince ‘di essere ciò che desidera essere’ e protegge un’idea di sé stesso, la quale però
implica un adattamento. L’interesse dell’attore è concentrato sulla riuscita formale dell’interazione, cioè sulla
capacità di fare buona impressione. Per Goffman la comunicazione è inscindibile dall’espressione con cui è
trasmessa, la quale dà senso all’informazione. L’attore è spesso meno consapevole dello spettatore, poiché
non riesce a controllare la sua parte teatrale e involontaria della comunicazione, che invece gli osservatori
sono in grado di percepire. Goffman ritiene di non poter distinguere due tipi di comunicazione: le espressioni
assunte volontarie e le lasciate trapelare, poiché quest’ultime sono presumibilmente non intenzionali.
L’attore gestisce in ogni momento una serie di ‘autoidentificazioni multiple’ e deve decidere quali di queste
di volta in volta tenere in primo piano, ma non è un conflitto tra scelte vocazionali e irrevocabili è un
conflitto di ruolo che riguarda la gestione dell’apparenza.
HABERMAS
Per Habermas la vita quotidiana, l’esperienza non sono solo un serbatoio di conoscenze, ma anche un
serbatoio di moralità, di affetti non strumentali per cui l’altro è un compagno con cui collaborare a parti da
una cultura comune e condivisa. L’azione comunicativa è orientata all’intesa, è razionale senza essere
strumentale e parte da contesti famigliari fino ad allargarsi al contesto istituzionale. I mass media
supportano la comunicazione orientata all’intesa e partono da un ‘discorso quotidiano’ allargandolo e
rendendolo un ‘discorso pubblico’. Questo processo porta ad un impoverimento culturale poiché la sfera
dell’azione orientata all’intesa ristretta dal sistema capitalistico ruba spazio ai rapporti primari spontanei.
Avviene inoltre una trasformazione in chiave pluralistica, infatti il sistema dei media non più monopolistico
può aiutare a creare una comunicazione antiautoritaria. In particolare, i mass media usufruiscono di forme
generalizzate di comunicazione e fanno sorgere sfere pubbliche, possono favorire la costruzione di uno
spazio sociale di comunicazione, non specialistico e non limitato ai rapporti face to face della quotidianità.
Il pubblico deve essere convinto da contributi comprensibili e universalmente interessanti che riguardino
temi ritenuti rilevanti. In conclusione, la sfera pubblica è una grande utopia comunicativa, una
rappresentazione che mira alla creazione di un’identità collettiva, alla possibilità di discorso illimitato e
democratico che dilata l’orientamento all’intesa, che esce dal privato e lo rende indispensabile alle
discussioni impegnate a trovare valori minimi condivisibili e soprattutto procedure\ leggi che lo rendano
definibile e garantiscano reversibilità. Per Habermas la moralità implica la fiducia nella costruzione
discorsiva, razionale, aperta e tollerante, di criteri di convivenza condivisi, implica l’aspirazione a una
comunità ideale di comunicazione.
CAPITOLO 2
La rappresentazione è lo strumento più adeguato a nostra disposizione per avere informazioni sull’altro, in
questo senso l’abito serve per la costruzione dell’immagine individuale e anche per l’interpretazione
dell’immagine. Si dice che l’apparenza inganna ma di fatto, all’identità dell’altro posso accedere solo
attraverso l’apparenza e così l’altro conoscerà me. Il ruolo che la materialità e la corporeità hanno nella
rappresentazione diventa più che mai evidente nel nesso identità- rappresentazione- moda. Il corpo dell’altro,
gli eventi che si verificano su di lui e i suoi movimenti corporei, sono appresi come espressione dell’ ‘io

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spirituale dell’altro’, verso cui sono diretto e solo attraverso questi eventi sul corpo dell’altro posso
comprendere l’altro per rappresentazione e si stabilisce un comune contesto comunicativo. Per esempio,
Schultz distingue le trasformazioni sul corpo dell’altro che si possono cogliere empiricamente e quell’ ‘io
spirituale’ che non posso attingere concretamente ma solo per ‘appresentazione’. Quindi la corporeità non è
vista come un limite ma come un orizzonte per attivo, una finestra comunicativa aperta sull’eventuale
immaterialità.
Il sé è il prodotto di una scena che viene rappresentata e non una sua causa, è piuttosto un effetto
drammaturgico, l’individuo vuole controllare il modo in cui appare agli occhi degli altri per cui gli serve un
corredo per la propria identità attraverso il quale poter manipolare la propria facciata personale. La moda è
uno strumento per la rappresentazione, è collegata all’identità multipla e definisce quale ‘personaggio’
essere. Paradossalmente più un individuo da importanza alla realtà che non è percepibile e più deve
concentrare la sua attenzione sulle apparenze. Si arriva a una difficoltà di distinzione tra identità sociale e
identità personale, soprattutto se si pretende di far coincidere la prima con l’interiorità e la seconda con
l’esteriorità, l’identità personale diventa sociale quando si comunica. A questo proposito gli studiosi dei
Cultural Studies Hall e Du Gay introducono il concetto di identità culturale, ovvero un’identità sociale
narrata, ciò che dell’individuo si manifesta.
Tra il linguaggio non verbale il vestiario è il più tipicamente umano, in qualche modo presente in tutte le
epoche e in tutte le culture. L’abito viene a far parte della nostra identità corporea e della nostra identità
sociale. Mentre il corpo è in gran parte un dato, l’abito è il risultato di una scelta. Simmel descrive la moda
come manifestazione della tensione tra il desiderio di distinguersi dagli altri e il desiderio di appartenenza
sociale. Sotto questo punto di vista sia Simmel che Veblen vedono la moda come un simbolo di
appartenenza di classe. Nella società premoderna l’identità è definita dalle variabili ascritte (abito nobile o
contadino), nella società moderna l’identità è definita dall’occupazione e dalla corrispondente classe sociale
(abito borghese od operaio), nella postmodernità invece subentra il problema dell’identità:
l’indeterminatezza. Per cui l’identità è qualcosa da raggiungere, non un dato, ma un compito.
Berger e Kellner, due sociologi, introducono il concetto di ‘Homeless Mind’ come caratteristica della società
moderna, si riferiscono all’identità che, nonostante la ‘pluralità dei mondi della vita’, possiede ancora un
‘repertorio di carriere biografiche tipiche’. È una denuncia alla crisi culturale degli anni 60- 70 ma fa
riferimento ancora a un’identità orientata al lavoro e al matrimonio.
Bauman è quello che invece si avvicina di più alla realtà dell’individuo post-moderno, infatti lo paragona ad
un turista senza pace, le cui scelte sono deliberatamente provvisorie e parziali perché si tiene aperto tutte le
possibilità. In questo senso la figura chiave della post modernità non è più il lavoratore, bensì il
consumatore, infatti il mercato del lavoro non garantisce posti fissi, anzi incoraggia alla sperimentazione per
cui accade tante volte che sono gli hobby a garantire la retribuzione. Bauman introduce il concetto di
modernità liquida e di società individualizzata, dove è implicita la perenne ricerca del sé e una potenziale
inesauribile flessibilità. Nell’aspetto cognitivo e relazionale si arriva al concetto di Disembedding, ovvero il
processo tramite cui le relazioni sociali vengono svincolate dai contesti tradizionali costringendo gli
individui a riporre fiducia in meccanismi astratti e non in altri soggetti di cui hanno esperienza diretta;
nell’aspetto morale si verifica una carenza di modelli di comportamento condivisi e la sovrabbondanza di
modelli contraddittori prodotti dai media, per cui si arriva a una perdita degli imperativi morali universali,
cui subentra un’etica personalizzata. In quest’ottica gli abiti sono ‘testi aperti’ interpretati in modo diverso da
diversi gruppi sociali. L’abito e il corpo sono una testimonianza di quello che vogliamo fare di noi, l’abito
indossato costituisce o stile di una persona; Bourdieu per esempio usa il concetto di Habitus per indicare una
forma di ‘capitale culturale incorporato’.
Quindi nella società post moderna il lavoro non è più il fulcro dell’identità maschile, occuparsi dei figli o del
lavoro domestico o del proprio vestiario non è più visto come un comportamento femminile o effeminato.
L’immagine è un modo per portare fuori quello che si ha dentro, per essere autentici, il che determina un
rapporto mutevole con sé stessi e con gli altri poiché l’autenticità risiede nella cosciente abilità di gestire
una molteplicità di ruoli anche contraddittori. Nell’abbigliamento trasgressivo, per esempio, autenticità è
distacco dalle regole. Quindi in sintesi l’autenticità è più un’istanza etica, anche se si tratta di un’eticità
individualistica. Per cui bisogna essere consapevoli del proprio abbigliamento e dei suoi significati per non

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essere burattini, in quanto l’immagine\abito funziona come intermediario tra l’autenticità e le aspettative
degli altri.

CAPITOLO 3
La società post moderna prevede flussi di mobilità sociale e una classe media sempre più articolata, il
movimento di differenziazione e di imitazione porta al rinnovamento periodico dell’abbigliamento e ad
estenderlo a cerchie più vaste della popolazione. Baudrillard, sociologo, propone che gli oggetti della società
dei consumi vadano indagati come un sistema di segni che cristallizzano le gerarchie sociali. Per Lasch e
Urry l’estetizzazione della produzione è il motore della post moderna ‘economia dei segni’. Crane invece
afferma che ci sono ‘tre distinte categorie di moda: quella firmata di lusso, quella industriale e gli stili di
strada’. Ma la molla dei comportamenti alla moda non è solo l’emulazione dall’altro verso il basso (trickle
down), ma c’è una strumentalizzazione degli street style da parte degli stilisti (bottom up). Il mercato quindi
mira alla creazione di linee diverse per diverse nicchie di mercato (fast fashion). Horkheimer e Adorno
hanno coniato il termine ‘industria culturale’ per riferirsi alla standardizzazione della cultura, ovvero
scadenti produzioni seriali che tendono ad addormentare le menti del pubblico, ne fa parte anche la cultura
trasmessa dai mass media che invece chiamiamo ‘mass culture’. Gli abiti sono oggetti materiali che
rispondono anche o soprattutto a nostri bisogni immateriali, sono perciò da considerare ‘oggetti culturali’.
Si arriva poi alla Popular Culture ovvero la cultura come costruzione cui tutti contribuiscono, una
produzione umana. Tutti ne sono responsabili e non è più esclusivamente in mano alla classe dominante e
passivamente fruita dalla massa della popolazione, non esistono più cesure rigide tra chi produce e chi
consuma. Quindi il consumo è visto non tanto come un uso, ma come un a pratica di riuso e i consumatori
sono ‘produttori misconosciuti’ e che non possiedono le ‘strategie’ organizzate dal potere ma possono
controbattere con ‘tattiche’ a sorpresa. La società della produzione e del consumo di massa funziona proprio
perché i beni sono continuamente riformulati in modi più belli o interessanti, tipico di settori come la moda
in cui i prodotti hanno un valore sul mercato perché riescono a vendere un’idea. Quindi ciò che si vuole
vendere\acquistare non è solo un simbolo di status o di distinzione ma è un elemento identitario che offre
una delle possibili autoidentificazioni. Infatti, versioni diverse dell’oggetto di moda, sue interpretazioni,
sono proposte da attori diversi; attraverso l’oggetto si propone una momentanea interpretazione di sé.
Il paradosso della Popular Colture risiede nella riappropriazione da parte dei consumatori della proposta
avanzata dall’industria culturale. Le pratiche di ‘resistenza’ (John Fiske) impongono alla cultura dominante
di confrontarsi con i gusti del pubblico. La moda offre una proposta ciclica di cambiamento più formalizzata
che negli altri settori. Ma ciò che a lungo si è inteso come moda è sempre meno incidente sul comportamento
e contano più le mode culturali del momento. Esisto più mode e questo implica che gli abiti diventino una
nostra risorsa identitaria, la moda dunque va vista come il risultato di una negoziazione tra attori singoli e
collettivi dotati di potere economico e simbolico differenziato ma di analoga capacità di significare. Se
l’abito è lo strumento per rappresentare la propria identità, la partita tra libertà e costrizione si rigioca ogni
giorno.
Esistono quindi due tipi di imprenditori: chi, investendo in modo identitario nella propria attività, è come
se vendesse elementi utili per la costruzione della propria identità; e chi invece è consapevole di lavorare
sui significati per precise esigenze di mercato. Entrambi manipolano i significati anche come consumatori.
È una cultura del consumo per niente in contrasto con la passione lavorativa, sono ‘nuovi intermediari
culturali’ che credono così tanto in quello che fanno da consumarlo (Bourdieu). La loro produzione culturale
di connessioni sembra tesa all’elaborazione di connessioni piuttosto che di barriere.
CAPITOLO 4
Mettendo a confronto la dimensione estetico emotiva della moda con quella razionale, viene fuori che a
ragione ha un ruolo variabile e si intreccia in ogni caso con quella delle emozioni, del sentire estetico, del
gusto. L’abito riveste il corpo che il mezzo primario per rappresentarsi; l’abito è una specie di membrana che
sistema il corpo per la rappresentazione in società. Si può prevedere un’organizzazione razionale di questa
performance? Per le industrie creative si tratta di un ‘mercato estetico’, in cui il calcolo economico

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razionale nasce dalle qualità estetiche e dai significati dei prodotti. Una duplice riflessività, cognitiva ed
estetica. In entrambi i casi sono in gioco le identità riflessive della post modernità.
Per Goffman il rapporto che c’è tra il messaggio esplicito, che l’attore lancia quando parla di sé, e il
messaggio implicito, che diffonde costruendo e liberando la parte non detta della sua rappresentazione, è
indefinito. I discorsi sono inscindibilmente intrecciati alla corporeità. Il detto è pieno di non detto. C’è una
correlazione tra ‘credenza religiosa’ e gli abiti indossati, ‘tra religione esplicita’ e ‘religione implicita’: i
membri di un gruppo si vestono o si presentano in un modo coerente con la posizione ideologica del gruppo
stesso. Cosa succede però alla maggior parte delle persone la cui appartenenza è oggi incerta e ‘liquida’? La
coerenza tra ciò che (non) professano e il loro modo di rappresentarsi in società non è prevista o prevedibile.
L’individuo contemporaneo non sembra in grado di decidere in termini prettamente razionali, la
rappresentazione sembra perdere sempre più regole e struttura, punto di partenza e obiettivi. La dimensione
estetica sintetizza l’auspicio attoriale di fare buona impressione. I vari ruoli che l’individuo svolge per il fatto
di occupare una posizione sociale devono essere svolti seguendo le ‘regole cerimoniali dell’etichetta’.
Bourdieu afferma che il gusto deriva dalla classe sociale, che in questo caso si esprime però attraverso il
‘capitale culturale incorporato’.
L’era dell’incertezza è anche l’era del consumo affannoso. Si sono sviluppate interpretazioni diverse:
Baudrillard – Bauman, su una linea pessimistica, affermano che la società dei consumi è la società
dell’infelicità in cui il desiderio, motore economico, deve rimanere perennemente acceso, dunque
insoddisfatto. La moda sotto quest’ottica è un bisogno insensato e indotto.
Cultural Studies, su una linea possibilistica, affermano che oggetti e abiti sono risorse evolute per esprimere
e costruire la propria identità. Il consumo non è più un comportamento passivo, bensì una fase essenziale
della produzione della cultura.
L’individuo post moderno non si muove più alla ricerca di un benessere materiale che ha ormai raggiunto o
che è almeno garantito dalle politiche di Welfare, ma cerca di esprimere sé stesso, la sua autenticità e il
flusso delle sue emozioni (T-shirt). Il sistema della moda immette sul mercato beni che hanno un valore
(prezzo di scambio) solo parzialmente giustificato. Il valore di scambio dei prodotti culturali è soprattutto
determinato da un valore formale ed estetico, Baudrillard lo chiama valore- segno, ma per lui è determinato
da bisogni indotti, falsi. Si parla quindi di Aesthetic markets, ovvero le qualità estetiche devono essere
calcolate, con un calcolo che non può essere solo razionale. Nei mercati estetici il valore estetico e il valore
che si genera intorno alla merce e alla sua vendita. L’esteticità non è una proprietà essenziale ma è creata e
attribuita come proprietà all’oggetto. Infatti, i significati immessi nella merce sembrano esprimere le identità
da cui originano, attraverso una mediazione che è solo parzialmente razionale. Avviene quindi una
mediazione tra il proprio gusto e il gusto dei consumatori, infatti il gusto è un fattore emozionale e non esiste
un gusto assoluto, ma solo gusti strategici. Il gusto è l’imponderabile, il non misurabile, è un elemento
irrazionale-emozionale che deve essere tenuto in conto nel calcolo economico. Le identità in gioco nelle
industrie culturali sono comunque le identità riflessive della tarda modernità, le quali riordinano
narrativamente le proprie contraddittorie esperienze e le riferiscono all’esterno.
Scott Lash sottolinea come la riflessività tardo moderna non è solo resa possibile dai ‘sistemi aperti’, delle
tecnologie informatiche ma anche dalle competenze e produzioni ad alto contenuto estetico. La riflessività
tardo moderna ha una componente cognitiva, ma la mia componente estetica è quasi più evidente e gioca un
ruolo fondamentale nel processo di individualizzazione.
Se il valore di un oggetto poggia molto di più sulla sua immaterialità che sulla sua materialità, allora è in atto
un processo comunicativo le cui redini sono in mano alla produzione organizzata. Però la riflessività estetica
è la consapevolezza, gestita sia dai produttori che dai consumatori, del valore-segno che hanno gli oggetti
culturali e dell’ambivalenza di tale valore. La soggettività della riflessività estetica deve venire a patto con i
valori economici, ma non in modo univoco, ma fluttuante.
Mark Gottdiener sostiene che esista una trans funzionalizzazione per indicare i diversi passaggi che
sottolineano i diversi significati degli oggetti culturali, poiché il significato è la specifica funzione di ogni
produzione culturale.

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Il controllo ideologico della società moderna non può mai giungere a compimento: permane una battaglia di
significati a cui devono far fronte sia i gruppi dominanti sia quelli subordinati. Al consumatore non sono
attribuibili strategie di consumo, gli si addicono semmai delle tattiche, ovvero la libertà di movimento e di
resistenza nei confronti della produzione intelligente. Pertanto, di poter inventarsi, almeno in parte, la sua
vita. Il prezzo è un momento di valutazione complessiva da cui non si può prescindere e perciò può influire
anche molto sulla scelta d’acquisto. Ma se l’elemento simbolico che il produttore mette sul mercato compone
consistentemente il prezzo del prodotto, può avere un impatto molto vario sul consumatore. Quando è
accolto, significa che la comunicazione è efficace. Altrimenti può essere travisato e indica il fallimento della
comunicazione.
Il consumo è molto di più di una scelta economica in vista del soddisfacimento di bisogni personali. Più
varianti dello stesso bene sono scelte per indicare appartenenze, offrire informazioni su di sé, per stringere
rapporti sociali. Nelle società avanzate le varianti per uno stesso bene sono infinite. Non c’è nessun criterio
per stabilire la superiorità di uno su un altro. Ciò che si acquista, perciò, non è tanto o sempre un simbolo di
status ma più in generale un elemento identificativo.
L’immaginazione è attività di produzione di immagini che sono elementi visuali contrapposti al discorso
razionale. L’estetica è l’attività che valuta ciò che è bello nelle immagini, contrapposta alla conoscenza per
categorie; il gusto è un sentire personale, un’emozione di tipo estetico, ma che dipende dal capitale culturale
posseduto. Siamo invasi dalle immagini, per paradossale effetto di una mentalità positivistica che, avendo
affidato la conoscenza alle sensazioni, si è poi appassionata alle tecnologie della riproduzione del visibile e
della sua comunicazione. Nella cultura occidentale l’immaginazione è sempre stata contrapposta al vero.
Weber infatti parla di ‘disincantamento’ della società che capisce di poter essere diretta protagonista del
progresso puntando su ragione, tecnica, scienza.
Nella postmodernità avviene un ‘reincantamento’, infatti al ragionamento razionale si sostituisce un parlare
per immagini e simboli che crea legami precari ma emozionalmente coinvolgenti. Lyotard infatti dice che ci
sono confini netti tra modernità e postmodernità. La cultura postmoderna rinuncia alle grandi narrative per
dare spazio alle piccole narrative individuali. Eva Illouz parla invece di capitalismo emozionale in cui le
organizzazioni, dallo stato a internet, invadono la sfera privata, che il cittadino tende a rovesciare sulla sfera
pubblica. Sia nella società individualizzata che nella società delle tribù gli individui sono catturati dalle
immagini e dai desideri. Si arriva quindi ai cosiddetti ‘incanti organizzati’ come i centri commerciali che
possono essere definiti anche le cattedrali del consumo. Il sistema moda è un incanto organizzato in cui
l’estetizzazione della vita sociale si trasferisce nelle pratiche incorporate di presentazione del sé. Finkelstein
dice che la moda è una mascherata che soddisfa il desiderio di mettere in scena identità sociali multiple. Per
Wilson infatti, seguendo un approccio postmoderno alla moda, l’abito è possibilità espressiva.
Scott Lash e Cella Lury introducono il concetto di social imaginary, inteso come ambiente culturale in parte
virtuale, di cui sono una componente rilevante i brand e i marchi che servono per riconoscerli. I marchi e
brand sono un’espressione dell’immaginario sociale, ovvero i cosiddetti ‘brand value’, cioè un surplus di
valore, che è poi alla fine il valore generato dal brand.
Blumer parla di collective selection, infatti ogni inizio stagione, designers e buyers convergono, con un
comune sentire, su un numero limitato di modelli. Per Lush e Lury è un immaginario che abbraccia entrambi
e trasforma con simbolismi astratti del brand, non solo i nuovi modelli, ma una serie di ambienti mediali e
fisici su scala globale. È una logica opposta rispetto all’omologazione dei beni, è infatti un processo continuo
e raffinato di differenziazione.
I brand di lusso mettono in atto due processi: intercettano altri settori merceologici e cercano di arricchirsi di
significati. La brandizzazione e la saturazione semantica hanno costretto la moda a incontrare il
consumatore. Quindi, oggi, diventano meno comunicabili attraverso l’abbigliamento le distinzioni sociali,
specialmente quelle relative alla classe sociale e all’occupazione ma anche a una rigida distinzione di genere.
Da esso invece vengono sempre di più veicolate le appartenenze subculturali.
Persino i gruppi subculturali più identificabili hanno sempre un rapporto elastico con il gruppo e i suoi stili.
Hebdige parla di ‘bricolage identitario’ negli anni ’70. Mentre secondo Polehimus i nuovi streetstylers

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nascono dalla tendenza a mescolare le varie precedenti elaborazioni subculturali; si parla di ‘supermarket
degli stili’ negli anni ’90.
Muggletons dice che la frammentarietà dell’identificazione con il gruppo porta alla trasgressione, ovvero la
ricerca di autenticità che coincide con la costruzione di un’identità coerente.
L’abito, in questo senso, ha la capacità suggestiva di comunicare al di fuori delle regole e delle razionalità
del discorso, quasi come fosse un linguaggio non verbale. Questo dà vita a un’ambivalenza quotidiana.

CAPITOLO 5
La cultura postmoderna è una cultura attendista, che non giudica e osserva i molti stili e li combina in una
patchwork imprevedibile. La cultura postmoderna sembra interessata solo all’apparenza, all’estetica, ma per
principio non esclude niente. L’estetica ha sempre guidato la scelta dell’abito, ma non esiste un bello
assoluto, di conseguenza la ricerca estetica è dunque spesso strumentale a qualche altro scopo. Per Inglehart
i valori postomoderni sono valori post materialistici. Quindi i consumo non è più un soddisfacimento dei
bisogni ma più una ricerca di esperienza di senso identitario.
L’incapacità di mettere da parte qualcosa per qualcos’altro è chiamata ‘onnicomprensiva ambivalenza’ cioè
la necessità di mantenere aperta la propria identità, non precludere niente. C’è un interesse rivolto a
mantenere intatta la differenza dall’altro e il suo diritto alla differenza, trovando quindi piacere nella libertà
degli altri e assumendosi la responsabilità della loro unicità. L’altro mette in discussione ciò che è dato per
scontato, ma esso non è totalmente altro da me. Si parla di ‘modernità liquida’ dove si dissolvono le
distinzioni categoriali. Nell’identità composita c’è un po’ anche dell’altro e quindi il consumo pensa anche
agli altri ed è quindi critico e responsabile.
C’è dunque una nuova possibilità: non dover scegliere drasticamente tra etica ed estetica. Produttori e
consumatori cercano di opporsi alle logiche mainstream o cercano di cambiarle, per cui la certificazione del
biologico o del fair trade possono diventare nuovi brand, nuovi meccanismi reputazionali che puntano alle
qualità sostenibili del prodotto. Le nuove tendenze del consumo rendono morali le nostre scelte e
l’innovazione non è più solo di tipo estetico ma anche morale.
L’immaginazione estetica (IE), ovvero le nostre aspirazioni a un mondo migliore e il potenziale informativo
anche sui popoli lontani ci spinge ad assumerci responsabilità di portata globale, a decolonizzare
l’immaginario, a decentrare le decisioni. Ulrich Beck parla di una prospettiva cosmopolitica. La
cosmopolizzazione intende situare in una dimensione globale questioni fondamentali di ogni tipo.
Apppadurai parla di immaginazione come pratica sociale; immaginazione mass-mediale.

Richard Wilk sostiene che la teoria economica moderna costituisce un paradossale parallelismo tra la vita
degli oggetti e la vita umana. La moda etica sia a livello di senso comune sia come ricerca sociologica è
infatti emersa solo recentemente.
La moda è l’industria culturale per eccellenza e fa della sperimentazione la sua ragion d’essere, smonta la
mentalità dicotomica mostrandone l’obsolescenza e la debolezza costitutiva. Nella moda etica la scelta
economica e quella morale ed estetica trovano equilibrio, oltre ad arricchire di significati la produzione di
moda. Si parla di ‘object-centered sociality’ e ‘emotional home’, in quanto l’oggetto culturale è il
catalizzatore di sentimenti, discorsi e relazioni. La moda è una produzione intellettuale, un lavoro non
alienante in cui gli oggetti hanno un ruolo socializzante, in cui le strategie della produzione possono essere
trasformate in socialità diffusa.
I fashion blogger mettono in atto il processo di deprofessionalizzazione del settore che contrasta poteri
d’influenza consolidati. L’antinomia tra estetica ed etica viene smontata da una nuova sensibilità del
consumatore che ha dilatato la propria competenza da fornire precetti morali e a sindacare sulla
responsabilità sociale delle imprese. La moda è estetica dell’effimero che spinge al consumo compulsivo ma
anche in direzione opposta verso consumi lenti. Scott Lash dopo la ‘riflessività estetica’ introduce il concetto
di ‘riflessività ermeneutica’ o più semplicemente ‘riflessività etica’. La condivisione no profit di contenuti

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diventati così abbondanti da non essere più lucrativi viene detta ‘Cyber libertarianism’. Di conseguenza la
condivisione da parte dell’utilizzatore e del produttore diventa parte dell’impegno sociale.

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