Premessa
Il tema comunicativo richiede un tentativo di ordinamento e di messa a punto, sia da
una prospettiva teorica, sia da quella disciplinare dei contenuti e degli indirizzi
didattici. Nella vasta materia-comunicazione, ritagliano oggi il proprio oggetto di
studio figure scientifiche e professionali molto diverse. Si diffonde così un mercato
della comunicazione che spesso isola i mezzi del comunicare dai contenuti concettuali,
etico-politici, culturali e finisce col ridurre quel delicato termine-chiave a un mero
dispositivo di output. Non che il problema, in qualche misura, non sussista: esistono
tecniche per far si che un qualche prodotto riesca leggibile e fruibile da una parte del
destinatario cui esso è rivolto.
Tuttavia, gli aspetti tecnici malamente si lasciano separare dalle finalità della
comunicazione, dal suo collocarsi in uno spazio sociale e culturale determinato, sul
quale influiscono scelte politiche di fondo, ed ecc. Si prenda il caso della
comunicazione politica, dove l’autonomizzarsi delle tecniche produce effetti
culturalmente devastanti. Esse sono pervase di quella inquietante politica-spettacolo
che trova nella TV, un uso quotidiano terreno di gioco. Occorre malinconicamente
ammettere che ha fatto scuola uno stile comunicativo che ha piegato mezzi pubblicitari,
in realtà alquanto primitivi, alla conquista del consenso in termini ideologici,
irrazionalistici, pescando nei fondali più retrivi del cosiddetto senso comune. Le
starlette (esordi della carriera) che diventano deputati inducono a pensare e a
considerare la politica come una avventura in cui la professionalità amministrativa e la
competenza non hanno alcun ruolo, e insieme abituano il cittadino a un atteggiamento
consumistico e superficiale nei rispetti della comunicazione, ciò non può che indebolire
la sua capacità critica, erodendo (corrodendo) lo spirito pubblico. Una situazione del
genere spiega perché qualche illustre studioso sia stato indotto a una critica radicale
della cultura della comunicazione che sembra non lasciare sazio per una revisione in
positivo.
Dinanzi all’enorme varietà dei temi e degli ambiti di ricerca, questo libro scava un
proprio itinerario, consapevolmente parziale, che assume il suo senso se collocato nel
più ampio disegno che si è cercato di suggerire: quello della restituzione dei fondamenti
filosofici e teorici della nozione di comunicazione. Filosofie, pertanto, al plurale, non
filosofia (nel rifiuto di declinare al singolare il concetto di filosofia: in linea di massina
e in particolare in fatto di comunicazione) perché molto variegati sono i contesti
concettuali in cui tale nozione ha trovato spazio, come diverse sono le finalità culturali
e in ultima analisi politiche che essa può corroborare. Ecco, in sintesi, la struttura del
libro.
Nella prima più ampia sezione vengono presentate le maggiori dottrine della
comunicazione del Novecento con una dichiarata predilezione per gli approcci
linguistici e filosofici, senza tuttavia tralasciare il nucleo essenziale degli approcci
scientifico-sociali. Il capitolo 1 porta il lettore da Saussure all’etnografia della
comunicazione, passando per quei grandi, a lungo dimenticati classici che sono stati
Gardiner e Bühler, e naturalmente per i problemi posti dalla messa in circolo del
modello Shannon-Weaver e dalla sua ricezione in ambito linguistico.
Il capitolo 2 approfondisce l’ottica linguistico-comunicativa, presentando la teoria
enunciazionale di Benveniste e muovendo da essa per introdurre la linguistica del testo,
che a partire dagli anni Settanta del Novecento, tanto ha contribuito a contestualizzare
e insieme a rendere specifica la nozione di comunicazione.
Il capitolo 3 delinea invece i tratti essenziali della filosofia del linguaggio ordinario,
articolata intorno alla problematica degli Speech Acts da Austin e dal suo continuatore
Searle: si tratta com’è noto di un percorso centrale della filosofia analitica anglosassone
degli anni Cinquanta-sessanta e oltre che riveste un particolare interesse teorico.
Il capitolo 4 studia il tema alla luce del paradigma cognitivo, di prima e seconda
generazione ambientando la dottrina oggi più nota e autorevole in tema di
comunicazione, quella ostensivo-inferenziale, formulata da Sperber e Wilson, fra le
grandi domande della logica (Grice) e delle teorie mentaliste a base intenzionale
diffusesi negli ultimi an negli ultimi trent’anni.
Nel capitolo 5 si mostra come gli atti linguistici assumano in un diverso ambiente
culturale (quello tedesco) profondamente legato all’impostazione teorica di Kant e del
kantismo, ma anche alle suggestioni della Scuola di Francoforte, una declinazione
trascendentale e universalistica che per un verso fa capo a una comprensiva nozione di
competenza comunicativa, per un altro a un’affiliata critica sociale della modernità
(Habermas) a istanza di etica della comunicazione di grande importanza (Apel).
Il capitolo 6 sposta l’attenzione verso le categorie concettuali e le grandi scuole del
pensiero sociologico del secondo Novecento, cui dobbiamo un’avanzata analisi della
società mediatizzata nella quale viviamo e degli effetti che essa produce sulle forme di
conoscenza.
Il capitolo 7 ultimo di questa sezione riprende alcuni temi classici della pragmatica,
alla luce dei più recenti indirizzi di tale disciplina, caratterizzata da una profonda
apertura interdisciplinare ricca anch’essa di non trascurabili istanze etiche (teoria del
dialogo e delle controversie)
La seconda parte del volume propone invece assaggi in direzioni più specifiche ma
selezionate nella loro eterogeneità proprio per l’esemplarità metodologica dei problemi
via via posti. Così, Borelli si muove entro e fuori la categoria foucaultiana di
‘’parresia’’ sia per riprendere un punto chiave della concezione griceana della
comunicazione, quello relativo alla massima di qualità e dunque il problema del vero;
Vasco illustra mediante la riflessione sull’espressione delle emozioni uno spazio in cui
teoria della comunicazione e psicologia stanno collaborando in modo assai innovativo;
Gazzeri e Tardella sviluppano il problema della specificità modale della
comunicazione nei sordi, mostrando come questi straordinari linguaggi storico naturali
mettono in discussione aspetti sostanziali della teoria complessiva del linguaggio e
delle lingue; Di Pietro si cimenta invece con le nuove concezioni embodied della
comunicazione politica. Per illustrare la dialettica fra teoria della mente, istanze della
comunicazione e diversa assiologie Forgione, infine, nel suo terzo contributo, ridiscute
alcuni temi classici della sociologia del cinema, con particolare attenzione ai rapporti
che scandiscono il plesso che lega il cinema all'industria culturale. Nel suo insieme il
libro vorrebbe assolvere anche a funzione didattica: quello di una sorta di secondo
passo per meglio storicizzare le categorie concettuali e per cominciare a cimentarsi
nell’analisi dei problemi più specifici.
Un ruolo importante nella divulgazione del modello e soprattutto degli equivoci che
esso poteva suscitare è stato svolto dal linguista e filologo russo Roman Jakobson. Si
farebbe tuttavia un torto a Jakobson se si ascrivesse a lui solo la responsabilità di una
semplificazione del processo comunicativo che ebbe, invece, ragioni teoriche più
articolate. Lo schema riportato da Jackendoff mostra senza possibilità di equivoci in
che modo la comunicazione viene vista in un’ottica di questo tipo: si tratterebbe di
trasmettere dalla mente di un soggetto alla mente di un altro soggetto un qualche
contenuto mentale, una sorta di tesoro nascosto che occorre impacchettare in simboli
linguistici (codificare) a livello del mittente e spacchettare all’altro capo del processo
(decodifica) quello del destinatario: i due soggetti sono presuntivamente omogenei, nel
senso che non si prevede una loro possibile asimmetria, la lingua che parlano non è
altro dunque che un meccanismo di input-output, concepita come neutra rispetto ai
contenuti mentali: in breve, la lingua sarebbe un puro strumento di comunicazione.
Ora, questa ricostruzione del processo comunicativo è funzionale a una certa idea di
come la mente umana opera (un dispositivo specie-specifico e universale, dotato di
particolari capacità elaborative applicate a simboli) e a una certa idea di che cosa sono
le lingue (macchine sintattiche basate sulle proprietà combinatorie profonde della
mente, dove l’interpretazione dei simboli in termini semantici avviene solo in
superficie, senza includere sulla innatezza e sulla universalità delle prime). Quello di
Jackendoff è insomma il modello di un cognitivismo di prima generazione,
chomskyano e fodoriano, ancora fortemente attivo in area generativista, ma non
condiviso da molta ricerca cognitiva di seconda generazione, che fa riferimento a
un’idea incorporata della mente e a una rinnovata centralità dei concetti semantici.
Tuttavia, ancora in saggi recenti di grande importanza, Chomsky ha tenuto a ribadire
il nocciolo della tesi originaria: che la facoltà del linguaggio propriamente detta oggi
chiamata FNL “facoltà di linguaggio in senso stretto” consista in un algoritmo innato,
in un insieme di regole sintattiche ricorsivamente applicate, mentre FLB, la facoltà del
linguaggio “in senso largo” che comprende la comunicazione e che può essere
riconosciuta anche a certe specie animali non umane, ha sostanzialmente la fisionomia
di un dispositivo di trasmissione e ricezione di segnali.
Humboldt insiste sulla radicale soggettività dell’attività linguistica, tale che l’individuo
rivolto a esprimersi trova nella lingua materna insieme il fattore di resistenza, fatto di
valori semantici condivisi, e la chiave, fatta di possibilità manipolative che gli permette
di dare forma, oggettività al suo pensiero. Quando nell’anima si desta davvero il
sentimento che la lingua non è un semplice mezzo di scambio per intenderci
reciprocamente, ma un vero e proprio mondo che lo spirito deve porre tra sé e gli
oggetti con il lavoro interiore della sua forza, allora essa sarà sulla retta via per trovare
e deporre nella lingua sempre nuove ricchezze. La lingua, insomma, come livello
intermedio fra soggettività e mondo, mediatrice eterna tra lo spirito e la natura, come
un filtro storicamente ostruito di significati, forme espressive, fatto per accogliere e
mediare le infinite possibili innovazioni individuali. La lingua non è dunque un puro
trasmettitore di idee, non è mai ritenuta rispetto al pensare umano e alle modalità con
cui questo cerca di oggettivarsi e di proporsi ad altri.
Questi due grandi pensatori ci suggeriscono alcuni assunti che ci portano fuori dall’idea
di comunicazione vista in apertura:
• la comunicazione, lungi dall’esprimere la natura strumentale del linguaggio,
presuppone la funzione cognitiva di questo, il fatto cioè che esso sia ingrediente
necessario della formazione dell’articolazione del pensiero;
• la comunicazione non è tutto il linguaggio ma una parte di questo, ancorata
all'insieme delle esperienze conoscitive sociali in cui le persone sono immerse;
• la comunicazione ha delle caratteristiche, delle manifestazioni e regole
descrivibili che mediano le infinite soggettività e atti di senso dei parlanti.
Dobbiamo adesso seguire le tappe principali della teoria della comunicazione quale si
è sviluppata nelle dottrine linguistiche e filosofo filosofico linguistiche più rilevanti.
Molto diversamente che nello schema di Jackendoff che abbiamo menzionato sopra, la
lingua non è qui un puro dispositivo di input-output ma un vero e proprio sistema che
si interpone fra i parlanti, con i propri valori socialmente dati: non "pensieri", bensì
concetti e immagini acustiche sono il componente mentale del processo. Essi vengono
accolti "passivamente" tramite l'apprendimento della lingua madre e formano un
repertorio approssimativamente comune di cui entrambi i parlanti dispongono per
elaborare e filtrare le proprie mosse psicologiche. In che modo i segnali linguistici
concretamente emessi vengano recepiti dall'ascoltatore dipende da una serie di
condizioni fisiche, fisiologiche e cerebrali che possono essere riassunte nel rapporto
fra l'apparato uditivo e i centri del cervello deputati alla elaborazione del materiale
linguistico. Se la langue, depositata nel cervello come una sorta di "media" costituisce
il sistema di riferimento per la produzione e la comprensione dei segni linguistici, ed è
pertanto descrivibile come "passiva", l'atto di parole è «un atto individuale di volontà
e di intelligenza». Ciò significa che fonazione e significazione sono processi liberi che
pur muovendosi entro il sistema di classi (fonologiche e semantiche) offerto dalla
langue ne elaborano e forzano continuamente i limiti, trovando tuttavia una resistenza
nelle esigenze della mutua comprensione.
Con queste tre coordinate gli "utenti" del linguaggio vengono chiaramente collocati,
nelle reciproche mosse della loro interazione, al centro della "attività" linguistica, e
un'immagine "viva, dinamica di quest'ultima viene sostituita alla immobilità della
grammatica. Le nozioni già rammentate di Exposition e Prädikat, categorie testuali,
dipendono pertanto da sottostanti vincoli pragmatico-situazionali. Wegener terrà
presente questo principio anche in un tardo scritto sulle "parole-frase", mostrando che
la parola può, in certe circostanze, e non solo nell'età infantile, svolgere da sola il ruolo
di un'intera frase. Ecco un efficace riassunto delle sue ipotesi di lavoro: “L'esposizione
serve a mettere in chiaro la situazione, in modo che il predicato logico diventi
comprensibile. La situazione è la base, il contorno entro il quale un fatto, un
accadimento (Ding) e così via fa la sua apparizione, e ciò vale anche per le circostanze
temporali dalle quali si è originata un'attività, propriamente l'attività che noi
esprimiamo come predicato, e allo stesso modo appartiene alla situazione il dato della
persona alla quale la comunicazione è rivolta. Nella comunicazione linguistica, la
situazione non viene determinata puramente attraverso parole, ma, attraverso le
relazioni circostanti, attraverso i fatti appena intervenuti e il presente della persona con
cui parliamo.”
Posto in modo così perentorio il nesso fra attività linguistica e contesto, era inevitabile
che sul linguaggio convergesse l'attenzione dell'antropologia. Malinowski ebbe un
ruolo importante in questo quadro, grazie soprattutto al fondamentale saggio “il
problema del significato nei linguaggi primitivi”. Malinowski riprende dal suo
professore la critica verso l'antropologia da salotto e lancia l'idea di una osservazione
partecipante come l'unica strategia di studio possibile per capire dall’interno e in modo
unitario la visione del mondo, le abitudini, gli universi di significato delle culture
indagate. Il saggio riprende da tale punto di vista l'esperienza compiuta qualche anno
prima nelle isole Trobriand (Nuova Guinea). La nozione centrale nello scritto
malinowskiano è quella di contesto di situazione, in base alla quale lo studio delle
espressioni linguistiche va ampliato dalle circostanze immediate in cui i parlanti
interagiscono fino all’analisi delle condizioni generali nelle quali una lingua viene
parlata. L'antropologo, in sostanza, riprende e radicalizza, facendo riferimento a culture
di tipo primitivo, non occidentali ne occidentalizzate, la suggestione wegeneriana nella
situazione culturale. La sua idea è che il linguaggio abbia solo in determinate
circostanze una funzione dichiarativa, ovvero di manifestazione del pensiero, in ampia
parte della vita sociale, e certamente nelle culture primitive, il linguaggio va studiato
sullo sfondo delle attività umane e come un modo di comportamento umano in
faccende pratiche. È in altri termini, una forma di azione. Malinowski da un esempio
affascinante delle sue deduzioni riportando un brano di conversazione nella lingua
degli indigeni da lui studiati. In questa scenetta la funzione prevalente non è quella di
dichiarare uno stato di fatto, ma di intrattenere gli interlocutori al fine di conseguire
piacere sociale e autogratificazione con le loro azioni, è un parlare finalizzato non a
trasmettere un pensiero, ma a cementare il rapporto del gruppo e la propria posizione
al suo interno: è quanto egli chiama comunione fatica, un termine che tornerà
trentacinque anni dopo nello schema jakobsoniano delle funzioni linguistiche. si tratta
di un aspetto della vita del linguaggio molto importante nelle comunità primitive e in
tante forme di quotidianità Volte a mantenere la coesione sociale, il chiacchiericcio, il
gossip. L’uso simbolico del linguaggio, trasmettere le proprie idee o argomentarle,
appartiene da tale punto di vista al lusso della comunicazione, non alla sua sfera
immediata.
Fra i nomi che Malinowski cita all'inizio del suo saggio, di studiosi che si sono
cimentati nell’analisi dei processi mentali connessi col significato, c’è Gardiner. Egli
ribadiva la priorità della dimensione sociale: tutta la varietà e complessità del
linguaggio dipende dal fatto che quel che parlante e ascoltatore hanno in mente nei
momenti del discorso è diverso: questa differenza rende il linguaggio necessario come
mezzo di cooperazione. Di qui l'idea che il linguaggio sia anzitutto un tentativo di
influenzare la mente dell'ascoltatore tramite suoni articolati udibili che abbiano un
riferimento simbolico condiviso ai fatti dell'esperienza. il linguaggio in generale, non
solo la concretizzazione di esso è dunque anzitutto una forma di attività sociale, ciò cui
esso si riferisce non è pertanto un oggetto o uno stato di cose di cui predicare la verità
o la falsità, ma un’esperienza, un frammento di vita reale. Gardiner riconosce di non
essere il primo a enfatizzare il carattere strategico della comunicazione nella vita del
linguaggio: Wegener aveva aperto la strada, e Saussure, di cui Gardiner si rivela acuto
lettore, aveva cercato di proporre un modello esaustivo di tale aspetto con la sua ben
nota analisi del circuito delle parole.
Tuttavia, Saussure non sembra distinguere fra il significato cristallizzato nelle parole
dalla tradizione culturale e quel che i parlanti intendono in rapporto alla situazione
concreta in cui interagiscono con le parole. Beninteso, la thing-meant non è l’oggetto
atomisticamente inteso Collocato nel mondo esterno, bensì la risultante:
1. del gioco delle condizioni esterne della comunicazione,
2. delle situazioni di attesa e di ruolo dei parlanti,
3. delle piste interpretative aperte dalle loro parole e frasi in tale contesto: e cioè
ciò che il parlante vuole che sia inteso dall' ascoltatore
È illuminante l'idea che, nella situazione comunicativa data, le parole, coi loro
significati socialmente condivisi, col loro valore di langue, siano solamente clues,
indizi o tracce per la ricerca del senso. Il senso vero e dunque alcunché di complesso,
che sta solo in parte nei valori semantici codificati delle parole e delle frasi, qualcosa
che si può ricostruire solo facendo reagire assieme i tre componenti di cui si diceva.
quei valori codificati orientano l'ascoltatore alla ricerca del senso inteso, riempendosi
di valori contingenti, inseparabili dal contesto di comunicazione. È In questi dettagli
che si annida la complessità sociale della comunicazione ed è attraverso di essi che si
arriva a comprendere l’autentica funzione svolta dal linguaggio in uso. La situazione
comunicativa anzitutto implica il passaggio dal language come sistema linguistico
potenziale (la cui unità di base è la parola) allo speech come livello operativo dello
stesso (la cui unità di base è la frase).
L'atto di parola è un atto sociale che implica necessariamente due persone e può
eventualmente implicarne altre. Dalla parte del locutore, esso nasce dall' impulso o
dalla volontà di includere l'altro nella considerazione di' qualcosa di percepibile che ha
rilevanza per entrambi; dalla parte di chi ascolta, va escluso il pregiudizio ch’egli/ella
sia interamente passivo/a, giacché ogni atto di comprensione richiede un notevole
sforzo mentale. Inoltre, ovviamente i due partners si scambiano i ruoli a ogni turno di
conversazione. la posta di questo gioco, sappiamo già, è il senso inteso. Alla sua
individuazione prestano importanti servizi anche le componenti solitamente dette
paralinguistiche della comunicazione, quali il pitch, l'intensità, lo schema prosodico
con cui le parole vengono concretamente articolate. Si tratta di aspetti ausiliari che
hanno però la capacità di veicolare la qualità della frase, e ai quali pertanto è in molti
casi affidata la possibilità di dedurre il senso vero della comunicazione. Anche da
questo punto di vista, dunque, non è tecnicamente possibile una analisi semantica della
frase separata dalle modalità situazionali e concretamente sociali della sua
enunciazione.
Distinguendo presente e passato nel punto di vista dei due partners, Gardiner si sforza
di cogliere la dimensione diacronica delle parole, cioè il loro essere parte di un
repertorio linguistico sedimentato nella coscienza dei parlanti, e la dimensione
sincronica della frase-enunciato, in cui quelle risorse vengono convocate in vista di un
processo comunicativo individuale, suscettibile di un'analisi particolareggiata. È anche
interessante il fatto che i meanings abbiano area variabili e asimmetriche, e che non
abbiano dunque identico formato. solo passando all'applicazione presente, diventando
cioè unità di comunicazione, o come oggi diremmo diventando testo, quei significati
si determinano.
Le tre funzioni sono compresenti nell'uso sociale del segno anche se, volta a volta, l'una
o l'altra di esse prevale sulle altre, assume cioè dominanza. Tipicamente, a uno sfogo
affettivo corrisponderà la dominanza della funzione espressiva, a una preghiera o un
ordine quella della funzione appellativa, a una descrizione oh il racconto di un fatto
quella simbolica. Con queste distinzioni Bühler cercava di tenere in conto e di mediare
saldandole in un approccio unitario le istanze di analisi della realtà linguistica
provenienti dai tre ambiti della sua prospettiva scientifica: quella psicologica e
psicologico sociale, i vertici bassi del modello, quella logico-cognitiva, il vertice alto,
quella linguistico-funzionale, lo schema al centro. Che la funzione simbolica sia in
ultima analisi ritenuta la prevalente si spiega non tanto, è da credere ma con
l'accettazione di una prospettiva semiotica, o meglio sematologica della prassi
linguistica. La centralità della dimensione simbolica era evidentemente un punto forte
della linea di pensiero svolta da Saussure e da Trubeckoj sul fronte linguistico, e da
Cassier sul fronte filosofico-teoretico.
1. Note: la critica rivolta dal Circolo di Vienna alla cosiddetta inesattezza del
linguaggio ordinario è considerata da Bühler uno dei più mostruosi
misconoscimenti delle lingue naturali che siano mai stati perpetrati.
2. Il russo Trubeckoj fu animatore del Circolo linguistico di Praga, nel cui ambito
realizzò l’opera forse più importante della Scuola a fini teorico-linguistici, che
contribuirono in modo decisivo alla definizione del fonema come insieme chiuso
di tratti distintivi, nozione centrale dal punto di vista epistemologico per
l’orientamento strutturalista.
3. Bühler distingue tre tipi di classi: quella ad oculos corrispondente
all’orientamento percettuale intersoggettivo della comunicazione, quella
anaforica, in cui la deissi si riferisce a quanto precede nel discorso in
svolgimento, e quella detta fantasmatica, finalizzata a rendere presente e fruibile,
con dispostivi linguistici, quello che è fuori dall’esperienza e dallo spazio
percettivo dei parlanti.
In sintesi, Bühler, consegna alla tradizione teorico linguistica del vecchio continente
un Quadrifoglio di coordinate in cui collocare la prassi linguistica: da una parte l'attività
del parlante in quanto potenzialità non ancora calata in un’azione, ma pur sempre
attività Che non si dà altrimenti la funzione del segno in quanto forma del pensiero e
del vivere umano, e suo corrispettivo necessario, l'opera linguistica, il prodotto in
generale del parlare, l’ergon di Humboldt, la langue di Saussure, svincolato dalla
soggettività e contingenza dei parlanti, dall'altra parte sul piano empirico della
comunicazione, l'atto del parlare, un'azione sociale svolta tramite la parola fra
interlocutori, in uno spazio e un tempo determinati, e le forme del parlare, cioè testi,
orali e scritti, le concrete configurazioni fonetico grafiche e semantiche dei segni in
uso. Queste secondo due dimensioni corrispondono, articolandole, alla energhia di
Humboldt, il linguaggio come creazione e alle parole di Saussure, lato linguistico
individuale. il passaggio dal piano universale della potenzialità a quello particolare
dello Sprechakt è e consentito dalla idea husserliana della intenzionalità dell'atto
semiotico: esso non consiste semplicemente in una certa volontà comunicativa del
soggetto, ma in un processo di vero e proprio conferimento di senso, in circostanze
locali, fenomenologicamente definibili, al cui successo l'interlocutore partecipa
attivamente.
Nota: A metà degli anni Trenta Morris aveva stabilito un rapporto intellettuale
profondo con l’ambiente del Circolo di Vienne, auspicando un intreccio della sua
prospettiva pragmatica con quella del logicismo. Il lancio del Movimento per l’Unità
della scienza fu l’occasione per il consolidamento di questa alleanza, rafforzata anche
i termini politici, negli anni seguenti, dall’impegno profuso da Morris nel favorire
l’emigrazione negli Usa di studiosi europei.
Morris teorizzava una separazione metodologica tra semantica, che verte sul rapporto
tra i segni e i loro designata correlati questi ultimi a eventuali oggetti extralinguistici e
pragmatica, che prende in considerazione il rapporto tra i segni e i loro utenti. La
sintattica avrebbe invece dovuto occuparsi dei rapporti intersegnici. Ma mentre è ovvio
che (ad esempio) in un calcolo la semantica non solo può, ma deve essere scissa dalla
pragmatica, nel linguaggio storico-naturale questa scissione non sussiste neanche in
linea di principio: perché il valore concretamente assunto da parole e frasi si determina
solo in relazione alla dinamica pragmatica in cui esso è coinvolto. Era però inevitabile
che, una volta assunta come orizzonte privilegiato la dimensione dichiarativa e
veritativa del linguaggio, verbale, quella che Aristotele chiamava apofantica, l’ottica
buhleriana risultasse poco interessante. Del resto, lo sviluppo delle tecnologie della
comunicazione, lo sviluppo dei primi computer e delle connesse questioni in tema di
linguaggi e menti artificiali guardavano in senso inverso rispetto a quella cultura della
verità e della storicità del comunicare cui tanti autori degli anni Venti-trenta avevano
rivolto i loro sforzi scientifici.
D'altra parte, della stessa lezione saussuriana, a causa della vulgata in cui gli allievi
l'avevano inscatolata, aveva finito con l'imporsi solo la componente formale, intesa a
una considerazione immanente, "strutturale", delle lingue, ricacciando verso l'esterno
quelle coordinate temporali e sociali che il linguista ginevrino riteneva, invece,
costitutive della realtà linguistica. Da questo punto di vista, un curioso filo rosso, pur
nelle radicali differenze di concezione, connette la vulgata strutturalista del vecchio
continente con l'affermazione della linguistica generativa di Chomsky, legata a una
visione innatistica e calcolistica del linguaggio verbale. Ed è stato solo grazie alla
riscoperta di un Saussure avvenuta col lavoro filologico e teorico degli anni Cinquanta-
sessanta che quel filo rosso si è davvero spezzato. Nel frattempo, tuttavia, la linguistica
delle lingue si separava dalla ricchezza e indeterminatezza dei contesti
sociocomunicativi: questa dimensione competeva ormai a etnologi e antropologi",
mentre molta linguistica prendeva a prestito una teoria della comunicazione, anziché
dai propri classici, dal mondo della matematica e dell'ingegneria. Il ben noto "modello
di Jakobson", è l'episodio centrale di questo intricato percorso storico-teorico. In senso
inverso rispetto a questa poderosa decontestualizzazione dell'atto linguistico vanno,
negli anni Quaranta-cinquanta, almeno tre indirizzi di ricerca, destinati ad autonomi,
importanti sviluppi.
1. il filone dell'ordinary language Philosophy in realtà una diramazione dell'approccio
analitico al linguaggio, legata all'ambiente universitario di Oxford e al lavoro di Gilbert
Ryle.
2, la pubblicazione e diffusione delle Ricerche filosofiche, capolavoro postumo di
Ludwig Wittgenstein, che in questi pensieri rovescia l'impostazione del suo celebre
libro giovanile, il Tractatus Logico-Philosophicus (1921) e perviene alla teoria dei
"giuochi linguistici";
3, la svolta "soggettiva" impressa alla ricerca linguistica dal francese Emile Benveniste
(1902-1976), che in un celebre saggio uscito nel 1958 discute i meccanismi (pronomi
personali, deittici ecc.) tramite i quali i soggetti parlanti si installano nel linguaggio, e
così perviene a una personale riscoperta dell'approccio suggerito da Bühler con la
nozione di Zeigfeld. Benveniste si situa in tal modo alle origini degli studi sulla
"enunciazione", che godranno di grande sviluppo negli anni successivi sia in linguistica
(soprattutto di indirizzo pragmatico) sia in semiotica".
Già in un passo delle lezioni del 1934-35, Wittgenstein ragiona su casi di interazione
sociale mediati dal linguaggio (indicare oggetti, dare ordini, ecc) e introduce a tale
proposito la nozione: "giochi di linguaggio" o "giochi linguistici" i sistemi di
comunicazione quali, ad esempio 1), 2), 3), 4), 5). Essi sono più o meno affini a ciò
che, nel linguaggio comune, noi chiamiamo: giochi. Ai bambini s'insegna la loro
madrelingua mediante tali giochi, che hanno il carattere divertente proprio dei giochi.
Noi, tuttavia, consideriamo i giochi di linguaggio da noi descritti non come parti
incomplete d'un linguaggio, ma come linguaggi in sé completi, come sistemi completi
di comunicazione umana. Per non perdere di vista questa prospettiva è molto spesso
utile immaginare che l'intiero sistema di comunicazione d'una tribù in uno stato sociale
primitivo sia linguaggio semplice di questa sorta. Stando "dentro" forme evolute di
linguaggio, intende dirci Wittgenstein, si rischia di non vedere più il funzionamento
autentico della parola, e di ascrivere un ruolo modellizzante a quella che è solo una
delle sue possibili applicazioni: l’uso logico-scientifico. Bisogna pertanto tornare a
forme elementari, ma perfettamente efficienti, di scambio linguistico, come quelle dei
bambini, o quelle di comunità semi primitive, per imparare a vedere di nuovo, in che
modo le regole della comunicazione giungono a istituirsi.
Le radici del modello di Jakobson non vanno dunque cercate solo nel modello di
Shannon, ma in una più complessa gamma di fonti che val la pena dipanare. Jakobson
stesso ha contribuito a intorbidare le acque: la nomenclatura di base è ricalcata su quella
di Shannon ed era inevitabile che gli equivoci inerenti al passaggio dal modello
dall’area dell’ingegneria della comunicazione a quella della linguistica si
riverberassero sull’operazione jakobsoniana. A quest’ultima è stato rimproverato di
offrire un banale modello del messaggio, in cui la comunicazione, essendo mediata da
un codice, sarebbe riducibile a un processo di tipo si/no, privo di gradualità interna e
incapace di dare il giusto spazio al momento dell’interpretazione. Per quanto si sia in
seguito opportunatamente cercato di rendere il termine codice nuovamente disponibile
in chiave semiotica, neutralizzandone la matrice ingegneresca è un fatto che, quando
di codice si parla, si continua a intendere due liste ordinate di elementi, gli uni in
funzione di significante, gli altri in funzione di significato, collegate da corrispondenze
biunivoche. È un'accezione - questa - adatta per spiegare come funziona un ascensore
o una macchina per fare il pane, e semmai una certa quantità di linguaggi animali non
umani (non tutti, però!), ma che inevitabilmente frana dinanzi ai fenomeni di polisemia,
ironia, metaforicità di cui sono intrisi anche i più quotidiani atti di comunicazione
verbale. Non per caso, in un noto reading sulla teoria della metafora (Ortony, 1979) ha
trovato spazio una delle più stringenti critiche del modello del codice, o modello
"postale" della comunicazione (Reddy), che ha contribuito non poco alla
delegittimazione – almeno in ambito linguistico e semiotico - delle teorie di Jakobson.
Il filologo russo, in verità, introduceva dei correttivi di non poco conto nello schema
shannon-milleriano: prima ancora di "rivestirlo" con la griglia delle funzioni, lo
implementava con la coordinata del "contesto", nozione di statuto, tuttavia, non
evidente, e con quella del "contatto", categoria incorporante sia il canale fisico della
comunicazione (ad esempio il mezzo scritto o orale di uno scambio di battute) sia la
dimensione psicologica del rapporto fra mittente e ricevente. È utile una citazione: “Il
mittente invia un messaggio al destinatario. Per essere operante, il messaggio richiede
in primo luogo il riferimento a un contesto (il "referente", secondo un'altra terminologia
abbastanza ambigua), contesto che possa essere afferrato dal destinatario, e che sia
verbale, o suscettibile di verbalizzazione; in secondo luogo esige un codice
interamente, o almeno parzialmente, comune al mittente e al destinatario (in altri
termini, al codificatore e al decodificatore del messaggio); infine un contatto, un canale
fisico e una connessione psicologica fra il mittente e il destinatario, che consenta loro
di stabilire e di mantenere la comunicazione.”
Da notare il curioso appiattimento del contesto sulla dimensione cosale del referente,
insomma di entità extralinguistiche a sé stanti, staccate dalla dinamica viva della
comunicazione; e da notare pure il difettoso e ambiguo recupero di questa dinamica
tramite la nozione di contatto, dove però l'elemento della interazione psicologica va a
confondersi con la questione tutta diversa (anche se ovviamente interrelata) del canale
fisico prescelto o imposto nella situazione data. Si conferma l'impressione di
eclettismo: Jakobson, pure solo parzialmente disposto a riconoscere il debito contratto
con le sue fonti, fa inevitabilmente il nome di Bühler per la funzione espressiva
(focalizzata sul mittente) e di Malinowski per la funzione fatica (focalizzata sul canale).
La funzione referenziale richiama invece con ogni evidenza le teorie del riferimento,
tipiche della tradizione analitica, la funzione metalinguistica (focalizzata sul codice) ci
riporta al logico polacco Alfred Tarski (1901-1983)", la funzione conativa"
(direzionata al ricevente) di nuovo a Bühler e alla tradizione psicologica, mentre la
funzione poetica focalizzata sul messaggio: riconduce a quel fenomeno dello
straniamento che aveva in anni lontani fermato l'attenzione del formalismo russo e di
Viktor Šklovškij in particolare". Il gioco retorico di questo e altri infiniti slogan hanno
infatti la caratteristica di "deautomatizzare" la nostra percezione della realtà,
imponendole, in virtù dell'effetto che il dispositivo linguistico ha sulla coscienza
spontanea del parlante e dell'ascoltatore, una rianalisi in termini ironici, comici, critici
o altro. In secondo luogo, emerge una profonda dissonanza fra l'idea che la
comunicazione sia codifica e decodifica di messaggi (insomma una operazione a ruoli
invertiti, ma in sostanza identici) e la funzione poetica, dove il messaggio ha una natura
evidentemente ambigua e molto è lasciato alla sua interpretazione da parte del
ricevente, al fine di spremerne le possibili connotazioni. La conferenza di Jakobson",
col suo groviglio non risolto di istanze e di tradizioni teoriche, viene pubblicata nel
1960. Vale la pena insistere brevemente sulle date. A fronte della dottrina del codice,
che si avviava, anche grazie a Jakobson, a godere un'ampia e equivoca fortuna, tre anni
prima era comparso Meaning del filosofo inglese Herbert Paul Grice, uno scritto di
taglio squisitamente logico e alquanto disinteressato alle variabili socioculturali della
comunicazione.
Pure, in quello scritto si poneva con forza la distinzione fra il significato letterale
dell'enunciato e il significato inteso da parte del locutore, il che equivale a mettere in
gioco da un punto di vista teorico non solo la dimensione dell'intenzionalità, ma anche
quella dei contesti situazionali. Questo principio anima la nozione di "implicatura
conversazionale", quel sapere implicito che viene applicato nei nostri scambi dialogici
senza bisogno di esplicitazione formale a livello del messaggio. Nel più tardo Logic
and Conversation (1975) Grice tornerà sulle problematiche della comunicazione,
studiando le mosse cooperative che guidano i partners dello scambio linguistico,
tramite un continuo gioco di sponda tra la forma dei messaggi e le attese e le ipotesi di
deduzione messe in atto a ogni scambio di battute. Riportiamo le celebri "massime
della conversazione" (corrispondenti alle categorie kantiane di quantità, qualità,
relazione e modo) formulate dal filosofo:
a) Massime di quantità: (1) Dai un contributo tanto informativo quanto richiesto (per
gli scopi accettati dello scambio comunicativo in corso); (2) Non dare un contributo
più informativo di quanto richiesto.
b) Massime di qualità: (1) Non affermare ciò che credi essere falso; (2) Non affermare
ciò per cui non hai prove adeguate.
c) Massima di relazione: Sii pertinente.
d) Massime di modo: (1) Evita di esprimerti con oscurità; (2) Evita di essere ambiguo;
(3) Sii breve; (4) Sii ordinato nell'esposizione".
Alla fase infantile (che ha ovviamente una dinamica al suo interno, osservata
dall'autore a partire dai nove mesi d'età) corrispondono la capacità di usare il linguaggio
per soddisfare bisogni (funzione strumentale), per controllare il comportamento altrui
(funzione regolativa), per stabilire contatti con altri (funzione interpersonale), per
esplorare il mondo (funzione euristica), per crearsi un proprio mondo (funzione
immaginativa). Queste funzioni hanno inizialmente il senso di soddisfare le necessità
basilari del bambino, e col tempo vengono via via integrate e superate da alcune
metafunzioni molto astratte che sfruttano a fondo il carattere simbolico del linguaggio:
le funzioni interpersonale, ideazionale e testuale. Esse aiutano il parlante a realizzare il
"potenziale semantico" (meaning potential) della loro lingua, cioè l'insieme dei
possibili significati che essa (storicamente, semioticamente) veicola. A ogni
metafunzione fanno capo una gamma di possibili usi della lingua. Attraverso la
funzione interpersonale il parlante «si immette nel contesto di situazione, sia
esprimendo i suoi atteggiamenti e giudizi, sia cercando di influenzare gli atteggiamenti
e il comportamento degli altri». Essa corrisponde quindi alla somma della funzione
espressiva e conativa di Bühler e Jakobson. La funzione ideazionale si articola però in
due sottocomponenti: quella "esperienziale", che Halliday considera la funzione
"contenutistica" del linguaggio, il suo farsi «espressione dei processi e di tutti i
fenomeni del mondo esterno», come pure dei suoi sentimenti e pensieri (c'è quindi
un'analogia e uno slargamento rispetto alla funzione rappresentativa di Bühler e
soprattutto a quella referenziale di Jakobson); e una sottocomponente "logica",
consistente nella architettura gerarchica e sintattica del discorso, che ha dunque
carattere ricorsivo. Infine, la funzione testuale è quella che mette in forma il linguaggio
nel contesto comunicativo, dandogli una texture, una struttura testuale riconoscibile.
Da tale punto di vista, «la componente testuale ha la funzione di rendere possibili le
altre due», perché significati interpersonali e ideazionali hanno bisogno di calarsi in
per venire «attualizzati» Halliday si sforza di dare uno statuto formale alle categorie
che introduce, in vista dell'obiettivo di una teoria unitaria del linguaggio in quanto
"semiotica sociale". Di qui alcune importanti precisazioni a proposito di nozioni
correnti in questo ambito di studi: quel che si chiama situazione comunicativa" andrà
intesa non come fotografia di una situazione empirica, ma come "tipo di situazione",
cioè come un'occorrenza di una vera e propria struttura semiotica accreditata all'interno
di una certa cultura; quel che si chiama "codice", a sua volta, andrà inteso come
un'entità culturale complessa, in sostanza come il principio semiotico che consente la
scelta e il montaggio di certi significati da parte del parlante e dell'ascoltatore: quel che
"si può dire" all'interno di certi vincoli culturali e sociali; non sono dunque
semplicemente varietà di una lingua, ma «ordini simbolici di significato» che si
collocano al di sopra di esse, e ne abilitano l'uso. Su questi presupposti diviene possibile
classificare ne comunicativa nei suoi connotati semiotici attraverso tre parametri: il
campo, il tenore e il modo.
• Il "campo" è l'azione sociale che si sta svolgendo e nella quale vengono inseriti
uno o più testi;
• il "tenore" si riferisce ai rapporti reciproci e ai ruoli sociali dei partecipanti alla
comunicazione;
• il "modo" è il canale prescelto e chiarisce la funzione assegnata alla lingua nella
situazione data.
Note: L'interpretazione in senso debole della nozione di sistema trova, del resto,
conferma nelle più recenti revisioni del pensiero saussuriano;
2. Più precisamente, la frase è l'entità che in ogni nuova enunciazione rimane invariata;
l'enunciato coincide, invece, con ciascuna delle realizzazioni della frase in un certo
contesto comunicativo. In altri termini, la frase sarebbe una sequenza-tipo, l'enunciato
una sequenza-occorrenza.
3. Ciò è dipeso dal fatto che l'edizione francese dei Saggi di linguistica generale (1963),
che contiene il saggio del 1957 nel quale Jakobson affronta la questione dei
commutatori, è precedente. all'uscita dei lavori di Benveniste, il quale, però, stava
lavorando già da tempo alla sua teoria, peraltro citata da Jakobson.
Note:4. Bühler (1934) ha distinto due campi del linguaggio: un campo simbolico, cui
afferiscono i Nennwörter (nomi con funzione simbolica), e un campo indicale, cui
corrispondono gli Zeigwörter, i deittici. Come i pronomi di Benveniste, gli Zeigwörter
non designano il proprio referente, bensì lo indicano. Il campo indicale è, più
precisamente, un sistema di coordinate spaziali, temporali e personali, al cui centro si
colloca la ego-hic-nunc-origo dell'enunciazione. Di conseguenza, il parlante
compiendo un atto enunciativo diviene il centro di un campo indicale. 5.
L'enunciazione si distingue, così, dall'attività linguistica che concerne il processo che
conduce alla realizzazione dell'enunciato. L'enunciazione è, per contro, un atto, un
evento. l'enunciato mostra la propria enunciazione, ne è immagine.
Indici di persona
I pronomi personali mettono in rapporto costante e necessario il locutore con la propria
enunciazione. A differenza dei nomi, che hanno un referente oggettuale - denotano,
cioè, concetti costanti e non mutano riferimento nel passaggio dal sistema virtuale della
lingua al piano attuale del discorso -, questi indici personali, definiti da Jakobson
(1963) "commutatori", hanno un referente discorsivo, assumono cioè il riferimento in
relazione al soggetto che li enuncia. In altri termini, i pronomi hanno una referenza
variabile tutta interna al linguaggio; essi non rimandano a una classe d'oggetti, né a
individui fissi, innescando un riferimento che non segue, come per i nomi, la direzione
linguaggio- mondo. Per questa ragione, i referenti delle forme pronominali possono
essere definiti «solo in termini di parlare, e non in termini di oggetti»; io e tu indicano
persone sempre diverse e particolari, quindi «non rimandano né alla realtà, né a
porzioni oggettive nello spazio o nel tempo, ma all'enunciazione, ogni volta unica".
Anche i verbi sono soggetti alla categoria della persona, e a proposito delle relazioni
di persona nel verbo, lo studioso francese riprende una classificazione della
grammatica araba, che oppone la prima persona (colui che parla), alla seconda (colui
al quale ci si rivolge/ che ascolta) e alla terza (colui che è assente), individuando nelle
prime due (io, tu) gli attori dello scambio comunicativo, invertibili nei turni di parola.
A differenza di queste, la terza è una non-persona poiché non comporta una variazione
della referenza in relazione al locutore, potendo designare qualunque entità al di fuori
della situazione comunicativa". Una "correlazione di personalità" oppone, dunque, le
persone io e tu alla non-persona egli; allo stesso modo, una "correlazione di
soggettività" oppone la persona soggettiva io alla persona non soggettiva tu, poiché
solo chi si designa come io assume il linguaggio come soggetto". Da ciò discende che
il linguaggio verbale è l'unico sistema semiotico dotato di forme attraverso cui l'uomo
può costituirsi come soggetto; solo nel e attraverso il linguaggio è perciò garantita
l'espressione della soggettività".
Note:7. Tuttavia, l'interesse del linguista lituano Algirdas J. Greimas (1917-1992) per
l'enunciazione è solo superficiale; infatti, secondo lo studioso, il testo, sebbene
enunciato da qualche soggetto, non consente mai di risalire all'enunciatore reale,
inattingibile per definizione. Nella teoria greimasiana la questione dell'enunciazione
compare, quindi, solo in senso virtuale e di essa si approfondisce esclusivamente
l'aspetto della soggettività.
Indici dell'ostensione
Pronomi dimostrativi come questo e quello implicano un gesto che indica l'oggetto
designato nel momento stesso in cui ne viene pronunciato il nome. Essi sono spesso
correlati alla persona che li pronuncia e si riferiscono agli oggetti in maniera co-
estensiva all'atto dell'enunciazione hanno cioè valore all'interno delle coordinate
spazio-temporali (qui e ora) che l'atto enunciativo definisce, assumendo un
ordinamento dello spazio a partire da un punto centrale che coincide con l'ego. Nei
termini di Bühler (1934), tali indici funzionano all'interno di un "campo indicale" le
cui coordinate spazio-temporali e personali sono definite dal locutore nel momento in
cui prende la parola.
Note: 8.Come osserva Jakobson (1963), i commutatori hanno due peculiarità dal punto
di vista cognitivo: rappresentano una delle fasi più tardive dell'acquisizione linguistica
e sono più a rischio di perdita nei casi di afasia,
9. Questo statuto di non-persona sarebbe confermato dal diverso trattamento
morfologico che le lingue dotate di verbo riservano alla terza persona rispetto alle
prime due;
10. In più io implica un doppio riferimento poiché designa, oltre a colui che parla,
anche un discorso su questa persona. 11. Che è, più correttamente, una
intersoggettività, in quanto l'io che pone sé stesso pone contemporaneamente un tu
12. È il caso di questo e codesto in relazione a io/tu. Tale opposizione si è però
neutralizzata nell'italiano contemporaneo.
Tempo
Le forme della temporalità sono legate strettamente alla questione dell’enunciazione.
Il sistema temporale assume il presente come espressione del tempo co-estensivo alla
situazione discorsiva: il presente linguistico non ha alcuna realtà oggettiva esterna, ma
è sui-referenziale, si riferisce cioè al momento in cui è enunciato. Di più, il presente è
l'unico tempo inerente al linguaggio, segnalando la coincidenza dell'avvenimento e del
discorso, ed è per sua natura implicito: i tempi diversi dal presente hanno bisogno di
essere esplicitati come punti di vista proiettati indietro o in avanti a partire da esso. La
lingua ha quindi, tra le altre, anche la funzione di concettualizzare il tempo, che è una
creazione linguistica. Rispetto al tempo "fisico" (un continuo uniforme e infinito,
lineare e irreversibile, che si correla a una durata variabile soggettivamente) e al tempo
"cronico" (quello degli orologi e degli avvenimenti, oggettivato e socializzato, che può
essere percorso nei due sensi, dal passato al presente e viceversa), il "tempo linguistico"
diviene intersoggettivo poiché funge da riferimento comune ai partecipanti allo
scambio comunicativo, caratterizzando la relazione tra il locutore (io) e l'allocutore
(tu). Per Benveniste, l'esperienza temporale si organizza sulla base di due sistemi,
quello della storia (enunciazione storica) e quello del discorso (enunciazione
discorsiva), distinti in relazione alla presenza/assenza di elementi deittici. Il discorso si
caratterizza perché, a differenza della storia, i fatti sono individuati temporalmente in
riferimento all'atto enunciativo. Infatti, mentre i tratti tipici della storia sono l'impiego
del passato remoto (aoristo) come tempo base, l'assenza di deittici, l'esclusione dei
pronomi di prima e seconda persona e l'uso esclusivo della terza persona,
l'enunciazione discorsiva è distinta dall'uso del presente, fulcro dal quale si diramano
gli altri tempi, dall'uso dei deittici, dall'uso dei pronomi di prima e seconda persona e
dall'eventuale uso della terza persona, in quanto non-persona. Dalla distinzione
benvenistiana tra storia e discorso si diramano molti tentativi di classificazione dei
discorsi, fondati per lo più sul criterio della presenza/assenza all'interno del testo di
indici. Su questa scia, si giunge a definire discorso quei testi (scritti o orali) in cui
l'identificazione degli indici dipende dalla situazione di enunciazione e storia quelli in
cui l'identificazione degli indici avviene in relazione alla situazione di enunciato. Si
distingue, così, il "dialogo" (in cui la situazione di enunciazione del locutore coincide
con quella del suo interlocutore) dal "monologo" (in cui l'identificazione della
situazione discorsiva avviene in relazione al solo locutore). In altri casi la situazione
evocata dall'enunciato non coincide con quella dell'enunciazione con uno scarto
temporale e/o spaziale". La distinzione benvenistiana tra storia e discorso ha avuto
molto successo nell'ambito degli studi narratologici, dove, pur mantenendo la sua
validità, è stata variamente riformulata. Essa corrisponde, per esempio, a quella
tracciata da Harald Weinrich (1964), tra "commento", cui corrispondono tempi verbali
come il presente, il passato prossimo e il futuro, accompagnati dalla prima e dalla
seconda persona, e "narrazione", cui corrispondono tempi come il passato e trapassato
remoto, l'imperfetto ei condizionali, insieme alla terza persona". Anche per Weinrich,
la scelta dei tempi è strettamente legata alla questione dell'enunciazione, infatti, sul
piano della modalità, i tempi commentativi segnalano un atteggiamento di tensione da
parte del locutore, mentre quelli narrativi marcano un atteggiamento di distensione.
Note: 13. Secondo Manetti, questa tipologia discorsiva rende conto della simulazione
di enunciazione discorsiva propria della pubblicità televisiva, che realizza la sua
funzione conativa postulando una situazione enunciativa comune all'enunciatore e
all'enunciatario. La simulazione sta nel fatto che un evento che dovrebbe essere unico
viene continuamente ripetuto; inoltre, le situazioni in cui si trovano enunciatore ed
enunciatario sono necessariamente diverse; infine, mentre l'enunciazione ha natura
dialogica, nella comunicazione televisiva il destinatario corrisponde in realtà a una
molteplicità indifferenziata.
15. La prospettiva linguistica mette in relazione il tempo testuale con quello reale,
segnalando per ogni tipo temporale un grado zero, una forma di retrospezione e una
forma di prospezione. Per i tempi commentativi il grado zero è il presente, la forma di
retrospezione il passato prossimo, la forma di prospezione il futuro; per i tempi
narrativi, l'imperfetto è il grado zero, il trapassato prossimo e remoto la forma di
retrospezione e i due condizionali la forma di prospezione. Dall'opposizione tra mondo
commentato e mondo narrato scaturisce una tipologia di discorsi.
Illocutività
Le forme dell'illocutività comprendono le funzioni sintattiche che mettono in primo
piano il rapporto tra locutore (io) e allocutore (tu) tra le quali rientrano i verbi
"performativi" (o esecutivi) e tutte le situazioni nelle quali si usa la lingua per
influenzare il comportamento altrui. In particolare, già prima di Austin (1962),
Benveniste (1958) aveva chiarito la funzione performativa di alcuni verbi, legandola
alla questione dell'enunciazione. Gli enunciati performativi contengono un verbo - alla
prima persona del presente indicativo - che denomina l'atto che l'enunciato stesso.
compie; inoltre, potendo essere enunciato solo entro precise coordinate spazio-
temporali, ogni atto linguistico performativo è unico e sui-referenziale.
Modalità
La nozione di modalità nella sua accezione contemporanea risale a un allievo di
Saussure, Charles Bally il quale, a partire dalla distinzione medievale tra dictum e
modus, osserva che il primo è il risultato concreto di un processo di rappresentazione
e il secondo l'espressione dell'operazione psichica che il soggetto compie su tale
rappresentazione". In sintesi, con "modalità" si indicano le forme con le quali il
locutore marca il proprio enunciato, indicando il proprio atteggiamento o la propria
adesione rispetto a esso e, di conseguenza, rispetto a ciò che l'enunciato esprime. Una
prima categoria di verbi che esprimono le modalità è quella dei verbi di atteggiamento
proposizionale (credere, pensare, supporre ecc.), i quali, cioè, esibiscono
l'atteggiamento psicologico del parlante rispetto al contenuto proposizionale
dell'enunciato. Tra le modalità "formali" si distinguono, oltre ai modi verbali, alcune
espressioni fraseologiche (come gli avverbi di opinione forse, senza dubbio,
probabilmente ecc.), le trasformazioni modalizzatrici (enfasi, passivo facoltativo), la
variazione degli stili e registri, le modalizzazioni degli atteggiamenti del soggetto e,
infine, le modalizzazioni dei tipi di enunciati (come i performativi). Parallelamente,
dalla parte del ricevente, un discorso può apparire trasparente o opaco: la "trasparenza"
rimanda alla totale assenza del soggetto dell'enunciazione, che combacia con
l'enunciatario; l"opacità" comporta, invece, la trasformazione di ogni lettore in soggetto
dell'enunciazione. Si oscilla dunque dal discorso scientifico, esempio paradigmatico di
discorso trasparente, alla poesia lirica, discorso opaco per eccellenza.
Note: 19. Secondo Coseriu (1997) alla definizione di testo come livello di
strutturazione idiolinguistico corrisponde una prima linguistica del testo, la
grammatica transfrastica o grammatica del testo, che ne presuppone un'altra, relativa
non alle singole lingue storico-naturali, bensì al linguaggio inteso come peculiare
attività umana: la linguistica del testo propriamente detta dovrebbe occuparsi, infatti,
dei testi che compaiono a un livello autonomo della sfera linguistica, ancor prima della
distinzione tra determinate lingue.
Note: 21. Secondo Hjelmslev (1943) vi sono lingue in cui il piano dell'espressione può
assumere carattere segnico, e divenire a sua volta lingua (lingue denotative) e lingue in
cui il piano del contenuto diventa a sua volta lingua (metalingue). La nozione
hjelmsleviana di connotazione rende conto di alcuni clementi segnici sul piano
dell'espressione, detti connotatori, assunti nei testi esclusivamente per la loro
appartenenza a un sistema di segni. Più in generale, la nozione di connotazione si
riferisce ai significati secondari, aggiunti, a quello denotativo o letterale.
22. É questo il modello della comunicazione proposto da Bühler (1934).
24. Sebbene spesso, come in questo caso, assimilate, la dicotomia chomskyana
competence/performance è solo parzialmente sovrapponibile a quella saussuriana
langue/parole.
Note: 25. Per contro, l'approccio socio-semiotico, sulla scorta dello slogan greimasiano
al di fuori del testo non ce salvezza, utilizza il testo come modello formale per la
spiegazione di tutte le manifestazioni culturali umane, intese come fenomeni di
significazione. Secondo questa visione allargata, sarebbero testi anche gli ipermercati,
i modi di preparazione di un piatto, gli esperimenti scientifici ecc., poiché è possibile
ricostruire la testualità in essi implicita, ovvero esplicitare la loro struttura semantica
soggiacente, discorsiva e narrativa. Questo allargamento del campo di indagine ha
mostrato tutti i limiti dell'approccio semiotico testualista, conducendo, specie
nell'ambito della socio-semiotica, alla graduale vaporizzazione della nozione di testo.
In senso più ampio, questa prospettiva conduce a un ripensamento sull'oggetto stesso
della semiotica.
Sebbene le sette condizioni siano tutte necessarie affinché si possa parlare di testo,
occorre riconoscere una maggiore pregnanza alla coerenza e alla coesione, i due criteri
incentrati sul testo, mentre gli altri (intenzionalità, accettabilità, informatività,
situazionalità e intertestualità) afferiscono agli utenti del testo e, più in generale, alla
situazione comunicativa largamente intesa. La coerenza, poi, assume uno status
privilegiato: è, infatti, solo al testo inteso come tessuto unitario - il termine deriva dal
latino textus, tessuto, trama" - che tutti gli altri requisiti della testualità, coesione
compresa, vanno ricondotti. Più propriamente i mezzi di coesione sono istruzioni in
base alle quali il ricevente (ri) costruisce la coerenza testuale e, qualora queste
istruzioni dovessero risultare insufficienti o fallaci, è sempre la coerenza a colmare le
lacune della coesione. A questo proposito, risulta illuminante la distinzione di Conte
tra coerenza a parte obiecti cioè come caratteristica costitutiva del testo in quanto testo,
e coerenza parte subiecti, cioè come principio-guida dell'interpretazione. La prima
concezione fa riferimento alle strutture semantiche che conferiscono unità al testo, la
seconda invece mette in gioco le Welt-und-Wertvor- stellung, le conoscenze del mondo
e i sistemi di valori dell'interprete che, davanti a un testo, manifesta una disposizione a
rintracciarvi una coerenza o costanza di senso. Così intesa, la coerenza rende conto
della natura dinamica e dialogica delle strutture testuali, che interagiscono
costantemente con i processi cognitivi dell'interprete.
Note: 26. Secondo Beaugrande e Dressler (1981), ai sette principi costitutivi del testo,
si affiancano tre principi regolativi che controllano la comunicazione testuale:
l'efficienza, che dipende dal grado (possibilmente limitato) di impegno e sforzo da
parte dei partecipanti alla comunicazione nell'uso del testo stesso; l'effettività, relativa
all'impressione lasciata dal testo, che può produrre condizioni favorevoli al
raggiungimento di un fine, e l'appropriatezza, data dall'accordo tra il contenuto del testo
e i modi in cui vengono soddisfatte le condizioni della testualità.
Note: 28. Nei termini di Coseriu andrebbero distinti tre tipi di saper parlare: la tecnica
del parlare in generale (piano universale della facoltà del linguaggio) la tecnica del
parlare una lingua storica (piano storico della competenza linguistica) e la tecnica del
sapere come vengono plasmati determinati testi o tipi di testo (piano della competenza
testuale).
29. Sotto il primo aspetto, si consideri il principio di sospensione dell'incredulità, che
rende accettabili i testi narrativi nei quali accadono cose impossibili secondo le leggi
del pensiero razionale; sotto il secondo aspetto, si pensi, invece, alla violazione delle
regole linguistiche che rende appetibili molti slogan pubblicitari.
Che la comunicazione tra esseri umani avvenga attraverso testi, intesi come unità
comunicative globali, e non attraverso singole parole o enunciati è uno degli assunti
fondanti della semantica cognitivamente orientata e in opposizione a una teoria
componenziale" e acontestuale del significato lessicale, lo studioso propone una teoria
semantica fondata sull' idea che la comprensione di un singolo elemento lessicale
richiede la mobilitazione di complessi e strutturati pacchetti di conoscenze di natura
non e linguistica. I frames sono infatti le cornici. gli sfondi, i backgrounds rispetto ai
quali inquadriamo i testi, mettendoli in relazione con i nostri saperi già acquisiti,
relativi non solo ai significati delle parole (conoscenze "dizionariali") ma anche al tipo
di interlocutore che abbiamo di fronte, a come si svolgono certi eventi (conoscenze
enciclopediche). Il sapere testuale è dunque legato all'enciclopedia" individuale e, in
particolare, alla capacità di inquadrare le informazioni in frame che permettano di
interpretare il testo come unità logico-semantica, cogliendone, nei termini di Coseriu,
il senso o rintracciandone, nei termini di Conte, la coerenza. In una visione dinamica
del linguaggio e della mente, le strutture concettuali che costituiscono il sapere testuale
non vanno intese come configurazioni statiche, definite una volta per tutte: da un lato,
infatti, la competenza testuale - come quella linguistica e quella comunicativa più
generale - è un processo che si evolve nel tempo, consentendo di rintracciare un
principio di coerenza anche in testi in altri momenti considerati incoerenti o assurdi;
dall'altro, i frames devono rispondere a un principio di efficienza ed economia
cognitiva, per cui devono essere abbastanza particolari (fine-grained) da applicarsi
senza troppo sforzo cognitivo alle diverse situazioni nelle quali ci imbattiamo, ma
anche abbastanza laschi (coarse-grained) da consentire di rendere conto di casi nuovi
o atipici. Difatti, è proprio dall'integrazione tra le informazioni che l'utente possiede e
quelle presenti nel testo che si genera conoscenza; le strutture concettuali individuali
(spazi mentali) sono continuamente arricchite dalle informazioni provenienti, in forma
prevalentemente testuale, dall'ambiente. Gli spazi mentali traggono linfa dalle nuove
sfide interpretative, che costringono il lettore ad acuire le proprie capacità mentali: essi
si riorganizzano e si fondono tra loro, consentendo al sistema concettuale di
raggiungere, ogni volta, l'equilibrio ottimale tra le esigenze contrapposte della stabilità
e della flessibilità. Il fenomeno della fusione di spazi mentali è un meccanismo tipico
dell'attività cognitiva umana, che accompagna tutte le operazioni di manipolazione
simbolica, comprese la produzione e comprensione testuale. Gli approcci
cognitivamente orientati recuperano (spesso senza saperlo) la tradizione
dell'ermeneutica della ricezione che fa capo a Wolfgang Iser (1972), considerando la
lettura di un testo un'esperienza (Erlebnis) in senso pieno, un evento che mobilita tutte
le risorse immaginative e cognitive del fruitore, situandolo in un gioco delle parti col
testo che lo strappa a ogni passività. In definitiva, la comprensione è un'attività
costitutiva dell'ascoltatore che procede attraverso passi interpretativi intermedi, come
nella composizione di un puzzle “.
Concludendo, ricordiamo che i tipi testuali, che hanno a che fare con le modalità
comunicative e le matrici cognitive che i testi attivano, non coincidono con i generi,
che costituiscono un insieme di convenzioni retoriche e stilistiche maturate nell'ambito
di una determinata tradizione culturale. L'individuazione del genere (narrativa, epica,
lirica) - e spesso del sottogenere (romanzo psicologico, storico, giallo) nelle sue
ulteriori articolazioni (il giallo è infatti ulteriormente segmentabile in thriller, noir,
poliziesco ccc.) - è un'operazione fondamentale nel processo di interpretazione di un
testo (sia esso orale, scritto, radiofonico, televisivo ecc.) poiché in relazione a esso si
attivano alcune inferenze, escludendone altre, In altri termini, l'individuazione del
genere implica l'individuazione di alcuni frames che vincolano i passi interpretativi
successivi. Dal punto di vista linguistico, il lessico, le strutture sintattiche e testuali
sono legate al genere, che costituisce un insieme di norme immanenti al testo,
rientrando dunque nella competenza testuale. Ogni testo è dunque percepito e
compreso attraverso il genere cui appartiene, tanto che questo prevale sulle altre
regolarità linguistiche” e trascende persino gli autori; «il sentimento generico, infatti,
è parte del sentimento linguistico, dato che le lingue si apprendono all'interno dei
generi»
Note: 41. Nei casi estremi il genere determina addirittura la lingua: il latino è la lingua
della religione, l'italiano della musica, l'inglese dell'informatica
Note: 1. Le altre due dimensioni identificate da Morris sono la sintassi, ossia lo studio
delle relazioni dei segni tra loro e la semantica, ossia lo studio delle relazioni tra i segni
e gli oggetti cui si riferiscono. Secondo la ricostruzione di Maria E. Conte (1983) gli
atti di linguaggio o atti linguistici, assieme ai giochi linguistici teorizzati da
Wittgenstein (1951) hanno rappresentato i due presupposti, esterni al dibattito
strettamente linguistico, più significativi per la costruzione della "pragmatica
linguistica, sviluppatasi essenzialmente come reazione al modello dominante della
grammatica generativa di Chomsky che proponeva una teoria della competenza
sintattica di un parlante - ascoltatore ideale, ignorando sia la molteplicità delle funzioni
del linguaggio, sia la rilevanza della situazione del discorso. É, tuttavia, importante
sottolineare come nessuno dei teorici che lanciarono il termine speech act ne abbia fatto
ab ovo un oggetto collocabile nella dimensione pragmatica del linguaggio e come tale
inclusione sia avvenuta solamente a posteriori. In questo senso va letta, ad esempio, la
ridefinizione della pragmatica, intesa come l'aspetto "trascurato" della tripartizione
morrisiana, operata dal filosofo statunitense Robert C. Stalnaker (1940-): La
pragmatica è lo studio degli atti linguistici e dei contesti in cui vengono compiuti. Due
sono i tipi di principali problemi che devono essere risolti nell'ambito della pragmatica:
primo, definire dei tipi interessanti di atti linguistici e di prodotti linguistici; secondo,
caratterizzare i tratti del contesto del discorso che ci aiutano a determinare quale
proposizione è espressa da un dato enunciato.
Allo stesso modo è da tener presente come l'ampia discussione sulla liceità di una netta
separazione tra sintassi, semantica e pragmatica si ripercuota sulla collocazione teorica
degli stessi atti linguistici. Sbisà (1978) sottolinea come gli atti linguistici si situino
sulla linea di confine tra il significare e l'operare, ossia tra quanto è determinato da
regole linguistiche e quanto dalla situazione d'interazione in cui l'enunciato viene
prodotto, e dunque come si tratti di fenomeni al contempo semantici e pragmatici. In
questo senso, è da accogliere un'accezione della pragmatica come fondamento, e non
complemento, di sintassi e semantica, nella quale trova posto una teoria del linguaggio
inscritta «in una teoria generale dell'azione della quale l'unità fondamentale è o l'atto
linguistico o il gioco d'azione comunicativo». L'introduzione del termine "atto
linguistico" è legata senz'altro alla filosofia analitica anglosassone' ed in particolare
alla filosofia del linguaggio ordinario (ordinary language Philosophy), ossia del
linguaggio d'uso comune, sviluppatasi a partire dagli anni trenta nelle università di
Cambridge e di Oxford grazie ai lavori di Ludwig Wittgenstein (1889-1951) e Gilbert
Ryle (1900-1976), per poi proseguire, dalla fine degli anni trenta e soprattutto negli
anni quaranta e cinquanta, prevalentemente ad Oxford, con l'opera di John L. Austin
(1911-1960). Questi, nelle sue lezioni tenute ad Oxford e Harvard
Note: 10. Più esattamente Frege, nell'Ideografia, aveva parlato di forza assertoria. Lo
scopo dell'Ideografia era intatti quello di costruire un linguaggio logico per la
matematica, in cui fosse chiara la differenza tra esprimere un "contenuto concettuale e
asserirne la verità.
Austin era un grande ammiratore dell'opera di Frege e da questi aveva ripreso non
soltanto la nozione di forza, ma anche quella di significato come entità analizzabile in
duc componenti distinte: il "senso" (Sinn) e il "riferimento" (Bedeutung). Nel saggio
intitolato Ober Sinn und Bedeutung (1892), Frege aveva individuato due aspetti del
significato: il riferimento, in base al quale denotiamo l'oggetto concreto
extralinguistico, e il senso, ossia il modo in cui lo stesso oggetto si presenta, "si dà"
intersoggettivamente. Sia i nomi che gli enunciati, secondo Frege, devono avere un
senso, ma possono tranquillamente non avere un riferimento. Va sottolineato come
l'obiettivo di Frege fosse la costruzione di un linguaggio logico-simbolico per la
matematica", privo delle ambiguità proprie del linguaggio d'uso quotidiano, in cui
risultasse chiaro. Frege era dunque interessato, in prima istanza, a quei pensieri" che
potevano essere giudicati veri o falsi e abbracciava, tra l'altro, un'ontologia
platonizzante secondo la quale le entità concettuali sono dotate di una "realtà oggettiva"
indipendente sia dal loro essere pensate, sia dal loro essere espresse linguisticamente.
Nel saggio Il pensiero aveva ipotizzato infatti l'esistenza di un "regno dei pensieri",
accanto al mondo fisico e al mondo psichico (soggettivo). É evidente come un impianto
teorico di questo tipo fosse incompatibile con il progetto austiniano di occuparsi del
linguaggio ordinario. Tuttavia, Austin aveva colto perfettamente gli spunti di grande
rilievo per la filosofia del linguaggio presenti nell'opera del matematico tedesco.
Quanto alla questione del significato. Austin, in How to Do Things with Words, pur
dichiarando che esso «"equivale" a senso e riferimento non presenta argomentazioni a
favore della propria assunzione, essendo maggiormente interessato a evidenziare la
rilevanza delle diverse forze degli enunciati. Wittgenstein, nel Tractatus, si proponeva
di rintracciare l'essenza del linguaggio, ossia una struttura logica profonda comune a
tutti i linguaggi, a quello d'uso quotidiano così come ai linguaggi logico-simbolici, A
tal fine aveva elaborato una teoria "raffigurativa" della proposizione, secondo la quale
una proposizione è un'immagine di un possibile stato di cose, che possiamo chiamare
il suo senso, ed è vera se il suo senso concorda con la realtà, altrimenti è falsa. Ma la
proposizione è, a sua volta, un segno composto da nomi, i quali hanno significato solo
se designano (o denotano) degli oggetti. Rispetto all'impostazione fregeana viene a
mancare, nel Tractatus, l'elemento mediatore del Sinn inteso come "modo di
presentazione": per Wittgenstein, un nome privo di riferimento è privo di significato.
La presenza di un nome che non denota all'interno di una proposizione non la rende
priva di senso, ma falsa. La proposizione risulta allora essere funzione di verità delle
sue componenti (vero funzionalismo), ossia vera in base alla verità dei suoi elementi
costitutivi, e sempre passibile di un confronto con la realtà nei termini di una
corrispondenza. Nel Tractatus viene dunque presentata una teoria del significato come
rappresentazione, che ha però il forte limite di poter essere applicabile, nel contesto del
discorso, solamente agli enunciati dichiarativi o asserzioni (statements).
Il richiamo alle circostanze in cui viene fatta l'asserzione amplia la nozione di contesto
alla situazione, linguistica e non in cui viene proferito l'enunciato, legandolo peraltro
al soggetto autore del proferimento e all'uditorio cui esso è rivolto. Tra le asserzioni
apparenti, già in Truth, Austin annoverava le performatory utterances, ossia gli
enunciati performativi, i quali, piuttosto che "dire qualcosa" equivalgono in tutto e per
tutto a compiere un'azione. Austin rilevava un'asimmetria tra la prima persona del
presente indicativo di alcuni verbi e le restanti persone e tempi del medesimo verbo.
Nelle prime lezioni di How to Do Things with Words Austin fornisce un'ampia
trattazione delle peculiarità dei performativi: A. non "descrivono" o "riportano" o
constatano assolutamente niente, non sono "veri o falsi"; e B. l'atto di enunciare la frase
costituisce l'esecuzione parte dell'esecuzione, di una azione che peraltro non verrebbe
normalmente descritta come, o come "soltanto" dire qualcosa. Chiaramente, per
enunciati di questo tipo non ha senso porsi il problema della verità. È invece necessario
che il performativo venga proferito in una situazione appropriata, altrimenti, secondo
la terminologia austiniana, sarà "infelice" (unhappy). Casi di infelicità del performativo
possono darsi:
1. Se l'autore non è in condizione di compiere l'atto in questione oppure se l'oggetto cui
ci si riferisce non è adatto a esservi sottoposto. In tal caso il performativo sarà nullo;
2. Se colui che proferisce l'atto non ha intenzione di compiere l'azione in causa: in tal
caso il performativo sarà abusato;
3. Se tutto si è svolto regolarmente, ma si verifica, in seguito al compimento dell'atto,
un evento non in regola con esso, ossia una rottura dell'impegno.
Austin evidenzia immediatamente come sia possibile, in molti casi, eseguire un atto
convenzionale anche senza ricorrere a una formula verbale: «In moltissimi casi è
possibile eseguire un atto esattamente dello stesso tipo non emettendo delle parole, in
forma scritta e orale, ma in qualche altro modo. Le convenzioni cui si appella Austin
non sono dunque esclusivamente linguistiche, sono culturalmente e storicamente
situate, e fanno esplicito riferimento alla dimensione sociale dell'agire comunicativo.
Peraltro, Austin non fornisce una definizione esplicita di "convenzione" in How to Do
Things with Words, ma dà solamente alcune indicazioni. Alla dimensione
convenzionale è legata la "felicità" del performativo. In altri casi, come quello della
promessa, o del porgere delle scuse, l'accento si deve porre piuttosto sull'intenzione del
parlante: Nel caso particolare del promettere, come in molti altri performativi, è
appropriato che la persona che enuncia la promessa debba avere una certa intenzione.
Tuttavia, anche il caso della promessa è legato a delle convenzioni socialmente
accettate; generalmente chi promette qualcosa ha intenzione di assumersi l'impegno di
agire in un determinato modo. Austin aveva inizialmente isolato gli enunciati
performativi contrapponendoli agli enunciati constativi, suscettibili di essere veri o
falsi. Tra questi aveva incluso gli esempi classici di asserzione logica. In How to Do
Things with Words Austin conclude con il ritenere anche i constativi valutabili in
termini di felicità/infelicità: L'asserzione resta dunque un tema presente in tutta l'opera
austiniana, ed è senz'altro il filo conduttore delle prime lezioni raccolte in How to Do
Things with Words. Uno dei propositi di Austin è chiaramente quello di considerare
l'uso assertorio del linguaggio alla stregua di tutti gli altri usi: Ancora una volta, nel
caso dell'asserire veridicamente o falsamente, tanto quanto nel caso del consigliare
bene o male, sono importanti i propositi e gli scopi dell'enunciato e il suo contesto; ciò
che è considerato vero in un libro di scuola può non essere considerato tale in un'opera
di ricerca storica. Dunque, anche per l'enunciato assertorio si può parlare di
convenzionalità, di dipendenza da un contesto che lo rende usato "felicemente o
"infelicemente". Austin suggerisce che fare un'asserzione vera sia non diverso dal
consigliare bene o dal giudicare imparzialmente; la verità, dunque, ammette dei gradi
di approssimazione e non ha un primato di oggettività. Del resto, la stessa ricerca di
criteri grammaticali e lessicali che permettessero di distinguere constativi aveva dato
esito assai incerto: «In molti casi la stessa frase viene usata in diverse occasioni di
enunciazione in entrambi i modi, performativo e constativo».
Austin e Benveniste
La ricerca di un criterio "esplicito" per il performativo aveva condotto Austin a
prendere in considerazione diversi aspetti delle lingue storico-naturali pertinenti
all'ambito di ricerca linguistica, piuttosto che a quello filosofico: l'analisi delle forme
verbali, le componenti "paralinguistiche", quali gestualità e intonazione. Che il
pensiero austiniano cogliesse questioni rilevanti per la linguistica non era sfuggito al
grande studioso francese Émile Benveniste (190o2-1976), il quale, in un articolo del
1963 intitolato La filosofia analitica e il linguaggio, aveva commentato la versione
francese della lezione austiniana su performativo e constativo. Pur non concordando
con Austin circa la necessità di una teoria «completa e generale di ciò che si fa nel dire
qualcosa», Benveniste apprezza, in Austin come nei filosofi del linguaggio ordinario
di Oxford, la propensione a occuparsi del linguaggio «così come esso viene parlato»,
mostrando una sensibilità, generalmente assente nei filosofi, per la «specificità formale
dei fatti linguistici». Benveniste, più o meno contemporaneamente ad Austin, aveva
individuato come per alcune classi di verbi l'uso della prima persona singolare del
presente indicativo avesse un valore semantico particolare e aveva introdotto, in
proposito, la distinzione tra enunciati che eseguono atti (sono resi come enunciati
"esecutivi") ed enunciati che informano: «io giuro, che è un atto, ed egli giura, che è
un'informazione». Dunque, la ragione del suo interesse per la filosofia austiniana
risiede nel voler rintracciare degli elementi utili alla propria analisi della concreta
situazione dell'enunciazione, in cui si sottolinei la presenza fondamentale del soggetto,
che, tra l'altro, si "costituisce" nel linguaggio e per mezzo del linguaggio, e il
funzionamento dell'interazione dialogica tra i parlanti. Per Benveniste l'enunciato
esecutivo assume la dimensione dell'evento, ancorato a un tempo e a un luogo definiti,
unico e non ripetibile, in quanto la sua reiterazione si tradurrebbe in un enunciato
constativo ed è sui-referenziale, in quanto si riferisce a una realtà che esso stesso
costruisce. È evidente allora perché Benveniste non includa tra gli enunciati esecutivi
gli imperativi, come invece aveva fatto Austin: Non bisogna farsi ingannare dal fatto
che l'imperativo produce un risultato, un enunciato esecutivo non è tale in quanto può
modificare la situazione di un individuo, ma in quanto è di per sé un atto.
Contrariamente all'enunciato esecutivo di Benveniste, il performativo austiniano
richiama invece proprio un'idea di azione intesa come produzione di un cambiamento
in un contesto, legando l'atto linguistico all'ottenimento di un effetto.
Questi tre aspetti ampiamente interdipendenti costituiscono, presi nel loro insieme,
l'atto "locutorio (locutionary act), ossia l'atto di dire qualcosa. Ma l'atto locutorio non
spiega ancora in che modo stiamo usando il linguaggio e di per sé non fornisce
informazioni circa il senso in cui l'enunciato debba essere preso, nella specifica
occasione in cui viene proferito. É dunque necessario, secondo Austin, chiarire se le
parole utilizzate in una certa locuzione abbiano la "forza" (nel senso fregeano del
termine) di una domanda, oppure di una promessa o altro. É a questo punto che Austin
introduce un secondo tipo di atto, ossia l'atto "illocutorio" (illocutionary act), che
determina ciò che si fa nel dire qualcosa: Quindi nell’eseguire un atto locutorio
eseguiremo un atto come: fare una domanda o rispondere a essa, fornire
un’informazione o un’assicurazione o un avvertimento, compiere un’identificazione o
dare una descrizione e molti altri.
L’atto locutorio è dunque una sorta di contenuto che include aspetti morfo-sintattici,
lessicali e semantici cui vanno applicate le diverse forze illocutorie, come Austin
stabilisce di denominare le diverse funzioni del linguaggio. Soffermarsi sul solo aspetto
locutorio significherebbe ricadere nella fallacia descrittiva e nel voler dare spiegazioni
esclusivamente in termini di significati di parole, avulsi dal contesto. Tuttavia, Austin
non abbandona la possibilità di scindere, per lo meno in astratto, il modo di impiego di
un enunciato dal suo significato e afferma, di voler e distinguere la forza dal
significato», con l'evidente proposito di evitare la sovrapposizione wittgensteiniana tra
significato e uso. Un terzo tipo di atto individuato da Austin è l'atto "perlocutorio"
(perlocutionary act), ossia l'atto che si compie col dire qualcosa, riguardante la
produzione di "effetti non convenzionali" a un'illocuzione. Se impartisco un ordine, un
effetto illocutorio sarà l'esecuzione dell'ordine: l'eventuale reazione emotiva
dell'interlocutore, che potrebbe essere infastidito dal mio ordine, rientra invece tra gli
effetti perlocutori. Posso anche compiere un atto perlocutorio in modo totalmente
aconvenzionale e senza il ricorso a mezzi locutori, ad esempio è possibile persuadere
qualcuno facendo dondolare un bastone. Determinati effetti e conseguenze rientrano
nell'aspetto convenzionale dell'atto illocutorio, e sono indispensabili affinché esso
abbia successo. Anzitutto occorre assicurarsi la recezione (uptake) da parte
dell'uditorio, e ciò sottolinea l'aspetto interazionale e interattivo dell'atto illocutorio.
Molti atti illocutori sollecitano un seguito o una risposta, come si è visto a proposito
dell'ordine; altri invece no; si pensi al porgere delle scuse. Una volta entrato in vigore
l'atto illocutorio, alcuni atti saranno in regola con esso e altri no. La differenza
fondamentale tra atti illocutori e atti perlocutori risiede dunque nel fatto che mentre i
primi sono convenzionali e riconducibili, almeno in linea di principio, a una forma
performativa esplicita, i secondi non lo sono. Tuttavia, come ammette lo stesso Austin,
non è ben chiaro dove inizino e dove finiscano le convenzioni: Come già visto per gli
enunciati performativi, non è necessario che un atto illocutorio assuma una particolare
forma linguistica e neanche che ricorra a mezzi verbali, anche se resta il fatto che
«molti atti illocutori non possono essere eseguiti se non dicendo qualcosa»
3.5 Dopo Austin: alcuni aspetti del dibattito sugli speech acts
3.5.1. Intenzione e convenzione: Strawson e Searle
L'interesse per la filosofia del linguaggio austiniana si manifestò dopo la pubblicazione
postuma delle sue importanti lezioni (1962). Intanto, nel 1957 era stato pubblicato
l'articolo Meaning in cui il filosofo analitico Paul Grice (1913-1988), formatosi
anch'egli a Oxford, esponeva una teoria del significato basata sull'intenzione del
parlante di produrre determinati effetti sull'uditorio. Ciò che conta, dunque, non è tanto
il significato letterale della frase quanto lo speaker's meaning, ossia il "significato del
parlante". Grice non parla di speech acts, tuttavia le sue osservazioni sul significato
ben si prestano a sciogliere alcuni nodi lasciati irrisolti dalla trattazione austiniana e a
essere applicate al linguaggio ordinario. Strawson, nel suo articolo Intention and
Convention in Speech Acts del 1964, prende spunto proprio dall'elaborazione griceana
per evidenziare come, accanto alle convenzioni di cui diceva Austin, l'esecuzione e la
ricezione degli atti illocutori siano legate, nella maggior parte dei casi, e in particolare
nei casi di atti illocutori non regolamentati da procedure istituzionalizzate,
principalmente alle intenzioni del parlante, al riconoscimento di queste da parte degli
ascoltatori e, al limite, alle sole convenzioni che presiedono alla determinazione dei
significati. Il ruolo dell'intenzione del parlante, sebbene accennato in più luoghi da
Austin non era stato molto enfatizzato. Austin aveva legato la recezione di un atto
illocutorio esclusivamente alla comprensione della forza e del significato della
locuzione, dunque ad aspetti dall’autore stesso definiti come prettamente
convenzionali. Secondo Strawson, la spiegazione della forza illocutoria in termini di
convenzione (ossia di riconducibilità, almeno in linea di principio, a una formulazione
performativa esplicita) funziona nei casi in cui possono essere chiaramente individuate
le condizioni relative alle circostanze in cui l’enunciato viene proferito. Ciò avviene in
tutti quei tipi di transizioni umane includenti il parlare che poggiano su procedure
stabilite.
Quello che Austin aveva chiamato effetto di recezione (uptake), legato alla
comprensione di significato e forza illocutoria, è dunque per Searle l'effetto illocutorio
per eccellenza, in aggiunta al quale il filosofo statunitense non ritiene di dover inserire
l'elemento della produzione di cambiamenti nel contesto, propria invece della teoria
dell'azione austiniana modellata sui performativi. In proposito, Sbisà fa notare come la
trasformazione del contesto sia un effetto convenzionale previsto dalla procedura
convenzionale felicemente eseguita di cui diceva Austin già a proposito dei
performativi, laddove, per Searle e Strawson, la convenzionalità degli atti illocutori è
riferita principalmente ai mezzi per eseguirli. É pur vero, però, che Searle individua
una tipologia particolare di atti illocutori, che chiama "dichiarativi", in tutto e per tutto
equivalenti ai performativi austiniani. Searle evidenzia come le dichiarazioni, a
differenza delle altre categorie di atti, provochino delle modifiche nello status degli
oggetti cui si riferiscono soltanto in virtù del fatto che la dichiarazione è stata
felicemente eseguita. A ogni modo, le convenzioni di cui dice Searle sono, convenzioni
essenzialmente linguistiche su di esse si basa la possibilità stessa di eseguire atti
linguistici: Nel caso degli atti linguistici eseguiti all'interno di una lingua, d'altra parte,
è una questione di convenzione che l'enunciazione di una data espressione in certe
condizioni conti come il fare una promessa. Austin, invece, si richiamava piuttosto a
una convenzionalità extralinguistica, che prevedeva anche la possibilità di compiere
atti convenzionali con mezzi non linguistici. Un'esemplificazione di cosa Searle
intenda per convenzioni linguistiche è data dalla sua formulazione delle condizioni di
soddisfazione degli atti linguistici, elaborate in sostituzione delle condizioni di felicità
austiniane. La "condizione di sincerità" searleana si riferisce al fatto che il parlante
deve avere l'intenzione appropriata per l'esecuzione dell'atto. Secondo la "condizione
essenziale", poi il parlante vuole che l'enunciazione, "Prometto di fare x" lo metta
nell'obbligo di fare x, da un lato specifica l'intenzione del parlante, dall'altro connette
convenzionalmente un'enunciazione con l'assunzione di un obbligo. La condizione
essenziale determina dunque quale tipo di atto illocutorio stiamo eseguendo, e da essa
dipendono tutte le altre. Le "condizioni preparatorie specificano invece la situazione
contestuale e una serie di presupposizioni riguardanti le intenzioni di parlanti e
ascoltatori. Le circostanze che Austin aveva descritto come esterne all'atto linguistico
vengono, attraverso le condizioni preparatorie, inglobate da Searle all'interno dell'atto
medesimo. Vi è poi una condizione del "contenuto proposizionale" che specifica quale
tipo di proposizione un parlante debba esprimere. Non tutti gli atti illocutori hanno però
un contenuto proposizionale, come nel caso di "Evviva, oppure Ahi!". É evidente
come, all'interno di tali condizioni, assumano un ruolo di primo piano le intenzioni del
parlante. Se ne può inferire che. con una simile formula, Searle intenda proprio
raggiungere quell'equilibrio tra intenzione e convenzione non sufficientemente
sottolineato dall'opera di Austin.
3.6: Searle e Austin: fare cose con le parole versus ciò che facciamo parlando
3.6.1: Searle: regole per gli atti linguistici
Nel suo libro del 1969, Speech Acts, John R. Searle propone una sistematizzazione
della dottrina degli atti linguistici sviluppando gran parte degli spunti austiniani, ma
operando altresì sensibili modifiche rispetto all'impostazione del maestro. Searle
procede tuttavia a una completa revisione della sua filosofia del linguaggio, che pur
non disconoscendo il ruolo degli speech acts, finisce col costituirsi come una branca
della filosofia della mente. Questa è la parte del percorso teorico searliano pertinente
al nostro contesto attuale. Searle non si limita a proporre, una tassonomia degli atti
linguistici diversa da quella austiniana, ma piuttosto colloca l'atto linguistico in un
quadro teorico che tenta di essere, al contempo, filosofico e linguistico. Nel compiere
questa operazione tiene conto sia degli sviluppi postaustiniani dell'analisi del
linguaggio ordinario, legati ai contributi di Strawson e Grice, sia della filosofia
wittgensteiniana, con le sue affinità e contrasti rispetto all'impostazione di Austin, sia
infine, in modo significativo, della svolta intervenuta nella linguistica statunitense con
la pubblicazione di Syntactic Structures di Noam Chomsky (1957). Tipicamente, per
Searle (1976, p. 36) «parlare una lingua significa impegnarsi in una forma di
comportamento molto complessa, governata da regole. Apprendere e padroneggiare
una lingua è tra l'altro apprendere e padroneggiare tali regole». Searle concorda con
Chomsky nel ritenere che le scienze del linguaggio debbano esplicitare le regole
(tendenzialmente universali) sottostanti alla competenza del parlante. In questo senso,
l'atto illocutorio searleano diventa una proposta per una semantica generativa: La
struttura semantica di una lingua può essere concepita come la realizzazione
convenzionale di una serie di insiemi di regole costitutive sottostanti e che gli atti
linguistici sono atti eseguiti, tipicamente, enunciando espressioni in accordo con questi
insiemi. Lo studio degli atti linguistici va collocato all'interno della semantica, in
quanto inscindibile dallo studio dei significati delle frasi. Dalle regole sottostanti al
funzionamento degli atti linguistici derivano le "condizioni di soddisfazione" dell'atto
linguistico, intese come realizzazioni convenzionali determinate dalle diverse lingue
naturali in cui ci esprimiamo. A ognuna delle quattro condizioni di soddisfazione
corrisponde dunque una regola (regola del contenuto proposizionale, regola
preparatoria, regola di sincerità, regola essenziale). Tali regole vengono dette da Searle
costitutive in quanto non si applicano a un'attività preesistente e indipendente da esse
(nel qual caso si tratterebbe di regole normative), ma rivestono un ruolo fondamentale
nella costruzione dell'attività stessa. Nonostante l'enfasi posta sulle regole, Searle
riconosce che «la maggior parte dei concetti non tecnici del linguaggio ordinario non
sottostà a regole rigorose». Quest 'accezione relativamente elastica della regola ricorda
quanto sostenuto in proposito dal tardo Wittgenstein (in particolare nelle Ricerche
filosofiche), secondo il quale il linguaggio è si un'attività sottoposta a regole, ma non
è delimitato da esse in ogni suo aspetto.
In questi suoi lavori, Searle è ben consapevole di aver proposto un modello largamente
idealizzato del funzionamento di un atto linguistico e, come Austin, sottolinea il fatto
che non solo è possibile eseguire un atto senza invocare un esplicito indicatore di forza
illocutoria, ma soprattutto che, nella maggior parte dei casi è più frequente una
formulazione implicita. Ciò nonostante, Searle introduce tra i suoi principi
metodologici un principio dell'esprimibilità, secondo il quale tutto ciò che si può voler
dire può, in linea di principio, essere detto. Searle si affretta a precisare come «[i]l
principio di esprimibilità non implica che sia sempre possibile trovare o inventare una
forma di espressione che produca negli ascoltatori tutti gli effetti che si intendono
produrre, ad esempio effetti poetici o letterari, emozioni, credenze e così via.
Dobbiamo distinguere tra quel che il parlante vuol dire e i diversi tipi di effetti che egli
intende produrre sui suoi ascoltatori». Ciò vuol dire che un'espressione "implicita" o
ellittica, oppure un gesto accompagna un'enunciazione o ancora il tono con cui essa
viene proferita possono essere più efficaci, rispetto a una verbalizzazione esplicita, allo
scopo di produrre negli interlocutori determinati effetti, anzitutto emotivi. Ciò
nonostante, Searle sembra ritenere essenziale he le regole che governano gli atti
linguistici acquisiscano la stessa precisione delle regole sintattiche e grammaticali, di
modo che la presenza di un determinato elemento sia sufficiente a determinare quale
atto linguistico stiamo eseguendo. Se l’esigenza di rendere almeno in linea il principio
esplicita la forza illocutoria di un enunciato accomuna Searle e Austin, sembra che
quest’ultimo con il principio di esprimibilità, voglia proiettare all'interno dell'atto
linguistico l'intera situazione in cui esso ha luogo
Note:18. È stato osservato che tale principio ha una certa affinità col concetto di
onniformatività semantica proposta dal linguista danese Louis Hjelmslev
Per quanto riguarda la classificazione dei diversi tipi illocutori e la ripartizione interna
dell'atto illocutorio, la proposta di Searle si discosta sensibilmente dall'elaborazione
austiniana. In particolare, Searle non ritiene metodologicamente "sicuro" fare appello,
come aveva fatto Austin, a dei verbi illocutori. Come scrive in A Taxonomy of
Illocutionary Aets «I verbi illocutori costituiscono una guida buona, ma non certamente
sicura, alle differenze tra atti illocutori». Per quanto riguarda la struttura interna
dell'atto linguistico, Searle parla di "dispositivo (o indicatore) di forza illocutoria" e
recupera, in qualche modo, l'originario simbolismo introdotto da Frege (1965a) che
prevedeva un segno di contenuto (-p esprime il contenuto proposizionale "che p"), un
segno di giudizio (|-p esprime l'asserzione della verità della proposizione "p"),
unitamente ai simboli correntemente utilizzati in logica formale. In luogo dell'atto
locutorio di cui diceva Austin e delle sue, sottocomponenti, fonetica, fàtica e retica,
Searle individua un "atto enunciativo", ossia l'enunciazione di parole e morfemi e un
"atto proposizionale", che consiste nel fare riferimento e nel predicare (ossia nel parlare
di qualcosa o di qualcuno, e nel connettervi un predicato, ad esempio "fuma", oppure
"è seduto"). Per eseguire un atto illocutorio dovrò certamente eseguire un atto
enunciativo e un atto proposizionale. Avrò così un contenuto proposizionale al quale
potrò poi applicare diverse forze illocutorie. L'atto proposizionale, esattamente come
l'atto locutorio austiniano, non può mai occorrere da solo, ma implicherà sempre
l'esecuzione di un atto illocutorio quale fare una promessa, effettuare una richiesta,
impartire un ordine, chiedere scusa. Non sempre un atto linguistico è eseguito
formulando una proposizione. Tuttavia, è plausibile ritenere che Searle, in conformità
con il suo principio dell'esprimibilità, voglia rendere almeno in linea di principio
esplicitabile qualsiasi atto linguistico tramite una "proposizione ben formata".
Un interessante criterio di classificazione degli atti linguistici che ha origine nella teoria
dell'azione e proposto da Maria E. Conte che distingue atti di praxis e atti di poiesis,
richiamandosi alla nota distinzione formulata da Aristotele, secondo il quale è praxis
l'azione che ha uno scopo immanente ed è poiesis l'azione che produce un risultato,
come costruire una casa. Alla base della proposta di Conte vi è una revisione critica
delle varie classificazioni degli atti linguistici, a partire dall’evidenza che nessuno dei
mezzi formali adottati per individuare la forza illocutoria di un atto linguistico è
effettivamente in grado di determinarla univocamente. A questo punto sembra lecito
chiedersi se valga la pena di isolare un livello di forza illocutoria distinto da tutti gli
altri aspetti relativi alla funzione, allo scopo e all' intento di un enunciato.
3.6.3 Searle: dalla filosofia del linguaggio alla filosofia della mente
Nell'articolo A Taxonomy for Illocutionary Acts, Searle inizia a prospettare alcune
modifiche alla sua teoria degli speech acts che si presteranno a essere adottate anche
nella sua esplicazione dell'interdipendenza tra filosofia del linguaggio e filosofia della
mente. Di particolare rilievo le seguenti questioni:
1. la direzione di adattamento, che indica se sia il mondo esterno, ossia la realtà
oggettiva, a doversi adattare alle parole, oppure le parole ad adattarsi al mondo. Nel
caso delle asserzioni sarà l'enunciazione a doversi adattare alla realtà esterna; nel caso
delle promesse o degli ordini, invece, si dovrà agire in modo da produrre nel mondo lo
stato di cose espresso dall'enunciazione della promessa;
2. l'espressione degli stati psicologici in relazione a un contenuto proposizionale: una
persona che promette, garantisce, fa voto, ecc. esprime l'intenzione di fare qualcosa;
una persona che asserisce, spiega, sostiene, afferma qualcosa, esprime una credenza.
Si tratta, in sostanza, di un ampliamento della condizione di sincerità;
3. le relazioni con il resto del discorso, ossia con il contesto circostante, alcune
espressioni servono a mettere in rapporto l'enunciato con il resto del discorso e con il
contesto circostante; ad esempio, "tuttavia", "perciò".
Nel saggio del 1983, intitolato Intentionality, Searle correla atti linguistici e stati
mentali nei seguenti termini: “La capacità degli atti linguistici di rappresentare oggetti
e stati di cose del mondo è un'estensione della più biologicamente fondamentale
capacità della mente (o del cervello) di porre l'organismo con il mondo per mezzo di
stati mentali come credenza o desiderio, e in particolare tramite azione e percezione.”
Sostanzialmente, pur accordando al mentale «precedenza teoretica» sul linguistico,
Searle di fatto estende le proprietà degli atti linguistici agli stati mentali intenzionali,
ossia a quegli stati mentali direzionati verso o relativi a stati di cose o oggetti del
mondo. Secondo una tradizione facente capo al filosofo tedesco Franz Brentano,
possiamo assumere che credenze e desideri siano comuni esempi di stati intenzionali,
dotati, proprio come gli atti linguistici, di un contenuto proposizionale, di un modo
psicologico e di una direzione di adattamento. La differenza nella direzione di
adattamento è fondamentale nella distinzione tra azioni, che producono un mutamento
nello stato di cose esistente, e percezioni, che invece devono adattarsi a esso, esibendo
la stessa struttura di credenze e asserzioni. Ciò che vedo così, come ciò che dico,
presenta altresì un'ampia dipendenza contestuale, di cui Searle renderà conto
introducendo il concetto di "sfondo (background), ossia quell'insieme di
presupposizioni e conoscenze che formano la nostra "immagine del mondo".
Attraverso la nozione di "sfondo", dunque, Searle può rendere conto della dimensione
contestuale, intesa come relazione di un'espressione linguistica con il resto del
discorso, dunque nel senso di co-testo, ma anche della dimensione aspettuale che
determina ogni azione o percezione. In sintesi, attraverso l'introduzione del concetto di
"intenzionalità" (cruciale, del resto, in tutto il dibattito filosofico mentalista), Searle
riesce a effettuare quella connessione tra linguaggio e azione che mancava nella
formulazione originaria della dottrina degli atti linguistici. Attraverso la nozione di
"sfondo", invece, Searle sembra recepire istanze tipiche della tradizione antropologico-
linguistica, pure così radicata nella cultura nordamericana.
Questo cambiamento di prospettiva dello studio del mentale si basa sul presupposto
che i processi cognitivi siano da analizzare come elaborazioni di un calcolatore finito,
naturale o artificiale, ovvero la scienza cognitiva si occupa dello studio dei processi
cognitivi a livello di algoritmo. Da ciò discendono alcune tesi che toccano diversi piani:
1. l’assunzione delle rappresentazioni mentali come necessario veicolo dei processi
cognitivi, i quali sono individuati in base alla funzione che svolgono
nell’economia cognitiva
2. la realizzabilità multipla, di tali processi nel senso che ciò che conta è appunto il
come si realizzi una particolare funzione mentale
3. la possibilità di poter riprodurre un processo cognitivo, cioè la possibilità almeno
teorica di costruire un sistema artificiale che abbia le stesse prestazioni umane.
Ciò comporta una stretta contiguità tra intelligenza artificiale e scienza cognitiva
e implica anche e soprattutto un presupposto filosofico radicale che risale a
Bacone e Galileo: per la scienza cognitiva comprendere un fenomeno significa
saperlo riprodurre.
Note: 2. Si è detto che i processi cognitivi sono computazioni, ossia calcoli sensibili
alla sola forma dei simboli, esattamente come la logica formale, in particolare la teoria
della dimostrazione, applica le proprie regole, ad esempio il modus ponens, a un
costituito da simboli che possono essere manipolati solo sintatticamente. Un approccio
del genere tiene conto solo delle proprietà formali e non semantiche dei simboli. La
sola manipolazione dei simboli, attraverso l'applicazione di una regola da parte di un
sistema (come la macchina di Turing) che sappia distinguere la forma dei simboli,
permette di riprodurre schemi di argomentazione validi. Quindi, la manipolazione dei
simboli basata sulle regole formali della logica imita la semantica, nel senso che è
possibile derivare inferenze che conservano la verità senza far ricorso alla semantica
dei simboli. Ciò fornisce anche un'idea della natura meccanica di questi procedimenti,
dato che un qualsiasi sistema fisico (naturale o artificiale) in grado di manipolare i
simboli secondo regole sintattico-formali è allo stesso tempo in grado di realizzare
quella particolare funzione.
Note: 5.Così fu smentita la teoria dell’identità di tipo e una completa riduzione del
mentale fisico A questo proposito, la tesi della realizzabilità multipla afferma che a un
certo tipo mentale può corrispondere l'attivazione di tipi o proprietà cerebrali diverse.
Il monismo anomalo di Davidson, cioè l'identità tra stati mentali e fisici, rientra nella
cosiddetta "teoria dell'identità dell'occorrenza" perché ogni evento fisico è identico a
un evento mentale, ma non è possibile appunto individuare leggi-ponte e regolarità tra
identità di tipo: l'anomalia del mentale sta nel suo carattere normativo e olistico che
mal si confà alle descrizioni delle scienze naturali delle proprietà fisiche.
6. La nozione di sopravvenienza individua una relazione tra proprietà fisiche e mentali
caratterizzata da covarianza: una differenza nel mentale deve trovare riscontro in
qualche diversità fisica; da dipendenza, nel senso che gli stati mentali dipendono per
la loro esistenza, ontologicamente, dagli stati fisico-cerebrali. In questo modo, si può
affermare che le proprietà di livello superiore sopravvengono su – sono determinate
completamente da - quelle inferiori, se non è possibile che due situazioni siano
identiche rispetto alle loro proprietà-A ma differenti nelle loro proprietà-B
sopravvenienti. Ma, allo stesso tempo, sussiste un'irriducibilità del mentale, dato che
non è possibile individuare regolarità e leggi psico-fisiche tra proprietà mentali e
fisiche.
Note: 7. In breve, come è possibile che gli stati mentali siano cause di stati fisici? È il
paradosso della causalità mentale, basato sul problema dell'esclusione causale, secondo
cui non è possibile che le tre seguenti affermazioni siano allo stesso tempo vere: 1. gli
stati mentali sono distinti dagli stati fisici; 2. gli stati mentali sono cause di stati fisici
(oltre che di altri stati mentali); 3. solo gli stati fisici possono causare alcunché. Per
Kim (2000) la metafisica della sopravvenienza, negando la prima tesi (il mentale e il
fisico sono solo due descrizioni diverse di uno stesso evento), non risolve nulla perché
cade nell'epifenomenismo, nell'irrilevanza causale del mentale (solo i realizzatori fisici
hanno efficacia causale) o nella sovradeterminazione causale (proprietà mentali e
fisiche hanno entrambe efficacia causale ma, oltre a moltiplicare le cause, l'efficacia
causale del mentale nega il principio della chiusura causale del dominio fisico): «il
problema dell'esclusione causale consiste nel rispondere a questa domanda: dato che
ogni evento fisico che ha una causa ha una causa fisica, com'è possibile che esista anche
una causa mentale?».
8. Ovviamente, la scienza cognitiva non rappresenta l'unica via al naturalismo in
filosofia del linguaggio e della mente. Chomsky e un altro grande filosofo
contemporaneo Willard Van Orman Quine, costituiscono i due poli antitetici del
naturalismo filosofico-linguistico e mentalista, rispettivamente razionalista ed
empirista per impiegare due comode ma per molti versi anche fuorvianti etichette.
La facoltà del linguaggio presenta uno stato iniziale prodotto dal corredo biologico:
ogni bambino nasce con una predisposizione innata ad acquisire una qualsiasi lingua
grazie a un insieme di regole generali che sono il prodotto dell'espressione del suo
patrimonio genetico. A questo punto l’esperienza e gli stimoli linguistici cui è
sottoposto il bambino danno forma a un processo di crescita interno alla facoltà del
linguaggio: è proprio l’insieme di dati linguistici che il bambino incontrerà nel suo
ambiente a far sì che nell’arco di breve tempo le regole della grammatica universale si
specifichino nelle regole della grammatica della lingua particolare incontrata
nell’ambiente. Lo stato iniziale della facoltà del linguaggio perviene a una lingua-I
(dove I sta a indicare una nozione interna, individuale), ossia un sistema
computazionale in grado di produrre un’infinita classe di espressioni linguistiche con
proprietà fonetiche e semantiche. Secondo la proposta chomskyana della teoria dei
principi e dei parametri, i principi costituiscono la grammatica universale, fissati per
tutti dalla nascita, mentre i parametri sono invece la possibilità predisposte dalla
grammatica universale affinché siano fissate regole specifiche in base alla lingua cui
un singolo soggetto è esposto dalla nascita.
Per Chomsky lo stato iniziale della facoltà del linguaggio va paragonato a una rete fissa
connessa a un pannello di interruttori elettrici a due posizioni; la rete è l’insieme dei
principi del linguaggio e gli interruttori costituiscono le opzioni che devono essere
fissate dall’esperienza. Dunque, l’acquisizione del linguaggio è equiparata in tutto e
per tutto allo sviluppo naturale di un qualsiasi organo biologico: il linguaggio è
qualcosa che accade al bambino in modo spontaneo, non qualcosa che questi apprende,
esattamente come succede che gli crescano le braccia e non le ali. E dal punto di vista
del naturalismo chomskyano esiste una sola lingua, nel senso che le differenze
fonologiche, grammaticali lessicali tra le molteplici lingue, che per molta tradizione
filosofico-linguistica costituiscono la sponda privilegiata da cui analizzare i vari ari
della cognizione e della natura umana, sono valutate solo come differenze superficiali,
un'unica variazione sul tema della grammatica universale. Per questo motivo, parla di
istinto del linguaggio: «il linguaggio non è un artefatto culturale che impariamo così
come impariamo a leggere l'ora o a capire come funziona il governo federale. Il
linguaggio è invece un pezzo a sé del corredo biologico del nostro cervello. Il
linguaggio non è un'invenzione culturale più di quanto sia la posizione eretta. La tesi
innatista si accompagna alla cosiddetta ipotesi modularista, riguardante l'architettura
dei dispositivi mentali che presiedono alle funzioni cognitive: ad esempio, si è detto
che per spiegare l'apprendimento del linguaggio è necessario presupporre che il
bambino abbia già una facoltà del linguaggio dalla nascita, ossia un modulo innato di
conoscenze circa le regole che determinano a priori i sistemi grammaticali possibili
delle diverse lingue, in particolare la sintassi. Il concetto di modulo è una nozione
centrale nella scienza cognitiva e ha subito notevoli sviluppi anche nel recente dibattito.
Con Chomsky si ha la prima formulazione della nozione di modulo in senso
epistemico, inteso come un sistema di conoscenze innate per sviluppare una
determinata capacità cognitiva. Nel caso del linguaggio il modulo epistemico alla base
dell’apprendimento delle diverse lingue è proprio la grammatica universale. A questa
accezione di modulo se ne affianca un’altra, quella di modulo computazionale, inteso
come dispositivo specializzato nell’elaborazione di specifiche informazioni. Secondo
l’originaria proposta di Fodor, cui si deve lo sviluppo di questa nozione, la modularità
è una caratteristica che appartiene ai soli sistemi periferici della mente. Secondo la tesi
della mente massivamente modulare, anche la cognizione centrale si costituirebbe in
un macrosistema modulare composto da diversi moduli concettuali, ad esempio quello
relativo al dominio della psicologia ingenua che produce credenze sugli stati mentali
altrui, quello relativo alla fisica ingenua che produce giudizi sulle causazioni fisiche e
così via. Sta di fatto che all’interno della riflessione filosofica e scientifica sul mentale
si afferma con Chomsky una tesi innatista da cui non si è più tornati indietro, se non
per valutare il grado di innatezza dei vari dispositivi mentali. L’approccio di Chomsky
si è sviluppato nell’arco di più di sessant’anni attraverso varie tappe: dalle nozioni di
trasformazione, struttura profonda e superficiale alla teoria dei principi e dei parametri,
per giungere nell’ultimo periodo a un approccio di ricerca denominato programma
minimalista che impiega il minor numero di livelli di rappresentazione. In questa
cornice teorica, i contribuiti di Hauser, Chomsky e Fitch, hanno innescato un proficuo
dibattito tra gli studiosi delle scienze cognitive del linguaggio, soprattutto per ciò che
concerne la genesi del linguaggio e della comunicazione da un punto di vista
evoluzionistico. Nel saggio del 2002 si distingue una facoltà del linguaggio in senso
stretto, incastonata nell’interno della facoltà del linguaggio in senso ampio.
Questo punto rimanda alla disputa che vede contrapposti gli ultradarwinisti, che
affermano la priorità evoluzionistica dell’adattamento basato sulla selezione naturale,
ai naturalisti, tra cui c’è appunto Gould, che ridimensionano il ruolo preminente
attribuito all’adattamento e alla selezione naturale, affiancandogli la nozione di
exaptation, in questo quadro, adattamento ed exattamento rappresenterebbero i due
principali motori dell’evoluzione. La nozione introdotta da Gould di exaptation rompe
la stretta correlazione stabilita tra gli ultradarwinisti, tra struttura e funzioni all’interno
della loro concezione evoluzionistica. L’exaptation opera per cooptazione funzionale,
una struttura selezionata per certe finalità adattive è cooptata per un'altra funzione: ad
esempio, le piume degli uccelli sono selezionate per la funzione adattiva di
termoregolazione (adattamento), poi cooptate per il volo (exaptation) e,
successivamente, hanno subito degli adattamenti secondari per essere più funzionali al
volo. Anche recentemente Chomsky ha ribadito una tesi exattamentista del linguaggio
negando che esso sia una forma adattiva per la funzione comunicativa basata sulla
selezione naturale. Ma l’evoluzione non è solo selezione. In particolare, la FLN sarebbe
una forma di exattamento, “consideriamo la possibilità che certi specifici aspetti della
facoltà del linguaggio siano “spandlers”- sottoprodotti di vincoli preesistenti, piuttosto
che prodotti finiti di una storia della selezione naturale” il linguaggio umano è troppo
complesso, la FLN non sarebbe evoluzionisticamente spiegabile ne i termini di una
graduale estensione di un preesistente sistema comunicativo più rudimentale, piuttosto
sarebbe un effetto secondario, un abilità molto potente acquisita grazie alla comparsa
di un meccanismo destinato essenzialmente ad altri scopi. Questo meccanismo è che
ciò che Chomsky chiama Merge, che sarebbe comparso nella storia evolutiva
dell’uomo grazie a un ricablaggio del cervello, permettendo un’illimitata capacità
computazionale di produrre strutture mentali gerarchicamente strutturate. Da qui si
sarebbero evoluti i dispositivi sintattico-ricorsivi, non quindi come adattamento alla
comunicazione ma per uso interno, per sé stessi. Con i termini di Hauser: il linguaggio
è un sistema computazionale interno alla mente finalizzato per il pensiero e spesso
esternalizzato nella comunicazione. Ossi, il linguaggio si è evoluto per il pensiero
interno e per la pianificazione e solo dopo è stato cooptato per la comunicazione. La
FNL sarebbe così un modulo prodotto per collegare diversi moduli mentali, nei termini
chomskyani fornirebbe un’ottima soluzione al problema di collegare il modulo senso-
motorio al sistema concettuale-intenzionale (Hauser usa il termine evolingo per
indicare lo studio dell’evoluzione del linguaggio nella sua dimensione ricorsiva). In
questo quadro, il linguaggio non è in senso stretto un sistema di comunicazione: il
linguaggio non va inteso nei termini di un sistema di comunicazione. È un sistema di
espressione del pensiero, qualcosa di completamente diverso. Naturalmente esso può
essere usato per la comunicazione, come qualsiasi altra cosa fatta dalle persone. Ma in
qualsiasi senso utile del termine, la comunicazione non è la funzione del linguaggio, e
può perfino non avere alcuna importanza per comprendere le funzioni e la natura del
linguaggio.
Note: 10. Hauser piuttosto che concentrarsi solo sulla comunicazione animale,
l’approccio si rivolge all’analisi comparativa di alcune capacità cognitive, come i
sistemi di quantificazione, per individuare contiguità e differenze di natura
computazionale tra specie umana e animale che hanno una ricaduta nelle rispettive
capacità simboliche.
A sua volta, Bloom coniuga selezione naturale, complessità del linguaggio e funzione
comunicativa, sostenendo che se la selezione naturale è l'unica spiegazione per la
complessità adattiva, e il linguaggio ha come fine adattivo la comunicazione, allora il
linguaggio si è evoluto per selezione naturale. Sulla stessa linea Pinker e Jackendoff
considerano il linguaggio come un adattamento evolutivo plasmato dalla selezione
naturale, quindi gradualmente, e il fine adattivo è proprio la comunicazione: [L]a
finalità (design) del linguaggio - la messa in corrispondenza di significato e suono - è
esattamente ciò che ci aspettiamo in un sistema evolutosi per la comunicazione di
proposizioni. Non possiamo trasmettere ricette da cucina, tecniche di caccia,
pettegolezzi o promesse reciproche per mezzo di una certa "maniera di camminare, o
modo di vestirsi o pettinarsi", perché queste forme di comportamento mancano di
dispositivi grammaticali che consentano alle proposizioni di essere codificate in modo
accessibile nei dettagli del comportamento. Sebbene Chomsky neghi il truismo che il
linguaggio "vada visto come un sistema per la comunicazione", egli non offre alcuna
ragione cogente per mettere in dubbio ciò, né spiega come dovrebbe essere fatto un
sistema di comunicazione per risultare più "fruibile" o meno "disfunzionale delle
lingue umane. Per questi autori l'originaria funzione del linguaggio coincide con la sua
funzione attuale, quella comunicativa. Il punto è stato articolate anche da Origgi e
Sperber (2000) che allargano e in un certo senso complicano la concezione gradualista:
la facoltà del linguaggio è chomskyanamente la precondizione per l'acquisizione delle
lingue, ma a loro avviso, e paradossalmente, una facoltà di linguaggio è adattiva solo
in un ambiente in cui già si parlano lingue, e nel quale si trovano quindi inputs per la
loro acquisizione. Pertanto, sembrerebbe che «la facoltà del linguaggio e una lingua
parlata siano l'una precondizione per l'altra». Sta di fatto che Origgi e Sperber,
contrariamente a Chomsky e Bickerton (1995), assegnano un valore biologicamente
adattivo al linguaggio perché assegnano un valore biologicamente adattivo alla
comunicazione; Che cosa rende la comunicazione di per sé adattiva? La comunicazione
ha una molteplicità di effetti. Mette gli individui in grado di beneficiare delle percezioni
e inferenze altrui, e accresce le loro conoscenze ben al di là di quel che potrebbero
conseguire da soli. Permette forme di pianificazione e azione coordinate. Può essere
usata per manipolare, ingannare, mostrare ingegno, sedurre, mantenere le relazioni
sociali, tutte cose che hanno conseguenze in termini di fitness.
A questo proposito, si può delineare uno spettro di tesi. A un estremo, c'è la tesi che
considera il linguaggio, appunto, come lo strumento di espressione di pensieri già
formati: il linguaggio, à la Fodor, è un dispositivo di input e output che si interfaccia
coi processi cognitivi centrali. All'altro estremo, c'è la tesi - cara a una certa prospettiva
filosofica (Humboldt), antropologica (Whorf). psicologica (Vygotskij) e linguistica
(Saussure) - che considera il linguaggio come il dispositivo essenziale per la
formazione di alcuni o addirittura di tutti i pensieri: come a dire, senza linguaggio
niente pensiero. Questa tesi è anche articolata in termini di dipendenza concettuale del
pensiero dal linguaggio da alcuni esponenti della filosofia analitica: Sellars, come si è
detto, e tra gli altri, Davidson, Dummett, McDowell. La tesi della scienza cognitiva
classica può essere articolata secondo diverse varianti. Sta di fatto che nessun autore
hai mai affermato una versione radicale della funzione comunicativa del linguaggio,
nessun autore ha affermato cioè la totale indipendenza del pensiero dal linguaggio: è
chiaro infatti che per la formazione di alcuni concetti entra in gioco soprattutto il
linguaggio. Il punto in questione è che qualunque sia la variante della tesi che considera
il linguaggio come lo strumento espressivo/comunicativo del pensiero, per alcuni
importanti sviluppi del dibattito il linguaggio da solo non basta per esplicitare
l'effettivo funzionamento dei processi comunicativi. Il quadro autonomista di
Chomsky, che rappresenta l'altra faccia del suo antievoluzionismo, restituisce il
linguaggio come un modulo computazionale di codifica e decodifica attraverso le
complesse interfacce cognitive che collegano (e trasformano) gli eventi del suono in
eventi mentali: anche se questi passaggi sono alquanto complessi e asimmetrici, da sola
questa concezione non può rendere conto dei reali processi comunicativi. Questi non
sono affatto così lineari come sostengono Fodor e Jackendoff, e Chomsky". Affidarsi
ai soli meccanismi di codifica/decodifica significa tralasciare aspetti fondamentali dei
processi comunicativi, come il contesto e l'intenzione del parlante, per fare due esempi
centrali. L'aspetto pragmatico della comunicazione e la dimensione interpretativa,
elementi consustanziali alla comunicazione umana, mostrano che sono necessari
processi mentali, "sforzi cognitivi" di tipo non linguistico, per dirla con Sperber e
Wilson, in grado di guidare il mittente e il ricevente nella condivisione dello scambio
comunicativo anche e soprattutto linguistico, attraverso la capacità di selezionare
opportunamente le pertinenze nell'ambiente spaziale e sociale, ossia le informazioni
adeguate in certe situazioni, al fine di produrre le giuste ipotesi sull'intenzione
comunicativa del mittente. Se da un punto di vista evolutivo il linguaggio è per Sperber
un adattamento biologico dovuto all'intensificazione degli scambi comunicativi
naturali, i processi comunicativi di tipo verbale non possono dipendere, né possono
essere spiegati, solo dal meccanismo di codifica e decodifica linguistica. Contestando
la concezione lineare dei processi comunicativi, Sperber e diversi protagonisti del
dibattito odierno avvalorano la tesi secondo cui alcuni dei dispositivi mentali necessari
ai processi comunicativi siano soprattutto inferenziali, tesi maturata principalmente
sulla base di alcune intuizioni filosofiche e di diverse evidenze empiriche prodotte dalle
ricerche della psicologia dello sviluppo.
Note: 13. Si è detto che la teoria della mente si riferisce all'ambito della folk psycology
che normalmente un soggetto utilizza per spiegare e prevedere il comportamento altrui:
in certi casi è necessario appellarsi a stati mentali come desideri o intenzioni per
spiegare il comportamento altrui. In altri casi è necessario appellarsi a un'altra
fondamentale tipologia di stati mentali, la credenza, che si basa strettamente sulla
distinzione verità/falsità (una credenza, per essere tale, deve poter essere falsa). La
capacità di mentalizzare un comportamento attribuendo una falsa credenza (e il
superamento del relativo test della falsa credenza da parte di un bambino intorno ai
quattro/cinque anni) sarebbe possibile solo grazie a un pieno sviluppo della capacità
sintattico-linguistica.