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Filosofie della comunicazione, tra semiotica, linguistica e scienze sociali

Premessa
Il tema comunicativo richiede un tentativo di ordinamento e di messa a punto, sia da
una prospettiva teorica, sia da quella disciplinare dei contenuti e degli indirizzi
didattici. Nella vasta materia-comunicazione, ritagliano oggi il proprio oggetto di
studio figure scientifiche e professionali molto diverse. Si diffonde così un mercato
della comunicazione che spesso isola i mezzi del comunicare dai contenuti concettuali,
etico-politici, culturali e finisce col ridurre quel delicato termine-chiave a un mero
dispositivo di output. Non che il problema, in qualche misura, non sussista: esistono
tecniche per far si che un qualche prodotto riesca leggibile e fruibile da una parte del
destinatario cui esso è rivolto.

Tuttavia, gli aspetti tecnici malamente si lasciano separare dalle finalità della
comunicazione, dal suo collocarsi in uno spazio sociale e culturale determinato, sul
quale influiscono scelte politiche di fondo, ed ecc. Si prenda il caso della
comunicazione politica, dove l’autonomizzarsi delle tecniche produce effetti
culturalmente devastanti. Esse sono pervase di quella inquietante politica-spettacolo
che trova nella TV, un uso quotidiano terreno di gioco. Occorre malinconicamente
ammettere che ha fatto scuola uno stile comunicativo che ha piegato mezzi pubblicitari,
in realtà alquanto primitivi, alla conquista del consenso in termini ideologici,
irrazionalistici, pescando nei fondali più retrivi del cosiddetto senso comune. Le
starlette (esordi della carriera) che diventano deputati inducono a pensare e a
considerare la politica come una avventura in cui la professionalità amministrativa e la
competenza non hanno alcun ruolo, e insieme abituano il cittadino a un atteggiamento
consumistico e superficiale nei rispetti della comunicazione, ciò non può che indebolire
la sua capacità critica, erodendo (corrodendo) lo spirito pubblico. Una situazione del
genere spiega perché qualche illustre studioso sia stato indotto a una critica radicale
della cultura della comunicazione che sembra non lasciare sazio per una revisione in
positivo.

Un modo per contribuire a ripensare la comunicazione al di fuori delle correnti


banalizzazione e delle generalizzazioni interessate è forse quello di tornare alle radici
culturali e filosofiche del problema. Per limitarci al ristretto orticello della tradizione
occidentale, nasce nella Grecia antica la questione della comunicazione come nodo
centrale della specificità dell’essere umani, come chiave dell’assetto della convivenza
umana nella polis, come base della formazione intellettuale e morale del cittadino.
Attraverso la questione del comunicare si potrebbe legittimamente ristudiare tanta parte
della nostra tradizione filosofica e letteraria, e certamente la totalità della storia delle
idee sul linguaggio. D’altra parte, tale questione incide direttamente su quel che oggi
pensiamo doversi intendere per linguaggio e più in generale per semiosi. Esiste un
problema di chiarificazione teorica sui rapporti fra queste nozioni onnicomprensive e
quella di comunicazione, che non può né coincidere con le prime, né essere relegata in
una sorta di astanteria (luogo provvisorio degli ammalati in ospedale in attesa della
destinazione ai vari reparti) concettuale.

Tutt’altro che facile è collocare la comunicazione come teoria e come insieme di


pratiche, nel quadro disciplinare a noi consueto, per di più senza far cadere
quell’elemento di criticità che non ha tuttavia perduto il suo senso, prima ancora
scientifico che politico. Pare che, pur così ricco, il dibattito teorico degli ultimi
quarant’anni abbia lasciato sostanzialmente irrisolta la questione, divaricandosi fra
coloro che riducono il linguaggio a uno strumento di manifestazione dei contenuti
mentali elaborati in modo indipendente, e dunque propendono per l’equazione
linguaggio/comunicazione, Chomsky ricade in questa categoria, e coloro che,
rompendo il dualismo mente/corpo del cognitivismo di prima generazione, arretrano la
funzione del linguaggio vedendolo come un ingrediente, più o meno decisivo, della
cognizione. Resta dunque aperto il problema: quale poso ha la comunicazione nel
quadro complessivo della facoltà simbolica umana e del funzionamento del
linguaggio? In che modo comunicazione e cognizione (informazione specifica a livello
tecnico) s’intrecciano e interagiscono confluendo in un insieme sofisticato di capacità
che per essere e funzionare come linguistiche debbono però commerciare con l’insieme
della persona umana?

Dinanzi all’enorme varietà dei temi e degli ambiti di ricerca, questo libro scava un
proprio itinerario, consapevolmente parziale, che assume il suo senso se collocato nel
più ampio disegno che si è cercato di suggerire: quello della restituzione dei fondamenti
filosofici e teorici della nozione di comunicazione. Filosofie, pertanto, al plurale, non
filosofia (nel rifiuto di declinare al singolare il concetto di filosofia: in linea di massina
e in particolare in fatto di comunicazione) perché molto variegati sono i contesti
concettuali in cui tale nozione ha trovato spazio, come diverse sono le finalità culturali
e in ultima analisi politiche che essa può corroborare. Ecco, in sintesi, la struttura del
libro.
Nella prima più ampia sezione vengono presentate le maggiori dottrine della
comunicazione del Novecento con una dichiarata predilezione per gli approcci
linguistici e filosofici, senza tuttavia tralasciare il nucleo essenziale degli approcci
scientifico-sociali. Il capitolo 1 porta il lettore da Saussure all’etnografia della
comunicazione, passando per quei grandi, a lungo dimenticati classici che sono stati
Gardiner e Bühler, e naturalmente per i problemi posti dalla messa in circolo del
modello Shannon-Weaver e dalla sua ricezione in ambito linguistico.
Il capitolo 2 approfondisce l’ottica linguistico-comunicativa, presentando la teoria
enunciazionale di Benveniste e muovendo da essa per introdurre la linguistica del testo,
che a partire dagli anni Settanta del Novecento, tanto ha contribuito a contestualizzare
e insieme a rendere specifica la nozione di comunicazione.
Il capitolo 3 delinea invece i tratti essenziali della filosofia del linguaggio ordinario,
articolata intorno alla problematica degli Speech Acts da Austin e dal suo continuatore
Searle: si tratta com’è noto di un percorso centrale della filosofia analitica anglosassone
degli anni Cinquanta-sessanta e oltre che riveste un particolare interesse teorico.
Il capitolo 4 studia il tema alla luce del paradigma cognitivo, di prima e seconda
generazione ambientando la dottrina oggi più nota e autorevole in tema di
comunicazione, quella ostensivo-inferenziale, formulata da Sperber e Wilson, fra le
grandi domande della logica (Grice) e delle teorie mentaliste a base intenzionale
diffusesi negli ultimi an negli ultimi trent’anni.
Nel capitolo 5 si mostra come gli atti linguistici assumano in un diverso ambiente
culturale (quello tedesco) profondamente legato all’impostazione teorica di Kant e del
kantismo, ma anche alle suggestioni della Scuola di Francoforte, una declinazione
trascendentale e universalistica che per un verso fa capo a una comprensiva nozione di
competenza comunicativa, per un altro a un’affiliata critica sociale della modernità
(Habermas) a istanza di etica della comunicazione di grande importanza (Apel).
Il capitolo 6 sposta l’attenzione verso le categorie concettuali e le grandi scuole del
pensiero sociologico del secondo Novecento, cui dobbiamo un’avanzata analisi della
società mediatizzata nella quale viviamo e degli effetti che essa produce sulle forme di
conoscenza.
Il capitolo 7 ultimo di questa sezione riprende alcuni temi classici della pragmatica,
alla luce dei più recenti indirizzi di tale disciplina, caratterizzata da una profonda
apertura interdisciplinare ricca anch’essa di non trascurabili istanze etiche (teoria del
dialogo e delle controversie)

La seconda parte del volume propone invece assaggi in direzioni più specifiche ma
selezionate nella loro eterogeneità proprio per l’esemplarità metodologica dei problemi
via via posti. Così, Borelli si muove entro e fuori la categoria foucaultiana di
‘’parresia’’ sia per riprendere un punto chiave della concezione griceana della
comunicazione, quello relativo alla massima di qualità e dunque il problema del vero;
Vasco illustra mediante la riflessione sull’espressione delle emozioni uno spazio in cui
teoria della comunicazione e psicologia stanno collaborando in modo assai innovativo;
Gazzeri e Tardella sviluppano il problema della specificità modale della
comunicazione nei sordi, mostrando come questi straordinari linguaggi storico naturali
mettono in discussione aspetti sostanziali della teoria complessiva del linguaggio e
delle lingue; Di Pietro si cimenta invece con le nuove concezioni embodied della
comunicazione politica. Per illustrare la dialettica fra teoria della mente, istanze della
comunicazione e diversa assiologie Forgione, infine, nel suo terzo contributo, ridiscute
alcuni temi classici della sociologia del cinema, con particolare attenzione ai rapporti
che scandiscono il plesso che lega il cinema all'industria culturale. Nel suo insieme il
libro vorrebbe assolvere anche a funzione didattica: quello di una sorta di secondo
passo per meglio storicizzare le categorie concettuali e per cominciare a cimentarsi
nell’analisi dei problemi più specifici.

Capitolo 1: Teorie e modelli della comunicazione: uno sketch storico, di Stefano


Gensini
I.I: Il modello standard e le sue criticità
In questo capitolo presenteremo le principali teorie della comunicazione elaborate a
partire dagli inizi Novecento. È tuttavia necessario cominciare discutendo alcune
concezioni semplificate della comunicazione che hanno preso largamente piede negli
ultimi decenni, e che costituiscono ancora almeno in parte un ostacolo rispetto a
esigenze teoriche, descrittive e applicative oggi largamente condivise. Lo standard in
fatto di teoria della comunicazione è stato rappresentato a lungo ed è rappresentato
tuttora nel settore maggioritario delle dottrine linguistico-teoriche, dal modello
elaborato e pubblicato alla fine degli anni Quaranta dai matematici statunitensi
Shannon e Weaver. (Va ricordato che poco prima il sociologo nordamericano Lasswell
aveva presentato un suo schema del processo e degli effetti della comunicazione che
ha alcune analogie, anche terminologiche, col modello Shannon-Weaver). Si trattava
di un modello pensato per illustrare con una sorta di diagramma di flusso, il
funzionamento di macchine di comunicazione e in perfetta coerenza con l’assunto i
due autori lo avevano strutturato mettendo fra parentesi variabili di tipo sia semantico
sia contestuale, del tutto indifferenti quando si tratti di comunicazioni fra automi.

Cosa i due autori avessero in mente è spiegato con chiarezza nell'articolo A


Mathematical Theory of Communication: “Il problema fondamentale della
comunicazione è quello di riprodurre in un dato punto un messaggio selezionato in un
altro punto. Spesso i messaggi hanno significato; vale a dire che si riferiscono a certe
entità fisiche o concettuali. Questi aspetti semantici della comunicazione non sono
pertinenti per il problema ingegneristico. L'aspetto interessante è che il messaggio in
questione sia uno selezionato da un insieme di messaggi possibili.” Che il messaggio
abbia o no un significato è pertanto del tutto irrilevante; o meglio, esso deve avere un
significato solo di tipo quantitativo e formale dipendente dalla probabilità di
occorrenza. Trasmittente e ricevente, non possono essere asimmetrici (come accade di
norma quando a comunicare sono esseri umani) ma debbono seguire la stessa
grammatica, pena la distorsione dell'informazione, che deve essere invece esattamente
o approssimativamente la stessa a un capo e all'altro del processo di trasmissione.
Tuttavia, il clima di fiduciosa ricerca di procedure di unificazione delle conoscenze e
dei metodi di indagine che caratterizzava la cultura occidentale fin dai tardi anni 30
favori una impropria estensione del modello Shannon-Weaver agli istituti linguistici
naturali. Già nel 1951 Miller proponeva una vera e propria linguisticizzazione dello
schema, argomentando che: “il ricevitore rovescia l'operazione del mittente,
riconvertendo il messaggio codificato in forma più pratica. Chiameremo codice ogni
sistema di simboli che viene usato per rappresentare e convogliare informazione.”

Da allora nozioni come mittente, destinatario, messaggio, eccetera si sono


enormemente diffuse nel gergo linguistico e semiotico, con tutta la loro carica di
evocati vita e le inevitabili distorsioni concettuali che le caratterizzavano. Anche
intuitivamente dovrebbe essere chiaro che in una qualsiasi conversazione ordinaria:
1. i ruoli di mittente destinatario vengono continuamente scambiati;
2. nessuna lingua storico naturale è paragonabile a un codice, ovvero a una doppia lista
di elementi espressivi ed elementi semantici in corrispondenza biunivoca fra loro;
3. nessuna comunicazione linguistica è acontestuale, indipendente, cioè da vincoli
situazionali di cui fanno parte circostanze esterne
4. nessuna comunicazione linguistica è pura e semplice rappresentazione e
coinvolgimento di informazione, dato che di essa fa sempre parte un elemento
interpretativo, sia in produzione che in recezione.

Un ruolo importante nella divulgazione del modello e soprattutto degli equivoci che
esso poteva suscitare è stato svolto dal linguista e filologo russo Roman Jakobson. Si
farebbe tuttavia un torto a Jakobson se si ascrivesse a lui solo la responsabilità di una
semplificazione del processo comunicativo che ebbe, invece, ragioni teoriche più
articolate. Lo schema riportato da Jackendoff mostra senza possibilità di equivoci in
che modo la comunicazione viene vista in un’ottica di questo tipo: si tratterebbe di
trasmettere dalla mente di un soggetto alla mente di un altro soggetto un qualche
contenuto mentale, una sorta di tesoro nascosto che occorre impacchettare in simboli
linguistici (codificare) a livello del mittente e spacchettare all’altro capo del processo
(decodifica) quello del destinatario: i due soggetti sono presuntivamente omogenei, nel
senso che non si prevede una loro possibile asimmetria, la lingua che parlano non è
altro dunque che un meccanismo di input-output, concepita come neutra rispetto ai
contenuti mentali: in breve, la lingua sarebbe un puro strumento di comunicazione.

Ora, questa ricostruzione del processo comunicativo è funzionale a una certa idea di
come la mente umana opera (un dispositivo specie-specifico e universale, dotato di
particolari capacità elaborative applicate a simboli) e a una certa idea di che cosa sono
le lingue (macchine sintattiche basate sulle proprietà combinatorie profonde della
mente, dove l’interpretazione dei simboli in termini semantici avviene solo in
superficie, senza includere sulla innatezza e sulla universalità delle prime). Quello di
Jackendoff è insomma il modello di un cognitivismo di prima generazione,
chomskyano e fodoriano, ancora fortemente attivo in area generativista, ma non
condiviso da molta ricerca cognitiva di seconda generazione, che fa riferimento a
un’idea incorporata della mente e a una rinnovata centralità dei concetti semantici.
Tuttavia, ancora in saggi recenti di grande importanza, Chomsky ha tenuto a ribadire
il nocciolo della tesi originaria: che la facoltà del linguaggio propriamente detta oggi
chiamata FNL “facoltà di linguaggio in senso stretto” consista in un algoritmo innato,
in un insieme di regole sintattiche ricorsivamente applicate, mentre FLB, la facoltà del
linguaggio “in senso largo” che comprende la comunicazione e che può essere
riconosciuta anche a certe specie animali non umane, ha sostanzialmente la fisionomia
di un dispositivo di trasmissione e ricezione di segnali.

I.2: Alle radici (filosofiche) del dibattito: Humboldt, Wittgenstein


La grande notorietà toccata sia allo schema shannoniano sia alle rivisitazioni che ne
hanno proposto spiega perchè nei dibattiti recenti abbiano poco peso gli autori e gli
argomenti che avevano costruito fin dagli anni 10-20 del 900 approccio alternativo
all’universo della comunicazione. Eppure, questi autori. in primo luogo, Saussure,
avevano suggerito problemi e anche proposto soluzioni che ricerche degli ultimi 20-25
anni hanno ripensato come se fossero novità assolute. Prima di cominciare vale però la
pena ricordare due singolari memento in tema di comunicazione, pronunciati a distanza
di oltre un secolo l'uno dall'altro da Humboldt e Wittgenstein, vale a dire da due
riconosciuti padri della filosofia del linguaggio contemporanea.

Humboldt insiste sulla radicale soggettività dell’attività linguistica, tale che l’individuo
rivolto a esprimersi trova nella lingua materna insieme il fattore di resistenza, fatto di
valori semantici condivisi, e la chiave, fatta di possibilità manipolative che gli permette
di dare forma, oggettività al suo pensiero. Quando nell’anima si desta davvero il
sentimento che la lingua non è un semplice mezzo di scambio per intenderci
reciprocamente, ma un vero e proprio mondo che lo spirito deve porre tra sé e gli
oggetti con il lavoro interiore della sua forza, allora essa sarà sulla retta via per trovare
e deporre nella lingua sempre nuove ricchezze. La lingua, insomma, come livello
intermedio fra soggettività e mondo, mediatrice eterna tra lo spirito e la natura, come
un filtro storicamente ostruito di significati, forme espressive, fatto per accogliere e
mediare le infinite possibili innovazioni individuali. La lingua non è dunque un puro
trasmettitore di idee, non è mai ritenuta rispetto al pensare umano e alle modalità con
cui questo cerca di oggettivarsi e di proporsi ad altri.

Il secondo memento viene dal filosofo Wittgenstein, un efficace antidoto contro la


massima vulgata che tutto è comunicazione e contro la riduzione del linguaggio a
strumento di esternazione di pensieri. (nota bene: il carattere delle lingue consiste nel
modo in cui il contenuto del pensiero si congiunge ai suoni). Il filosofo austriaco offre
questa versione della sua concezione costitutiva del linguaggio rispetto al conoscere:
“se penso col linguaggio, davanti alla mia mente, non passano oltre le espressioni
linguistiche, anche i significati, ma lo stesso linguaggio è il veicolo del pensiero.” In
altri termini, espressioni e significati non sono due liste di opportunità che una mente
antecedente al momento linguistico mette in relazione secondo certe regole; situandoci
in un linguaggio ci troviamo già in una forma di pensare organizzata. Seguono
complesse considerazioni intorno a cosa vuol dire pensare, farsi rappresentazioni
mentali, Wittgenstein le sviluppa muovendo dal suo noto presupposto che a ogni forma
di attività linguistica corrisponde una forma di vita. Ci si chiede dunque, che cosa
inneschi quell’esperienza particolare che chiamiamo comunicazione: “Tu consideri fin
troppo ovvio che si possa comunicare qualcosa qualcuno. Siamo così abituati alla
comunicazione fatta parlando che tutto quanto il succo della comunicazione ci sembra
consistere nel fatto che un'altra persona afferra il senso delle mie parole virgola che le
accolga, per così dire, nella sua mente.se poi ne faccio ancora qualcosa, questo non
rientra nello scopo immediato del linguaggio”. Qui Wittgenstein ci sta dicendo diverse
cose importanti:
1. il concetto di comunicazione non è il prius nell’essenza del linguaggio, esso
presuppone l'esistenza del linguaggio con tutto ciò che essa comporta e pertanto
esistono condizioni di possibilità del comunicare che vanno ricercate in modalità
più generali del conoscere del parlare
2. comunicare è uno, ma solo uno, di quella lista aperta di giuochi linguistici
illustrati nel paragrafo 23 delle ricerche, che esprimono il valore sociale e
antropologico del linguaggio e la sua irriducibilità alla funzione dichiarativa e
veritativa dei logici
3. comunicare non vuol dire scambio di entità mentali
4. si comunica per fare qualcosa, in relazione cioè, a una gamma presumibilmente
ampia e complessa di possibili scopi umani

Questi due grandi pensatori ci suggeriscono alcuni assunti che ci portano fuori dall’idea
di comunicazione vista in apertura:
• la comunicazione, lungi dall’esprimere la natura strumentale del linguaggio,
presuppone la funzione cognitiva di questo, il fatto cioè che esso sia ingrediente
necessario della formazione dell’articolazione del pensiero;
• la comunicazione non è tutto il linguaggio ma una parte di questo, ancorata
all'insieme delle esperienze conoscitive sociali in cui le persone sono immerse;
• la comunicazione ha delle caratteristiche, delle manifestazioni e regole
descrivibili che mediano le infinite soggettività e atti di senso dei parlanti.

Dobbiamo adesso seguire le tappe principali della teoria della comunicazione quale si
è sviluppata nelle dottrine linguistiche e filosofo filosofico linguistiche più rilevanti.

I.3: Il modello saussuriano


È a Saussure che dobbiamo la prima organica teoria della comunicazione linguistica.
Il Cours de linguistique generale, 1916, il libro che ha rivoluzionato il modo di fare
linguistica, aprendo la via al cosiddetto strutturalismo, è il frutto di una quantità di
materiali saussuriani fusi con appunti presi dagli allievi editori a prezzo di
manipolazioni spesso rilevanti del pensiero del maestro. Ciò ha determinato una lettura
semplificata e irrigidita della lezione di Saussure, una vulgata saussuriana che ne
penalizza le istanze storicizzanti e la complessità teorica. È stato solo negli anni 50-60
del 900, grazie al lavoro esegetico e interpretativo di Godel, Engler e De Mauro, che si
è potuto restaurare il senso autentico, e naturalmente anche le problematiche lasciate
aperte, del pensiero del linguista svizzero.

È il caso di rammentare due presupposti del discorso saussuriano che qualificano la


vera e propria svolta da lui introdotta nel dibattito teorico del suo tempo:
a) l'assunzione di una prospettiva "semiologica", cioè l'idea che la parola umana sia un
caso, certo il più complesso, di una classe di fenomeni segnici (indagati nel loro
insieme dalla semiologia), che sono a loro volta uno degli oggetti della comprensiva
disciplina chiamata "psicologia sociale". Saussure distingue il sistema linguistico
(langue), che è un fatto sociale, dalla vita psichica (che è meramente individuale), ma
Saussure, in accordo con gli psicologi sociali e i sociologi del suo tempo, ritiene che
esistano a ogni livello, linguistico, giuridico, comportamentale ecc., dei "valori"
condivisi, che formano sistema fra di loro, in cui si inscrivono e prendono senso gli atti
individuali (che nel caso del linguaggio verbale sono detti atti di parole;
b) l'idea che la lingua materna, intesa come un doppio, coordinato, sistema di
classificazione, fonologico e semantico, ritagli arbitrariamente il dominio del suono e
il dominio dei possibili sensi, nella misura in cui suono e pensiero sono indistinti finché
la lingua non li modella e li organizza secondo il proprio sistema di valori, dando
identità linguistica (e quindi rendendoli condivisibili) alle catene foniche e alle
significazioni che ciascuno elabora nella vita quotidiana. Questo principio formativo
del linguaggio verbale (per cui «la lingua è forma, non sostanza») è un punto teorico
centrale che Saussure condivide con Humboldt. E da tale principio discende la radicale
storicità del sistema di valori linguistici (fonologici e semantici) in cui l'individuo, in
quanto partecipe di una data società e comunità parlante, si trova immerso fin dalla
nascita. Anche per Saussure vale la conseguenza, così bene espressa da Humboldt, che
la lingua forma una "rete" intorno ai parlanti, «ogni lingua traccia intorno al popolo cui
appartiene un cerchio da cui è possibile uscire solo passando, nel medesimo istante, nel
cerchio di un'altra lingua».

Molto diversamente che nello schema di Jackendoff che abbiamo menzionato sopra, la
lingua non è qui un puro dispositivo di input-output ma un vero e proprio sistema che
si interpone fra i parlanti, con i propri valori socialmente dati: non "pensieri", bensì
concetti e immagini acustiche sono il componente mentale del processo. Essi vengono
accolti "passivamente" tramite l'apprendimento della lingua madre e formano un
repertorio approssimativamente comune di cui entrambi i parlanti dispongono per
elaborare e filtrare le proprie mosse psicologiche. In che modo i segnali linguistici
concretamente emessi vengano recepiti dall'ascoltatore dipende da una serie di
condizioni fisiche, fisiologiche e cerebrali che possono essere riassunte nel rapporto
fra l'apparato uditivo e i centri del cervello deputati alla elaborazione del materiale
linguistico. Se la langue, depositata nel cervello come una sorta di "media" costituisce
il sistema di riferimento per la produzione e la comprensione dei segni linguistici, ed è
pertanto descrivibile come "passiva", l'atto di parole è «un atto individuale di volontà
e di intelligenza». Ciò significa che fonazione e significazione sono processi liberi che
pur muovendosi entro il sistema di classi (fonologiche e semantiche) offerto dalla
langue ne elaborano e forzano continuamente i limiti, trovando tuttavia una resistenza
nelle esigenze della mutua comprensione.

La comunicazione è dunque un processo biface, implicante necessariamente creatività


e normatività, innovazione e conservazione. L'atto di parole è completamente assorbito
nell'hic et nunc dello scambio comunicativo: i sensi o significazioni volta per volta
realizzati sono ancorati strettissimamente alle circostanze dell'enunciazione, ogni volta
mutevoli, così come gli atti fonatori, nella loro componente fisico-acustica, hanno
carattere idiosincratico, e solo casualmente possono essere riprodotti due volte allo
stesso modo. L'identificazione del segno come "quel" segno dipende pertanto dalla
capacità del ricevente di riportarli alle unità fonologico-semantiche della lingua,
cogliendo il nesso di unità-differenza che corre fra versante individuale e versante
sociale della produzione linguistica. La ‘parole’ è anche, di conseguenza, il filtro tra il
momento sociale, pubblico, non psicologico, del linguaggio, e il momento individuale
della vita psichica: non si confonde però con quest'ultimo, perché se è vero che (per
esempio) le parole da noi usate portano nelle loro particolari accezioni l'eco di stati
d'animo, vero è anche che, per rendersi accessibili ad altri, devono tener conto dei
valori loro comunemente annessi. Ha luogo così un giuoco di sponda fra produzione e
comprensione dei segni. C'è già nella teoria saussuriana della ‘parole’ una idea
dell'ascoltatore come figura non meramente passiva del processo della comunicazione:
la dialettica langue-parole implica infatti un elemento di reciproco adattamento fra i
parlanti. Ma non si deve dimenticare che il linguista ginevrino, (nota: riferimento al
celebre saggio Senso e denotazione del 1892, nel quale il matematico tedesco distingue
fra le realtà esterne su cui le espressioni linguistiche insistono e i significati con cui
possiamo accedere a esse all'interno di convenzioni riconosciute. Tali significati non
hanno carattere psicologico ma sono entità intersoggettive pubbliche, che però in
ragione di ciò sono le uniche effettivamente condivisibili) ragionevolmente
identificava nella concezione della lingua come sistema arbitrariamente costruito di
valori condivisi, operante in absentia e sincronicamente nella coscienza dei parlanti.
La lingua, non meno della ‘parole’ è un oggetto di natura concreta, il che è un grande
vantaggio per lo studio. I segni linguistici, pur essendo essenzialmente psichici (cioè,
classi di suoni e di sensi, identità mentali) non sono delle astrazioni; le associazioni e
ratificate dal consenso collettivo che nel loro insieme costituiscono una lingua sono
realtà che hanno sede nel cervello. Inoltre, i segni della lingua sono, per dir così,
tangibili; la scrittura può fissarli in immagini convenzionali, mentre sarebbe
impossibile fotografare in tutti i loro dettagli gli atti della ‘parole’. Proprio questa
possibilità di fissare le cose relative alla lingua fa sì che un dizionario e una grammatica
possono esserne una rappresentazione fedele, la lingua essendo il deposito delle
immagini acustiche e la scrittura essendo la forma tangibile di queste immagini.

I.4: Il "contesto" comunicativo: fra linguistica e antropologia


Se la langue saussuriana era la condizione di possibilità della comunicazione, il
funzionamento specifico di quest’ultima sembra appartenere tutto al momento della
‘parole’, sia in produzione, sia in ricezione. Per quanto Saussure avesse spiegato con
lucidità che massa parlante e "tempo" sono fattori non periferici, ma interni della realtà
linguistica, e dunque quanto fosse lontanissima da lui l'idea, con cui si chiude il Cours,
che la lingua vada considerata «in se stessa e per se stessa », l'approfondimento del
problema della comunicazione non avvenne tramite categorie saussuriane, né
linguistiche, ma piuttosto attraverso i contributi convergenti di antropologi come
Malinowski (1923), filologi dotati di grande sensibilità teorica come Gardiner (1932),
psicologi come Bühler (1934). In tutti e tre questi grandi studiosi è vivo il ricordo e la
lezione di un libro pubblicato nel 1885 n da Wegener (1848-1916), la cui formazione
era avvenuta al crocevia di grandi autorità scientifiche in ambito sia glottologico sia
filosofico-linguistico: Hermann Paul, capofila teorico della scuola neogrammatica e
Heymann Steinthal (1823-1899), filosofo e filologo legato alla lezione di Humboldt e
Hegel. Il libro di Wegener, intitolato Ricerche intorno ai problemi fondamentali della
vita del linguaggio echeggiava un altro titolo celebre in quegli anni pubblicato dal
linguista nordamericano William Dwight Whitney (1827-1894), tanto stimato da
Darwin e da Saussure per la sua visione sociale e "istituzionale" del linguaggio. In
entrambe le opere è centrale la questione della "vita" del linguaggio, del suo esser parte
integrante della trama sociale e culturale. Wegener in particolare rivela una sensibilità
all'hic et nunc dello scambio linguistico che era insolita nel quadro scientifico,
soprattutto indoeuropeistico, del tempo, dominato da problematiche storico-
ricostruttive. Questo aspetto non solo colpi i suoi contemporanei, ma è stato anche in
anni recenti alla radice della riscoperta di un'opera che sembra anticipare temi e
interessi sia della linguistica testuale sia, e soprattutto, della disciplina oggi nota come
"pragmatica". In ogni caso, alcune affermazioni di Wegener vanno tenute in conto per
comprendere la teoria della "situazione comunicativa" variamente elaborata da
Malinowski. Il nocciolo dell'impostazione di Wegener è il tentativo di "vedere lo
scambio linguistico dall'interno della situazione comunicativa riportando alle
coordinate di questa, e facendo dipendere da esse forme linguistiche concrete (parole,
frasi, scelte morfosintattiche) che la comunicazione assume. In tale quadro, diviene
impossibile focalizzare l'attenzione su uno soltanto (il parlante) dei partecipanti alla
comunicazione; questa si dà necessariamente dialogica condizione che si riflette
sull'insieme delle mosse linguistiche, paralinguistiche e prossemiche compiute nel
corso di essa. Wegener distingue pertanto tre componenti, tutte compresenti e
complementarmente attive, nella dinamica comunicazionale: la situazione percettiva,
la situazione del ricordo, la situazione culturale:
• La prima è così definita: «La situazione che è posta tramite le relazioni
circostanziali e la risposta della persona cui si rivolge giunge alla coscienza
attraverso la percezione. Di questo insieme di relazioni fanno parte sia gli
elementi ambientali, ciò che è percettivamente accessibile ai parlanti, sia le
mosse corporee dell'interlocutore (Wegener ascrive grande importanza al gesto
e a tutto quello che i retori antichi chiamavano actio), sia le modulazioni che
l'interlocutore imprime alla voce, indirizzando l'attenzione sugli elementi
"predicativi" che formano l'oggetto privilegiato della comunicazione in atto.
• La situazione "del ricordo" consiste invece nelle rappresentazioni venute a
consapevolezza immediatamente prima di dire o udire qualcosa, e alle quali
un'espressione linguistica si riallaccia immediatamente nel tempo. La
temporalità fa dunque parte dello scambio comunicativo, anche nel senso che
tutte le informazioni pregresse che ciascun partner ha dell'altro condizionano nel
profondo sia la scelta dei topic sia gli elementi che saranno oggetto di
predicazione. In entrambe queste forme di situazione, un ruolo essenziale è
giocato dall'hic et nunc psicologico ed esperienziale: «(t]utte le sensazioni, tutti
sentimenti presenti nel corso dell'espressione linguistica possono funzionare
come unità di misura (Massen) esposizionali del significato».
• Terzo e ultimo aspetto, la situazione "culturale" in cui i parlanti sono immersi,
che condiziona più da lontano, ma non meno significativamente, il senso degli
enunciati: così, la parola patria può assumere una fisionomia molto diversa se a
usarla è il cittadino di un paese che ha perso la guerra o uno del paese che l'ha
vinta. Il che vale, evidentemente, per la comprensione sia di singole situazioni
comunicative, sia di testi consegnati alla tradizione e ormai distanti dalla nostra
coscienza spontanea, sincronicamente determinata, di parlanti. Giustamente
Wegener chiama questo tipo di situazione anche «concezione del mondo
[propria] della persona o del tempo», includendo in essa variabili culturali di
ogni tipo, quali anche le credenze religiose e le norme etiche.

Con queste tre coordinate gli "utenti" del linguaggio vengono chiaramente collocati,
nelle reciproche mosse della loro interazione, al centro della "attività" linguistica, e
un'immagine "viva, dinamica di quest'ultima viene sostituita alla immobilità della
grammatica. Le nozioni già rammentate di Exposition e Prädikat, categorie testuali,
dipendono pertanto da sottostanti vincoli pragmatico-situazionali. Wegener terrà
presente questo principio anche in un tardo scritto sulle "parole-frase", mostrando che
la parola può, in certe circostanze, e non solo nell'età infantile, svolgere da sola il ruolo
di un'intera frase. Ecco un efficace riassunto delle sue ipotesi di lavoro: “L'esposizione
serve a mettere in chiaro la situazione, in modo che il predicato logico diventi
comprensibile. La situazione è la base, il contorno entro il quale un fatto, un
accadimento (Ding) e così via fa la sua apparizione, e ciò vale anche per le circostanze
temporali dalle quali si è originata un'attività, propriamente l'attività che noi
esprimiamo come predicato, e allo stesso modo appartiene alla situazione il dato della
persona alla quale la comunicazione è rivolta. Nella comunicazione linguistica, la
situazione non viene determinata puramente attraverso parole, ma, attraverso le
relazioni circostanti, attraverso i fatti appena intervenuti e il presente della persona con
cui parliamo.”

Posto in modo così perentorio il nesso fra attività linguistica e contesto, era inevitabile
che sul linguaggio convergesse l'attenzione dell'antropologia. Malinowski ebbe un
ruolo importante in questo quadro, grazie soprattutto al fondamentale saggio “il
problema del significato nei linguaggi primitivi”. Malinowski riprende dal suo
professore la critica verso l'antropologia da salotto e lancia l'idea di una osservazione
partecipante come l'unica strategia di studio possibile per capire dall’interno e in modo
unitario la visione del mondo, le abitudini, gli universi di significato delle culture
indagate. Il saggio riprende da tale punto di vista l'esperienza compiuta qualche anno
prima nelle isole Trobriand (Nuova Guinea). La nozione centrale nello scritto
malinowskiano è quella di contesto di situazione, in base alla quale lo studio delle
espressioni linguistiche va ampliato dalle circostanze immediate in cui i parlanti
interagiscono fino all’analisi delle condizioni generali nelle quali una lingua viene
parlata. L'antropologo, in sostanza, riprende e radicalizza, facendo riferimento a culture
di tipo primitivo, non occidentali ne occidentalizzate, la suggestione wegeneriana nella
situazione culturale. La sua idea è che il linguaggio abbia solo in determinate
circostanze una funzione dichiarativa, ovvero di manifestazione del pensiero, in ampia
parte della vita sociale, e certamente nelle culture primitive, il linguaggio va studiato
sullo sfondo delle attività umane e come un modo di comportamento umano in
faccende pratiche. È in altri termini, una forma di azione. Malinowski da un esempio
affascinante delle sue deduzioni riportando un brano di conversazione nella lingua
degli indigeni da lui studiati. In questa scenetta la funzione prevalente non è quella di
dichiarare uno stato di fatto, ma di intrattenere gli interlocutori al fine di conseguire
piacere sociale e autogratificazione con le loro azioni, è un parlare finalizzato non a
trasmettere un pensiero, ma a cementare il rapporto del gruppo e la propria posizione
al suo interno: è quanto egli chiama comunione fatica, un termine che tornerà
trentacinque anni dopo nello schema jakobsoniano delle funzioni linguistiche. si tratta
di un aspetto della vita del linguaggio molto importante nelle comunità primitive e in
tante forme di quotidianità Volte a mantenere la coesione sociale, il chiacchiericcio, il
gossip. L’uso simbolico del linguaggio, trasmettere le proprie idee o argomentarle,
appartiene da tale punto di vista al lusso della comunicazione, non alla sua sfera
immediata.
Fra i nomi che Malinowski cita all'inizio del suo saggio, di studiosi che si sono
cimentati nell’analisi dei processi mentali connessi col significato, c’è Gardiner. Egli
ribadiva la priorità della dimensione sociale: tutta la varietà e complessità del
linguaggio dipende dal fatto che quel che parlante e ascoltatore hanno in mente nei
momenti del discorso è diverso: questa differenza rende il linguaggio necessario come
mezzo di cooperazione. Di qui l'idea che il linguaggio sia anzitutto un tentativo di
influenzare la mente dell'ascoltatore tramite suoni articolati udibili che abbiano un
riferimento simbolico condiviso ai fatti dell'esperienza. il linguaggio in generale, non
solo la concretizzazione di esso è dunque anzitutto una forma di attività sociale, ciò cui
esso si riferisce non è pertanto un oggetto o uno stato di cose di cui predicare la verità
o la falsità, ma un’esperienza, un frammento di vita reale. Gardiner riconosce di non
essere il primo a enfatizzare il carattere strategico della comunicazione nella vita del
linguaggio: Wegener aveva aperto la strada, e Saussure, di cui Gardiner si rivela acuto
lettore, aveva cercato di proporre un modello esaustivo di tale aspetto con la sua ben
nota analisi del circuito delle parole.

Tuttavia, Saussure non sembra distinguere fra il significato cristallizzato nelle parole
dalla tradizione culturale e quel che i parlanti intendono in rapporto alla situazione
concreta in cui interagiscono con le parole. Beninteso, la thing-meant non è l’oggetto
atomisticamente inteso Collocato nel mondo esterno, bensì la risultante:
1. del gioco delle condizioni esterne della comunicazione,
2. delle situazioni di attesa e di ruolo dei parlanti,
3. delle piste interpretative aperte dalle loro parole e frasi in tale contesto: e cioè
ciò che il parlante vuole che sia inteso dall' ascoltatore

È illuminante l'idea che, nella situazione comunicativa data, le parole, coi loro
significati socialmente condivisi, col loro valore di langue, siano solamente clues,
indizi o tracce per la ricerca del senso. Il senso vero e dunque alcunché di complesso,
che sta solo in parte nei valori semantici codificati delle parole e delle frasi, qualcosa
che si può ricostruire solo facendo reagire assieme i tre componenti di cui si diceva.
quei valori codificati orientano l'ascoltatore alla ricerca del senso inteso, riempendosi
di valori contingenti, inseparabili dal contesto di comunicazione. È In questi dettagli
che si annida la complessità sociale della comunicazione ed è attraverso di essi che si
arriva a comprendere l’autentica funzione svolta dal linguaggio in uso. La situazione
comunicativa anzitutto implica il passaggio dal language come sistema linguistico
potenziale (la cui unità di base è la parola) allo speech come livello operativo dello
stesso (la cui unità di base è la frase).

L'atto di parola è un atto sociale che implica necessariamente due persone e può
eventualmente implicarne altre. Dalla parte del locutore, esso nasce dall' impulso o
dalla volontà di includere l'altro nella considerazione di' qualcosa di percepibile che ha
rilevanza per entrambi; dalla parte di chi ascolta, va escluso il pregiudizio ch’egli/ella
sia interamente passivo/a, giacché ogni atto di comprensione richiede un notevole
sforzo mentale. Inoltre, ovviamente i due partners si scambiano i ruoli a ogni turno di
conversazione. la posta di questo gioco, sappiamo già, è il senso inteso. Alla sua
individuazione prestano importanti servizi anche le componenti solitamente dette
paralinguistiche della comunicazione, quali il pitch, l'intensità, lo schema prosodico
con cui le parole vengono concretamente articolate. Si tratta di aspetti ausiliari che
hanno però la capacità di veicolare la qualità della frase, e ai quali pertanto è in molti
casi affidata la possibilità di dedurre il senso vero della comunicazione. Anche da
questo punto di vista, dunque, non è tecnicamente possibile una analisi semantica della
frase separata dalle modalità situazionali e concretamente sociali della sua
enunciazione.

Distinguendo presente e passato nel punto di vista dei due partners, Gardiner si sforza
di cogliere la dimensione diacronica delle parole, cioè il loro essere parte di un
repertorio linguistico sedimentato nella coscienza dei parlanti, e la dimensione
sincronica della frase-enunciato, in cui quelle risorse vengono convocate in vista di un
processo comunicativo individuale, suscettibile di un'analisi particolareggiata. È anche
interessante il fatto che i meanings abbiano area variabili e asimmetriche, e che non
abbiano dunque identico formato. solo passando all'applicazione presente, diventando
cioè unità di comunicazione, o come oggi diremmo diventando testo, quei significati
si determinano.

Illustra poi il ruolo dei fattori sintattici e intonazionali, Strettamente interdipendenti


che appartengono a una zona del repertorio distinta dalla grammatica, ma che,
calandosi nell’enunciato, innerva alla base la forma tecnico-linguistica della frase.
L’Act of Speech, nella sua compiutezza è il risultato sincretico di questa sofisticata
gamma di operatori. postulare un'analisi meramente linguistica (a livello cioè di
language) prescindendo dal mondo in cui le unità diventano vera e propria
comunicazione (cioè speech) significa eludere lo specifico dello scambio linguistico.
La distinzione tra parola e frase non è assoluta, perché è solo il concreto della situazione
comunicativa a decidere a quali risorse linguistiche compete svolgere una compiuta
funzione semantica. Non si dà dunque una vera semantica che sia scissa o scindibile
dalla prassi della comunicazione: il significato di parole e frasi si determina solo
calandosi nel vivo della interazione sociale. E questa naturalmente prevede una varietà
di usi convenzionalmente posti del linguaggio: le asserzioni, le domande, gli ordini,
ecc. Da questo punto di vista Gardiner si sente di polemizzare con gli appoggi logistici
al linguaggio, che ci allontanano dal senso: (nota: Gardiner ha in mente i coevi dibattiti
del circolo di Vienna. essi erano rivolti essenzialmente al problema del linguaggio
scientifico, che deve fondere i suoi aspetti su delle procedure formali di accertamento
del valore di verità, e pertanto risultavano sfuocati quando si trattasse di valutare le
mosse semantiche dell’ordinary language.) “niente è meno desiderabile nel discorso di
una mal posta accuratezza. L’accuratezza di tale descrizione spesso serve solo a
mettere l'accento nel posto sbagliato e così a impedire all' ascoltatore di vedere quel
che si intende”. In sintesi, la prospettiva del linguaggio in uso implica una integrazione
profonda della semantica con quel che in seguito si sarebbe chiamata pragmatica: nel
caso del linguaggio storico naturale questa integrazione è la norma, e ogni astratta
separazione dei due momenti rende incomprensibile la complessità dell’Act of Speech.

I.5: Il modello di Karl Bühler (1934)


Due anni dopo il libro di Gardiner esce a stampa, Teoria linguistica. La funzione
rappresentazionale del linguaggio, del tedesco Karl Bühler, Psicologo illustre formatasi
nel clima della Gestalt, ma insieme pensatore di eccezionale competenza filosofica e
linguistica, conoscitore e interprete dei temi saussuriani. interviene su temi di
fonologia, in quel momento di grande rilevanza teorica. Sprachteorie è il punto di
arrivo di una lunga riflessione sul linguaggio, fra le cui tappe vanno ricordati almeno
un importante saggio sulla teoria della frase uscito nel 1919, quello su fonetica e
fonologia del 1931. Ma anche i contributi di indirizzo psicologico hanno grande
interesse a fini epistemologici e teorico-linguistici. (nota: Bühler è oggetto da alcuni
anni di un rinnovato interesse teorico). Da segnalare la significativa convergenza con
Gardiner, al quale lo accomuna l'idea della centralità dell'atto linguistico come forma
di prassi sociale. Come i due studiosi apertamente dichiarano, si trattava del comune
riconoscimento di problematiche e conclusioni e perfino case studies affini, cui
entrambi erano giunti per vie molto differenti, l’egittologia nel caso del filologo
inglese, la psicologia nel caso di Bühler.

Il modello del funzionamento del linguaggio proposto da Bühler, il cosiddetto


Organonmodell, prende le mosse dalla nozione di strumento, organon appunto, in una
chiave però completamente diversa dall' accezione convenzionalista con cui questo
termine veniva usato nella tradizione dell’aristotelismo. La fonte di Bühler e un famoso
passo del Cratilo di Platone, nel quale il nome viene definito uno strumento atto a
insegnare e sceverare l’essenza, come la spola fa col tessuto. Essendo sia un insegnare
sia un distinguere, il nome non è dunque consecutivo alla conoscenza, ma si intreccia
con essa; è un mediatore strutturato del nostro rapporto con gli altri. Nella sua
fisionomia generale, il linguaggio si colloca al centro di un gioco di forze con tre
vertici:
• la soggettività del parlante, il mittente, con le sue specifiche psicologie,
• il ricevente o destinatario sul quale si vuole esercitare un'influenza,
• la realtà e l'ambiente, Gli Stati di cose in cui parlante ricevente sono immersi

Al cuore dello schema il segno linguistico Z, colto coerentemente con l'insegnamento


di Saussure e dei praghesi, nella sua duplice dimensione, emica, cioè funzionale (il
triangolo) e nella sua concretezza, etica, attuale (il circolo). Fra i vertici e il segno
corrono dei campi di forza corrispondenti alla funzione che ciascun vertice scarica sul
segno:
• quella espressiva, per cui il segno è sintomo o indice della vita psicologica
• quella appellativa in base alla quale il segno funge da segnale per il destinatario
• infine, quella simbolica in base alla quale il segno rappresenta gli oggetti e stati
di cose nel mondo

Le tre funzioni sono compresenti nell'uso sociale del segno anche se, volta a volta, l'una
o l'altra di esse prevale sulle altre, assume cioè dominanza. Tipicamente, a uno sfogo
affettivo corrisponderà la dominanza della funzione espressiva, a una preghiera o un
ordine quella della funzione appellativa, a una descrizione oh il racconto di un fatto
quella simbolica. Con queste distinzioni Bühler cercava di tenere in conto e di mediare
saldandole in un approccio unitario le istanze di analisi della realtà linguistica
provenienti dai tre ambiti della sua prospettiva scientifica: quella psicologica e
psicologico sociale, i vertici bassi del modello, quella logico-cognitiva, il vertice alto,
quella linguistico-funzionale, lo schema al centro. Che la funzione simbolica sia in
ultima analisi ritenuta la prevalente si spiega non tanto, è da credere ma con
l'accettazione di una prospettiva semiotica, o meglio sematologica della prassi
linguistica. La centralità della dimensione simbolica era evidentemente un punto forte
della linea di pensiero svolta da Saussure e da Trubeckoj sul fronte linguistico, e da
Cassier sul fronte filosofico-teoretico.

1. Note: la critica rivolta dal Circolo di Vienna alla cosiddetta inesattezza del
linguaggio ordinario è considerata da Bühler uno dei più mostruosi
misconoscimenti delle lingue naturali che siano mai stati perpetrati.
2. Il russo Trubeckoj fu animatore del Circolo linguistico di Praga, nel cui ambito
realizzò l’opera forse più importante della Scuola a fini teorico-linguistici, che
contribuirono in modo decisivo alla definizione del fonema come insieme chiuso
di tratti distintivi, nozione centrale dal punto di vista epistemologico per
l’orientamento strutturalista.
3. Bühler distingue tre tipi di classi: quella ad oculos corrispondente
all’orientamento percettuale intersoggettivo della comunicazione, quella
anaforica, in cui la deissi si riferisce a quanto precede nel discorso in
svolgimento, e quella detta fantasmatica, finalizzata a rendere presente e fruibile,
con dispostivi linguistici, quello che è fuori dall’esperienza e dallo spazio
percettivo dei parlanti.

Nell’accoglierla, Bühler decide però di fondarla attraverso un fondamentale correttivo


psicologico-cognitivo: la nozione di campo in base alla quale non si dà percezione di
un oggetto se non all'interno di un insieme di oggetti circostanti, sicché la modalità con
cui lo identifichiamo non ha mai carattere atomistico, ma appunto, sistemico, olistico.
Vi è in primo luogo il campo di indicazione, ossia la trama di relazioni percettive che
il soggetto mette in azione situandosi in un qui e in un adesso determinati (io, qui,
adesso, sono appunto le tre coordinate di base di questo campo). Il linguaggio ha
dunque al suo interno una costitutiva dimensione di soggettività che si esprime nel
gioco degli elementi deittici, come l’, giù, dietro, dopo, voi, ecc., cioè di tutte quelle
risorse linguistiche che costituiscono lo spazio del parlante nella comunicazione.
Capire il significato degli elementi simbolici come li abbiamo definiti richiede di
sapersi muovere nel secondo dei due campi interessanti al funzionamento del
linguaggio: il campo simbolico, cioè il sistema di valori funzionali corrispondente a
ciascuna lingua storico-naturale, (Bühler fa esplicito riferimento alla forma interna
della lingua teorizzata da Humboldt per esprimere la visione del mondo implicita in
ogni sistema linguistico). La nozione-chiave di questo campo è quella di contesto, un
termine che non va però con la situazione che pertiene invece al campo di indicazione.
Contesto è, per cos’ dire, la pressione del sistema linguistico sulle unità che lo
compongono, quel gioco oppositivo che portava Saussure ad affermare che nelle lingue
non vi sono se non differenze: una parola copre il suo spazio semantico per differenza
rispetto alle parole limitrofe. Bühler vede il condizionamento non tanto dalla parola al
suo contorno, quanto dal contorno alla parola. È questo lo Umfeld, concetto tradotto
tradizionalmente campo periferico E che sarebbe forse meglio rendere con campo
circostante per dare l'idea del movimento centripeto che Bühler sembra avere in mente.
il gioco simultaneo e interattivo dei due campi fa sì che la produzione/comprensione
dei messaggi abbia carattere idiosincratico, (avversione) aderendo alla peculiarità dei
contesti comunicativi. Ciò spiega, ad esempio, i tanti usi ellittici del linguaggio nei
quali le lacune del segnale sono perfettamente riempite dalle informazioni disponibili
nell’ambiente e nel quale i partners della comunicazione si relazionano.

In sintesi, Bühler, consegna alla tradizione teorico linguistica del vecchio continente
un Quadrifoglio di coordinate in cui collocare la prassi linguistica: da una parte l'attività
del parlante in quanto potenzialità non ancora calata in un’azione, ma pur sempre
attività Che non si dà altrimenti la funzione del segno in quanto forma del pensiero e
del vivere umano, e suo corrispettivo necessario, l'opera linguistica, il prodotto in
generale del parlare, l’ergon di Humboldt, la langue di Saussure, svincolato dalla
soggettività e contingenza dei parlanti, dall'altra parte sul piano empirico della
comunicazione, l'atto del parlare, un'azione sociale svolta tramite la parola fra
interlocutori, in uno spazio e un tempo determinati, e le forme del parlare, cioè testi,
orali e scritti, le concrete configurazioni fonetico grafiche e semantiche dei segni in
uso. Queste secondo due dimensioni corrispondono, articolandole, alla energhia di
Humboldt, il linguaggio come creazione e alle parole di Saussure, lato linguistico
individuale. il passaggio dal piano universale della potenzialità a quello particolare
dello Sprechakt è e consentito dalla idea husserliana della intenzionalità dell'atto
semiotico: esso non consiste semplicemente in una certa volontà comunicativa del
soggetto, ma in un processo di vero e proprio conferimento di senso, in circostanze
locali, fenomenologicamente definibili, al cui successo l'interlocutore partecipa
attivamente.

I.6: Dall’oblio al contesto del secondo Wittgenstein


La grande proposta di Bühler non ebbe, nei due decenni successivi alla formulazione,
l’accoglienza e il seguito che avrebbe meritato. Certamente ebbe un peso il fatto che,
costretto come molti altri a emigrare negli Stati Uniti per le persecuzioni
nazionalsocialiste, Bühler non incontrò lì una situazione né accademicamente
favorevole, né soprattutto un clima culturale propizio: teneva ormai banco la psicologia
behaviourista. In ambito epistemologico si consolidava l’alleanza fra behaviourismo e
neopositivismo logico, promuovendo un approccio scientista e logicizzante al
linguaggio e alla semiotica che trovò la sua espressione nello smilzo ma autorevole
manifesto di Morris.

Nota: A metà degli anni Trenta Morris aveva stabilito un rapporto intellettuale
profondo con l’ambiente del Circolo di Vienne, auspicando un intreccio della sua
prospettiva pragmatica con quella del logicismo. Il lancio del Movimento per l’Unità
della scienza fu l’occasione per il consolidamento di questa alleanza, rafforzata anche
i termini politici, negli anni seguenti, dall’impegno profuso da Morris nel favorire
l’emigrazione negli Usa di studiosi europei.

Morris teorizzava una separazione metodologica tra semantica, che verte sul rapporto
tra i segni e i loro designata correlati questi ultimi a eventuali oggetti extralinguistici e
pragmatica, che prende in considerazione il rapporto tra i segni e i loro utenti. La
sintattica avrebbe invece dovuto occuparsi dei rapporti intersegnici. Ma mentre è ovvio
che (ad esempio) in un calcolo la semantica non solo può, ma deve essere scissa dalla
pragmatica, nel linguaggio storico-naturale questa scissione non sussiste neanche in
linea di principio: perché il valore concretamente assunto da parole e frasi si determina
solo in relazione alla dinamica pragmatica in cui esso è coinvolto. Era però inevitabile
che, una volta assunta come orizzonte privilegiato la dimensione dichiarativa e
veritativa del linguaggio, verbale, quella che Aristotele chiamava apofantica, l’ottica
buhleriana risultasse poco interessante. Del resto, lo sviluppo delle tecnologie della
comunicazione, lo sviluppo dei primi computer e delle connesse questioni in tema di
linguaggi e menti artificiali guardavano in senso inverso rispetto a quella cultura della
verità e della storicità del comunicare cui tanti autori degli anni Venti-trenta avevano
rivolto i loro sforzi scientifici.

• Note: al 1945 risale la formulazione della cosiddetta architettura di Von


Neumann che fissava le componenti strutturali dei computer moderni. la storia
del computer e fortemente intrecciata, in questa fase, alle esigenze belliche come
spionaggio, decrittazione dei messaggi, ecc.
• Il lavoro scientifico di antropologi come Efron e Birdwhistell sull’uso sociale
dei gesti e la funzione comunicativa del movimento del corpo sono esempi tipici
di questa fase degli studi

D'altra parte, della stessa lezione saussuriana, a causa della vulgata in cui gli allievi
l'avevano inscatolata, aveva finito con l'imporsi solo la componente formale, intesa a
una considerazione immanente, "strutturale", delle lingue, ricacciando verso l'esterno
quelle coordinate temporali e sociali che il linguista ginevrino riteneva, invece,
costitutive della realtà linguistica. Da questo punto di vista, un curioso filo rosso, pur
nelle radicali differenze di concezione, connette la vulgata strutturalista del vecchio
continente con l'affermazione della linguistica generativa di Chomsky, legata a una
visione innatistica e calcolistica del linguaggio verbale. Ed è stato solo grazie alla
riscoperta di un Saussure avvenuta col lavoro filologico e teorico degli anni Cinquanta-
sessanta che quel filo rosso si è davvero spezzato. Nel frattempo, tuttavia, la linguistica
delle lingue si separava dalla ricchezza e indeterminatezza dei contesti
sociocomunicativi: questa dimensione competeva ormai a etnologi e antropologi",
mentre molta linguistica prendeva a prestito una teoria della comunicazione, anziché
dai propri classici, dal mondo della matematica e dell'ingegneria. Il ben noto "modello
di Jakobson", è l'episodio centrale di questo intricato percorso storico-teorico. In senso
inverso rispetto a questa poderosa decontestualizzazione dell'atto linguistico vanno,
negli anni Quaranta-cinquanta, almeno tre indirizzi di ricerca, destinati ad autonomi,
importanti sviluppi.
1. il filone dell'ordinary language Philosophy in realtà una diramazione dell'approccio
analitico al linguaggio, legata all'ambiente universitario di Oxford e al lavoro di Gilbert
Ryle.
2, la pubblicazione e diffusione delle Ricerche filosofiche, capolavoro postumo di
Ludwig Wittgenstein, che in questi pensieri rovescia l'impostazione del suo celebre
libro giovanile, il Tractatus Logico-Philosophicus (1921) e perviene alla teoria dei
"giuochi linguistici";
3, la svolta "soggettiva" impressa alla ricerca linguistica dal francese Emile Benveniste
(1902-1976), che in un celebre saggio uscito nel 1958 discute i meccanismi (pronomi
personali, deittici ecc.) tramite i quali i soggetti parlanti si installano nel linguaggio, e
così perviene a una personale riscoperta dell'approccio suggerito da Bühler con la
nozione di Zeigfeld. Benveniste si situa in tal modo alle origini degli studi sulla
"enunciazione", che godranno di grande sviluppo negli anni successivi sia in linguistica
(soprattutto di indirizzo pragmatico) sia in semiotica".

Particolare rilievo ha ai nostri fini attuali la posizione di Wittgenstein. Abbiamo già


ricordato in apertura la sua idea che siano potenzialmente indeterminati il numero e la
tipologia dei giuochi linguistici. Questa nozione era maturata nella mente del filosofo
attraverso il progressivo rigetto della visione logicista e corrispondentista del
linguaggio, proposta nel Tractatus: nel Wittgenstein del dopo-Tractatus un'intensa
esperienza sia personale ed esistenziale sia scientifica lo induce a riportare il linguaggio
al terreno scabro della comunicazione e dell'uso. Si fanno così strada idee teoricamente
rilevanti, quali
1. l'insostenibilità del concetto di "linguaggio privato",
2. l'abbandono della ricerca di una "forma generale della proposizione" a favore di una
concezione elastica e, per così dire, demoltiplicata di regola e "grammatica" (procedure
immanenti alla prassi sociale della comunicazione anziché strutture formali che la
trascendono,
3. il rapporto costitutivo fra dimensione semantica e dimensione pragmatica, «Per una
grande classe di casi in cui ce ne serviamo, la parola "significato" si può definire così:
Il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio»
4. la reciproca correlatività fra "forma di vita" e giuoco linguistico, sulla base del
principio che ciascun Sprachspiel ha in sé la sua autonomia, espressa dalle regole via
via adottate dalla comunità parlante, che ne formano, appunto, la grammatica.

Già in un passo delle lezioni del 1934-35, Wittgenstein ragiona su casi di interazione
sociale mediati dal linguaggio (indicare oggetti, dare ordini, ecc) e introduce a tale
proposito la nozione: "giochi di linguaggio" o "giochi linguistici" i sistemi di
comunicazione quali, ad esempio 1), 2), 3), 4), 5). Essi sono più o meno affini a ciò
che, nel linguaggio comune, noi chiamiamo: giochi. Ai bambini s'insegna la loro
madrelingua mediante tali giochi, che hanno il carattere divertente proprio dei giochi.
Noi, tuttavia, consideriamo i giochi di linguaggio da noi descritti non come parti
incomplete d'un linguaggio, ma come linguaggi in sé completi, come sistemi completi
di comunicazione umana. Per non perdere di vista questa prospettiva è molto spesso
utile immaginare che l'intiero sistema di comunicazione d'una tribù in uno stato sociale
primitivo sia linguaggio semplice di questa sorta. Stando "dentro" forme evolute di
linguaggio, intende dirci Wittgenstein, si rischia di non vedere più il funzionamento
autentico della parola, e di ascrivere un ruolo modellizzante a quella che è solo una
delle sue possibili applicazioni: l’uso logico-scientifico. Bisogna pertanto tornare a
forme elementari, ma perfettamente efficienti, di scambio linguistico, come quelle dei
bambini, o quelle di comunità semi primitive, per imparare a vedere di nuovo, in che
modo le regole della comunicazione giungono a istituirsi.

Diversamente da Saussure e da Bühler, Wittgenstein non era interessato a produrre un


modello generale della comunicazione, né si proponeva di contribuire a un lavoro di
tipo applicativo in linguistica o psicologia. Tuttavia, la svolta epistemologica prodotta
dalle sue riflessioni era formidabile anche in sede di teoria dei linguaggi. Ne discendeva
una saldatura fra analisi del linguaggio e sfondo culturale e sociale che sembrava esser
andata perduta nelle correnti formulazioni ingegneristiche della comunicazione. Però
la prospettiva di Wittgenstein si presentava come imperniata sulle differenze sociali e
culturali: non si trattava di postulare una comunità sociale omogenea e di ridurre a
tassonomie i loro speech acts, ma piuttosto di osservare la stupefacente articolatezza e
varietà dei giochi linguistici. Questa idea descrittiva e in nessun modo normativa della
filosofia del linguaggio doveva rendere il pensiero dell’ultimo Wittgenstein stimolante
e fecondo di sviluppi nel momento in cui fattori di vario genere, anche extra scientifici,
avrebbero rimesso il sociale al centro del dibattito filosofico occidentale.

I.7: Il modello di Jakobson (1958) e quello di Grice (1957-75)


Veniamo ora al più noto dei modelli della comunicazione, lo schema a funzioni del
filologo e semiologo russo Roman Jakobson, intorno al quale si sono concentrate,
ancora di recente, tante attenzioni, anche aspramente critiche, da stimolare una
riconsiderazione dell’insieme dell’operazione jakobsoniana, avendo d’occhio il tempo
lungo delle idee linguistiche del Novecento, in cui esso si inserì e intese rappresentare
una svolta. Il saggio proponeva un quadro di riferimento sia per gli sui letterari della
lingua sia per l’insieme degli usi non letterari di questa, cercando di assolvere così a
uno dei compiti peculiari della semiotica, che istituzionalmente intende raccordare i
diversi livelli di uso della parola in una cornice in cui unità e diversità dei processi
comunicativi sono facce complementari e interattive della stessa medaglia. La nozione
di funzione linguistica era lo snodo di questa operazione: i partners del processo
comunicativo sono di norma compresenti, muta il rapporto gerarchico fra di loro e di
conseguenza i livelli di risalto che ciascun partner assume nel concreto dell’atto
comunicativo. Di qui la funzione emotiva (enfasi sul canale) e così via. Ciò facendo,
Jakobson sviluppava un programma di ricerca con lo scopo di produrre un terreno di
raccordo alle dicotomie saussuriane fra langue e parole sin, sincronia e diacronia, sulle
quali, al tempo, tanto si discuteva.

Le radici del modello di Jakobson non vanno dunque cercate solo nel modello di
Shannon, ma in una più complessa gamma di fonti che val la pena dipanare. Jakobson
stesso ha contribuito a intorbidare le acque: la nomenclatura di base è ricalcata su quella
di Shannon ed era inevitabile che gli equivoci inerenti al passaggio dal modello
dall’area dell’ingegneria della comunicazione a quella della linguistica si
riverberassero sull’operazione jakobsoniana. A quest’ultima è stato rimproverato di
offrire un banale modello del messaggio, in cui la comunicazione, essendo mediata da
un codice, sarebbe riducibile a un processo di tipo si/no, privo di gradualità interna e
incapace di dare il giusto spazio al momento dell’interpretazione. Per quanto si sia in
seguito opportunatamente cercato di rendere il termine codice nuovamente disponibile
in chiave semiotica, neutralizzandone la matrice ingegneresca è un fatto che, quando
di codice si parla, si continua a intendere due liste ordinate di elementi, gli uni in
funzione di significante, gli altri in funzione di significato, collegate da corrispondenze
biunivoche. È un'accezione - questa - adatta per spiegare come funziona un ascensore
o una macchina per fare il pane, e semmai una certa quantità di linguaggi animali non
umani (non tutti, però!), ma che inevitabilmente frana dinanzi ai fenomeni di polisemia,
ironia, metaforicità di cui sono intrisi anche i più quotidiani atti di comunicazione
verbale. Non per caso, in un noto reading sulla teoria della metafora (Ortony, 1979) ha
trovato spazio una delle più stringenti critiche del modello del codice, o modello
"postale" della comunicazione (Reddy), che ha contribuito non poco alla
delegittimazione – almeno in ambito linguistico e semiotico - delle teorie di Jakobson.
Il filologo russo, in verità, introduceva dei correttivi di non poco conto nello schema
shannon-milleriano: prima ancora di "rivestirlo" con la griglia delle funzioni, lo
implementava con la coordinata del "contesto", nozione di statuto, tuttavia, non
evidente, e con quella del "contatto", categoria incorporante sia il canale fisico della
comunicazione (ad esempio il mezzo scritto o orale di uno scambio di battute) sia la
dimensione psicologica del rapporto fra mittente e ricevente. È utile una citazione: “Il
mittente invia un messaggio al destinatario. Per essere operante, il messaggio richiede
in primo luogo il riferimento a un contesto (il "referente", secondo un'altra terminologia
abbastanza ambigua), contesto che possa essere afferrato dal destinatario, e che sia
verbale, o suscettibile di verbalizzazione; in secondo luogo esige un codice
interamente, o almeno parzialmente, comune al mittente e al destinatario (in altri
termini, al codificatore e al decodificatore del messaggio); infine un contatto, un canale
fisico e una connessione psicologica fra il mittente e il destinatario, che consenta loro
di stabilire e di mantenere la comunicazione.”

Da notare il curioso appiattimento del contesto sulla dimensione cosale del referente,
insomma di entità extralinguistiche a sé stanti, staccate dalla dinamica viva della
comunicazione; e da notare pure il difettoso e ambiguo recupero di questa dinamica
tramite la nozione di contatto, dove però l'elemento della interazione psicologica va a
confondersi con la questione tutta diversa (anche se ovviamente interrelata) del canale
fisico prescelto o imposto nella situazione data. Si conferma l'impressione di
eclettismo: Jakobson, pure solo parzialmente disposto a riconoscere il debito contratto
con le sue fonti, fa inevitabilmente il nome di Bühler per la funzione espressiva
(focalizzata sul mittente) e di Malinowski per la funzione fatica (focalizzata sul canale).
La funzione referenziale richiama invece con ogni evidenza le teorie del riferimento,
tipiche della tradizione analitica, la funzione metalinguistica (focalizzata sul codice) ci
riporta al logico polacco Alfred Tarski (1901-1983)", la funzione conativa"
(direzionata al ricevente) di nuovo a Bühler e alla tradizione psicologica, mentre la
funzione poetica focalizzata sul messaggio: riconduce a quel fenomeno dello
straniamento che aveva in anni lontani fermato l'attenzione del formalismo russo e di
Viktor Šklovškij in particolare". Il gioco retorico di questo e altri infiniti slogan hanno
infatti la caratteristica di "deautomatizzare" la nostra percezione della realtà,
imponendole, in virtù dell'effetto che il dispositivo linguistico ha sulla coscienza
spontanea del parlante e dell'ascoltatore, una rianalisi in termini ironici, comici, critici
o altro. In secondo luogo, emerge una profonda dissonanza fra l'idea che la
comunicazione sia codifica e decodifica di messaggi (insomma una operazione a ruoli
invertiti, ma in sostanza identici) e la funzione poetica, dove il messaggio ha una natura
evidentemente ambigua e molto è lasciato alla sua interpretazione da parte del
ricevente, al fine di spremerne le possibili connotazioni. La conferenza di Jakobson",
col suo groviglio non risolto di istanze e di tradizioni teoriche, viene pubblicata nel
1960. Vale la pena insistere brevemente sulle date. A fronte della dottrina del codice,
che si avviava, anche grazie a Jakobson, a godere un'ampia e equivoca fortuna, tre anni
prima era comparso Meaning del filosofo inglese Herbert Paul Grice, uno scritto di
taglio squisitamente logico e alquanto disinteressato alle variabili socioculturali della
comunicazione.

• Note: La distinzione fra lingua-oggetto e metalingua venne formulata da Traski


• Esempi linguistici minimali delle funzioni jakobsoniane possono essere le
interiezioni (per la funzione emotiva, ordini e preghiere (per la conativa),
enunciati (per la forma referenziale), poi per la fatica e per la metalinguistica.

Pure, in quello scritto si poneva con forza la distinzione fra il significato letterale
dell'enunciato e il significato inteso da parte del locutore, il che equivale a mettere in
gioco da un punto di vista teorico non solo la dimensione dell'intenzionalità, ma anche
quella dei contesti situazionali. Questo principio anima la nozione di "implicatura
conversazionale", quel sapere implicito che viene applicato nei nostri scambi dialogici
senza bisogno di esplicitazione formale a livello del messaggio. Nel più tardo Logic
and Conversation (1975) Grice tornerà sulle problematiche della comunicazione,
studiando le mosse cooperative che guidano i partners dello scambio linguistico,
tramite un continuo gioco di sponda tra la forma dei messaggi e le attese e le ipotesi di
deduzione messe in atto a ogni scambio di battute. Riportiamo le celebri "massime
della conversazione" (corrispondenti alle categorie kantiane di quantità, qualità,
relazione e modo) formulate dal filosofo:
a) Massime di quantità: (1) Dai un contributo tanto informativo quanto richiesto (per
gli scopi accettati dello scambio comunicativo in corso); (2) Non dare un contributo
più informativo di quanto richiesto.
b) Massime di qualità: (1) Non affermare ciò che credi essere falso; (2) Non affermare
ciò per cui non hai prove adeguate.
c) Massima di relazione: Sii pertinente.
d) Massime di modo: (1) Evita di esprimerti con oscurità; (2) Evita di essere ambiguo;
(3) Sii breve; (4) Sii ordinato nell'esposizione".

«Conforma il tuo contributo conversazionale a quanto è richiesto, nel momento in cui


avviene, dall'intento comune accettato o dalla direzione dello scambio verbale in cui
sei impegnato»: in ciò consiste, a parere di Grice, quel "principio di cooperazione" cui
i parlanti devono sottostare nell'impegnarsi in uno scambio dialogico. Le massime non
sono, tuttavia, solo o tanto un tentativo di indirizzo etico della comunicazione; esse
illustrano il background di convenzioni sociali e di norme giuridico-linguistiche cui i
parlanti debbono fare riferimento per cercare di intendersi. Queste norme si situano a
livello di un "sapere" translinguistico e condizionano cognitivamente le mosse
comunicative. Da tale punto di vista, le massime griceane non solo offrono uno spunto
importante per una evoluzione in senso cognitivo della teoria della comunicazione.
Esse si prestano anche a interessanti applicazioni in settori specifici dell'analisi sociale
del linguaggio: si pensi all'uso dell'eufemismo o dell'ambiguità nella comunicazione
politica o all'uso dell'iperbole nella comunicazione pubblicitaria. Eppure, ancora una
volta, i conversanti di Grice sono in certo modo "parlanti e ascoltatori ideali", i quali
condividono il sapere medio di una progredita società occidentale e basano ogni loro
mossa su una presunzione di razionalità da parte dell'interlocutore. Una razionalità
presentata come universale umano, e in effetti omologa a una specifica forma di cultura
e di società, figlia insomma, come si diceva un tempo, di una "astrazione
indeterminata".

I.8: La comunicazione nell’ottica socio ed etnolinguistica: Halliday e Hymes


In questo paragrafo prendiamo in considerazione quella sorta di riscossa del contesto
di comunicazione che ha avuto luogo negli anni Sessanta-settanta, e che ha
successivamente condizionato lo sviluppo di settori specifici di ricerca, quali la socio-
e l'etnolinguistica. Come ha osservato a suo tempo uno dei protagonisti di fase, Michael
A, K. Halliday, siamo dinanzi a un ritorno del "sociale" che non si spiega ovviamente
solo con una dinamica interna della disciplina, ma affonda le sue radici in un generale
contesto politico-culturale in cui emergono in tutta la loro complessità problemi, in
parte tradizionali, in parte nuovi dell'assetto delle società occidentali: bilinguismo e
multilinguismo, con le connesse tematiche relative all'integrazionale scolastica e
sociale, convivenza di etnie diverse in uno stesso spazio geo-politico, interculturalità,
radicalizzazione di "differenze" e conflittualità sociali e così via. È un climate of
opinion nuovo che induce una dialettica all'interno della ricerca linguistica: mentre il
cognitivismo, sviluppatosi nei tardi anni cinquanta intorno all'analogia fra mente e
software, ispira un programma di ricerca focalizzato sulle componenti innate e i
dispositivi universali di computazione propri dell'assetto conoscitivo umano, e
promuove una stretta collaborazione fra linguistica, intelligenza artificiale e psicologia,
gli studi che in senso lato possiamo chiamare "sociolinguistici" si concentrano sulle
molteplici differenze che interessano il comportamento linguistico, tessendo stretti
rapporti con l'antropologia culturale, la psicologia della comunicazione, la semiotica,
le scienze sociali in genere. In questo quadro, prendono piede nuovi modelli della
comunicazione. Il primo modello utile ai nostri fini è quello proposto da Dell Hymes
(1927-2009), sociolinguista e antropologo statunitense, che assieme al suo collega John
J. Gumperz (1922-) propone fin dal 1964, in un numero speciale di "American
Anthropologist", un approccio "etnografico" al linguaggio e alla comunicazione. L'idea
di questi studiosi è che il linguaggio non vada considerato solo in quanto "sistema", ma
anche e inscindibilmente in quanto funzionale a uno specifico contesto socioculturale,
che condiziona opportunità e forme della comunicazione, sistema semantico, ruoli dei
parlanti. Da tale punto di vista, Hymes e Gumperz intendono sintetizzare quella parte
della tradizione teorico-linguistica che ha riconosciuto la dimensione sociale del
linguaggio con la tradizione antropologica di lingua inglese, le cui tappe essenziali
sono identificate nel fondatore, Franz Boas, nella linea Sapir-Whorf (cui viene
ricondotto il principio del "relativismo linguistico). Hymes si contrappone
esplicitamente al programma di ricerca di Chomsky, il caposcuola della linguistica
generativa, che nei suoi scritti del 1965-66 mette al centro dell'analisi un «parlante-
ascoltatore ideale» il cui apprendimento spontaneo della lingua madre e l'esercizio
della sua grammatica appaiono largamente indipendenti da fattori esterni e si
riassumono nel concetto di "competenza linguistica". Secondo Hymes, invece, quando
un bambino impara una lingua, acquisisce la conoscenza di frasi non solo in quanto
grammaticali, ma anche in quanto appropriate. Esso acquisisce la competenza relativa
a quando parlare e quando no, a ciò di cui parlare, e con chi, quando e dove, e in che
modo. In breve, un bambino diviene capace di realizzare un repertorio di atti linguistici
(speech acts), di partecipare a eventi linguistici (specch events) e di valutarne la
realizzazione da parte di altri. Questa competenza, inoltre, si integra con atteggiamenti
e con una competenza e atteggiamenti relativi all'interrelazione della lingua con altri
codici di comportamento (conduct) comunicativo.

Note: Ovvero il principio, di origine humboldtiana, secondo cui la lingua materna


fascia il sistema conoscitivo dei parlanti condizionando (e rendendo reciprocamente
incommensurabili) le "visioni del mondo" delle diverse comunità. le posizioni
whorfiane hanno avuto una grande influenza sull'antropologia linguistica
nordamericana, oggi estesasi al campo dei cosiddetti "studi interculturali.

Questo passaggio dal possesso della grammaticalità al possesso della appropriatezza


culturale delle risorse linguistiche viene espresso tramite il concetto di "competenza
comunicativa', mentre correlativamente la linguistica (in quanto studio del sistema) è
chiamata a far di una più ampia "etnografia della comunicazione". Unità di lavoro
dell'approccio etnografico sono pertanto:
1. il concetto di "comunità linguistica, ovvero "ogni distinguibile gruppo sociale
intercomunicante" che Hymes di ridefinisce come comunità «che condivide la
conoscenza di regole per produrre ed interpretare il parlare»;
2. il concetto di "situazione linguistica", vale a dire l'insieme delle situazioni, tipiche
della vita di una comunità, associate con l'attività linguistica o caratterizzate dalla sua
assenza;
3. il concetto di "evento linguistico", definito da «attività o aspetti di attività, che siano
direttamente governate da regole o norme relative all'uso della lingua»
4. il concetto di "atto linguistico", focalizzato sulle unità minime che entrano a far parte
degli eventi linguistici.

La "competenza comunicativa" del parlante si chiarisce pertanto come una capacità di


adattamento a usi sociocomunicativi definiti secondo variabili geo-politico-culturali.
Non è una capacità statica, ma dinamica. Essa a sua volta si colloca (in parlanti capaci
di adattamento interlinguistico e interculturale) in un più comprensivo "campo
linguistico" (linguistic area, la gamma di lingue entro cui i parlanti in questione sono
in grado di muoversi) e in un ancor più ampio "campo di linguaggio" (speech area, la
gamma di comunità in cui i parlanti in questione riescono a muoversi in virtù delle loro
conoscenze, anche non verbali, relative ai modi di comunicare). È interessante che, in
anni successivi, e con riferimento al complesso contesto dialettale sociolinguistico
italiano, Tullio De Mauro (1980) abbia introdotto il concetto di (mobilità nello) "spazio
linguistico", inteso come correlativo allo "spazio culturale" della società di riferimento.
Hymes propone a questo punto uno schema per l'analisi dell'esercizio della competenza
comunicativa in una comunità e una situazione date. E il cosiddetto "modello
SPEAKING", un acronimo derivante dalla combinazione delle lettere iniziali delle
seguenti componenti, intese nel loro insieme come pertinenti a una corretta lettura del
fenomeno:
a) Setting and Scene (S), ovvero la situazione empirica, lo spazio fisico della
comunicazione (ad esempio una stanza di abitazione) e la scena, la situazione
psicologica o la definizione culturale della comunicazione stessa (ad esempio, il
racconto di una storia);
b) Participants (P), parlante e ascoltatore/i, inclusi genere sessuale, ruoli sociali ecc,
che possono ovviamente alternare i loro ruoli;
c) Ends (E), finalità e scopi della comunicazione, e suoi risultati.
d) Act Sequence (A), la forma e l'ordine in cui si succedono gli atti linguistici e) Key
(K), la "chiave" si riferisce al «tono, modo, o spirito con cui un atto viene compiuto»,
e pertanto corrisponde a ciò che altri chiamano modalità di una comunicazione;
f) Instrumentalities (I), ovvero "forme e stili di linguaggio": è qui in gioco f1) la scelta
fra questa o quella varietà linguistica disponibile ai parlanti (ad esempio lingua
nazionale o dialetto) e f2) ciò che si esprime normalmente tramite la nozione di
"registro" (informale/formale/formalizzato) riferendosi al grado di minore o maggiore
connessità sintattica, alla scelta delle parole, al grado di dipendenza dalle circostanze
materiali della comunicazione. Più in generale, questo componente include anche la
scelta fra possibili "canali" differenti
g) Norms (N), le "norme" sociali che governano sia l'attività del parlante sia quella di
chi ascolta;
h) Genre (G) il "genere" o tipo di testo cui la comunicazione si affida: Hymes pensa
non ad astratte categorie, ma a forme storicamente date di testualità

É evidente il vantaggio che lo schema SPEAKING presenta rispetto ad altri modelli


fin qui analizzati: esso cerca di rendersi permeabile a ogni tipo di variabile culturale,
situazionale, di ruoli sociali e di scelte linguistiche, tenendo conto anche della
dimensione mediale e di quella testuale: si tratta di un passaggio decisivo per una
cultura della comunicazione che, nel secondo dopoguerra, deve dare il giusto spazio da
una parte al moltiplicarsi delle tecnologie della comunicazione, dall'altra allo sviluppo
di un'attenzione privilegiata alla testualità come forma-base dell'esperienza linguistica
che negli anni settanta comincia a soppiantare la tradizionale linguistica della frase. Il
contesto comunicativo gioca un ruolo essenziale anche nel lavoro teorico e applicativo
di Michael A. K. Halliday (1925-), cui si deve un rinnovato approccio "funzionale"
all'analisi del linguaggio". Il linguista inglese tiene però a distinguersi da Hymes e dagli
etnografi della comunicazione, la cui ottica gli sembra rivolta verso le condizioni
esterne del fatto linguistico, mentre il punto centrale è recuperare il rapporto fra sistema
e funzione. La costellazione teorica in cui Halliday si muove è formata da una parte
dalla lezione di Malinowski, Firth e Whorf, dall'altra dalle due grandi correnti della
sociolinguistica di lingua inglese: quella, fortemente impegnata sul terreno educativo,
di Basil Bernstein (cui si deve la ben nota distinzione fra "codice ristretto" e "codice
elaborato", quali forme espressive tipiche di classi sociali basse e medio-alte) e William
Labov (teorico della "autonomia" funzionale, e quindi della differenza, delle forme
linguistiche delle classi subalterne). In ogni caso, il suo contributo centrale consiste in
un ripensamento dello schema a funzioni, ottenuto mediante una serrata discussione
dei precedenti di Bühler e Jakobson, e soprattutto mediante una sua proiezione in
chiave evolutiva, ipotizzando cioè uno sviluppo del tipo e del numero delle funzioni
disponibili a seconda dell'età dei parlanti.

Alla fase infantile (che ha ovviamente una dinamica al suo interno, osservata
dall'autore a partire dai nove mesi d'età) corrispondono la capacità di usare il linguaggio
per soddisfare bisogni (funzione strumentale), per controllare il comportamento altrui
(funzione regolativa), per stabilire contatti con altri (funzione interpersonale), per
esplorare il mondo (funzione euristica), per crearsi un proprio mondo (funzione
immaginativa). Queste funzioni hanno inizialmente il senso di soddisfare le necessità
basilari del bambino, e col tempo vengono via via integrate e superate da alcune
metafunzioni molto astratte che sfruttano a fondo il carattere simbolico del linguaggio:
le funzioni interpersonale, ideazionale e testuale. Esse aiutano il parlante a realizzare il
"potenziale semantico" (meaning potential) della loro lingua, cioè l'insieme dei
possibili significati che essa (storicamente, semioticamente) veicola. A ogni
metafunzione fanno capo una gamma di possibili usi della lingua. Attraverso la
funzione interpersonale il parlante «si immette nel contesto di situazione, sia
esprimendo i suoi atteggiamenti e giudizi, sia cercando di influenzare gli atteggiamenti
e il comportamento degli altri». Essa corrisponde quindi alla somma della funzione
espressiva e conativa di Bühler e Jakobson. La funzione ideazionale si articola però in
due sottocomponenti: quella "esperienziale", che Halliday considera la funzione
"contenutistica" del linguaggio, il suo farsi «espressione dei processi e di tutti i
fenomeni del mondo esterno», come pure dei suoi sentimenti e pensieri (c'è quindi
un'analogia e uno slargamento rispetto alla funzione rappresentativa di Bühler e
soprattutto a quella referenziale di Jakobson); e una sottocomponente "logica",
consistente nella architettura gerarchica e sintattica del discorso, che ha dunque
carattere ricorsivo. Infine, la funzione testuale è quella che mette in forma il linguaggio
nel contesto comunicativo, dandogli una texture, una struttura testuale riconoscibile.
Da tale punto di vista, «la componente testuale ha la funzione di rendere possibili le
altre due», perché significati interpersonali e ideazionali hanno bisogno di calarsi in
per venire «attualizzati» Halliday si sforza di dare uno statuto formale alle categorie
che introduce, in vista dell'obiettivo di una teoria unitaria del linguaggio in quanto
"semiotica sociale". Di qui alcune importanti precisazioni a proposito di nozioni
correnti in questo ambito di studi: quel che si chiama situazione comunicativa" andrà
intesa non come fotografia di una situazione empirica, ma come "tipo di situazione",
cioè come un'occorrenza di una vera e propria struttura semiotica accreditata all'interno
di una certa cultura; quel che si chiama "codice", a sua volta, andrà inteso come
un'entità culturale complessa, in sostanza come il principio semiotico che consente la
scelta e il montaggio di certi significati da parte del parlante e dell'ascoltatore: quel che
"si può dire" all'interno di certi vincoli culturali e sociali; non sono dunque
semplicemente varietà di una lingua, ma «ordini simbolici di significato» che si
collocano al di sopra di esse, e ne abilitano l'uso. Su questi presupposti diviene possibile
classificare ne comunicativa nei suoi connotati semiotici attraverso tre parametri: il
campo, il tenore e il modo.
• Il "campo" è l'azione sociale che si sta svolgendo e nella quale vengono inseriti
uno o più testi;
• il "tenore" si riferisce ai rapporti reciproci e ai ruoli sociali dei partecipanti alla
comunicazione;
• il "modo" è il canale prescelto e chiarisce la funzione assegnata alla lingua nella
situazione data.

I.9: Comunicazione come complessità: approcci pragmatici, cognitivi, linguistico-


testuali
Vogliamo qui, per concludere, solamente accennare ad alcune delle direzioni di ricerca
intraprese che più evidentemente gettano le loro radici nei filoni di pensiero fino
ripercorsi.
a) La pragmatica si presenta come un campo particolarmente fecondo per la teoria della
comunicazione, anche per la varietà di tradizioni teoriche che in essa confluiscono. La
suggestione morrisiana (a.1) si è prestata a uno sviluppo in chiave logica dei linguaggi
naturali, quale si è avuto a partire dalle tesi di Grice e da alcuni lavori del filosofo
nordamericano Robert Stalnaker, focalizzandosi sul rapporto fra le presupposizioni
(ovvero le premesse e le assunzioni implicite di un discorso) e le implicature
conversazionali (ovvero le deduzioni ulteriori che si possono fare in una conversazione
mediante il principio di cooperazione): (a.2) a uno sviluppo in chiave linguistica, sulla
traccia della prospettiva enunciazionale di Benveniste; un esempio importante è offerto
dai lavori del linguista francese Oswald Ducrot.
b) L'adozione di un approccio ermeneutico alla lettura (e più in generale al problema
della comprensione) ha permesso di approfondire sia i segnali e le mosse attraverso le
quali mittente e ricevente collaborano alla determinazione del senso sia la inevitabile
asimmetria delle loro operazioni semiotiche, dando così luogo a una "estetica della
ricezione" che porta in primo piano, se così si può dire, la creatività del ricevente
c) La concezione inferenziale della comunicazione proposta da Grice, saldandosi con
le direzioni di ricerca della psicologia cognitiva e con gli interessi relativi allo studio
dell'architettura della mente ha consentito lo sviluppo di una vera e propria teoria
cognitiva della comunicazione, la teoria della pertinenza (relevance) da parte di Dan
Sperber e Deirdre Wilson, che si è di recente intrecciata con le problematiche relative
all'ipotesi modularista (la mente umana sarebbe almeno in parte operante per mezzo di
moduli "informazionalmente incapsulati", che attingono cioè a un solo tipo di
informazioni, riducendosi pertanto la quota di lavoro mentale a carico della cosiddetta
"unità centrale") e perfino all'origine del linguaggio
d) Soprattutto in ambito tedesco, l'intreccio fra temi di filosofia (il trascendentalismo
kantiano, il posto del linguaggio nel sistema etico e giuridico-sociale della modernità),
temi di filosofia del linguaggio (la teoria wittgensteiniana dei giochi linguistici, la
dottrina degli speech acts del filone Austin-Searle) e temi inerenti la Textlinguistik
(linguistica del testo) sviluppatasi a partire dagli anni settanta ha prodotto importanti
direzioni di ricerca: una è quella, notissima, promossa da Otto K. Apel e Jürgen
Habermas, un'altra, molto meno conosciuta ma assai interessante, è quella che fa capo
a Siegfried J. Schmidt (1940-), che ha cercato di sintetizzare nel concetto di "gioco
d'azione comunicativo" istanze wittgensteiniane, semiotiche, linguistico-testuali.

Il gioco comunicativo è, spiega Schmidt (1977, p. 251), «una "storia" comunicativa


delimitabile nel tempo e nello spazio», di cui fanno parte la collocazione sociale
dell'evento, i partners della comunicazione con tutti i loro presupposti che li possono
condizionare, il luogo, il tempo e la situazione percettiva, i testi concretamente
enunciati con le loro eventuali dinamiche di intertesto, le azioni non linguistiche. L'atto
di comunicazione non è pertanto solo un nome diverso che l'autore dà allo speech act
austiniano, ma una categoria meno astratta, che tiene conto di fattori "ricorrenti" e
fattori "occorrenti" (ovvero contingenti, che influenzano in modo idiosincratico l'atto
linguistico). La proposta di Schmidt non serve a far notare come, già alla soglia degli
anni ottanta del Novecento, gran parte delle istanze maturate grazie a linguistica,
antropologia, filosofia del linguaggio e psicologia nella prima metà del secolo siano
giunte a disporsi in un complesso mosaico: vi sono dunque tutti gli ingredienti per
avallare un'idea della comunicazione come "complessità", e per promuovere analisi
differenziate di tale fenomeno, oltre le strettoie del modello "ingegneresco" dal quale
siamo partiti, e del quale, singolarmente, settori non secondari delle scienze del
linguaggio e delle scienze sociali faticano ancor oggi, trent'anni dopo, a liberarsi.

Nota: La teoria modularista della mente è dovuta a Jerry Fodor

Capitolo 2: La comunicazione fra discorso e testo di Filomena Diodato


2.1: Premessa
Le nozioni di discorso e testo sono indispensabili per l'analisi dell'evento comunicativo.
Sebbene una linguistica del testo sia sempre esistita, a proposito della difficoltà di
rintracciare una definizione di testo universalmente valida, qualche anno fa il grande
linguista Eugenio Coseriu (1921-2002) scriveva che l'espressione «designa tipi di
indagine molto differenti, addirittura discipline scientifiche completamente diverse».
Sulla stessa scia, François Rastier, proponendo una federazione delle discipline che
indagano questa dimensione del linguaggio, individua un vero e proprio popolo del
testo diviso tra numerose tribù accademiche. Questa dispersione dipende dal fatto che
il testo è un fatto multiforme ed eteroclito, pertanto indagabile da molteplici punti di
vista. Di discorso e soprattutto di testo si sono dunque legittimamente occupate diverse
discipline, delineando approcci solo parzialmente sovrapponibili. Difatti, a inizio
Novecento, l'esigenza di autonomia della nuova disciplina spinse il suo fondatore, lo
svizzero Ferdinand de Saussure, a privilegiare lo studio della langue (il sistema di
segni) rispetto a quello della ‘parole’ (l'uso individuale); poi, con la svolta cognitiva
operata da Chomsky a metà degli anni Cinquanta, la lingua è stata ridotta a un modulo
autonomo il cui funzionamento (prevalentemente sintattico) prescinderebbe dal
contesto comunicativo. Ciò nonostante, a metà Novecento, l'attenzione per il
linguaggio e in uso ha condotto a una duplice svolta pragmatica. Mentre sul versante
linguistico l'eredità saussuriana raccolta da Benveniste ha negato l'idea della lingua
come sistema autosufficiente, smentendo la possibilità di un'analisi linguistica context
free e ha criticato l'intransigente dicotomia tra langue e parole, configurando una
"linguistica del discorso"; sul versante filosofico la filosofia del linguaggio ordinario
ha riconosciuto, con la nozione di "atto linguistico" e la definizione di significato come
uso, la natura performativa del linguaggio e il ruolo essenziale del contesto
comunicativo ai fini della determinazione del senso. Grazie a questi apporti e agli
sviluppi della sociolinguistica, intorno agli anni Sessanta e settanta, la linguistica ha
accettato definitivamente la necessità di compromettere l'analisi con elementi esterni
al sistema, prendendo in considerazione, nel contempo, unità più estese della frase. I
tempi erano dunque maturi per lo sviluppo di una "linguistica del testo". Tentiamo di
introdurre le nozioni di discorso e testo da un punto di vista semiotico e filosofico-
linguistico. A questo fine, e nel rispetto della diversa evoluzione dei due filoni di
ricerca linguistica del discorso e linguistica del testo non consideriamo sinonimi i
termini discorso e testo, come nella lingua comune, né li differenziamo sul piano
(diamesico) dei canali che li trasmettono (non è detto, infatti, che testo si riferisca a
un'entità comunicativa scritta e discorso a una performance orale) o estetico (non è
detto nemmeno che la nozione di testo si applichi alle sole opere letterarie). Spesso lo
scarto tra le due nozioni è rapportato alla dicotomia langue/parole: il testo sarebbe
un'occorrenza comunicativa complessa astratta (relativa alla langue), il discorso
consisterebbe in una attuazione del testo (relativa alla parole); tuttavia, come vedremo,
testo e discorso sono due nozioni complementari che si riferiscono entrambe alle
modalità attraverso le quali il sistema linguistico si attualizza, sebbene la linguistica
del discorso approfondisca le dimensioni della messa in discorso della lingua
(enunciazione) e la linguistica del testo sembri più attenta ai meccanismi generali della
produzione e comprensione testuale.

2.2: Linguistica del discorso


Fin dagli anni immediatamente successivi alla pubblicazione del Cours de linguistique
générale (1916), in ambito semiologico e linguistico si afferma una corrente avversa a
un'interpretazione troppo rigida della nozione di sistema'. L'opposizione agli indirizzi
dello strutturalismo più ortodosso fondati sul principio hjelmsleviano di immanenza o
autosufficienza del sistema matura in particolar modo nel settore di studi dedicati al
tema dell'enunciazione, conducendo a una svolta comunicativa interna a questo
paradigma, che sposta l'attenzione dal sistema (codice) alla sua attuazione o, in altri
termini, dal prodotto (frase o enunciato) alle modalità di produzione (l'enunciazione,
appunto). Sebbene per un certo periodo ne sia stata attribuita la primogenitura al
linguista russo Roman Jakobson', il padre incontrastato della nozione di enunciazione
è il francese Émile Benveniste, che ha dedicato alla sua teorizzazione diversi lavori nel
periodo 1946-70. L'attenzione di Benveniste cade su alcuni elementi linguistici che,
pur appartenendo alla langue, trovano il loro senso solo se calati in una precisa
situazione comunicativa: i pronomi personali, i dimostrativi e, in generale, tutti gli
elementi deittici acquistano senso solo quando il parlante si appropria della lingua,
convertendo il linguaggio, appunto, in discorso.

Note: L'interpretazione in senso debole della nozione di sistema trova, del resto,
conferma nelle più recenti revisioni del pensiero saussuriano;
2. Più precisamente, la frase è l'entità che in ogni nuova enunciazione rimane invariata;
l'enunciato coincide, invece, con ciascuna delle realizzazioni della frase in un certo
contesto comunicativo. In altri termini, la frase sarebbe una sequenza-tipo, l'enunciato
una sequenza-occorrenza.
3. Ciò è dipeso dal fatto che l'edizione francese dei Saggi di linguistica generale (1963),
che contiene il saggio del 1957 nel quale Jakobson affronta la questione dei
commutatori, è precedente. all'uscita dei lavori di Benveniste, il quale, però, stava
lavorando già da tempo alla sua teoria, peraltro citata da Jakobson.

Queste osservazioni, peraltro parzialmente anticipate dallo psicologo tedesco Karl


Bülher, mettono in crisi la distinzione langue (sistema di segni) /parole (atto linguistico
individuale), introducendo tra i due livelli il "discorso o "enunciazione" che riguarda
l'impiego totale della lingua e il rapporto del soggetto con essa. La linguistica del
discorso si occupa dunque non dei prodotti dell'attività linguistica (atti di parole,
enunciati) bensì dell'atto stesso di produrre un enunciato (cui compete il termine
enunciazione) il fenomeno dell'enunciazione riguarda, in primis, la realizzazione
vocale della lingua, ovvero l'individualità e l'irripetibilità degli atti linguistici, ogni
volta unici in relazione alle diverse situazioni comunicative. L'enunciazione comporta,
inoltre, una semantizzazione della lingua poiché i segni linguistici assumono senso
pieno solo quando usati da un parlante in un contesto di discorso. Qui risiede una delle
distinzioni fondamentali della teoria benvenistiana che oppone semiotico a
"semantico": il segno linguistico deriva la sua denotazione e la correlazione con i suoi
sostituti paradigmatici dal sistema linguistico cui appartiene, indipendentemente dalla
circostanza in cui è usato ("modo semiotico"); tuttavia, un segno diventa parola solo
nel momento in cui è usato all'interno di una frase, il che comporta sempre il
riferimento alla situazione comunicativa e al locutore. Se, dunque, il segno significa,
la parola comunica; queste sono infatti le due modalità fondamentali della funzione
linguistica. Mentre la semiotica si occupa della lingua come sistema di segni
indipendentemente dalla realizzazione concreta, la semantica studia la lingua come
mezzo di comunicazione.

Note:4. Bühler (1934) ha distinto due campi del linguaggio: un campo simbolico, cui
afferiscono i Nennwörter (nomi con funzione simbolica), e un campo indicale, cui
corrispondono gli Zeigwörter, i deittici. Come i pronomi di Benveniste, gli Zeigwörter
non designano il proprio referente, bensì lo indicano. Il campo indicale è, più
precisamente, un sistema di coordinate spaziali, temporali e personali, al cui centro si
colloca la ego-hic-nunc-origo dell'enunciazione. Di conseguenza, il parlante
compiendo un atto enunciativo diviene il centro di un campo indicale. 5.
L'enunciazione si distingue, così, dall'attività linguistica che concerne il processo che
conduce alla realizzazione dell'enunciato. L'enunciazione è, per contro, un atto, un
evento. l'enunciato mostra la propria enunciazione, ne è immagine.

La semantica benvenistiana comprende, quindi, la pragmatica nella duplice accezione


di indagine delle relazioni tra lingua e utenti e tra lingua e contesto comunicativo. Per
Benveniste, il livello a cui afferisce l'enunciazione non è quello della singola parola
bensì quello della frase; la sua concezione di "frase" è però, completamente diversa da
quella maturata nell'ambito del generativismo chomskyano. La frase è, infatti, il livello
del linguaggio nel quale domina la "funzione predicativa" propria della comunicazione
umana. Da un lato, la frase è concepita come una struttura olistica, il cui senso non
deriva dalla mera somma dei suoi elementi costitutivi; dall'altro, essa ha una referenza,
in quanto denota una precisa situazione comunicativa. La produzione di una frase
costituisce un evento unico e irripetibile, che crea il tempo presente del locutore,
riferimento interno di tutti gli altri possibili tempi. Quando il locutore usa la lingua, la
fa sua; l'enunciazione è dunque un processo di appropriazione della lingua da parte di
un parlante, che, in questa maniera, si pone come soggetto. La tesi della soggettività
del linguaggio riconsegna, così, ai parlanti un ruolo centrale nel funzionamento dei
processi comunicativi. Più precisamente, la teoria dell'enunciazione rende conto della
socialità e della dialogicità del linguaggio umano; ogni evento comunicativo coinvolge,
infatti, almeno due figure poste una di fronte all'altra e comporta una continua
variabilità della situazione discorsiva a seconda del locutore che prende la parola.
L'enunciazione comporta, inoltre, sempre un riferimento al mondo, anch'esso elemento
integrante dello scambio comunicativo. In questo modo si supera definitivamente il
principio di immanenza" di certi approcci strutturalisti: l'analisi del discorso di matrice
benvenistiana rinnega la cancellazione del soggetto parlante e l'antireferenzialismo
dello strutturalismo hjelmsleviano, considerando i parlanti e il riferimento come
momenti essenziali dell'attività linguistica. Riguardo, infine, alla distinzione tra
enunciazione scritta ed enunciazione parlata, Benveniste, con un rapido accenno,
sembra prospettare due linee di ricerca complementari, sebbene i suoi studi siano
incentrati sull'enunciazione orale, esemplificata nella comunicazione faccia a faccia.
Stranamente, dopo di lui avrà maggiore fortuna il tema dell'enunciazione scritta, fatto
proprio dalla scuola greimasiana'.

2.2.1. Apparato formale dell’enunciazione


Gli studi di Benveniste conducono all'individuazione di un vero e proprio apparato
formale dell'enunciazione, comprendente tutte le forme linguistiche a) che implicano
un soggetto che le assume e le usa e b) che hanno una referenza variabile, dipendendo
dal locutore e dalla situazione comunicativa. Vi rientrano, quindi, gli indici di persona,
gli indici dell'ostensione, le forme della temporalità, le forme dell'illocutività e, infine,
le modalità.

Indici di persona
I pronomi personali mettono in rapporto costante e necessario il locutore con la propria
enunciazione. A differenza dei nomi, che hanno un referente oggettuale - denotano,
cioè, concetti costanti e non mutano riferimento nel passaggio dal sistema virtuale della
lingua al piano attuale del discorso -, questi indici personali, definiti da Jakobson
(1963) "commutatori", hanno un referente discorsivo, assumono cioè il riferimento in
relazione al soggetto che li enuncia. In altri termini, i pronomi hanno una referenza
variabile tutta interna al linguaggio; essi non rimandano a una classe d'oggetti, né a
individui fissi, innescando un riferimento che non segue, come per i nomi, la direzione
linguaggio- mondo. Per questa ragione, i referenti delle forme pronominali possono
essere definiti «solo in termini di parlare, e non in termini di oggetti»; io e tu indicano
persone sempre diverse e particolari, quindi «non rimandano né alla realtà, né a
porzioni oggettive nello spazio o nel tempo, ma all'enunciazione, ogni volta unica".
Anche i verbi sono soggetti alla categoria della persona, e a proposito delle relazioni
di persona nel verbo, lo studioso francese riprende una classificazione della
grammatica araba, che oppone la prima persona (colui che parla), alla seconda (colui
al quale ci si rivolge/ che ascolta) e alla terza (colui che è assente), individuando nelle
prime due (io, tu) gli attori dello scambio comunicativo, invertibili nei turni di parola.
A differenza di queste, la terza è una non-persona poiché non comporta una variazione
della referenza in relazione al locutore, potendo designare qualunque entità al di fuori
della situazione comunicativa". Una "correlazione di personalità" oppone, dunque, le
persone io e tu alla non-persona egli; allo stesso modo, una "correlazione di
soggettività" oppone la persona soggettiva io alla persona non soggettiva tu, poiché
solo chi si designa come io assume il linguaggio come soggetto". Da ciò discende che
il linguaggio verbale è l'unico sistema semiotico dotato di forme attraverso cui l'uomo
può costituirsi come soggetto; solo nel e attraverso il linguaggio è perciò garantita
l'espressione della soggettività".

Note:7. Tuttavia, l'interesse del linguista lituano Algirdas J. Greimas (1917-1992) per
l'enunciazione è solo superficiale; infatti, secondo lo studioso, il testo, sebbene
enunciato da qualche soggetto, non consente mai di risalire all'enunciatore reale,
inattingibile per definizione. Nella teoria greimasiana la questione dell'enunciazione
compare, quindi, solo in senso virtuale e di essa si approfondisce esclusivamente
l'aspetto della soggettività.

Indici dell'ostensione
Pronomi dimostrativi come questo e quello implicano un gesto che indica l'oggetto
designato nel momento stesso in cui ne viene pronunciato il nome. Essi sono spesso
correlati alla persona che li pronuncia e si riferiscono agli oggetti in maniera co-
estensiva all'atto dell'enunciazione hanno cioè valore all'interno delle coordinate
spazio-temporali (qui e ora) che l'atto enunciativo definisce, assumendo un
ordinamento dello spazio a partire da un punto centrale che coincide con l'ego. Nei
termini di Bühler (1934), tali indici funzionano all'interno di un "campo indicale" le
cui coordinate spazio-temporali e personali sono definite dal locutore nel momento in
cui prende la parola.
Note: 8.Come osserva Jakobson (1963), i commutatori hanno due peculiarità dal punto
di vista cognitivo: rappresentano una delle fasi più tardive dell'acquisizione linguistica
e sono più a rischio di perdita nei casi di afasia,
9. Questo statuto di non-persona sarebbe confermato dal diverso trattamento
morfologico che le lingue dotate di verbo riservano alla terza persona rispetto alle
prime due;
10. In più io implica un doppio riferimento poiché designa, oltre a colui che parla,
anche un discorso su questa persona. 11. Che è, più correttamente, una
intersoggettività, in quanto l'io che pone sé stesso pone contemporaneamente un tu
12. È il caso di questo e codesto in relazione a io/tu. Tale opposizione si è però
neutralizzata nell'italiano contemporaneo.

Tempo
Le forme della temporalità sono legate strettamente alla questione dell’enunciazione.
Il sistema temporale assume il presente come espressione del tempo co-estensivo alla
situazione discorsiva: il presente linguistico non ha alcuna realtà oggettiva esterna, ma
è sui-referenziale, si riferisce cioè al momento in cui è enunciato. Di più, il presente è
l'unico tempo inerente al linguaggio, segnalando la coincidenza dell'avvenimento e del
discorso, ed è per sua natura implicito: i tempi diversi dal presente hanno bisogno di
essere esplicitati come punti di vista proiettati indietro o in avanti a partire da esso. La
lingua ha quindi, tra le altre, anche la funzione di concettualizzare il tempo, che è una
creazione linguistica. Rispetto al tempo "fisico" (un continuo uniforme e infinito,
lineare e irreversibile, che si correla a una durata variabile soggettivamente) e al tempo
"cronico" (quello degli orologi e degli avvenimenti, oggettivato e socializzato, che può
essere percorso nei due sensi, dal passato al presente e viceversa), il "tempo linguistico"
diviene intersoggettivo poiché funge da riferimento comune ai partecipanti allo
scambio comunicativo, caratterizzando la relazione tra il locutore (io) e l'allocutore
(tu). Per Benveniste, l'esperienza temporale si organizza sulla base di due sistemi,
quello della storia (enunciazione storica) e quello del discorso (enunciazione
discorsiva), distinti in relazione alla presenza/assenza di elementi deittici. Il discorso si
caratterizza perché, a differenza della storia, i fatti sono individuati temporalmente in
riferimento all'atto enunciativo. Infatti, mentre i tratti tipici della storia sono l'impiego
del passato remoto (aoristo) come tempo base, l'assenza di deittici, l'esclusione dei
pronomi di prima e seconda persona e l'uso esclusivo della terza persona,
l'enunciazione discorsiva è distinta dall'uso del presente, fulcro dal quale si diramano
gli altri tempi, dall'uso dei deittici, dall'uso dei pronomi di prima e seconda persona e
dall'eventuale uso della terza persona, in quanto non-persona. Dalla distinzione
benvenistiana tra storia e discorso si diramano molti tentativi di classificazione dei
discorsi, fondati per lo più sul criterio della presenza/assenza all'interno del testo di
indici. Su questa scia, si giunge a definire discorso quei testi (scritti o orali) in cui
l'identificazione degli indici dipende dalla situazione di enunciazione e storia quelli in
cui l'identificazione degli indici avviene in relazione alla situazione di enunciato. Si
distingue, così, il "dialogo" (in cui la situazione di enunciazione del locutore coincide
con quella del suo interlocutore) dal "monologo" (in cui l'identificazione della
situazione discorsiva avviene in relazione al solo locutore). In altri casi la situazione
evocata dall'enunciato non coincide con quella dell'enunciazione con uno scarto
temporale e/o spaziale". La distinzione benvenistiana tra storia e discorso ha avuto
molto successo nell'ambito degli studi narratologici, dove, pur mantenendo la sua
validità, è stata variamente riformulata. Essa corrisponde, per esempio, a quella
tracciata da Harald Weinrich (1964), tra "commento", cui corrispondono tempi verbali
come il presente, il passato prossimo e il futuro, accompagnati dalla prima e dalla
seconda persona, e "narrazione", cui corrispondono tempi come il passato e trapassato
remoto, l'imperfetto ei condizionali, insieme alla terza persona". Anche per Weinrich,
la scelta dei tempi è strettamente legata alla questione dell'enunciazione, infatti, sul
piano della modalità, i tempi commentativi segnalano un atteggiamento di tensione da
parte del locutore, mentre quelli narrativi marcano un atteggiamento di distensione.

Note: 13. Secondo Manetti, questa tipologia discorsiva rende conto della simulazione
di enunciazione discorsiva propria della pubblicità televisiva, che realizza la sua
funzione conativa postulando una situazione enunciativa comune all'enunciatore e
all'enunciatario. La simulazione sta nel fatto che un evento che dovrebbe essere unico
viene continuamente ripetuto; inoltre, le situazioni in cui si trovano enunciatore ed
enunciatario sono necessariamente diverse; infine, mentre l'enunciazione ha natura
dialogica, nella comunicazione televisiva il destinatario corrisponde in realtà a una
molteplicità indifferenziata.
15. La prospettiva linguistica mette in relazione il tempo testuale con quello reale,
segnalando per ogni tipo temporale un grado zero, una forma di retrospezione e una
forma di prospezione. Per i tempi commentativi il grado zero è il presente, la forma di
retrospezione il passato prossimo, la forma di prospezione il futuro; per i tempi
narrativi, l'imperfetto è il grado zero, il trapassato prossimo e remoto la forma di
retrospezione e i due condizionali la forma di prospezione. Dall'opposizione tra mondo
commentato e mondo narrato scaturisce una tipologia di discorsi.

Illocutività
Le forme dell'illocutività comprendono le funzioni sintattiche che mettono in primo
piano il rapporto tra locutore (io) e allocutore (tu) tra le quali rientrano i verbi
"performativi" (o esecutivi) e tutte le situazioni nelle quali si usa la lingua per
influenzare il comportamento altrui. In particolare, già prima di Austin (1962),
Benveniste (1958) aveva chiarito la funzione performativa di alcuni verbi, legandola
alla questione dell'enunciazione. Gli enunciati performativi contengono un verbo - alla
prima persona del presente indicativo - che denomina l'atto che l'enunciato stesso.
compie; inoltre, potendo essere enunciato solo entro precise coordinate spazio-
temporali, ogni atto linguistico performativo è unico e sui-referenziale.

Modalità
La nozione di modalità nella sua accezione contemporanea risale a un allievo di
Saussure, Charles Bally il quale, a partire dalla distinzione medievale tra dictum e
modus, osserva che il primo è il risultato concreto di un processo di rappresentazione
e il secondo l'espressione dell'operazione psichica che il soggetto compie su tale
rappresentazione". In sintesi, con "modalità" si indicano le forme con le quali il
locutore marca il proprio enunciato, indicando il proprio atteggiamento o la propria
adesione rispetto a esso e, di conseguenza, rispetto a ciò che l'enunciato esprime. Una
prima categoria di verbi che esprimono le modalità è quella dei verbi di atteggiamento
proposizionale (credere, pensare, supporre ecc.), i quali, cioè, esibiscono
l'atteggiamento psicologico del parlante rispetto al contenuto proposizionale
dell'enunciato. Tra le modalità "formali" si distinguono, oltre ai modi verbali, alcune
espressioni fraseologiche (come gli avverbi di opinione forse, senza dubbio,
probabilmente ecc.), le trasformazioni modalizzatrici (enfasi, passivo facoltativo), la
variazione degli stili e registri, le modalizzazioni degli atteggiamenti del soggetto e,
infine, le modalizzazioni dei tipi di enunciati (come i performativi). Parallelamente,
dalla parte del ricevente, un discorso può apparire trasparente o opaco: la "trasparenza"
rimanda alla totale assenza del soggetto dell'enunciazione, che combacia con
l'enunciatario; l"opacità" comporta, invece, la trasformazione di ogni lettore in soggetto
dell'enunciazione. Si oscilla dunque dal discorso scientifico, esempio paradigmatico di
discorso trasparente, alla poesia lirica, discorso opaco per eccellenza.

Note:16. Si fa normalmente risalire a John L. Austin l'identificazione nel


funzionamento di verbi come promettere, dichiarare, battezzare, ecc. della componente
"performativa" del linguaggio, che non si limita, appunto, a descrivere stati di cose, ma
li mette in essere.
17. Queste due condizioni restringono la portata della nozione benvenistiana di
performatività, che è più circoscritta, e perciò meno problematica, di quella definita da
Austin

2.3 Linguistica del testo


Per decenni lo sviluppo di una linguistica del testo è stato ostacolato dalla diffidenza
della disciplina a eleggere a propri oggetti d'analisi elementi più estesi della frase. Il
piano del testo sembrava essere relativo alle sole regole mediante le quali si connettono
le frasi tra loro. La linguistica del testo si afferma, invece, quando matura una
concezione del testo come livello di strutturazione idiolinguistico"; difatti, per lo
sviluppa di una prospettiva orientata al testo, è fondamentale riconoscere che
l'organizzazione delle frasi in un testo segue meccanismi e regole propri di ciascuna
lingua ben più complessi della semplice connessione, non osservabili nelle unità di
rango inferiore. Il testo è una struttura olistica le singole frasi ricevono dal testo in cui
compaiono determinazioni semantiche, sintattiche, morfologiche e addirittura
fonetiche che non posseggono se considerate singolarmente. Sulla scia di questo
assunto, la linguistica testuale ha inteso mettere a punto strumenti di analisi di versi da
quelli fondati sulla grammatica o semantica della frase.

Note: 19. Secondo Coseriu (1997) alla definizione di testo come livello di
strutturazione idiolinguistico corrisponde una prima linguistica del testo, la
grammatica transfrastica o grammatica del testo, che ne presuppone un'altra, relativa
non alle singole lingue storico-naturali, bensì al linguaggio inteso come peculiare
attività umana: la linguistica del testo propriamente detta dovrebbe occuparsi, infatti,
dei testi che compaiono a un livello autonomo della sfera linguistica, ancor prima della
distinzione tra determinate lingue.

Un punto sul quale convergono i diversi orientamenti è la definizione di testo come


entità comunicativa sempre condizionata dall'universo del discorso, per cui la
linguistica del testo deve essere anche una pragmatica del testo, che sappia tener conto
delle circostanze dell'enunciazione, del co-testo, delle presupposizioni dell'interprete,
del rapporto con altri testi e così via. A evidenziare l'intreccio di fattori linguistici ed
extralinguistici tipico del livello testuale, Coseriu afferma che la linguistica del testo
concerne «il livello degli atti linguistici o delle compagini di tali atti linguistici che
vengono realizzati da un certo parlante in una certa situazione [..] sia in forma orale
che in forma scritta »; tale livello si aggiunge a quello universale del linguaggio, attività
intrinsecamente umana realizzata individualmente ed esercitata da ogni uomo, e a
quello storico della lingua. Individuare nel testo un livello di strutturazione autonomo
rispetto ai piani del linguaggio e delle lingue significa anche riconoscere che gli scambi
comunicativi umani sono in larga misura testuali. L'elemento messaggio del modello
di Jakobson è, dunque, più propriamente un testo: esprimersi linguisticamente significa
produrre testi o frammenti di testi. Dato che il testo coinvolge elementi extralinguistici
e si configura come una struttura olistica, per lo sviluppo di una scienza del testo non
appaiono buone candidate né una semiotica del segno, né una linguistica della parola
o della frase: il singolo segno (linguistico o non) svolge all'interno del testo una
molteplicità di funzioni che coincidono solo in parte con quelle segniche della
"denotazione"- cioè con la capacità mediante la quale il segno rinvia alla cosa o allo
stato di cose cui si riferisce - e della "connotazione"- ovvero con i significati secondari
che il segno assume in un particolare contesto", Quella testuale è una funzione globale
che spinge l'utente a intraprendere percorsi che portano fuori dal testo, verso intorni
quali il contesto linguistico, la situazione extralinguistica, l'universo del discorso e,
potremmo aggiungere, lo sfondo concettuale. Il senso del testo si definisce, infatti, in
base ad alcuni poli: un mittente (autore), un destinatario e il mondo esterno", ma è, allo
stesso tempo, autonomo rispetto a essi: il testo è infatti dissociato dall'intenzione
morale dell'autore, è diretto a un'universalità di destinatari e i riferimenti che contiene
non sono ostensivi".

Note: 20. Tuttavia, la competenza testuale non coincide con la competenza


grammaticale. É vero che ogni parlare è un testo e che lo studio della lingua deve partire
dagli atti linguistici, ossia dai testi, ma non è vero che la funzione di un elemento
linguistico sia ricavabile dall'uso in un particolare testo; vi sono infatti testi che deviano
dalle regole della lingua in cui sono redatti

Secondo un'altra prospettiva, il testo è un'attualizzazione della langue che si ottiene


realizzando alcune delle selezioni potenziali del sistema linguistico. Non è detto, però,
che la linguistica testuale debba investigare la ‘parole’, tralasciando il sistema; essa
deve occuparsi più correttamente dei «principi generali di questi processi» o delle
«caratteristiche comuni delle enunciazioni testuali individuali». In polemica con la
stringente opposizione chomskyana competence/performance, la linguistica testuale si
propone di indagare la «competenza nell'esecuzione», ovvero i meccanismi astratti
(competenza) che permettono ai parlanti di produrre e comprendere testi (esecuzione).
A differenza della prospettiva discorsiva che si occupa delle variabili in gioco nella
realizzazione dell'atto enunciativo, l'orientamento testualista privilegia dunque l'analisi
dei linguistici, pragmatici e cognitivi coinvolti nella competenza testuale. In definitiva,
possiamo considerare il testo «una sequenza linguistica empirica attestata, prodotta
nell'ambito di una pratica sociale determinata e fissata su un supporto qualsiasi. In
questo modo, fatta salva la sua linguisticità, si riesce a rendere conto della variabilità
diamesica - il testo può essere infatti scritto, orale o espresso tramite altri codici
convenzionali -, del fatto che può interagire con altre semiotiche, del suo collocarsi
nell'ambito di una pratica sociale che ne garantisce la delimitazione e, infine, della sua
fissazione su un supporto qualsiasi. Allo stesso tempo, la nozione di testo rimane
ristretta, non applicandosi a fenomeni che ricadono fuori dalla sfera della
comunicazione.

Note: 21. Secondo Hjelmslev (1943) vi sono lingue in cui il piano dell'espressione può
assumere carattere segnico, e divenire a sua volta lingua (lingue denotative) e lingue in
cui il piano del contenuto diventa a sua volta lingua (metalingue). La nozione
hjelmsleviana di connotazione rende conto di alcuni clementi segnici sul piano
dell'espressione, detti connotatori, assunti nei testi esclusivamente per la loro
appartenenza a un sistema di segni. Più in generale, la nozione di connotazione si
riferisce ai significati secondari, aggiunti, a quello denotativo o letterale.
22. É questo il modello della comunicazione proposto da Bühler (1934).
24. Sebbene spesso, come in questo caso, assimilate, la dicotomia chomskyana
competence/performance è solo parzialmente sovrapponibile a quella saussuriana
langue/parole.

2.3.1. Condizioni di testualità


Uno dei problemi della definizione di testo come sequenza linguistica è, semmai,
quello di individuare delle condizioni che rendano definibili e trattabili come testi
oggetti comunicativi di natura non linguistica. Questo limite si supera con la nozione
di testo come occorrenza comunicativa, che si applica a oggetti semiotici dalle
caratteristiche molto diverse. Infatti, un testo è tale se soddisfa sette condizioni, tra le
quali primeggiano i due «criteri più evidenti della testualità», la coesione, che consiste
nel rispetto dei rapporti grammaticali e della connessione sintattica tra le varie parti del
testo, e la "coerenza", che «riguarda le funzioni in base a cui le componenti del mondo
testuale, ossia la configurazione di concetti e relazioni soggiacente al testo di
superficie, sono reciprocamente accessibili e rilevanti». In breve, la coerenza si esprime
nella percezione del testo come alcunché di semanticamente unitario, come qualcosa
che, in relazione alle condizioni di comunicazione, restituisce un senso plausibile. Oltre
a essere coeso e coerente, un testo, proprio in quanto unità comunicativa, deve essere
prodotto intenzionalmente da un soggetto per uno o più destinatari (intenzionalità) e
deve essere accettato da questi con spirito cooperativo (accettabilità). Il percorso di
interpretazione e comprensione testuale, che può anche essere molto tortuoso, non può
prescindere infatti dalla disponibilità del lettore ad attivare quello che Umberto Eco ha
efficacemente definito un «meccanismo pigro (o economico) che vive sul plusvalore
di senso introdottovi dal destinatario». Altre caratteristiche indispensabili per il farsi di
un testo sono l"informatività", ovvero la capacità del testo di fornire nuove conoscenze
al lettore insieme a quelle di cui già dispone, la "situazionalità", ovvero la sua
congruenza rispetto al contesto comunicativo, e, infine, l'"intertestualità", ovvero la
capacità di rinviare a, riusare o citare altri testi".

Note: 25. Per contro, l'approccio socio-semiotico, sulla scorta dello slogan greimasiano
al di fuori del testo non ce salvezza, utilizza il testo come modello formale per la
spiegazione di tutte le manifestazioni culturali umane, intese come fenomeni di
significazione. Secondo questa visione allargata, sarebbero testi anche gli ipermercati,
i modi di preparazione di un piatto, gli esperimenti scientifici ecc., poiché è possibile
ricostruire la testualità in essi implicita, ovvero esplicitare la loro struttura semantica
soggiacente, discorsiva e narrativa. Questo allargamento del campo di indagine ha
mostrato tutti i limiti dell'approccio semiotico testualista, conducendo, specie
nell'ambito della socio-semiotica, alla graduale vaporizzazione della nozione di testo.
In senso più ampio, questa prospettiva conduce a un ripensamento sull'oggetto stesso
della semiotica.
Sebbene le sette condizioni siano tutte necessarie affinché si possa parlare di testo,
occorre riconoscere una maggiore pregnanza alla coerenza e alla coesione, i due criteri
incentrati sul testo, mentre gli altri (intenzionalità, accettabilità, informatività,
situazionalità e intertestualità) afferiscono agli utenti del testo e, più in generale, alla
situazione comunicativa largamente intesa. La coerenza, poi, assume uno status
privilegiato: è, infatti, solo al testo inteso come tessuto unitario - il termine deriva dal
latino textus, tessuto, trama" - che tutti gli altri requisiti della testualità, coesione
compresa, vanno ricondotti. Più propriamente i mezzi di coesione sono istruzioni in
base alle quali il ricevente (ri) costruisce la coerenza testuale e, qualora queste
istruzioni dovessero risultare insufficienti o fallaci, è sempre la coerenza a colmare le
lacune della coesione. A questo proposito, risulta illuminante la distinzione di Conte
tra coerenza a parte obiecti cioè come caratteristica costitutiva del testo in quanto testo,
e coerenza parte subiecti, cioè come principio-guida dell'interpretazione. La prima
concezione fa riferimento alle strutture semantiche che conferiscono unità al testo, la
seconda invece mette in gioco le Welt-und-Wertvor- stellung, le conoscenze del mondo
e i sistemi di valori dell'interprete che, davanti a un testo, manifesta una disposizione a
rintracciarvi una coerenza o costanza di senso. Così intesa, la coerenza rende conto
della natura dinamica e dialogica delle strutture testuali, che interagiscono
costantemente con i processi cognitivi dell'interprete.

Note: 26. Secondo Beaugrande e Dressler (1981), ai sette principi costitutivi del testo,
si affiancano tre principi regolativi che controllano la comunicazione testuale:
l'efficienza, che dipende dal grado (possibilmente limitato) di impegno e sforzo da
parte dei partecipanti alla comunicazione nell'uso del testo stesso; l'effettività, relativa
all'impressione lasciata dal testo, che può produrre condizioni favorevoli al
raggiungimento di un fine, e l'appropriatezza, data dall'accordo tra il contenuto del testo
e i modi in cui vengono soddisfatte le condizioni della testualità.

2.3.2. Comprensione del testo


La capacità di compiere operazioni di produzione/comprensione di testi si sostanzia in
una vera e propria "competenza testuale"", parte di una più ampia "competenza
comunicativa" che, oltre alla conoscenza linguistica, coinvolge un insieme di altri
saperi e abilità cognitive e pragmatiche. In particolare, il "sapere testuale" non è
valutabile né in termini di "congruenza" - l'attività linguistica è congruente in rapporto
ai principi universali del pensiero e alle cognizioni delle cose all'interno di una
comunità in una data epoca - né in termini di "correttezza" - un'espressione linguistica
è corretta quando corrisponde alle regole di una determinata lingua -, bensì in termini
di "adeguatezza": sul piano testuale può infatti risultare adeguato anche ciò che non è
congruente o corretto, anzi spesso i testi traggono il proprio potere espressivo dalla
non-congruenza e dalla non-correttezza". La competenza testuale appare, dunque,
autonoma
poiché è valutabile solo in rapporto al testo specifico o al tipo testuale. Sul piano della
comprensione, il testo mette in gioco un duplice rapporto semiotico: primo, i segni che
compongono il testo denotano e connotano qualcosa che comprendiamo in quanto
conoscitori della lingua; secondo, il testo intero, nella sua espressione e nel suo
contenuto, «è come una sorta di veicolo per un significato su un altro piano, per il
senso». Il primo rapporto semiotico individua una relazione tra i due elementi del segno
(significante e significato) e richiede, per essere compreso, la competenza linguistica";
il secondo rapporto non si riferisce, invece, a una relazione bensì a un percorso, che
muove verso la costruzione del senso. É, dunque, possibile intendere un testo sul primo
piano semiotico - cioè comprendere i segni che lo compongono senza coglierne il senso
globale, come è possibile afferrare il senso di un testo senza aver compreso
distintamente i segni che contiene; ecco perché la vera e propria linguistica del testo è
una linguistica del senso".

Note: 28. Nei termini di Coseriu andrebbero distinti tre tipi di saper parlare: la tecnica
del parlare in generale (piano universale della facoltà del linguaggio) la tecnica del
parlare una lingua storica (piano storico della competenza linguistica) e la tecnica del
sapere come vengono plasmati determinati testi o tipi di testo (piano della competenza
testuale).
29. Sotto il primo aspetto, si consideri il principio di sospensione dell'incredulità, che
rende accettabili i testi narrativi nei quali accadono cose impossibili secondo le leggi
del pensiero razionale; sotto il secondo aspetto, si pensi, invece, alla violazione delle
regole linguistiche che rende appetibili molti slogan pubblicitari.

Che la comunicazione tra esseri umani avvenga attraverso testi, intesi come unità
comunicative globali, e non attraverso singole parole o enunciati è uno degli assunti
fondanti della semantica cognitivamente orientata e in opposizione a una teoria
componenziale" e acontestuale del significato lessicale, lo studioso propone una teoria
semantica fondata sull' idea che la comprensione di un singolo elemento lessicale
richiede la mobilitazione di complessi e strutturati pacchetti di conoscenze di natura
non e linguistica. I frames sono infatti le cornici. gli sfondi, i backgrounds rispetto ai
quali inquadriamo i testi, mettendoli in relazione con i nostri saperi già acquisiti,
relativi non solo ai significati delle parole (conoscenze "dizionariali") ma anche al tipo
di interlocutore che abbiamo di fronte, a come si svolgono certi eventi (conoscenze
enciclopediche). Il sapere testuale è dunque legato all'enciclopedia" individuale e, in
particolare, alla capacità di inquadrare le informazioni in frame che permettano di
interpretare il testo come unità logico-semantica, cogliendone, nei termini di Coseriu,
il senso o rintracciandone, nei termini di Conte, la coerenza. In una visione dinamica
del linguaggio e della mente, le strutture concettuali che costituiscono il sapere testuale
non vanno intese come configurazioni statiche, definite una volta per tutte: da un lato,
infatti, la competenza testuale - come quella linguistica e quella comunicativa più
generale - è un processo che si evolve nel tempo, consentendo di rintracciare un
principio di coerenza anche in testi in altri momenti considerati incoerenti o assurdi;
dall'altro, i frames devono rispondere a un principio di efficienza ed economia
cognitiva, per cui devono essere abbastanza particolari (fine-grained) da applicarsi
senza troppo sforzo cognitivo alle diverse situazioni nelle quali ci imbattiamo, ma
anche abbastanza laschi (coarse-grained) da consentire di rendere conto di casi nuovi
o atipici. Difatti, è proprio dall'integrazione tra le informazioni che l'utente possiede e
quelle presenti nel testo che si genera conoscenza; le strutture concettuali individuali
(spazi mentali) sono continuamente arricchite dalle informazioni provenienti, in forma
prevalentemente testuale, dall'ambiente. Gli spazi mentali traggono linfa dalle nuove
sfide interpretative, che costringono il lettore ad acuire le proprie capacità mentali: essi
si riorganizzano e si fondono tra loro, consentendo al sistema concettuale di
raggiungere, ogni volta, l'equilibrio ottimale tra le esigenze contrapposte della stabilità
e della flessibilità. Il fenomeno della fusione di spazi mentali è un meccanismo tipico
dell'attività cognitiva umana, che accompagna tutte le operazioni di manipolazione
simbolica, comprese la produzione e comprensione testuale. Gli approcci
cognitivamente orientati recuperano (spesso senza saperlo) la tradizione
dell'ermeneutica della ricezione che fa capo a Wolfgang Iser (1972), considerando la
lettura di un testo un'esperienza (Erlebnis) in senso pieno, un evento che mobilita tutte
le risorse immaginative e cognitive del fruitore, situandolo in un gioco delle parti col
testo che lo strappa a ogni passività. In definitiva, la comprensione è un'attività
costitutiva dell'ascoltatore che procede attraverso passi interpretativi intermedi, come
nella composizione di un puzzle “.

Note: 30. la competenza linguistica coinvolge anche la capacità dell'utente di cogliere


il campo semantico-lessicale nel quale si situa il singolo segno, nella misura in cui i
campi sono strutture linguistiche intersoggettive e non costrutti psicologici individuali.
32. L'espressione "semantica componenziale" si riferisce a quelle teorie, maturate
nell'ambito dello strutturalismo sia europeo sia americano, che considerano il
significato delle parole scomponibile in elementi minimi o tratti semantici.

La nozione di frame e quella più comprensiva di "spazio mentale" rendono conto di


uno dei temi classici della letteratura sulla testualità (e sulla comunicazione in
generale), ovvero la questione del riempimento delle lacune testuali. Di ogni testo, e
più in generale di ogni atto linguistico, viene compreso più di quello che il
mittente/autore effettivamente dice/scrive. Come ha osservato Grice (1989),
nell'interpretazione dei nostri scambi comunicativi il non-detto assume spesso più
rilevanza di ciò che è effettivamente proferito e ciò che comprendiamo proviene non
tanto dal significato letterale degli enunciati (utterance's meaning) quanto dalla nostra
capacità di compiere quelle inferenze che ci permettono di cogliere ciò che il parlante
ha voluto effettivamente intendere (speaker's meaning). Il principio di cooperazione
che Grice vede in opera nella conversazione caratterizza ogni attività comunicativa; il
non-detto di cui è intessuto ogni testo è infatti colmato dalla disponibilità/capacità del
destinatario a esplicitare gli impliciti - implicature e presupposizioni - non codificati
nel testo". Il testo è dunque una struttura aperta che necessita «movimenti cooperativi
attivi e coscienti» da parte del fruitore e la costruzione del senso testuale può portare a
esiti diversi, dipendendo in larga misura dall'utente e dal contesto di fruizione. Tuttavia,
che un testo permetta diverse interpretazioni non significa che le ammetta tutte;
normalmente l'utente vi rintraccia una struttura semantica complessiva
(macrostruttura) che può essere identificata con l'argomento o tema del testo". Il testo
è, dunque, anche una struttura chiusa con un'unità semantica espressa da "isotopie"",
cioè elementi semantici ripetuti e ridondanti rispetto ai quali il lettore vede confermate
o smentite le sue ipotesi interpretative. Nondimeno il fatto che il testo abbia una
struttura semantica immanente, dotata cioè di una sua intrinseca compiutezza, non
significa che la ricezione sia un momento passivo: al contrario, è l'attività interpretativa
del destinatario che consente di assegnargli il senso complessivo, riempiendo lacune e
ricostruendo collegamenti che l'autore ha consapevolmente o meno lasciato in ombra.

2.3.3. Tipi e generi testuali


Negli ultimi decenni sono state presentate diverse classificazioni volte a individuare
alcuni tipi testuali sulla base di diversi criteri (contenuto, destinatario, scopo cc.). In
questa sede ci limitiamo a riportare quella più nota, offerta dal tedesco Egon Werlich
(1976), che individua cinque tipi testuali (descrittivo, narrativo, espositivo,
argomentativo e regolativo) in relazione non solo allo scopo del testo, al destinatario e
alla situazione comunicativa, ma anche alla "matrice cognitiva" che il testo attiva.
L'originalità della proposta risiede nel collegare ciascun tipo testuale a un focus (centro
principale di interesse) e ad alcune modalità conoscitive biologicamente innate della
mente umana. Nella versione di Lavinio (1990), associa a ciascuno dei sei tipi testuali
- alla classificazione di Werlich la studiosa aggiunge il tipo "rappresentativo" - una
serie di generi e forme appartenenti alla sfera immaginaria (fictional) e alla realtà
fattuale (non fictional). Un'altra tipologia, proposta dallo storico della lingua Francesco
Sabatini (1999), considera primaria la dimensione pragmatica, e meno la matrice
cognitiva, focalizzandosi sul patto comunicativo tra emittente e destinatario e sul grado
di vincolo interpretativo che questo impone.

Note: 36. A favore dell'ipotesi delle macrostrutture testuali concorre la nostra


esperienza: ciò che ricordiamo di un testo è infatti il suo topic e non le frasi o parole
che lo compongono.
37. «un insieme di categorie semantiche ridondanti che rendono possibile la lettura
uniforme di una storia»
In sintesi, ogni patto comunicativo determina per l’interprete un massimo o un minimo
di vincolatività o, per converso, di libertà interpretativa. I testi si collocano dunque tra
i due poli della massima rigidità e della massima elasticità, stabilite in relazione alle
pratiche maturate. (tabelle a pagina 92) nel contesto culturale di riferimento e alle
funzioni illocutive sottese agli atti linguistici. In definitiva, avremmo tre categorie
testuali fondamentali: i testi con discorso molto vincolante (massimamente espliciti)
con discorso mediamente vincolante e con discorso poco vincolante (massimamente
impliciti), Tra queste tre categorie generali si insinuano diverse categorie intermedie,
riferite ad altrettante funzioni testuali, ognuna delle quali comprende tipi specifici,
esemplificati da fattispecie reali". Le tipologie testuali appena descritte non
esauriscono la ricchezza e la complessità dei fenomeni testuali; più spesso i testi con
cui abbiamo a che fare non sono riconducibili tipo testuale in maniera univoca,
presentando caratteristiche relative a diversi tipi. Ad esempio, il testo narrativo non
vede in opera solo la matrice cognitiva relativa alla percezione degli eventi nel tempo:
sebbene questa sia sicuramente dominante, un racconto comprende spesso ampie parti
descrittive, espositive, argomentative e addirittura regolative (basti pensare alla
funzione didattica delle fiabe). Allo stesso modo, sul piano della vincolatività, testi che
dovrebbero essere rigidi e massimamente espliciti, come quelli legislativi, risultano
essere più impliciti persino di alcuni testi poetici. Riguardo ai tipi testuali, non è
superfluo ricordare che la maggior parte degli studi ha interessato il testo letterario,
quindi il tipo narrativo, essendo la dimensione della narratività un'esperienza
fondamentale dell'esistenza umana, che nasce dal «radicale bisogno di affabulazione
insito nell'inconscio dell'uomo». Nell'ambito della semiotica, poi, l'attenzione per il
testo narrativo (nella forma della fiaba", del racconto, del romanzo, del film, della
fiction televisiva, dell'annuncio o spot pubblicitario) è nata dalla convinzione che esso
sia in qualche modo gerarchicamente superordinato agli altri poiché ogni testo consente
in qualche modo di essere raccontato. Buona parte della semiotica del testo è una
semiotica del testo narrativo che ha ambito, non senza contraddizioni, a rintracciare
«un unico modello descrittivo per tutti i tipi di narrazioni.
Note: 38. Ciascuna categoria testuale è, infine, correlata a precise caratteristiche
linguistiche, per esempio i testi con discorso molto vincolante sono strutturati in unità
gerarchicamente ordinate, fanno uso di un lessico in cui domina la funzione denotativa,
non lasciano spazio all'uso di marche che riconducono all'autore ec.
39. Ricordiamo gli studi pionieristici di Vladimir Propp (1928) che, nel solco della
tradizione del formalismo russo, analizza un corpus di fiabe di magia russe
rintracciandovi un unico schema compositivo.

Concludendo, ricordiamo che i tipi testuali, che hanno a che fare con le modalità
comunicative e le matrici cognitive che i testi attivano, non coincidono con i generi,
che costituiscono un insieme di convenzioni retoriche e stilistiche maturate nell'ambito
di una determinata tradizione culturale. L'individuazione del genere (narrativa, epica,
lirica) - e spesso del sottogenere (romanzo psicologico, storico, giallo) nelle sue
ulteriori articolazioni (il giallo è infatti ulteriormente segmentabile in thriller, noir,
poliziesco ccc.) - è un'operazione fondamentale nel processo di interpretazione di un
testo (sia esso orale, scritto, radiofonico, televisivo ecc.) poiché in relazione a esso si
attivano alcune inferenze, escludendone altre, In altri termini, l'individuazione del
genere implica l'individuazione di alcuni frames che vincolano i passi interpretativi
successivi. Dal punto di vista linguistico, il lessico, le strutture sintattiche e testuali
sono legate al genere, che costituisce un insieme di norme immanenti al testo,
rientrando dunque nella competenza testuale. Ogni testo è dunque percepito e
compreso attraverso il genere cui appartiene, tanto che questo prevale sulle altre
regolarità linguistiche” e trascende persino gli autori; «il sentimento generico, infatti,
è parte del sentimento linguistico, dato che le lingue si apprendono all'interno dei
generi»

Note: 41. Nei casi estremi il genere determina addirittura la lingua: il latino è la lingua
della religione, l'italiano della musica, l'inglese dell'informatica

2.4 Per concludere


Intorno alle nozioni di testo e discorso si addensano, come ha mostrato il nostro rapido
excursus, questioni teoriche cruciali che, spesso, come nel caso della linguistica e della
semiotica, mettono in discussione l'oggetto e lo statuto delle discipline che se ne
occupano. Negli ultimi decenni, con l'era della multimedialità, la testualità diviene
ancora più centrale nelle scienze della comunicazione, non solo perché aumentano
esponenzialmente le nostre esperienze testuali, ma soprattutto perché i testi con cui
interagiamo sono sempre più spesso oggetti pluricodici, ipertesti - ovvero reti o
porzioni di testi legati tra loro tramite parole-chiave o collegamenti (link). Con la sua
struttura rizomatica", l'ipertesto è una buona metafora dei processi di lettura e
comprensione testuale: infatti, la connettività - caratteristica degli ipertesti, cui spesso
si ascrive una nuova rivoluzione cognitiva - «è condizione normale della
comprensione; non è qualcosa che venga surrogata dall'artificio tecnico, bensì è il
meccanismo mentale sul cui modello gli ipertesti vengono esemplati. [.] Gli ipertesti
implementano su un sistema elettronico una delle caratteristiche importanti delle menti
naturali, simulandone alcuni comportamenti». Raramente la lettura di un testo procede
ininterrottamente dalla prima all'ultima pagina; più spesso il fruitore indugia a lungo
poche righe o addirittura salta intere pagine. Inoltre, a ogni parola, a ogni frase, a ogni
porzione di testo, il lettore collega altre parole, altre frasi altre porzioni di testo che ha
esperito nelle precedenti occasioni di lettura ma anche di interazione sociale. In questo
senso, l'intertestualità è una proprietà strutturale che fa di ogni testo un ipertesto, con
diramazioni tanto maggiori quanto più ampia è la competenza (inter)testuale del
fruitore.
Note: 43. Il termine rizoma si riferisce originariamente a una particolare forma
botanica, con la funzione di servire da riserva di nutrimento per la pianta. Caratteristica
del rizoma è la sua forma, che genera una fitta trama sotterranea a sviluppo orizzontale,
e non verticale come la maggior parte delle altre radici. Gli studiosi francesi Deleuze e
Guattari (1980) usano questa immagine per descrivere un modello semantico opposto
ai modelli ad albero utilizzati in linguistica, biologia, psicanalisi e in generale in tutte
le discipline che tendono a classificare i concetti secondo un ordine gerarchico.

Capitolo 3: Atti linguistici e comunicazione. La tradizione analitica di Francesca


Bertozzi Iacoboni
3.1: Cenni introduttivi
3.1.1: Atti linguistici e pragmatica
La nozione di atto linguistico (speech act) richiama l'idea che parlare è agire. L'atto
linguistico è un'unità essenzialmente comunicativa, in cui rivestono un ruolo di primo
piano la relazione tra parlante ed ascoltatore, ossia i soggetti concreti coinvolti nello
scambio comunicativo, e il contesto, linguistico e non intessuto di convenzioni e
relazioni sociali. In prima approssimazione può essere utile collocare il tema degli atti
linguistici nell'ambito della "pragmatica", ossia in quella sezione della semiotica che,
stando al progetto di Charles Morris, si occupa del rapporto tra segni linguistici e
utenti'. Come rileva giustamente Sbisà (1989), la nozione di atto linguistico non era
prevista da Morris, ma è stata largamente responsabile dello sviluppo delle ricerche
pragmatiche a partire dagli anni Sessanta, rappresentando la "punta di un iceberg
pragmatico" che si andava imponendo all'attenzione generale in ambito sia filosofico
che linguistico.

Note: 1. Le altre due dimensioni identificate da Morris sono la sintassi, ossia lo studio
delle relazioni dei segni tra loro e la semantica, ossia lo studio delle relazioni tra i segni
e gli oggetti cui si riferiscono. Secondo la ricostruzione di Maria E. Conte (1983) gli
atti di linguaggio o atti linguistici, assieme ai giochi linguistici teorizzati da
Wittgenstein (1951) hanno rappresentato i due presupposti, esterni al dibattito
strettamente linguistico, più significativi per la costruzione della "pragmatica
linguistica, sviluppatasi essenzialmente come reazione al modello dominante della
grammatica generativa di Chomsky che proponeva una teoria della competenza
sintattica di un parlante - ascoltatore ideale, ignorando sia la molteplicità delle funzioni
del linguaggio, sia la rilevanza della situazione del discorso. É, tuttavia, importante
sottolineare come nessuno dei teorici che lanciarono il termine speech act ne abbia fatto
ab ovo un oggetto collocabile nella dimensione pragmatica del linguaggio e come tale
inclusione sia avvenuta solamente a posteriori. In questo senso va letta, ad esempio, la
ridefinizione della pragmatica, intesa come l'aspetto "trascurato" della tripartizione
morrisiana, operata dal filosofo statunitense Robert C. Stalnaker (1940-): La
pragmatica è lo studio degli atti linguistici e dei contesti in cui vengono compiuti. Due
sono i tipi di principali problemi che devono essere risolti nell'ambito della pragmatica:
primo, definire dei tipi interessanti di atti linguistici e di prodotti linguistici; secondo,
caratterizzare i tratti del contesto del discorso che ci aiutano a determinare quale
proposizione è espressa da un dato enunciato.

Allo stesso modo è da tener presente come l'ampia discussione sulla liceità di una netta
separazione tra sintassi, semantica e pragmatica si ripercuota sulla collocazione teorica
degli stessi atti linguistici. Sbisà (1978) sottolinea come gli atti linguistici si situino
sulla linea di confine tra il significare e l'operare, ossia tra quanto è determinato da
regole linguistiche e quanto dalla situazione d'interazione in cui l'enunciato viene
prodotto, e dunque come si tratti di fenomeni al contempo semantici e pragmatici. In
questo senso, è da accogliere un'accezione della pragmatica come fondamento, e non
complemento, di sintassi e semantica, nella quale trova posto una teoria del linguaggio
inscritta «in una teoria generale dell'azione della quale l'unità fondamentale è o l'atto
linguistico o il gioco d'azione comunicativo». L'introduzione del termine "atto
linguistico" è legata senz'altro alla filosofia analitica anglosassone' ed in particolare
alla filosofia del linguaggio ordinario (ordinary language Philosophy), ossia del
linguaggio d'uso comune, sviluppatasi a partire dagli anni trenta nelle università di
Cambridge e di Oxford grazie ai lavori di Ludwig Wittgenstein (1889-1951) e Gilbert
Ryle (1900-1976), per poi proseguire, dalla fine degli anni trenta e soprattutto negli
anni quaranta e cinquanta, prevalentemente ad Oxford, con l'opera di John L. Austin
(1911-1960). Questi, nelle sue lezioni tenute ad Oxford e Harvard

Note: 3. Secondo la ricostruzione di D'Agostini è possibile distinguere cinque fasi


storiche della filosofia analitica. La prima (1900-20) coincide con i primi lavori di
Russell e Moore e con la scelta metodologica di applicare il formalismo logico-
matematico (di Frege, di Peano) all'indagine dei concetti e del pensiero. La seconda
(1920-40) è caratterizzata dalla concezione essenzialmente linguistica dell'analisi
filosofica, abbracciata dal Wittgenstein del Tractatus Logico-Philosophicus (1921) e
dai neopositivisti del Circolo di Vienna, il cui nucleo originario si era costituito agli
inizi del Novecento e includeva giovani intellettuali provenienti da diversi ambiti
disciplinari. Se Wittgenstein aveva individuato nel linguaggio l'oggetto precipuo
dell'analisi filosofica, i neopositivisti, pur fortemente influenzati dal pensiero
wittgensteiniano, si erano spinti oltre, ritenendo che il ruolo della filosofia fosse
principalmente quello di chiarificare il linguaggio della scienza. L'influsso del
neopositivismo viennese sarà assai forte sulla filosofia analitica americana, ma minore
su quella inglese. La terza fase della filosofia analitica (1930-60) include da un lato la
filosofia linguistica inglese, ossia la Oxford-Cambridge Philosophy, incentrata sulle
analisi del linguaggio ordinario effettuate da Wittgenstein, Ryle, Austin, Grice,
Strawson, dunque assai divergente negli obiettivi e nei metodi dal neopositivismo,
dall'altro la scuola americana, derivante dall'intreccio tra neopositivismo e
pragmatismo, La quarta fase (1960- 80) e la quinta fase (1980-2000) sono più difficili
da caratterizzare, segnando rispettivamente il periodo di massima diffusione dello "stile
analitico", ma anche l'emergere di istanze autocritiche e un rinnovato interesse per
tematiche quali la filosofia del pensiero variamente declinata (si pensi alla filosofia
della mente, al problema mente-corpo, all'analogia cervello-computer, alle ipotesi
naturalistiche o neodarwiniste, alla semantica cognitiva), la metafisica e l'ontologia
(intese in senso essenzialmente materialistico) aveva lanciato il termine speech act,
focalizzando l'attenzione sul nesso tra linguaggio e azione (dire qualcosa è fare
qualcosa). Il primo concetto innovativo introdotto da Austin era stato quello di
enunciato "performativo" (dall'inglese to perform che significa, appunto, "compiere un
'azione"). Non si tratta di descrizioni o asserzioni, che Austin aveva ribattezzato
"constativi", ma di enunciati che hanno il potere di produrre degli stati di cose:
sussistenti. Austin aveva poi ampliato la sua teoria, sostenendo che quando parliamo
compiamo una serie di atti: proferiamo suoni, li utilizziamo con un certo significato, li
impieghiamo per conseguire determinati effetti in determinate circostanze. Possiamo
così usare i nostri enunciati per compiere diverse tipologie di atti linguistici (che, in
quest'accezione, verranno chiamati "atti illocutori") come promettere o avvertire o
ancora pronunciare formule atte alla realizzazione di procedure altamente
istituzionalizzate. Il lavoro di Austin su performativi ed atti linguistici rimase, per molti
aspetti, a livello programmatico, data la prematura scomparsa del filosofo oxonicense.
I suoi spunti teorici vennero però sviluppati, nell'ambiente filosofico di Oxford, in
particolare da Peter F. Strawson e a Berkeley da John R. Searle (1932-), autore di
un'ampia sistematizzazione della Speech Act Theory (Speech Acts, 1969).
Precedentemente e indipendentemente da Austin, una nozione di Sprechakt era stata
introdotta dallo psicologo e filosofo tedesco Karl Bühler nella sua Sprachtheorie
(1934). Bühler si richiamava da un lato alla tradizione linguistica inaugurata da
Ferdinand de Saussure, che intendeva con acte de parole la realizzazione individuale e
idiosincratica di una determinata forma linguistica, dall'altro, e soprattutto, all’atto che
dà senso". Piuttosto che legare linguaggio e azione, Bühler intendeva ogni "parlare
concreto" come un'attività diretta a uno scopo, accostabile a tutte le altre attività
materiali che coinvolgono l'essere umano. La tematizzazione degli atti linguistici quali
clementi costitutivi di una teoria dell'azione o, alternativamente, come unità
comunicative del linguaggio inteso come attività, attraversa il dibattito sugli speech
acts seguito alla pubblicazione dell'opera di Austin. Quanto al contributo di Bühler,
esso non sembra fosse noto ai teorici degli speech acts di indirizzo analitico, dunque
non può costituirne un precedente storico. La ricezione del lavoro bühleriano è
piuttosto legata al suo Organonmodell (il modello strumentale del linguaggio
prospettato nella Sprachtheorie) e all'individuazione delle tre funzioni segniche
(espressione, rappresentazione, appello), che tanto ha influito sullo sviluppo del
modello comunicativo di Jakobson, nonché alla sua trattazione della deissi, ossia dei
termini indicali (io, tu, qui, ora, là, questo, quello), che pure costituisce un oggetto
teorico proprio della pragmalinguistica'. I concetti bühleriani di Sprechakt e
Sprechandlung, insomma, non hanno dato seguito a un ampio dibattito come quello
sviluppatosi sulla nozione austiniana di specch act. Con Speech Act Theory si intende
dunque, generalmente, la tradizione di filosofia analitica inaugurata da Austin.

3.2 Alcuni antefatti


3.2.1. Sprechakt, Sprechandlung, Act of speech: Bühler e Gardiner
Come si è visto Karl Bühler, nella sua Sprachtheorie (1934) aveva inserito gli
Sprechakten tra i principi della ricerca linguistica, legandoli all'intenzione
comunicativa di un soggetto, ossia a ciò parlante vuole comunicare, alla situazione
spazio-temporale e al contesto linguistico e socio convenzionale in cui l'atto viene
eseguito: che noi, i destinatari del discorso, riusciamo in qualche modo a intuire quale
sia l'intendimento dell'emittente. Nella traduzione italiana del testo bühleriano,
Sprechakt viene reso con atto del parlare", piuttosto che con "atto linguistico", scelta
che richiama l'ambito della linguistica e gli actes de parole saussuriani. É interessante,
a proposito di traduzioni, rilevare come nell'italiano atto linguistico si perda la
dimensione ancorata al "discorso" o al "parlare", che si riscontra invece nel
corrispettivo termine inglese (speech act) o tedesco (Sprechakt). Nel trattare di
Sprechakt Bühler si richiama esplicitamente a Husserl e alle sue «sottili analisi dell'atto
che conferisce il senso», rintracciabili in particolare nella prima delle Logische
Untersuchungen (1900), a proposito della funzione comunicativa delle espressioni: La
complessione fonetica articolata (il segno scritto ec.) Si trasforma in parola parlata, in
discorso comunicativo in generale per il solo fatto che colui che parla la produce con
l'intento di "pronunciarsi su qualche cosa", cioè conferisce ad essa, in certi atti psichici,
un senso che intende comunicare all'ascoltatore. Questa comunicazione diventa
tuttavia possibile perché l'ascoltatore comprende anche l'intenzione di colui che parla.
Ed egli può far quanto coglie colui che parla come una persona che non produce meri
suoni, ma che gli rivolge la parola, e che quindi insieme ai suoni, compie anche certi
atti di conferimento di senso: egli vuole rendergli noti questi atti o comunicargli il loro
senso.

Bühler si propone di osservare il funzionamento delle lingue storico-naturali


assumendo come oggetto della sua ricerca il «concreto evento del parlare», ossia ogni
manifestazione linguistica inserita nella sua dimensione spazio-temporale e sociale.
Bühler aveva insistito molto sulla rilevanza dello scambio comunicativo per la vita
sociale delle collettività umane e animali e, aveva elaborato un modello strumentale"
(Organonmode) di funzionamento del segno linguistico basato sul suo essere al
contempo segnale, in quanto esso richiama l'attenzione degli interlocutori, simbolo, in
quanto rappresenta oggetti e stati di cose, e sintomo, in quanto espressione soggettiva
di un emittente che lo produce (fanno parte di quest'ultimo aspetto anche la mimica, i
gesti, il tono di voce che accompagnano la produzione linguistica). Lo Sprechakt
bühleriano va dunque letto alla luce dei tre aspetti del segno linguistico, cui
corrispondono le tre funzioni segniche, rispettivamente appello o richiamo (Appell),
rappresentazione (Darstellung) ed espressione (Ausdruck) e inserito in una situazione
percettuale determinata dalle coordinate "qui-ora-io" (che Bühler chiama "campo di
indicazione") e in un contesto linguistico- simbolico (chiamato "campo simbolico"). A
partire dagli esempi illustrativi di Sprechakt scelti da Bühler, Friedrich, Samain (2009)
evidenziano come il concetto di Sprechakt bühleriano sia caratterizzabile piuttosto
come un type che come un 'occorrenza singola (token). In effetti, i casi di Sprechakt
specificamente menzionati da Bühler sono l'uso in senso generico o specifico di uno
stesso sostantivo, riguardante la doppia accezione in cui può essere inteso il termine o
ancora quei fenomeni semantici differenziati, dal punto di vista morfologico, solo in
alcune lingue, quali l'uso inclusivo o esclusivo del pronome noi. In conclusione,
secondo Bühler, gli Sprechakten hanno un livello di formalizzazione superiore rispetto
all'attività linguistica ossia a quegli eventi linguistici che hanno luogo una volta e si
esauriscono nella loro finalità pragmatico-comunicativa.

Note: 6. il type è qualcosa di "astratto e unico", mentre il token è un’occorrenza

La Sprechandlung bühleriana ha dunque la duplice valenza di prassi comunicativa (con


richiamo alla nozione aristotelica di praxis) e di unico e irripetibile evento linguistico
concreto (la ‘parole’ saussuriana). Ne è esempio anche quello che Bühler chiama
discorso empratico, calata nella situazione percettuale data dal campo di indicazione,
ma anche in quello che Bühler chiama Umfeld, letteralmente "campo di contorno",
intendendo con esso la dimensione contestuale, linguistica e non nel suo insieme. Il
linguista inglese Alan Gardiner, introducendo il concetto di act of speech, aveva
espresso, nella sua Theory of Speech and Language (1932), posizioni molto simili a
quelle bühleriane: Un atto linguistico non è fatto solo di parole che possano essere
ripetute in un certo numero di occasioni distinte, ma un'occorrenza particolare e
contingente (transient) implicante individui specifici e vincolata a un tempo e un luogo
particolari. Pertanto, l'esempio che io immaginerò per illustrare i principi implicati in
tutto il linguaggio dovrà descrivere nei dettagli una situazione particolare. Gardiner
chiarisce molto efficacemente come un atto linguistico possa essere costituito anche da
un solo termine, ancorato però a delle specifiche condizioni spaziali e temporali e a una
situazione comunicativa che coinvolge determinati individui, e sottolinea anche come
l'atto del parlare sia legato indissolubilmente all'intenzione, da parte del parlante di
influenzare in un modo particolare l'interlocutore: Ora nella pratica la decisione di
parlare invariabilmente assume la forma di un'intenzione di influenzare (affect)
l'ascoltatore in un modo particolare, ed è questa intenzione (e non semplicemente l'uso
di parole o di una parola) che fa di ogni genuino atto linguistico una "frase". L'esempio
di Gardiner è molto simile ai discorsi empratici di cui diceva Bühler, in cui la
comunicazione è legata a situazioni talmente "ricche" di contenuti e saperi impliciti da
ammettere, se non perfino richiedere, una verbalizzazione molto scarna. Come già
accennato, le riflessioni su Sprechakt, Sprechandlunge act of speech svolte negli anni
Trenta da Bühler e Gardiner non hanno contribuito allo sviluppo della Speech Act
Theory di indirizzo analitico. Tuttavia, esse presentano alcuni elementi assai utili per
un approccio pragmatico al linguaggio, quali l'importanza delle intenzioni del parlante,
del contesto e della situazione in cui la comunicazione avviene. É peraltro interessante
notare, come uno degli obiettivi principali che Bühler si pone nella Sprachtheorie sia
proprio quello di «delimitare» il predominio della funzione rappresentativa del
linguaggio, attraverso una critica serrata della tendenza a prediligere la funzione
denominativa e concettuale del segno linguistico.
Note: 7. Bühler aveva tratto questa nozione dalla teoria dei colori di Hering. Si pensi a
come la percezione di una macchia di colore sia influenzata dallo sfondo sul quale essa
si colloca.
3.2.2. Significato e verità.
Frege, Wittgenstein e il neopositivismo
Il lavoro filosofico di Austin ha il suo sfondo storico-concettuale nella tradizione
analitica ed emerge dal dibattito logico-filosofico dei primi decenni del Novecento sul
significato. In particolare, il lavoro di Austin si colloca nell'ambito della critica alla
concezione puramente referenzialista della semantica, che legava il segno al suo
correlato extralinguistico e privilegiava l'analisi del discorso che Aristotele chiamava
"apofantico', ossia suscettibile di essere vero o falso. Una simile impostazione aveva
caratterizzato le analisi linguistiche prospettate da Wittgenstein nella sua opera prima,
il Tractatus Logico-Philosophicus (1921) e dai neopositivisti del Circolo di Vienna.
Già precedentemente ai lavori di Austin e dei filosofi del linguaggio era chiaro, anche
in ambito filosofico analitico, come al linguaggio non potesse essere assegnata la sola
funzione descrittiva di fatti realmente esistenti, sul modello di proposizioni
dichiarative, vere o false in virtù della loro capacità di rappresentare o meno la realtà.
Il matematico tedesco Gottlob Frege (1848-1925), da molti ritenuto uno dei "padri
fondatori" della filosofia analitica, aveva introdotto il concetto di forza" per dar conto
di come il contenuto concettuale di un enunciato può non solo essere asserito, ma anche
venire usato in altri modi, assumendo la forma di una domanda, di un ordine ecc. Solo
riguardo all'asserzione è possibile chiedersi se l'enunciato sia vero o falso. La nozione
fregeana di "forza" venne mutuata da Austin nella sua teorizzazione degli atti
linguistici, proprio per chiarire come sia essenziale capire se con un enunciato si vuole
porre una domanda, descrivere qualcosa, fare una promessa, impartire un ordine,
emettere una sentenza, conferire un titolo e così via.

Note: 10. Più esattamente Frege, nell'Ideografia, aveva parlato di forza assertoria. Lo
scopo dell'Ideografia era intatti quello di costruire un linguaggio logico per la
matematica, in cui fosse chiara la differenza tra esprimere un "contenuto concettuale e
asserirne la verità.

Austin era un grande ammiratore dell'opera di Frege e da questi aveva ripreso non
soltanto la nozione di forza, ma anche quella di significato come entità analizzabile in
duc componenti distinte: il "senso" (Sinn) e il "riferimento" (Bedeutung). Nel saggio
intitolato Ober Sinn und Bedeutung (1892), Frege aveva individuato due aspetti del
significato: il riferimento, in base al quale denotiamo l'oggetto concreto
extralinguistico, e il senso, ossia il modo in cui lo stesso oggetto si presenta, "si dà"
intersoggettivamente. Sia i nomi che gli enunciati, secondo Frege, devono avere un
senso, ma possono tranquillamente non avere un riferimento. Va sottolineato come
l'obiettivo di Frege fosse la costruzione di un linguaggio logico-simbolico per la
matematica", privo delle ambiguità proprie del linguaggio d'uso quotidiano, in cui
risultasse chiaro. Frege era dunque interessato, in prima istanza, a quei pensieri" che
potevano essere giudicati veri o falsi e abbracciava, tra l'altro, un'ontologia
platonizzante secondo la quale le entità concettuali sono dotate di una "realtà oggettiva"
indipendente sia dal loro essere pensate, sia dal loro essere espresse linguisticamente.
Nel saggio Il pensiero aveva ipotizzato infatti l'esistenza di un "regno dei pensieri",
accanto al mondo fisico e al mondo psichico (soggettivo). É evidente come un impianto
teorico di questo tipo fosse incompatibile con il progetto austiniano di occuparsi del
linguaggio ordinario. Tuttavia, Austin aveva colto perfettamente gli spunti di grande
rilievo per la filosofia del linguaggio presenti nell'opera del matematico tedesco.
Quanto alla questione del significato. Austin, in How to Do Things with Words, pur
dichiarando che esso «"equivale" a senso e riferimento non presenta argomentazioni a
favore della propria assunzione, essendo maggiormente interessato a evidenziare la
rilevanza delle diverse forze degli enunciati. Wittgenstein, nel Tractatus, si proponeva
di rintracciare l'essenza del linguaggio, ossia una struttura logica profonda comune a
tutti i linguaggi, a quello d'uso quotidiano così come ai linguaggi logico-simbolici, A
tal fine aveva elaborato una teoria "raffigurativa" della proposizione, secondo la quale
una proposizione è un'immagine di un possibile stato di cose, che possiamo chiamare
il suo senso, ed è vera se il suo senso concorda con la realtà, altrimenti è falsa. Ma la
proposizione è, a sua volta, un segno composto da nomi, i quali hanno significato solo
se designano (o denotano) degli oggetti. Rispetto all'impostazione fregeana viene a
mancare, nel Tractatus, l'elemento mediatore del Sinn inteso come "modo di
presentazione": per Wittgenstein, un nome privo di riferimento è privo di significato.
La presenza di un nome che non denota all'interno di una proposizione non la rende
priva di senso, ma falsa. La proposizione risulta allora essere funzione di verità delle
sue componenti (vero funzionalismo), ossia vera in base alla verità dei suoi elementi
costitutivi, e sempre passibile di un confronto con la realtà nei termini di una
corrispondenza. Nel Tractatus viene dunque presentata una teoria del significato come
rappresentazione, che ha però il forte limite di poter essere applicabile, nel contesto del
discorso, solamente agli enunciati dichiarativi o asserzioni (statements).

Di ispirazione fregeana è senz'altro l'esigenza, manifestata da Wittgenstein, di adottare


un linguaggio segnico (proprio sul modello di quello elaborato da Frege) che obbedisca
alla "grammatica logica- alla sintassi logica" e sia in grado di evitare quelle confusioni,
di cui la filosofia è piena, derivanti dalle imprecisioni proprie del linguaggio comune.
Secondo Wittgenstein, dunque, alla filosofia spetta primariamente il compito di portare
alla luce la logica del linguaggio pur senza ricorrere, come aveva fatto Frege,
all'esistenza di un "regno dei concetti". Il Tractatus, nella sua edizione inglese del 1911,
era circolato ampiamente, già negli anni venti, sia negli ambienti filosofici e scientifici
inglesi sia in quelli continentali, riscuotendo particolare successo tra i neopositivisti,
che vi avevano individuato gli strumenti filosofici utili alla costruzione di un
linguaggio ideale, privo di nonsensi, basato su regole sintattiche atte a garantire un
senso perfettamente determinato alle proposizioni e un significato definito, unico e
univoco ai nomi. In effetti, in sintonia con le posizioni wittgensteiniane, nel primo
manifesto viennese, particolare enfasi era stata data alla ricerca di un simbolismo libero
dalle scorie delle lingue storiche, Tuttavia, contrariamente a Wittgenstein, i
neopositivisti attribuivano alla filosofia principalmente la funzione di chiarificare il
linguaggio scientifico, dunque di fungere da supporto per la scienza. In questo senso
l'analisi linguistica doveva operare sul linguaggio, riducendolo a enunciati osservativi,
ovvero a enunciati analitico-tautologici.

3-3.1. L'analisi del linguaggio di Austin


3.3.1 Austin e la filosofia del linguaggio ordinario: significato e uso
La filosofia del linguaggio ordinario maturata a Cambridge e a Oxford a partire dagli
anni Trenta, pur essendo ugualmente qualificata come "filosofia analitica", si discosta
in modo considerevole dalla tradizione inaugurata dal Tractatus wittgensteiniano e dal
neopositivismo, assumendo come oggetto teorico il linguaggio nelle sue diverse forme
e situazioni d'uso e mantenendosi assolutamente estranea ai progetti di costruzione di
una lingua "ideale". Austin, già nei suoi primi lavori, aveva iniziato a scardinare l'idea
che il significato delle parole fosse univoco e determinato. Nell'articolo The Meaning
of a Word (Austin, 1970c), il filosofo oxoniense si chiedeva proprio che senso avesse
porsi la questione del significato di una parola, rimarcando come ad avere significato
siano solo gli enunciati (sentences) nel loro complesso. Sembra emergere ancora una
volta un richiamo a Frege e, nello specifico, al principio del contesto formulato nei
Fondamenti dell'aritmetica, secondo il quale le parole non hanno significato se non in
quanto inserite in una proposizione. Bersaglio polemico di Austin sono certamente
quelle concezioni semantiche che vedono i significati come delle entità (sul modello
del Tractatus: il significato di un termine è l'oggetto che esso denomina) o delle classi
(ad esempio la classe degli oggetti aventi una determinata proprietà) o alla maniera
platonica, delle idee. Austin, insomma, inizia a formulare una visione contestuale del
significato. Non è necessario, allora, trovare delle formule di disambiguazione del
linguaggio ordinario, in quanto è la situazione, contesto d'uso a chiarire in larga parte
come un termine debba essere inteso. L'interesse di Austin per il linguaggio ordinario
emerge que gradualmente da un background di studi logico-filosofici. Come scriverà
in How to Do Things with Words: «L'atto linguistico totale nella situazione linguistica
totale sta emergendo dalla logica a poco a poco». Un ruolo fondamentale è giocato
senz'altro dalla formazione aristotelica del filosofo oxoniense. L'analisi linguistica
austiniana si richiama infatti, da un punto di vista metodologico, all'idea aristotelica di
una scienza che deve precedere tutte le scienze (chiamata dallo stesso Aristotele
"analitica"). Diversi scritti austiniani sono dedicati o prendono spunto dai testi
aristotelici. Nell'articolo Agathon and Eudaimonia in the Ethics of Aristotele, Austin
argomenta contro Harold A. Pritchards, secondo il quale Aristotele, nell'Etica
nicomachea, fornisce una definizione di agathon ("buono") come «tendente alla nostra
felicità». Per Austin, al contrario, non solo Aristotele rifiuta (declines) di rispondere
alla domanda "quale è il significato di agathon? ma, soprattutto, ritiene impossibile che
agathon abbia un solo significato. Stando all'interpretazione austiniana dell'Etica
nicomachea, Aristotele non propone una definizione univoca di agathon, accennando,
al limite, a come i diversi significati del termine siano correlati gli uni agli altri.
Particolare attenzione viene dedicata da Austin alla trattazione aristotelica della
paronimia, ossia al fatto che una stessa parola, in diverse occasioni d'uso, presenti delle
connotazioni (connotations) in parte identiche e in parte differenti. L'esempio della
paronimia viene ripreso anche nel The Meaning of a Word, nel quale Austin passa in
rassegna i diversi modi in cui è possibile dire che due termini hanno lo stesso
significato. Nell'articolo del 1940 sono poi riscontrabili notevoli somiglianze con la
critica all'esclusività della funzione denominativa dei termini, che sarà presentata da
Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche. Intorno agli anni Trenta, durante il suo periodo
di insegnamento a Cambridge, Wittgenstein aveva rivisto la sua concezione del
linguaggio e iniziato a sostituire alla nozione di significato quella di uso, mostrando
non soltanto come il significato del segno linguistico sia, nella maggior parte dei casi,
inscindibile dal suo modo di impiego, ma anche come il riferirsi alle cose, dunque il
designare o denominare, non ne esaurisca l'aspetto semantico. Per una grande classe di
casi, in cui ce ne serviamo, la parola "significato" si può definire così: Il significato di
una parola è il suo uso nel linguaggio. E talvolta il significato di un nome si definisce
indicando il suo portatore. Al contempo aveva iniziato ad ampliare il concetto di
proposizione, intesa non più esclusivamente come enunciato assertorio-descrittivo. Le
riflessioni wittgensteiniane su significato e uso, giochi linguistici e somiglianze di
famiglia, erano penetrate nell'università di Oxford a partire dagli anni Trenta. Anche
Gilbert Ryle aveva iniziato a trattare dei concetti filosofici nei termini del loro uso
(use), ossia della loro operatività, piuttosto che del loro significato (meaning): Porre
l'accento sul termine "uso" aiuta a far emergere l'importante fatto che la ricerca non
riguarda le altre caratteristiche o proprietà della parola, ma esclusivamente ciò che
facciamo con essa. Ciò spiega perché classificare i problemi filosofici come problemi
inerenti o non inerenti, il linguaggio generi confusione. Austin si era invece mostrato
assai scettico circa la sostituzione della nozione di significato con quella di "uso":
«"Uso" è un termine disperatamente ambiguo o vasto, proprio come il termine
"significato, che è diventato abituale mettere in ridicolo». Il filosofo oxoniense aveva
preferito ispirarsi, per rendere conto delle "diverse cose che si possono fare con le
parole", al concetto fregeano di forza.

3.3,2. Performativi e constativi: verità e felicità.


L'indagine austiniana delle funzioni del linguaggio non assertorie va collocata
all'interno della sua critica alla possibilità di applicare il criterio di verità/falsità alle
stesse asserzioni, ribattezzate enunciati "constativi". Nell'incipit di How to Do Things
with Words scrive Austin (1987): «Per troppo tempo i filosofi hanno assunto che il
compito di un'asserzione possa essere solo quello di descrivere un certo stato, o di
esporre un qualche fatto, cosa che deve fare in modo vero o falso». Austin, dunque,
insiste non solo sulla possibilità di rintracciare diversi impieghi delle frasi (sentences),
fatto peraltro già abbondantemente constatato da grammatici e filosofi, ma anche
sull'evidenza che molte asserzioni sono solo apparentemente descrittive e pertanto non
sottoponibili a un criterio che possa incontrovertibilmente decretarne la verità tramite
un confronto con la realtà extralinguistica. Il giudizio circa la verità o falsità di un
enunciato non è l'unico possibile, ma rientra tra i diversi modi di valutare ciò che
diciamo ed è strettamente legato alle circostanze e agli scopi dell'enunciazione; Il
principio logico che ogni proposizione deve essere vera o falsa ha troppo a lungo
operato come la più semplice, più persuasiva e più pervasiva forma della "fallacia
descrittiva", Recentemente è stato realizzato che molti enunciati che erano stati
considerati asserzioni non sono in effetti descrittivi, non sono suscettibili di essere veri
o falsi. La tesi secondo la quale un'affermazione è vera solo se corrisponde ai fatti,
seppure non rifiutata in toto, è sottoposta a delle restrizioni e certamente non viene
intesa da Austin nei termini di un rispecchiamento della struttura della realtà nella
struttura della proposizione (nella direzione, cioè, propria al Wittgenstein del
Tractatus). Così, nelle prime pagine di How to Do Things with Words Austin osserva
che: Molte parole che ci lasciano particolarmente perplessi, inserite in asserzioni
apparentemente descrittive, non servono ad indicare qualche caratteristica
supplementare particolarmente strana della realtà riportata, ma ad indicare (non a
riportare) le circostanze in cui viene fatta l'asserzione.

Il richiamo alle circostanze in cui viene fatta l'asserzione amplia la nozione di contesto
alla situazione, linguistica e non in cui viene proferito l'enunciato, legandolo peraltro
al soggetto autore del proferimento e all'uditorio cui esso è rivolto. Tra le asserzioni
apparenti, già in Truth, Austin annoverava le performatory utterances, ossia gli
enunciati performativi, i quali, piuttosto che "dire qualcosa" equivalgono in tutto e per
tutto a compiere un'azione. Austin rilevava un'asimmetria tra la prima persona del
presente indicativo di alcuni verbi e le restanti persone e tempi del medesimo verbo.
Nelle prime lezioni di How to Do Things with Words Austin fornisce un'ampia
trattazione delle peculiarità dei performativi: A. non "descrivono" o "riportano" o
constatano assolutamente niente, non sono "veri o falsi"; e B. l'atto di enunciare la frase
costituisce l'esecuzione parte dell'esecuzione, di una azione che peraltro non verrebbe
normalmente descritta come, o come "soltanto" dire qualcosa. Chiaramente, per
enunciati di questo tipo non ha senso porsi il problema della verità. È invece necessario
che il performativo venga proferito in una situazione appropriata, altrimenti, secondo
la terminologia austiniana, sarà "infelice" (unhappy). Casi di infelicità del performativo
possono darsi:
1. Se l'autore non è in condizione di compiere l'atto in questione oppure se l'oggetto cui
ci si riferisce non è adatto a esservi sottoposto. In tal caso il performativo sarà nullo;
2. Se colui che proferisce l'atto non ha intenzione di compiere l'azione in causa: in tal
caso il performativo sarà abusato;
3. Se tutto si è svolto regolarmente, ma si verifica, in seguito al compimento dell'atto,
un evento non in regola con esso, ossia una rottura dell'impegno.

Molti degli esempi austiniani si richiamano a delle convenzioni socialmente accettate


e sono spesso formulazioni proprie di procedure altamente istituzionalizzate. Non a
caso, nell'introdurre il concetto di "enunciato che equivale a compiere un'azione",
Austin si richiama espressamente al linguaggio giuridico. Il performativo risulterà
allora felicemente eseguito se:
1.Esiste una procedura convenzionale accettata avente un certo effetto convenzionale,
procedura che deve includere l'atto di pronunciare certe parole da parte di certe persone
in certe circostanze;
2. Le persone e le circostanze sono appropriate;
3. La procedura è eseguita da tutti i partecipanti sia correttamente che completamente.

Austin evidenzia immediatamente come sia possibile, in molti casi, eseguire un atto
convenzionale anche senza ricorrere a una formula verbale: «In moltissimi casi è
possibile eseguire un atto esattamente dello stesso tipo non emettendo delle parole, in
forma scritta e orale, ma in qualche altro modo. Le convenzioni cui si appella Austin
non sono dunque esclusivamente linguistiche, sono culturalmente e storicamente
situate, e fanno esplicito riferimento alla dimensione sociale dell'agire comunicativo.
Peraltro, Austin non fornisce una definizione esplicita di "convenzione" in How to Do
Things with Words, ma dà solamente alcune indicazioni. Alla dimensione
convenzionale è legata la "felicità" del performativo. In altri casi, come quello della
promessa, o del porgere delle scuse, l'accento si deve porre piuttosto sull'intenzione del
parlante: Nel caso particolare del promettere, come in molti altri performativi, è
appropriato che la persona che enuncia la promessa debba avere una certa intenzione.
Tuttavia, anche il caso della promessa è legato a delle convenzioni socialmente
accettate; generalmente chi promette qualcosa ha intenzione di assumersi l'impegno di
agire in un determinato modo. Austin aveva inizialmente isolato gli enunciati
performativi contrapponendoli agli enunciati constativi, suscettibili di essere veri o
falsi. Tra questi aveva incluso gli esempi classici di asserzione logica. In How to Do
Things with Words Austin conclude con il ritenere anche i constativi valutabili in
termini di felicità/infelicità: L'asserzione resta dunque un tema presente in tutta l'opera
austiniana, ed è senz'altro il filo conduttore delle prime lezioni raccolte in How to Do
Things with Words. Uno dei propositi di Austin è chiaramente quello di considerare
l'uso assertorio del linguaggio alla stregua di tutti gli altri usi: Ancora una volta, nel
caso dell'asserire veridicamente o falsamente, tanto quanto nel caso del consigliare
bene o male, sono importanti i propositi e gli scopi dell'enunciato e il suo contesto; ciò
che è considerato vero in un libro di scuola può non essere considerato tale in un'opera
di ricerca storica. Dunque, anche per l'enunciato assertorio si può parlare di
convenzionalità, di dipendenza da un contesto che lo rende usato "felicemente o
"infelicemente". Austin suggerisce che fare un'asserzione vera sia non diverso dal
consigliare bene o dal giudicare imparzialmente; la verità, dunque, ammette dei gradi
di approssimazione e non ha un primato di oggettività. Del resto, la stessa ricerca di
criteri grammaticali e lessicali che permettessero di distinguere constativi aveva dato
esito assai incerto: «In molti casi la stessa frase viene usata in diverse occasioni di
enunciazione in entrambi i modi, performativo e constativo».

3.3.3: possibili criteri per i performativi. Austin e il performativo esplicito.


Austin aveva cercato di individuare una forma normale del performativo, che potesse
garantirne l’immediato riconoscimento: il verbo alla prima persona singolare del
presente indicativo attivo, il verbo alla seconda o terza persona presente indicativo
passivo, il modo imperativo. O ancora la possibilità di far precedere all’enunciato la
formula hereby, ossia “con ciò/questo”. Tuttavia, nessun criterio sembra essere
pienamente soddisfacente e lo stesso Austin sottolinea come un performativo possa
presentarsi nelle forme più diverse. Talvolta anche gesti e intonazione della voce
possono funzionare come performativi. Quanto alla gestualità, Austin ne rivela sia il
ruolo nell’accompagnare l’enunciazione delle parole, sia l’intrinseca valenza
performativa, che può rendere inessenziale il ricorso a una formula verbale: posso
ordinare di chiudere una porta semplicemente indicando una porta che sbatte. Austin
riconosce che il linguaggio come tale non è reciso, e inoltre è, nel nostro senso non
esplicito, avanzando anche l’ipotesi che le formulazioni performative implicite
precedano, dal quelle esplicite. Persevera nella ricerca di un dispositivo atto a rendere
chiara la forza, ossia il modo in cui un enunciato deve essere inteso, con l'intento di
porre le basi per una teoria «completa e generale di ciò che si fa nel dire qualcosa», che
renda conto non soltanto delle diverse funzioni del linguaggio, ma anche del rapporto
tra linguaggio e azione, tra dire e fare, già messo in luce con il concetto di performativo.

Austin e Benveniste
La ricerca di un criterio "esplicito" per il performativo aveva condotto Austin a
prendere in considerazione diversi aspetti delle lingue storico-naturali pertinenti
all'ambito di ricerca linguistica, piuttosto che a quello filosofico: l'analisi delle forme
verbali, le componenti "paralinguistiche", quali gestualità e intonazione. Che il
pensiero austiniano cogliesse questioni rilevanti per la linguistica non era sfuggito al
grande studioso francese Émile Benveniste (190o2-1976), il quale, in un articolo del
1963 intitolato La filosofia analitica e il linguaggio, aveva commentato la versione
francese della lezione austiniana su performativo e constativo. Pur non concordando
con Austin circa la necessità di una teoria «completa e generale di ciò che si fa nel dire
qualcosa», Benveniste apprezza, in Austin come nei filosofi del linguaggio ordinario
di Oxford, la propensione a occuparsi del linguaggio «così come esso viene parlato»,
mostrando una sensibilità, generalmente assente nei filosofi, per la «specificità formale
dei fatti linguistici». Benveniste, più o meno contemporaneamente ad Austin, aveva
individuato come per alcune classi di verbi l'uso della prima persona singolare del
presente indicativo avesse un valore semantico particolare e aveva introdotto, in
proposito, la distinzione tra enunciati che eseguono atti (sono resi come enunciati
"esecutivi") ed enunciati che informano: «io giuro, che è un atto, ed egli giura, che è
un'informazione». Dunque, la ragione del suo interesse per la filosofia austiniana
risiede nel voler rintracciare degli elementi utili alla propria analisi della concreta
situazione dell'enunciazione, in cui si sottolinei la presenza fondamentale del soggetto,
che, tra l'altro, si "costituisce" nel linguaggio e per mezzo del linguaggio, e il
funzionamento dell'interazione dialogica tra i parlanti. Per Benveniste l'enunciato
esecutivo assume la dimensione dell'evento, ancorato a un tempo e a un luogo definiti,
unico e non ripetibile, in quanto la sua reiterazione si tradurrebbe in un enunciato
constativo ed è sui-referenziale, in quanto si riferisce a una realtà che esso stesso
costruisce. È evidente allora perché Benveniste non includa tra gli enunciati esecutivi
gli imperativi, come invece aveva fatto Austin: Non bisogna farsi ingannare dal fatto
che l'imperativo produce un risultato, un enunciato esecutivo non è tale in quanto può
modificare la situazione di un individuo, ma in quanto è di per sé un atto.
Contrariamente all'enunciato esecutivo di Benveniste, il performativo austiniano
richiama invece proprio un'idea di azione intesa come produzione di un cambiamento
in un contesto, legando l'atto linguistico all'ottenimento di un effetto.

3.4 Austin: atti linguistici


3.4.1. Atti locutori, illocutori e perlocutori
«L'atto linguistico totale nella situazione linguistica totale è il solo fenomeno reale che,
in ultima analisi, siamo impegnati a spiegare». Questa affermazione è cruciale per
intendere il nocciolo della teoria austiniana. La nozione di speech act viene introdotta
per specificare come, secondo Austin, l'oggetto di studio di cui ci si deve occupare
«non è la frase ma il proferimento di un enunciato in una situazione linguistica».
Asserire è un atto, così come lo è promettere, richiedere, giudicare e così via. Quale sia
il tipo di atto che eseguiamo sarà largamente chiarito dal contesto, dalla situazione di
interazione linguistica in cui ci troviamo.

Ma anzitutto, quando parliamo, i primi atti che compiamo sono:


a) emettere dei suoni, ossia compiere quello che Austin chiama "atto fonetico";
b) pronunciare parole e vocaboli appartenenti a un certo lessico e conformi a una certa
grammatica, ossia compiere un "atto riferimento defatico";
c) utilizzare questi vocaboli con un senso e un riferimento, ossia compiere un "atto
retico".

Questi tre aspetti ampiamente interdipendenti costituiscono, presi nel loro insieme,
l'atto "locutorio (locutionary act), ossia l'atto di dire qualcosa. Ma l'atto locutorio non
spiega ancora in che modo stiamo usando il linguaggio e di per sé non fornisce
informazioni circa il senso in cui l'enunciato debba essere preso, nella specifica
occasione in cui viene proferito. É dunque necessario, secondo Austin, chiarire se le
parole utilizzate in una certa locuzione abbiano la "forza" (nel senso fregeano del
termine) di una domanda, oppure di una promessa o altro. É a questo punto che Austin
introduce un secondo tipo di atto, ossia l'atto "illocutorio" (illocutionary act), che
determina ciò che si fa nel dire qualcosa: Quindi nell’eseguire un atto locutorio
eseguiremo un atto come: fare una domanda o rispondere a essa, fornire
un’informazione o un’assicurazione o un avvertimento, compiere un’identificazione o
dare una descrizione e molti altri.

L’atto locutorio è dunque una sorta di contenuto che include aspetti morfo-sintattici,
lessicali e semantici cui vanno applicate le diverse forze illocutorie, come Austin
stabilisce di denominare le diverse funzioni del linguaggio. Soffermarsi sul solo aspetto
locutorio significherebbe ricadere nella fallacia descrittiva e nel voler dare spiegazioni
esclusivamente in termini di significati di parole, avulsi dal contesto. Tuttavia, Austin
non abbandona la possibilità di scindere, per lo meno in astratto, il modo di impiego di
un enunciato dal suo significato e afferma, di voler e distinguere la forza dal
significato», con l'evidente proposito di evitare la sovrapposizione wittgensteiniana tra
significato e uso. Un terzo tipo di atto individuato da Austin è l'atto "perlocutorio"
(perlocutionary act), ossia l'atto che si compie col dire qualcosa, riguardante la
produzione di "effetti non convenzionali" a un'illocuzione. Se impartisco un ordine, un
effetto illocutorio sarà l'esecuzione dell'ordine: l'eventuale reazione emotiva
dell'interlocutore, che potrebbe essere infastidito dal mio ordine, rientra invece tra gli
effetti perlocutori. Posso anche compiere un atto perlocutorio in modo totalmente
aconvenzionale e senza il ricorso a mezzi locutori, ad esempio è possibile persuadere
qualcuno facendo dondolare un bastone. Determinati effetti e conseguenze rientrano
nell'aspetto convenzionale dell'atto illocutorio, e sono indispensabili affinché esso
abbia successo. Anzitutto occorre assicurarsi la recezione (uptake) da parte
dell'uditorio, e ciò sottolinea l'aspetto interazionale e interattivo dell'atto illocutorio.
Molti atti illocutori sollecitano un seguito o una risposta, come si è visto a proposito
dell'ordine; altri invece no; si pensi al porgere delle scuse. Una volta entrato in vigore
l'atto illocutorio, alcuni atti saranno in regola con esso e altri no. La differenza
fondamentale tra atti illocutori e atti perlocutori risiede dunque nel fatto che mentre i
primi sono convenzionali e riconducibili, almeno in linea di principio, a una forma
performativa esplicita, i secondi non lo sono. Tuttavia, come ammette lo stesso Austin,
non è ben chiaro dove inizino e dove finiscano le convenzioni: Come già visto per gli
enunciati performativi, non è necessario che un atto illocutorio assuma una particolare
forma linguistica e neanche che ricorra a mezzi verbali, anche se resta il fatto che
«molti atti illocutori non possono essere eseguiti se non dicendo qualcosa»

3.4.2. Criteri per gli atti linguistici: classi di forza illocutoria


In luogo della lista dei verbi performativi espliciti precedentemente prospettata, Austin
propone ora una tassonomia degli speech acts basata sulle diverse forze illocutorie.
Abbiamo così le seguenti famiglie" generali di atti linguistici interconnessi tra loro:
1. verdettivi, implicanti l'emissione di un verdetto, di un calcolo o di un una
valutazione;
2. esercitivi, che permettono di esercitare poteri o diritti;
3. commissivi, grazie ai quali si può promettere o assumersi un impegno
4. comportativi, che riguardano atteggiamenti e comportamento sociale;
5. espositivi, con i quali è possibile illustrare opinioni, argomentare tesi nelle
discussioni ecc.

La classificazione austiniana non ha la pretesa di essere esauriente o definitiva.


Nonostante l'enfasi posta su locuzione, illocuzione e perlocuzione, Austin ritiene che
vi siano usi del linguaggio, come recitare una poesia, che non rientrano in nessuna di
tre categorie, oppure che potrebbero rientrare in più di una. Nella parte conclusiva di
How to Do Things with Words, Austin chiarisce il rapporto tra atti linguistici e
performativi nei seguenti termini: «La teoria della distinzione performativo/constativo
sta alla teoria degli atti locutori e illocutori come la teoria particolare rispetto alla teoria
generale». La questione del performativo, lungi dall'essere accantonata, è dunque
sempre presente sia nell'opera austiniana, sia nella maggior parte dei lavori sugli atti
linguistici successivi alla pubblicazione di How to Do Things with Words e rappresenta
un importante punto d'avvio della moderna pragmatica linguistica.
Note: 14. Vendler nel suo articolo Say What You Think (1970), aveva rivisitato la
classificazione di Austin dei verbi illocutori, sostenendo che i verbi performativi o
'verbi d'azione" fanno parte, insieme ai verbi d'atteggiamento proposizionale o verbi di
pensiero, quali credere, dubitare, sapere, capire, di una più generale classe di "verbi
contenitore" prenominali. Il tempo presente semplice individua, nel caso del
performativo, il momento in cui l'atto illocutorio si verifica, nel caso del verbo di
atteggiamento proposizionale un lasso di tempo indefinito, comprendente il momento
in cui l'enunciato viene proferito. Ne deriva che i performativi sono verbi di
compimento e i verbi di atteggiamento proposizionale sono verbi di stato ma,
soprattutto, che la forza illocutoria non è sempre legata a una formula performativa.

3.5 Dopo Austin: alcuni aspetti del dibattito sugli speech acts
3.5.1. Intenzione e convenzione: Strawson e Searle
L'interesse per la filosofia del linguaggio austiniana si manifestò dopo la pubblicazione
postuma delle sue importanti lezioni (1962). Intanto, nel 1957 era stato pubblicato
l'articolo Meaning in cui il filosofo analitico Paul Grice (1913-1988), formatosi
anch'egli a Oxford, esponeva una teoria del significato basata sull'intenzione del
parlante di produrre determinati effetti sull'uditorio. Ciò che conta, dunque, non è tanto
il significato letterale della frase quanto lo speaker's meaning, ossia il "significato del
parlante". Grice non parla di speech acts, tuttavia le sue osservazioni sul significato
ben si prestano a sciogliere alcuni nodi lasciati irrisolti dalla trattazione austiniana e a
essere applicate al linguaggio ordinario. Strawson, nel suo articolo Intention and
Convention in Speech Acts del 1964, prende spunto proprio dall'elaborazione griceana
per evidenziare come, accanto alle convenzioni di cui diceva Austin, l'esecuzione e la
ricezione degli atti illocutori siano legate, nella maggior parte dei casi, e in particolare
nei casi di atti illocutori non regolamentati da procedure istituzionalizzate,
principalmente alle intenzioni del parlante, al riconoscimento di queste da parte degli
ascoltatori e, al limite, alle sole convenzioni che presiedono alla determinazione dei
significati. Il ruolo dell'intenzione del parlante, sebbene accennato in più luoghi da
Austin non era stato molto enfatizzato. Austin aveva legato la recezione di un atto
illocutorio esclusivamente alla comprensione della forza e del significato della
locuzione, dunque ad aspetti dall’autore stesso definiti come prettamente
convenzionali. Secondo Strawson, la spiegazione della forza illocutoria in termini di
convenzione (ossia di riconducibilità, almeno in linea di principio, a una formulazione
performativa esplicita) funziona nei casi in cui possono essere chiaramente individuate
le condizioni relative alle circostanze in cui l’enunciato viene proferito. Ciò avviene in
tutti quei tipi di transizioni umane includenti il parlare che poggiano su procedure
stabilite.

Analogamente, esistono rapporti interpersonali convenzionalmente regolamentati,


quali il presentare qualcuno con le parole, oppure l’arrendersi dinanzi a un nemico.
Tuttavia, esistono ance casi ben diversi (e sono la maggior parte). L’intenzione gioca
un ruolo fondamentale: il destinatario deve comprendere, riconoscere la mia intenzione
di avvertirlo. Analogamente e per estensione, potrebbero darsi casi in cui chiamiamo
qualcosa con un nome sbagliato per lasciar intendere qualcosa di particolare ai nostri
interlocutori. Anche nei casi maggiormente regolamentati da convenzioni, l’elemento
intenzionale ha una sua funzione. Si delinea quindi una sorta di dualità fra elemento
intenzionale ed elemento convenzionale, che l’impostazione austiniana non sembra in
grado di risolvere. Una proposta di mediazione tra l'elemento dell'intenzione e quello
della convenzione è avanzata dal filosofo statunitense John R. Searle, già allievo di
Austin a Oxford, nel suo importante saggio del 1969 intitolato Speech Acts. Secondo
Searle, per la buona riuscita dell'atto illocutorio, il parlante non solo vuole che
l'interlocutore riconosca la sua intenzione, ma vuole che la riconosca in base al fatto
che le regole per l'uso dell'espressione utilizzata associano quell'espressione alla
produzione di quell'effetto. Searle mostra l'inadeguatezza di una soluzione come quella
di Grice, basata unicamente sullo speaker's meaning, argomentando che è possibile
utilizzare una proposizione T avente un significato convenzionale Q con l'intenzione
che l'ascoltatore intenda non già Q, ma qualche altro significato S, senza che questo
comporti che T significhi S. Ad esempio, posso utilizzare la frase Es regnet, "Piove",
senza nutrire alcun interesse per le condizioni meteorologiche, ma soltanto per indurre
qualcuno a credere che io sia tedesco. Tuttavia, si può obiettare alle argomentazioni
searleane che, nel caso in cui io voglia indurre qualcuno a credere che io sia tedesco
enunciando Es regnet, l'atto illocutorio va a buon fine proprio sulla base
dell'incomprensione del significato letterale, ossia di quello che Searle chiama il
"significato convenzionale" della frase. La conclusione di Searle è che comunque il
significato non può essere soltanto questione di intenzioni ma è, almeno a volte,
questione di convenzioni. É nondimeno possibile, secondo Searle, che alcuni atti
illocutivi possano essere eseguiti in modo aconvenzionale (cosa che Austin non
avrebbe mai ammesso), e dirsi riusciti solamente sulla base del riconoscimento delle
intenzioni dei parlanti da parte degli ascoltatori: Certi tipi assai semplici di atti
illocutivi" possono anzi essere eseguiti indipendentemente dall'uso di qualsivoglia
espediente convenzionale, semplicemente facendo si, con certi comportamenti, che gli
ascoltatori riconoscano alcune delle nostre intenzioni. Generalmente, comunque, gli
atti illocutori vengono eseguiti con mezzi linguistici e la loro buona riuscita si ha, per
Searle quando l'ascoltatore riesce a capire sia che il parlante sta cercando di dirgli
qualcosa, sia cosa sta cercando di dirgli: Ma l’effetto" sull'ascoltatore non è una
credenza o una reazione: è semplicemente il fatto che l'ascoltatore capisce l'enunciato
del parlante. É questo che ho chiamato effetto illocutorio.

Quello che Austin aveva chiamato effetto di recezione (uptake), legato alla
comprensione di significato e forza illocutoria, è dunque per Searle l'effetto illocutorio
per eccellenza, in aggiunta al quale il filosofo statunitense non ritiene di dover inserire
l'elemento della produzione di cambiamenti nel contesto, propria invece della teoria
dell'azione austiniana modellata sui performativi. In proposito, Sbisà fa notare come la
trasformazione del contesto sia un effetto convenzionale previsto dalla procedura
convenzionale felicemente eseguita di cui diceva Austin già a proposito dei
performativi, laddove, per Searle e Strawson, la convenzionalità degli atti illocutori è
riferita principalmente ai mezzi per eseguirli. É pur vero, però, che Searle individua
una tipologia particolare di atti illocutori, che chiama "dichiarativi", in tutto e per tutto
equivalenti ai performativi austiniani. Searle evidenzia come le dichiarazioni, a
differenza delle altre categorie di atti, provochino delle modifiche nello status degli
oggetti cui si riferiscono soltanto in virtù del fatto che la dichiarazione è stata
felicemente eseguita. A ogni modo, le convenzioni di cui dice Searle sono, convenzioni
essenzialmente linguistiche su di esse si basa la possibilità stessa di eseguire atti
linguistici: Nel caso degli atti linguistici eseguiti all'interno di una lingua, d'altra parte,
è una questione di convenzione che l'enunciazione di una data espressione in certe
condizioni conti come il fare una promessa. Austin, invece, si richiamava piuttosto a
una convenzionalità extralinguistica, che prevedeva anche la possibilità di compiere
atti convenzionali con mezzi non linguistici. Un'esemplificazione di cosa Searle
intenda per convenzioni linguistiche è data dalla sua formulazione delle condizioni di
soddisfazione degli atti linguistici, elaborate in sostituzione delle condizioni di felicità
austiniane. La "condizione di sincerità" searleana si riferisce al fatto che il parlante
deve avere l'intenzione appropriata per l'esecuzione dell'atto. Secondo la "condizione
essenziale", poi il parlante vuole che l'enunciazione, "Prometto di fare x" lo metta
nell'obbligo di fare x, da un lato specifica l'intenzione del parlante, dall'altro connette
convenzionalmente un'enunciazione con l'assunzione di un obbligo. La condizione
essenziale determina dunque quale tipo di atto illocutorio stiamo eseguendo, e da essa
dipendono tutte le altre. Le "condizioni preparatorie specificano invece la situazione
contestuale e una serie di presupposizioni riguardanti le intenzioni di parlanti e
ascoltatori. Le circostanze che Austin aveva descritto come esterne all'atto linguistico
vengono, attraverso le condizioni preparatorie, inglobate da Searle all'interno dell'atto
medesimo. Vi è poi una condizione del "contenuto proposizionale" che specifica quale
tipo di proposizione un parlante debba esprimere. Non tutti gli atti illocutori hanno però
un contenuto proposizionale, come nel caso di "Evviva, oppure Ahi!". É evidente
come, all'interno di tali condizioni, assumano un ruolo di primo piano le intenzioni del
parlante. Se ne può inferire che. con una simile formula, Searle intenda proprio
raggiungere quell'equilibrio tra intenzione e convenzione non sufficientemente
sottolineato dall'opera di Austin.

3.6: Searle e Austin: fare cose con le parole versus ciò che facciamo parlando
3.6.1: Searle: regole per gli atti linguistici
Nel suo libro del 1969, Speech Acts, John R. Searle propone una sistematizzazione
della dottrina degli atti linguistici sviluppando gran parte degli spunti austiniani, ma
operando altresì sensibili modifiche rispetto all'impostazione del maestro. Searle
procede tuttavia a una completa revisione della sua filosofia del linguaggio, che pur
non disconoscendo il ruolo degli speech acts, finisce col costituirsi come una branca
della filosofia della mente. Questa è la parte del percorso teorico searliano pertinente
al nostro contesto attuale. Searle non si limita a proporre, una tassonomia degli atti
linguistici diversa da quella austiniana, ma piuttosto colloca l'atto linguistico in un
quadro teorico che tenta di essere, al contempo, filosofico e linguistico. Nel compiere
questa operazione tiene conto sia degli sviluppi postaustiniani dell'analisi del
linguaggio ordinario, legati ai contributi di Strawson e Grice, sia della filosofia
wittgensteiniana, con le sue affinità e contrasti rispetto all'impostazione di Austin, sia
infine, in modo significativo, della svolta intervenuta nella linguistica statunitense con
la pubblicazione di Syntactic Structures di Noam Chomsky (1957). Tipicamente, per
Searle (1976, p. 36) «parlare una lingua significa impegnarsi in una forma di
comportamento molto complessa, governata da regole. Apprendere e padroneggiare
una lingua è tra l'altro apprendere e padroneggiare tali regole». Searle concorda con
Chomsky nel ritenere che le scienze del linguaggio debbano esplicitare le regole
(tendenzialmente universali) sottostanti alla competenza del parlante. In questo senso,
l'atto illocutorio searleano diventa una proposta per una semantica generativa: La
struttura semantica di una lingua può essere concepita come la realizzazione
convenzionale di una serie di insiemi di regole costitutive sottostanti e che gli atti
linguistici sono atti eseguiti, tipicamente, enunciando espressioni in accordo con questi
insiemi. Lo studio degli atti linguistici va collocato all'interno della semantica, in
quanto inscindibile dallo studio dei significati delle frasi. Dalle regole sottostanti al
funzionamento degli atti linguistici derivano le "condizioni di soddisfazione" dell'atto
linguistico, intese come realizzazioni convenzionali determinate dalle diverse lingue
naturali in cui ci esprimiamo. A ognuna delle quattro condizioni di soddisfazione
corrisponde dunque una regola (regola del contenuto proposizionale, regola
preparatoria, regola di sincerità, regola essenziale). Tali regole vengono dette da Searle
costitutive in quanto non si applicano a un'attività preesistente e indipendente da esse
(nel qual caso si tratterebbe di regole normative), ma rivestono un ruolo fondamentale
nella costruzione dell'attività stessa. Nonostante l'enfasi posta sulle regole, Searle
riconosce che «la maggior parte dei concetti non tecnici del linguaggio ordinario non
sottostà a regole rigorose». Quest 'accezione relativamente elastica della regola ricorda
quanto sostenuto in proposito dal tardo Wittgenstein (in particolare nelle Ricerche
filosofiche), secondo il quale il linguaggio è si un'attività sottoposta a regole, ma non
è delimitato da esse in ogni suo aspetto.

In questi suoi lavori, Searle è ben consapevole di aver proposto un modello largamente
idealizzato del funzionamento di un atto linguistico e, come Austin, sottolinea il fatto
che non solo è possibile eseguire un atto senza invocare un esplicito indicatore di forza
illocutoria, ma soprattutto che, nella maggior parte dei casi è più frequente una
formulazione implicita. Ciò nonostante, Searle introduce tra i suoi principi
metodologici un principio dell'esprimibilità, secondo il quale tutto ciò che si può voler
dire può, in linea di principio, essere detto. Searle si affretta a precisare come «[i]l
principio di esprimibilità non implica che sia sempre possibile trovare o inventare una
forma di espressione che produca negli ascoltatori tutti gli effetti che si intendono
produrre, ad esempio effetti poetici o letterari, emozioni, credenze e così via.
Dobbiamo distinguere tra quel che il parlante vuol dire e i diversi tipi di effetti che egli
intende produrre sui suoi ascoltatori». Ciò vuol dire che un'espressione "implicita" o
ellittica, oppure un gesto accompagna un'enunciazione o ancora il tono con cui essa
viene proferita possono essere più efficaci, rispetto a una verbalizzazione esplicita, allo
scopo di produrre negli interlocutori determinati effetti, anzitutto emotivi. Ciò
nonostante, Searle sembra ritenere essenziale he le regole che governano gli atti
linguistici acquisiscano la stessa precisione delle regole sintattiche e grammaticali, di
modo che la presenza di un determinato elemento sia sufficiente a determinare quale
atto linguistico stiamo eseguendo. Se l’esigenza di rendere almeno in linea il principio
esplicita la forza illocutoria di un enunciato accomuna Searle e Austin, sembra che
quest’ultimo con il principio di esprimibilità, voglia proiettare all'interno dell'atto
linguistico l'intera situazione in cui esso ha luogo

Note:18. È stato osservato che tale principio ha una certa affinità col concetto di
onniformatività semantica proposta dal linguista danese Louis Hjelmslev

Per quanto riguarda la classificazione dei diversi tipi illocutori e la ripartizione interna
dell'atto illocutorio, la proposta di Searle si discosta sensibilmente dall'elaborazione
austiniana. In particolare, Searle non ritiene metodologicamente "sicuro" fare appello,
come aveva fatto Austin, a dei verbi illocutori. Come scrive in A Taxonomy of
Illocutionary Aets «I verbi illocutori costituiscono una guida buona, ma non certamente
sicura, alle differenze tra atti illocutori». Per quanto riguarda la struttura interna
dell'atto linguistico, Searle parla di "dispositivo (o indicatore) di forza illocutoria" e
recupera, in qualche modo, l'originario simbolismo introdotto da Frege (1965a) che
prevedeva un segno di contenuto (-p esprime il contenuto proposizionale "che p"), un
segno di giudizio (|-p esprime l'asserzione della verità della proposizione "p"),
unitamente ai simboli correntemente utilizzati in logica formale. In luogo dell'atto
locutorio di cui diceva Austin e delle sue, sottocomponenti, fonetica, fàtica e retica,
Searle individua un "atto enunciativo", ossia l'enunciazione di parole e morfemi e un
"atto proposizionale", che consiste nel fare riferimento e nel predicare (ossia nel parlare
di qualcosa o di qualcuno, e nel connettervi un predicato, ad esempio "fuma", oppure
"è seduto"). Per eseguire un atto illocutorio dovrò certamente eseguire un atto
enunciativo e un atto proposizionale. Avrò così un contenuto proposizionale al quale
potrò poi applicare diverse forze illocutorie. L'atto proposizionale, esattamente come
l'atto locutorio austiniano, non può mai occorrere da solo, ma implicherà sempre
l'esecuzione di un atto illocutorio quale fare una promessa, effettuare una richiesta,
impartire un ordine, chiedere scusa. Non sempre un atto linguistico è eseguito
formulando una proposizione. Tuttavia, è plausibile ritenere che Searle, in conformità
con il suo principio dell'esprimibilità, voglia rendere almeno in linea di principio
esplicitabile qualsiasi atto linguistico tramite una "proposizione ben formata".

Quanto ai tipi illocutori, Searle propone la seguente classificazione


1. Rappresentativi o assertivi (asserzioni): impegnano il parlante verità di quanto
asserito
2. Direttivi (richieste, ordini): sono tentativi di indurre l'interlocutore a fare qualcosa.
3. Commissivi (promesse): impegnano il parlante a fare qualcosa nel futuro.
4. Espressivi (ringraziamenti, scuse): esprimono uno stato psicologico
5. Dichiarativi (possibili in virtù di istituzioni socialmente riconosciute) procurano
modificazioni nello status o condizione dell'oggetto cui si riferiscono in virtù della
felice esecuzione della dichiarazione (equivalgono, cioè, ai performativi austiniani).

3.6.2. Atto, azione, attività


Una differenza cruciale tra la prospettiva di Austin e quella di Searle risiede nel fatto
che laddove Austin si interessa del fatto che parlando un linguaggio facciamo qualcosa,
Searle si interessa di ciò che facciamo parlando. Austin identificava gli atti di cui parla
con delle azioni, senza tuttavia mai esplicitare una vera e propria teoria dell'azione. A
proposito degli atti locutivi, illocutivi e perlocutivi egli scriveva infatti: Gli atti di tutti
e tre i nostri generi, dal momento che costituiscono il compiere delle azioni, richiedono
che si tengano in debito conto tutti i mali cui sono esposte tutte le azioni. Dobbiamo
essere sistematicamente preparati a distinguere tra l'atto di fare x, e cioè di riuscire a
fare x e l'atto di tentare di fare x. Searle, invece, si occupa piuttosto di dar conto del
funzionamento dell'attività del linguaggio, ispirandosi, come già accennato, alle
Ricerche filosofiche di Wittgenstein e assume gli atti linguistici come «le unità minime
o di base della comunicazione linguistica. Le nozioni di azione e di attività si
richiamano entrambe a un processo, ma mentre la prima implica l'idea di una sequenza
ordinata orientata verso un risultato (e ciò fa ritenere centrale l'idea della produzione
di un cambiamento), la seconda non ha necessariamente un ordine di svolgimento o un
termine finale. L'atto, in quanto gesto costitutivo di un’attività, può essere assimilato
al saerleano proferimento di un enunciato conformemente a regole, mentre l'atto, in
quanto componente di un'azione che contribuisce al raggiungimento di un risultato,
richiama l'austiniana produzione di un effetto. La «produzione di un mutamento» può
essere riscontrata riguardo a una sola tipologia di atti, ossia i dichiarativi. Tuttavia, in
A Taxonomy of Illocutionary Acts, Searle prospetta alcuni elementi che vanno nella
direzione di una teoria dell'azione linguistica, distinguendo tra atti che adattano la
parola al mondo, come asserzioni o descrizioni e atti che adattano il mondo alla parola,
il cui scopo è la produzione di un fatto adeguato a quanto è stato detto, come le
promesse, in cui colui che promette cercherà di far verificare l'evento futuro enunciato
verbalmente. Per quanto riguarda i dichiarativi, poi, è proprio la felice esecuzione
dell'enunciato a provocare un adattamento tra linguaggio e realtà. Ciò è possibile in
quanto i dichiarativi dipendono, come i performativi austiniani, anche da convenzioni
extralinguistiche. Il rapporto tra linguaggio e quelli che Searle chiama "fatti
istituzionali" (matrimonio, proprietà, denaro ecc.) è rintracciabile nell'evidenza che sia
le istituzioni che le lingue sono basate su regole costitutive. Se ne potrebbe concludere
sia la completa dipendenza dei fatti istituzionali dal linguaggio sia, come Searle sembra
suggerire in Speech Acts, che le lingue siano essenzialmente fatti istituzionali: La
nostra ipotesi che parlare una lingua sia eseguire degli atti secondo regole costitutive
ci coinvolge nell'ipotesi che sia un fatto istituzionale il fatto che un uomo abbia eseguito
un certo atto linguistico, che, ad esempio, abbia fatto una promessa. Questo aspetto
verrà maggiormente chiarito da Searle nella Costruzione della realtà sociale (2006), in
cui trarrà anche le conseguenze ontologiche derivanti dalla distinzione tra "fatti
istituzionali" e "fatti bruti" (ossia quei fatti che costituiscono il mondo fisico).

Un interessante criterio di classificazione degli atti linguistici che ha origine nella teoria
dell'azione e proposto da Maria E. Conte che distingue atti di praxis e atti di poiesis,
richiamandosi alla nota distinzione formulata da Aristotele, secondo il quale è praxis
l'azione che ha uno scopo immanente ed è poiesis l'azione che produce un risultato,
come costruire una casa. Alla base della proposta di Conte vi è una revisione critica
delle varie classificazioni degli atti linguistici, a partire dall’evidenza che nessuno dei
mezzi formali adottati per individuare la forza illocutoria di un atto linguistico è
effettivamente in grado di determinarla univocamente. A questo punto sembra lecito
chiedersi se valga la pena di isolare un livello di forza illocutoria distinto da tutti gli
altri aspetti relativi alla funzione, allo scopo e all' intento di un enunciato.

3.6.3 Searle: dalla filosofia del linguaggio alla filosofia della mente
Nell'articolo A Taxonomy for Illocutionary Acts, Searle inizia a prospettare alcune
modifiche alla sua teoria degli speech acts che si presteranno a essere adottate anche
nella sua esplicazione dell'interdipendenza tra filosofia del linguaggio e filosofia della
mente. Di particolare rilievo le seguenti questioni:
1. la direzione di adattamento, che indica se sia il mondo esterno, ossia la realtà
oggettiva, a doversi adattare alle parole, oppure le parole ad adattarsi al mondo. Nel
caso delle asserzioni sarà l'enunciazione a doversi adattare alla realtà esterna; nel caso
delle promesse o degli ordini, invece, si dovrà agire in modo da produrre nel mondo lo
stato di cose espresso dall'enunciazione della promessa;
2. l'espressione degli stati psicologici in relazione a un contenuto proposizionale: una
persona che promette, garantisce, fa voto, ecc. esprime l'intenzione di fare qualcosa;
una persona che asserisce, spiega, sostiene, afferma qualcosa, esprime una credenza.
Si tratta, in sostanza, di un ampliamento della condizione di sincerità;
3. le relazioni con il resto del discorso, ossia con il contesto circostante, alcune
espressioni servono a mettere in rapporto l'enunciato con il resto del discorso e con il
contesto circostante; ad esempio, "tuttavia", "perciò".

Nel saggio del 1983, intitolato Intentionality, Searle correla atti linguistici e stati
mentali nei seguenti termini: “La capacità degli atti linguistici di rappresentare oggetti
e stati di cose del mondo è un'estensione della più biologicamente fondamentale
capacità della mente (o del cervello) di porre l'organismo con il mondo per mezzo di
stati mentali come credenza o desiderio, e in particolare tramite azione e percezione.”
Sostanzialmente, pur accordando al mentale «precedenza teoretica» sul linguistico,
Searle di fatto estende le proprietà degli atti linguistici agli stati mentali intenzionali,
ossia a quegli stati mentali direzionati verso o relativi a stati di cose o oggetti del
mondo. Secondo una tradizione facente capo al filosofo tedesco Franz Brentano,
possiamo assumere che credenze e desideri siano comuni esempi di stati intenzionali,
dotati, proprio come gli atti linguistici, di un contenuto proposizionale, di un modo
psicologico e di una direzione di adattamento. La differenza nella direzione di
adattamento è fondamentale nella distinzione tra azioni, che producono un mutamento
nello stato di cose esistente, e percezioni, che invece devono adattarsi a esso, esibendo
la stessa struttura di credenze e asserzioni. Ciò che vedo così, come ciò che dico,
presenta altresì un'ampia dipendenza contestuale, di cui Searle renderà conto
introducendo il concetto di "sfondo (background), ossia quell'insieme di
presupposizioni e conoscenze che formano la nostra "immagine del mondo".
Attraverso la nozione di "sfondo", dunque, Searle può rendere conto della dimensione
contestuale, intesa come relazione di un'espressione linguistica con il resto del
discorso, dunque nel senso di co-testo, ma anche della dimensione aspettuale che
determina ogni azione o percezione. In sintesi, attraverso l'introduzione del concetto di
"intenzionalità" (cruciale, del resto, in tutto il dibattito filosofico mentalista), Searle
riesce a effettuare quella connessione tra linguaggio e azione che mancava nella
formulazione originaria della dottrina degli atti linguistici. Attraverso la nozione di
"sfondo", invece, Searle sembra recepire istanze tipiche della tradizione antropologico-
linguistica, pure così radicata nella cultura nordamericana.

Note: 19. Franz Brentano, filosofo e psicologo, maestro di Edmund Husserl

Capitolo 4: Comunicazione, mente e scienza cognitiva: quadro di problemi di


Luca Forgione
4.1: Premessa
Recentemente Cellucci (2008) ha argomentato che la riflessione filosofica, per essere
feconda, deve essere tra le altre cose un'indagine sul mondo che mira in primo luogo
alla conoscenza. In questa indagine la filosofia è contigua alla scienza, entrambe non
devono avere alcuna restrizione nei loro campi di applicazione, entrambe utilizzano
sostanzialmente gli stessi metodi. Inoltre, e in ciò si misurerebbe il maggior valore della
filosofia, questa batte vie ancora inesplorate dando origine, eventualmente, a nuove
scienze. La scienza cognitiva, lo sfondo teorico adottato per affrontare la dimensione
comunicativa, è un approccio interdisciplinare che mette insieme diversi campi di
ricerca per analizzare la mente e i processi cognitivi, ed è nata da antiche intuizioni
filosofiche, sostanzialmente dall'incontro di diverse tradizioni filosofiche con alcuni
sviluppi della logica e dell'informatica. È dunque il prodotto di una riflessione
filosofica feconda. Nel CAP. I sono stati presentati i principali modelli della
comunicazione del Novecento, e sono stati da ultimo toccati alcuni contributi classici
che si situano nel solco degli studi della scienza cognitiva. In questo capitolo si
illustreranno gli elementi che compongono questo specifico approccio, e si cercherà di
isolare alcune questioni di fondo che attualmente animano il dibattito sul rapporto tra
mente, linguaggio e comunicazione.

4.2: Tratti essenziali dell’approccio cognitivista


La scienza cognitiva ha molti antecedenti filosofici e nasce negli anni Cinquanta dalla
convergenza di varie discipline (linguistica, psicologia, filosofia, informatica e
intelligenza artificiale), proponendo un determinato programma di ricerca basato su
un'analogia informatica: la mente è un software che gira nell'hardware/cervello. Questo
approccio rappresenta allo stesso tempo:
a) una rivoluzione metodologica, perché si è delineato un apparato concettuale per
indagare i processi mentali e valutare attraverso modelli descrittivi il loro
funzionamento;
b) una rivoluzione epistemologica, in quanto si sono stabiliti vincoli e condizioni
affinché si possa produrre una conoscenza esplicativa del funzionamento dei processi
mentali che presiedono alle diverse abilità comportamentali;
c) una rivoluzione in parte anche metafisica, perché attraverso alcune tesi si è data una
risposta al modo in cui valutare l'annoso problema del rapporto mente/corpo, ossia la
relazione tra proprietà mentali e materiali (cioè, neuro cerebrali) che presentano di
primo acchito caratteristiche diverse.

Questo cambiamento di prospettiva dello studio del mentale si basa sul presupposto
che i processi cognitivi siano da analizzare come elaborazioni di un calcolatore finito,
naturale o artificiale, ovvero la scienza cognitiva si occupa dello studio dei processi
cognitivi a livello di algoritmo. Da ciò discendono alcune tesi che toccano diversi piani:
1. l’assunzione delle rappresentazioni mentali come necessario veicolo dei processi
cognitivi, i quali sono individuati in base alla funzione che svolgono
nell’economia cognitiva
2. la realizzabilità multipla, di tali processi nel senso che ciò che conta è appunto il
come si realizzi una particolare funzione mentale
3. la possibilità di poter riprodurre un processo cognitivo, cioè la possibilità almeno
teorica di costruire un sistema artificiale che abbia le stesse prestazioni umane.
Ciò comporta una stretta contiguità tra intelligenza artificiale e scienza cognitiva
e implica anche e soprattutto un presupposto filosofico radicale che risale a
Bacone e Galileo: per la scienza cognitiva comprendere un fenomeno significa
saperlo riprodurre.

Secondo il paradigma della scienza cognitiva la mente è dunque considerata un sistema


di elaborazioni e attraverso modelli formali è possibile analizzare il modo in cui compie
le diverse prestazioni cognitive. La memoria, l'apprendimento, il linguaggio, il
ragionamento, la coscienza e ogni altro processo cognitivo sono procedure che operano
su rappresentazioni mentali e possono essere valutate attraverso un'analisi in termini
funzionalistici. Per il funzionalismo filosofico, gli stati mentali vanno identificati con
stati funzionali: l'analogia è tra la mente e la cosiddetta "macchina di Turing", l'ente
matematico ideale concepito dal grande matematico e logico Alan Turing (1912-1954)
alla base della realizzazione dei computer; cioè vanno considerati secondo la loro
funzione all'interno di un sistema che svolge un ruolo intermediario di tipo causale, ad
esempio, tra gli input sensoriali e gli output comportamentali. In questo quadro
un'analisi funzionale riduce il mentale alla stregua di processi di gestione ed
elaborazione d'informazione: la tesi della natura rappresentazionale della cognizione si
coniuga con la cosiddetta tesi della natura computazionale della cognizione, delineando
l'approccio standard della scienza cognitiva, ciò che Thagard chiama CRUM
(Computational-Representational Understanding of Mind). Tutti i processi cognitivi
sono essenzialmente computazioni, ossia calcoli nel senso di elaborazioni che
manipolano, computano, simboli astratti o rappresentazioni sulla base di regole. La
scienza cognitiva ipotizza di fatto che la nozione di computazione possa accorpare
prestazioni cognitive per molti aspetti lontane, come un'addizione aritmetica, un
ragionamento logico o un processo percettivo: queste vanno considerate alla stregua di
elaborazioni che operano su rappresentazioni e il modello computazionale definisce
l'intero amo della cognizione sfruttando il binomio regole/rappresentazioni.

Da questa prospettiva un processo cognitivo è valutato come una computazione che


può essere interamente esplicitata attraverso un insieme di regole molto semplici, ciò
che i matematici e i filosofi della matematica chiamano procedimento effettivo o
algoritmo. Uno dei livelli essenziali individuati da Marr (1982) per analizzare una
computazione è proprio il livello dell'algoritmo: una certa computazione sarà
specificata attraverso un insieme molto semplice di regole, in modo che una volta
individuato il procedimento sarà sempre possibile realizzare quella data funzione.
L'analogia informatica alla base della scienza cognitiva - la cognizione è il software
che gira nell'hardware-cervello - è molto fruttuosa solo se la si prende dal verso giusto,
evidenziando soprattutto il potere esplicativo dell'efficacia causale delle regole,
piuttosto che identificare tout court il cervello con un computer. Ovviamente, se non
fossero disponibili i dati da computare, non ci sarebbe alcuna elaborazione; è essenziale
però che vi sia allo stesso tempo la disponibilità delle giuste istruzioni a indicare cosa
fare in ogni passaggio per compiere una determinata funzione. È in questo senso che
l'elaborazione linguistica di una frase, un processo percettivo o un calcolo aritmetico,
per fare alcuni esempi, sono valutati come procedure computazionali che sulla base di
regole manipolano rappresentazioni mentali per realizzare una certa funzione, come la
comprensione di una frase, il riconoscimento di un oggetto, l'addizione di due numeri.
Con l'impiego di questi strumenti epistemici la scienza cognitiva è autonoma
nell'analisi funzionale dei processi cognitivi, specificando nel livello astratto
dell'algoritmo, che individua una certa funzione, il modo in cui identificare (ed
esplicitare) un determinato processo cognitivo, senza doversi misurare con ciò che
implementa, ovvero realizza fisicamente, la funzione in questione. In questo modo è
sostenuta parte dell'intuizione dualista, ossia è possibile preservare l'intuitiva
considerazione che è la dimensione mentale, cosciente e intenzionale, e in particolar
modo gli stati mentali intenzionali, a dover entrare nella descrizione, spiegazione e
previsione del comportamento, proprio e altrui.

4.3: Stati mentali e mindreading


Gli stati mentali, tipicamente credenze e desideri, presentano la proprietà
dell'intenzionalità. Questo termine risale alla filosofia medievale ed è stato ripreso da
Brentano verso la fine dell'Ottocento per caratterizzare la specificità del mentale, la sua
caratteristica intrinseca di vertere su qualcosa, di avere un contenuto. Non c'è pensiero,
ad esempio un desiderio, che non abbia un oggetto, che non sia il desiderio di qualcosa.
Nel dibattito si è soliti distinguere un'intenzionalità del riferimento da un'intenzionalità
del contenuto: mentre la prima cattura la caratteristica di un pensiero di vertere su un
oggetto, l'intenzionalità del contenuto è semanticamente valutabile. Le lingue storico-
naturali sono fornite di indicatori sintattici che permettono di identificare gli stati
intenzionali attraverso categorie di verbi che reggono frasi completive. Queste
espressioni sono considerate, nei termini di Russell, atteggiamenti proposizionali
perché hanno verbi che esprimono un atteggiamento (credere, desiderare) nei confronti
di un certo contenuto, che per Russell è appunto la proposizione, ossia un'entità astratta
che ha condizioni di verità ed è indipendente dalla mente. Gli atteggiamenti
proposizionali sono gli elementi costitutivi della cosiddetta teoria della "psicologia del
senso comune o popolare" (folk psychology), alla base della spiegazione e della
previsione del comportamento proprio e altrui. Questa rappresenta la base dell'ambito
del mindreading, termine che sta letteralmente per lettura della mente, che ha acquisito
negli ultimi anni un'importanza teorica decisiva nelle ricerche non solo filosofiche:
possedere una teoria della mente significa essere capaci di attribuire atteggiamenti
proposizionali per comprendere i comportamenti degli altri e descriverli in termini
psicologici. In particolare, si tratta di risalire, nel caso della spiegazione, dal
comportamento agli stati mentali che lo hanno causato. o di attribuire stati mentali nel
caso della predizione del mento. Con questo schema è possibile effettuare
generalizzazioni nomologiche, che presentano cioè la caratteristica di leggi, per
stabilire nessi causali tra stati mentali intenzionali e comportamento. La scienza
cognitiva preserva l'autonomia della dimensione psicologico-intenzionale da qualsiasi
riduzione in termini materialistici per spiegare il comportamento: in questo caso si
suppone che il giusto livello esplicativo della sfera mentale sia lo spazio delle cause
del livello funzionale e non quello del livello materiale composto da stati cerebrali,
oggetto di studio da parte delle neuroscienze. Prospettiva, quella funzionalista, che
rinuncia a ricomporre la frattura tra lo spazio delle cause e ciò che negli anni Cinquanta
un noto filosofo americano, Wilfrid Sellars, ha chiamato lo spazio delle ragioni,
semplicemente perché dissolve la dimensione normativa che per altre importanti
tradizioni filosofiche, ad esempio quelle che si rifanno a Kant e Wittgenstein,
rappresenta la cifra antinaturalista del mentale. Dunque, una definizione di stampo
funzionalistico di uno stato mentale intenzionale all'interno di un sistema cognitivo si
soffermerà sull’ordine di relazioni che questo stato intrattiene con gli input sensoriali,
con gli output comportamentali, ed eventualmente con gli altri stati mentali.

Note: 1. La questione è soprattutto epistemologica e si basa in primis sulla necessità di


padroneggiare una lingua, intesa come pratica sociale basata su una dimensione
normativa, per possedere concetti: è dunque una tesi opposta a quella della scienza
cognitiva. E coglie lo statuto di ciò che può essere definito stato di conoscenza
attraverso il gioco di dare e chiedere ragioni per demolire il cosiddetto Mito del dato,
secondo cui esisterebbero contenuti conoscitivi certi e autoevidenti, la cui verità
sarebbe indipendente dalle trame inferenziali e dalle relazioni con altri concetti che
emergono dalle pratiche sociali «caratterizzare qualcosa come un episodio o uno stato
di conoscenza non equivale a fornire una descrizione empirica ma, piuttosto, a
collocarlo nello spazio logico delle ragioni, nello spazio in cui si giustifica e si è in
grado di giustificare quel che si dice. In questo quadro, tutte le prestazioni cognitive
acquistano valore solo all'interno della prassi linguistico-sociale, basata su una
dimensione normativa che si situa in uno spazio diverso da quello fisico delle cause,
oggetto di una descrizione empirica.

4.4: Dal realismo intenzionale al linguaggio del pensiero


Fodor è il principale fautore di questa posizione filosofica nota come realismo
intenzionale, ossia è un convinto sostenitore di una spiegazione che prenda sul serio
l'esistenza e l'efficacia causale degli stati mentali intenzionali. Coniugando la teoria
rappresentazionale della mente (gli atteggiamenti proposizionali sono costituiti da
rappresentazioni) con la teoria computazionale della mente (i processi cognitivi sono
computazioni che operano su rappresentazioni) Fodor fornisce una spiegazione realista
e naturalista, dell'efficacia esplicativa della psicologia del senso comune. Si prendano
gli stati mentali intenzionali, le entità alla base delle spiegazioni della teoria della
psicologia del senso comune: questi hanno proprietà semantiche e proprietà causali.
Queste proprietà sono possedute anche dai simboli: se si scrive su un foglio "il libro è
sul tavolo", questa iscrizione è dotata sia di proprietà causali, essendo un oggetto fisico
(ad esempio, riflette la luce in un certo modo), sia di proprietà semantiche, dato che è
composta da segni la cui combinazione esprime un contenuto che verte su qualcosa ed
è valutabile semanticamente. Fodor sfrutta questa analogia tra simboli e stati mentali
intenzionali e prova a spiegare l'efficacia causale degli stati mentali intenzionali sulla
base delle proprietà dei simboli". E avanza l'ipotesi che l'insieme dei simboli alla base
delle prestazioni del sistema cognitivo centrale costituisca un linguaggio del pensiero
con proprietà sintattiche e semantiche simili, per certi aspetti strutturali, a quelle
possedute dalle parole e dagli enunciati delle lingue verbali, configurandosi come una
sorta di lingua mentale o mentalese. I simboli mentalesi hanno la proprietà della
composizionalità, ossia sono costituenti atomici che si combinano tra loro in modo che
il contenuto semantico di una rappresentazione molecolare sia funzione dei contenuti
semantici dei suoi costituenti atomici. É possibile spiegare in questo modo due
proprietà del pensiero: la produttività e la sistematicità. La produttività si riallaccia a
ciò che Chomsky ha chiamato creatività del linguaggio e indica la capacità di produrre
o comprendere un numero indefinito di frasi, sulla base di un numero finito di
costituenti e regole, in questo modo è possibile comprendere frasi mai udite in
precedenza. La sistematicità, correlata intrinsecamente alla produttività, indica che la
capacità di produrre o comprendere una frase è intrinsecamente legata alla possibilità
di produrne o comprenderne molte altre. Queste tipiche proprietà delle lingue storico-
naturali si basano sulla loro struttura in costituenti e sulla conseguente semantica
combinatoria ed entrambe dipendono, secondo Fodor, dall'ipotesi del linguaggio del
pensiero: «a) C'è una certa proprietà che le capacità linguistiche hanno in virtù del fatto
che i linguaggi naturali hanno una semantica combinatoria: b) anche il pensiero ha
questa proprietà: c) anche il pensiero deve così avere una semantica combinatoria».

Note: 2. Si è detto che i processi cognitivi sono computazioni, ossia calcoli sensibili
alla sola forma dei simboli, esattamente come la logica formale, in particolare la teoria
della dimostrazione, applica le proprie regole, ad esempio il modus ponens, a un
costituito da simboli che possono essere manipolati solo sintatticamente. Un approccio
del genere tiene conto solo delle proprietà formali e non semantiche dei simboli. La
sola manipolazione dei simboli, attraverso l'applicazione di una regola da parte di un
sistema (come la macchina di Turing) che sappia distinguere la forma dei simboli,
permette di riprodurre schemi di argomentazione validi. Quindi, la manipolazione dei
simboli basata sulle regole formali della logica imita la semantica, nel senso che è
possibile derivare inferenze che conservano la verità senza far ricorso alla semantica
dei simboli. Ciò fornisce anche un'idea della natura meccanica di questi procedimenti,
dato che un qualsiasi sistema fisico (naturale o artificiale) in grado di manipolare i
simboli secondo regole sintattico-formali è allo stesso tempo in grado di realizzare
quella particolare funzione.

In altri termini, se il linguaggio è espressione del pensiero e se il linguaggio ha le


proprietà della produttività e della sistematicità, allora anche il pensiero deve essere
produttivo e sistematico: L’insieme degli stati mentali è produttivo: i pensieri che si
intrattengono effettivamente nel corso della vita mentale, ad esempio, costituiscono un
sottoinsieme relativamente non sistematico della basta varietà dei pensieri che si
sarebbero potuti intrattenere, se si fosse data occasione per il loro emergere. Una teoria
degli atteggiamenti deve render chiaro cos’è che rende credenze e desideri classi
aperte. Il realismo intenzionale si coniuga con il realismo rappresentazionale. Gli stati
intenzionali sono relazioni con rappresentanti mentali espresse in strutture simboliche
di natura proposizionale, e il linguaggio del pensiero realizza la base
rappresentazionale attraverso cui la mente compie i processi cognitivi, ossia le
computazioni. La già summenzionata analogia tra mente e computer, o meglio dire tra
mente e software da un lato, e cervello e hardware dall'altro, presenta qui l'apice del
suo potere esplicativo alla base del programma della scienza cognitiva. Allo stesso
tempo la mente, diversamente da un computer o dalla macchina di Turing, non solo
sarebbe un "motore" sintattico che manipola simboli del linguaggio del pensiero sulla
base della sola forma dei simboli. Ma si costituirebbe in un sistema intenzionale i cui
simboli si riferiscono ad aspetti del mondo tramite le connessioni mente- mondo di
ordine causale: un simbolo del linguaggio del pensiero ha la forma giusta per essere
manipolato dalle computazioni mentali e, in più, si riferisce a determinati aspetti del
mondo perché è causato da quei determinati aspetti del mondo. È la cosiddetta "teoria
causale" che nella sua versione più raffinata darebbe una soluzione, per alcuni più
convincente di altre teorie, al problema della semantica delle rappresentazioni mentali
e alla possibilità di naturalizzare l'intenzionalità, ossia di spiegare l'intenzionalità in
termini non intenzionali, sulla base appunto di una relazione di causazione che
appartiene all’ambito naturale. L’autonomia esplicativa della scienza cognitiva
s’integra magistralmente con il progetto di naturalizzazione del mentale. Da un lato, i
processi cognitivi dipendono ovviamente dai processi fisici affinché possano essere
realizzati. Tuttavia, come si è in parte già accennato, la spiegazione di stampo
funzionalista dei processi cognitivi è una formulazione astratta del funzionamento del
mentale e si pone a un livello superiore d’indagine, quello del binomio
regole/rappresentazioni, e, quindi, non può essere ridotta nei termini dei processi
materiali che realizzano i processi cognitivi. Certamente, potrà essere integrata e
migliorata dai risultati delle neuroscienze man mano che la ricerca scientifica delle basi
neuronali individuerà i dispositivi e i meccanismi celebrali coinvolti nelle varie
prestazioni cognitive. In realtà è bene segnalare due scenari nella relazione tra scienza
cognitiva e neuroscienze. Un primo scenario, considera la scienza cognitiva
essenzialmente come una prima formulazione astratta di una spiegazione naturalistica
del mentale che, potrà essere soppiantato in futuro da una spiegazione scientifica delle
neuroscienze sul funzionamento del cervello.

Note: 3. A cavallo tra i due ambiti si situa un campo di ricerca scientifico di


intersezione, la neuropsicologia: nel suo approccio classico sviluppato all’inizio del
Novecento ma alimentato dalle scoperte sul cervello di metà Ottocento, integra studi
clinici e ricerca sperimentale ed è basata sull’assunto che i diversi processi cognitivi
dipendano dal funzionamento di specifiche strutture celebrali. A un’impostazione
riduzionistica della neuropsicologia classica è subentrata una concezione che evidenzia
la dimensione integrata del sistema-cervello.

Un secondo scenario, sviluppato soprattutto da Chomsky e Fodor, tende a magnificare


l'autonomia esplicativa della scienza cognitiva e dei suoi modelli formali. La scienza
cognitiva è un approccio naturalistico al mentale, ma si declina come scienza speciale
attraverso un modello rappresentazionale e computazionale. Ad esempio, secondo
Fodor, dalla folk psychology è possibile isolare una psicologia intenzionale che abbia
lo statuto di scienza speciale, proponendosi come psicologia cognitiva. A loro volta, le
scienze speciali sono fondate su generalizzazioni basate su clausole ceteris paribus:
riprendendo gli schemi delle generalizzazioni della folk psychology, queste valgono a
parità di condizioni, ed è questa clausola a distinguere le generalizzazioni delle scienze
speciali dalle leggi rigorose della fisica, in cui non sussisterebbero eccezioni alla
regola. In questo quadro, la scienza cognitiva s'integra con le scienze di base attraverso
le spiegazioni neuroscientifiche dei meccanismi cerebrali, senza sacrificare le proprie
peculiarità epistemiche e l'apporto conoscitivo al mentale a un livello superiore
d'indagine. Questo perché è rifiutata qualsiasi prospettiva di fisicalismo riduzionista
per problema mente-corpo.

4.5: La spiegazione riduzionista


La riduzione è un termine impiegato nell’ambito della filosofia della scienza e
individua sul piano epistemologico la possibilità di dedurre un insieme di leggi di una
teoria scientifica da un insieme di leggi di un’altra in modo che un fenomeno di alto
livello sia spiegato come un prodotto causato da processi di basso livello. Sul piano
ontologico ciò significa che l'esistenza dell'insieme di fenomeni di alto livello non
comporta l'esistenza di nessuna altra entità tranne quelle previste dal livello riducente.
La nozione di riduzione interteorica in senso epistemologico è stata sviluppata
soprattutto dagli empiristi logici e dal filosofo Ernest Nagel, che la intende come
relazione tra due teorie scientifiche attraverso la possibilità di individuare le cosiddette
leggi-ponte, in modo che le asserzioni della teoria da ridurre possano essere tradotte
completamente nei termini della teoria di base: a questo proposito si usa il termine
derivabilità in modo che la teoria da ridurre risulti una conseguenza deduttiva della
teoria riducente.
Primo punto. Nel dibattito in filosofia della mente una riduzione in senso stretto così
intesa è stata rifiutata da più parti e con essa la possibilità di individuare leggi-ponte
psicofisiche tra il mentale e il fisico (nel senso di correlati neuronali). In altri termini,
la psicologia scientifica e le neuroscienze non potrebbero fornire teorie riducenti, né a
fortiori sarebbe possibile individuare leggi-ponte per derivare generalizzazioni della
psicologia del senso comune. Sono le obiezioni ormai classiche di Davidson (1996) e
Putnam (1987) che hanno proposto rispettivamente gli argomenti del monismo
anomalo e della realizzabilità multipla per sconfessare, in ultima analisi, una piena
riduzione delle proprietà mentali in termini di proprietà di livello neuronale, previa
individuazione di leggi -ponte tra neurologia e psicologia'. Da queste considerazioni
emerge un tipo di relazione meno vincolante tra mentale e fisico, introdotta in primo
luogo da Davidson e già impiegata nell'ambito della teoria dell'etica, nota come
sopravvenienza. Con questa tesi, ripresa dal funzionalismo come teoria del rapporto
mente/corpo, non si sconfessa il fisicalismo o materialismo, ma si preserva il mentale
da una completa riduzione. Il giusto livello esplicativo va individuato nel ruolo
funzionale di uno stato mentale, realizzabile o implementabile da composizioni
materiali diversissime, si parla quindi di fisicalismo antiriduzionista (o materialismo
antiriduzionista).
Secondo punto. Se per i processi cognitivi non si applica una completa riduzione, allora
si adotta una spiegazione riduzionistica che rappresenta il cuore metodologico
dell'approccio della scienza cognitiva, proponendo un certo modello cognitivo, vale a
dire, con le parole di Chalmers, «descrivendo i dettagli dell'organizzazione causale
astratta di un sistema i cui meccanismi sono sufficienti alla realizzazione delle funzioni
pertinenti, senza specificare il sostrato fisiochimico in cui tale organizzazione è
implementata. Affinché vi sia spiegazione riduzionistica è necessario che le proprietà
psicologiche siano suscettibili di analisi in termini funzionali e relazionali, cioè è
necessario che siano caratterizzabili nei termini del loro ruolo causale. Allo stesso
modo, è il livello astratto, il ruolo funzionale a caratterizzare la possibilità di
individuare e descrivere un processo e/o uno stato mentale, e non ciò che lo realizza
fisicamente, dato che possono essere previsti tanti sistemi diversi per organizzazione e
strutturazione che implementano la stessa funzione, e non solo una riduzione.

Note: 5.Così fu smentita la teoria dell’identità di tipo e una completa riduzione del
mentale fisico A questo proposito, la tesi della realizzabilità multipla afferma che a un
certo tipo mentale può corrispondere l'attivazione di tipi o proprietà cerebrali diverse.
Il monismo anomalo di Davidson, cioè l'identità tra stati mentali e fisici, rientra nella
cosiddetta "teoria dell'identità dell'occorrenza" perché ogni evento fisico è identico a
un evento mentale, ma non è possibile appunto individuare leggi-ponte e regolarità tra
identità di tipo: l'anomalia del mentale sta nel suo carattere normativo e olistico che
mal si confà alle descrizioni delle scienze naturali delle proprietà fisiche.
6. La nozione di sopravvenienza individua una relazione tra proprietà fisiche e mentali
caratterizzata da covarianza: una differenza nel mentale deve trovare riscontro in
qualche diversità fisica; da dipendenza, nel senso che gli stati mentali dipendono per
la loro esistenza, ontologicamente, dagli stati fisico-cerebrali. In questo modo, si può
affermare che le proprietà di livello superiore sopravvengono su – sono determinate
completamente da - quelle inferiori, se non è possibile che due situazioni siano
identiche rispetto alle loro proprietà-A ma differenti nelle loro proprietà-B
sopravvenienti. Ma, allo stesso tempo, sussiste un'irriducibilità del mentale, dato che
non è possibile individuare regolarità e leggi psico-fisiche tra proprietà mentali e
fisiche.

Terzo punto. L'epistemologia della spiegazione riduzionistica s'intreccia con la


metafisica della sopravvenienza (un qualsiasi fenomeno naturale è suscettibile di
spiegazione riduzionistica nei termini di qualche proprietà di base quando questo
fenomeno sopravviene su questa proprietà di base) ed è impiegata in modo da
preservare l'autonomia del mentale e le nostre intuizioni del senso comune all'interno
di una cornice materialistica. In altri termini è possibile preservare l'intuizione che è la
dimensione psicologica, ad esempio il desiderio di Mario di mangiare una pizza, a
causare effetti fisico-comportamentali.

4.6: Chomsky e il naturalismo metodologico


Questa cornice metafisica è fondamentale per salvaguardare l'autonomia esplicativa
delle scienze speciali, ad esempio la summenzionata psicologia cognitiva, che propone
uno schema interpretativo sotto forma di atteggiamento intenzionale per la previsione
e spiegazione del comportamento di un agente in base all'attribuzione di contenuti
mentali. In questo quadro, la psicologia cognitiva si occupa di proprietà mentali intese
come proprietà funzionali sopravvenienti a quelle fisiche, che si costituiscono come un
dominio autonomo e irriducibile rispetto alle proprietà neurologiche. Allo stesso
tempo, queste assunzioni metafisiche sono tutt'altro che pacifiche, vi sono numerose
critiche che sfruttano argomenti diversi: se ne segnala solo uno, la questione
dell'esclusione causale affrontata da Kim, che rende problematica proprio l'autonomia
causale degli stati mentali intenzionali su cui si erige gran parte delle riflessioni
nell'attuale dibattito sul mentale". Nonostante le diverse difficoltà, metafisiche ed
epistemologiche, questo è lo sfondo filosofico assunto spesso acriticamente dalle
ricerche della scienza cognitiva per proporre modelli di spiegazione del mentale
ponendosi a un livello astratto di indagine. E questo sfondo è a tutti gli effetti di stampo
naturalista. Il naturalismo considera l'attività teorica della filosofia contigua a quelle
delle scienze naturali, nel senso che l'oggetto di studio che la filosofia si ritaglia nel
proprio percorso di ricerca fa parte dello stesso ambito degli oggetti di ricerca delle
scienze naturali. Soprattutto dalla seconda metà del secolo scorso, la ricerca è stata
segnata da un'accelerazione naturalistica proprio grazie al contributo di Chomsky e alla
convergenza di paradigmi e discipline che hanno dato vita alla scienza cognitiva.
Criticando il dualismo metodologico, «il punto di vista secondo il quale dovremmo
abbandonare i criteri familiari del razionalismo scientifico quando studiamo gli esseri
umani al di sopra del collo», Chomsky abbraccia il naturalismo metodologico,
evidenziando la necessità di procedere nello studio del linguaggio e della mente con
gli stessi canoni delle scienze naturali, dato che la fisica, la chimica e la biologia hanno
ottenuto il progresso conoscitivo più importante in assoluto.

Note: 7. In breve, come è possibile che gli stati mentali siano cause di stati fisici? È il
paradosso della causalità mentale, basato sul problema dell'esclusione causale, secondo
cui non è possibile che le tre seguenti affermazioni siano allo stesso tempo vere: 1. gli
stati mentali sono distinti dagli stati fisici; 2. gli stati mentali sono cause di stati fisici
(oltre che di altri stati mentali); 3. solo gli stati fisici possono causare alcunché. Per
Kim (2000) la metafisica della sopravvenienza, negando la prima tesi (il mentale e il
fisico sono solo due descrizioni diverse di uno stesso evento), non risolve nulla perché
cade nell'epifenomenismo, nell'irrilevanza causale del mentale (solo i realizzatori fisici
hanno efficacia causale) o nella sovradeterminazione causale (proprietà mentali e
fisiche hanno entrambe efficacia causale ma, oltre a moltiplicare le cause, l'efficacia
causale del mentale nega il principio della chiusura causale del dominio fisico): «il
problema dell'esclusione causale consiste nel rispondere a questa domanda: dato che
ogni evento fisico che ha una causa ha una causa fisica, com'è possibile che esista anche
una causa mentale?».
8. Ovviamente, la scienza cognitiva non rappresenta l'unica via al naturalismo in
filosofia del linguaggio e della mente. Chomsky e un altro grande filosofo
contemporaneo Willard Van Orman Quine, costituiscono i due poli antitetici del
naturalismo filosofico-linguistico e mentalista, rispettivamente razionalista ed
empirista per impiegare due comode ma per molti versi anche fuorvianti etichette.

Questa assunzione non implica che le descrizioni e le nomenclature impiegate dalle


scienze speciali, nel quadro fisicalista delle scienze di base e delle neuroscienze.
Nell'ottica di Chomsky è necessaria certamente un'unificazione tra le varie scienze: in
linea di principio, non vi deve essere una differenza metodologica tra scienze della
natura e della mente. Unificazione non significa però riduzione; «Un approccio
naturalistico agli aspetti linguistici e mentali del mondo cerca di costruire teorie
esplicative intelligibili, supponendo che sia "reale" quanto siamo indotti a ipotizzare
nel corso delle nostre ricerche». "Reale" per Chomsky è l'ipotesi del binomio regole-
rappresentazioni su cui si basa l'intero approccio della scienza cognitiva, ipotesi
introdotta con tutto il suo potere esplicativo proprio dal linguista americano per chiarire
la natura della facoltà del linguaggio. Questo binomio si integra con una visione
naturalistica della mente nel senso non riduzionista appena accennato, tenendo insieme
i vari piani di ricerca sotto il segno dell'unificazione del metodo del razionalismo
scientifico, e affermando allo stesso tempo la legittimità di distinti piani d'indagine e
punti di vista epistemici, come quello che considera il linguaggio un dispositivo
computazionale che elabora rappresentazioni mentali sulla base di regole. E questo
approccio rimane legittimo «anche se non si sa abbastanza come una struttura costituita
di cellule possa essere in possesso di proprietà computazionali. Ciò pone un problema
di unificazione, ma di tipo comune.

4.7: La teoria chomskyana del linguaggio e della comunicazione


Chomsky (1969b) si è richiamato più volte alla tradizione filosofica di stampo
razionalista evidenziare alcune caratteristiche della facoltà del linguaggio e per
criticare il comportamentismo in psicologia. La sua ormai celebre critica al paradigma
dominante fino agli anni Cinquanta in psicologia si avvalse di argomenti innatisti per
dimostrare l'insostenibilità dei presupposti empiristi, in base ai quali Watson e Skinner
procedevano nella ricerca psicologica. Per questi due autorevoli esponenti della
psicologia comportamentista la metodologia da adottare per lo studio del mentale
prescindeva dalla postulazione di entità mentali, come invece farà la scienza cognitiva
con le nozioni di rappresentazione e regola. Secondo il dettame comportamentista, la
psicologia, per essere realmente scientifica, deve basarsi sui dati osservabili per
ricavare leggi che connettano classi di stimoli e classi di risposte: la mente può essere
analizzata solo prendendo in considerazione i comportamenti osservabili per produrre
le giuste congetture sulle associazioni tra stimoli e risposte che hanno prodotto quei
comportamenti. Un associazionismo radicale, quindi, che ancor più di quello classico
di Hume considera la mente come una tabula rasa scolpita dall'esperienza. Già con la
recensione di Chomsky del 1959 al libro di Skinner, Comportamento verbale,
solitamente considerata la principale tappa del comportamentismo in psicologia,
l'autore argomentava che l'apprendimento del linguaggio da parte di un bambino non
può basarsi su un meccanismo associazionistico: non si spiegherebbe altrimenti la
capacità del bambino di acquisire con semplicità e rapidità nei primi anni di vita una
competenza linguistica sistematica dall'enorme complessità sintattica e grammaticale,
partendo dai meno complessi e sistematici stimoli linguistici che incontra
nell'ambiente. É il cosiddetto argomento della povertà dello stimolo, che ha
rivoluzionato anche e soprattutto il dibattito in psicologia dello sviluppo: c’è un divario
enorme tra la complessità e sistematicità delle prestazioni cognitive e la semplicità e
discontinuità dei dati ricavabili dall'ambiente; non sarebbe possibile ricavare
induttivamente da questi le regole per padroneggiare capacità sofisticate come quelle
linguistico-grammaticali, è necessario piuttosto postulare la mediazione di conoscenze
innate per maturare le diverse competenze nei rispettivi domini. Anche la caratteristica
della creatività del linguaggio sconfessa un apprendimento sulla base di meccanismi
induttivi. L'uso del linguaggio, anche nella comunicazione più banale, è sempre in una
certa misura originale e non conosce vincoli esterni, nel senso che non si costituisce
come risposta preformata a un determinato stimolo, è completamente libero nella sua
produzione e si avvale di mezzi finiti, cioè di parole, per combinarli ed esprimere
infiniti pensieri. In questa cornice la facoltà del linguaggio è intesa come un sistema
innato di principi e regole di natura mentale che presiede alla produzione e
comprensione linguistica. L'approccio chomskyano al linguaggio è un approccio alla
mente, la linguistica infatti non sarebbe altro che una branca della psicologia che indaga
la facoltà del linguaggio, intesa come organo della mente/cervello: il linguaggio è
considerato un organo del cervello nello stesso senso in cui si parla del sistema
immunitario o del sistema visivo come di organi del corpo, sistemi che sono dunque
l'espressione del patrimonio genetico. Un organo che nell'ottica chomskyana si
specifica come unicum della specie umana, non presentando alcun elemento di
continuità con le altre specie animali. Un organo che contiene un meccanismo di
acquisizione del linguaggio, che prende come input i dati linguistici presenti
nell’ambiente e da come output una lingua rappresentata nella mente grazie alle regole
e ai principi, la cosiddetta grammatica universale che presiede alla costituzione di tutte
le lingue storico-naturali. Un organo, infine, che presenta una precisa finestra
formativa, ossia un periodo critico il cui limite massimo arriva all’incirca all’età della
pubertà. Se al di qua di questa soglia non c’è stata alcuna esposizione sistematica a
stimoli linguistici, diventa impossibile sviluppare una piena competenza linguistica.
Né sarebbe possibile recuperare la competenza con una massiccia esposizione a stimoli
linguistici.

La facoltà del linguaggio presenta uno stato iniziale prodotto dal corredo biologico:
ogni bambino nasce con una predisposizione innata ad acquisire una qualsiasi lingua
grazie a un insieme di regole generali che sono il prodotto dell'espressione del suo
patrimonio genetico. A questo punto l’esperienza e gli stimoli linguistici cui è
sottoposto il bambino danno forma a un processo di crescita interno alla facoltà del
linguaggio: è proprio l’insieme di dati linguistici che il bambino incontrerà nel suo
ambiente a far sì che nell’arco di breve tempo le regole della grammatica universale si
specifichino nelle regole della grammatica della lingua particolare incontrata
nell’ambiente. Lo stato iniziale della facoltà del linguaggio perviene a una lingua-I
(dove I sta a indicare una nozione interna, individuale), ossia un sistema
computazionale in grado di produrre un’infinita classe di espressioni linguistiche con
proprietà fonetiche e semantiche. Secondo la proposta chomskyana della teoria dei
principi e dei parametri, i principi costituiscono la grammatica universale, fissati per
tutti dalla nascita, mentre i parametri sono invece la possibilità predisposte dalla
grammatica universale affinché siano fissate regole specifiche in base alla lingua cui
un singolo soggetto è esposto dalla nascita.
Per Chomsky lo stato iniziale della facoltà del linguaggio va paragonato a una rete fissa
connessa a un pannello di interruttori elettrici a due posizioni; la rete è l’insieme dei
principi del linguaggio e gli interruttori costituiscono le opzioni che devono essere
fissate dall’esperienza. Dunque, l’acquisizione del linguaggio è equiparata in tutto e
per tutto allo sviluppo naturale di un qualsiasi organo biologico: il linguaggio è
qualcosa che accade al bambino in modo spontaneo, non qualcosa che questi apprende,
esattamente come succede che gli crescano le braccia e non le ali. E dal punto di vista
del naturalismo chomskyano esiste una sola lingua, nel senso che le differenze
fonologiche, grammaticali lessicali tra le molteplici lingue, che per molta tradizione
filosofico-linguistica costituiscono la sponda privilegiata da cui analizzare i vari ari
della cognizione e della natura umana, sono valutate solo come differenze superficiali,
un'unica variazione sul tema della grammatica universale. Per questo motivo, parla di
istinto del linguaggio: «il linguaggio non è un artefatto culturale che impariamo così
come impariamo a leggere l'ora o a capire come funziona il governo federale. Il
linguaggio è invece un pezzo a sé del corredo biologico del nostro cervello. Il
linguaggio non è un'invenzione culturale più di quanto sia la posizione eretta. La tesi
innatista si accompagna alla cosiddetta ipotesi modularista, riguardante l'architettura
dei dispositivi mentali che presiedono alle funzioni cognitive: ad esempio, si è detto
che per spiegare l'apprendimento del linguaggio è necessario presupporre che il
bambino abbia già una facoltà del linguaggio dalla nascita, ossia un modulo innato di
conoscenze circa le regole che determinano a priori i sistemi grammaticali possibili
delle diverse lingue, in particolare la sintassi. Il concetto di modulo è una nozione
centrale nella scienza cognitiva e ha subito notevoli sviluppi anche nel recente dibattito.
Con Chomsky si ha la prima formulazione della nozione di modulo in senso
epistemico, inteso come un sistema di conoscenze innate per sviluppare una
determinata capacità cognitiva. Nel caso del linguaggio il modulo epistemico alla base
dell’apprendimento delle diverse lingue è proprio la grammatica universale. A questa
accezione di modulo se ne affianca un’altra, quella di modulo computazionale, inteso
come dispositivo specializzato nell’elaborazione di specifiche informazioni. Secondo
l’originaria proposta di Fodor, cui si deve lo sviluppo di questa nozione, la modularità
è una caratteristica che appartiene ai soli sistemi periferici della mente. Secondo la tesi
della mente massivamente modulare, anche la cognizione centrale si costituirebbe in
un macrosistema modulare composto da diversi moduli concettuali, ad esempio quello
relativo al dominio della psicologia ingenua che produce credenze sugli stati mentali
altrui, quello relativo alla fisica ingenua che produce giudizi sulle causazioni fisiche e
così via. Sta di fatto che all’interno della riflessione filosofica e scientifica sul mentale
si afferma con Chomsky una tesi innatista da cui non si è più tornati indietro, se non
per valutare il grado di innatezza dei vari dispositivi mentali. L’approccio di Chomsky
si è sviluppato nell’arco di più di sessant’anni attraverso varie tappe: dalle nozioni di
trasformazione, struttura profonda e superficiale alla teoria dei principi e dei parametri,
per giungere nell’ultimo periodo a un approccio di ricerca denominato programma
minimalista che impiega il minor numero di livelli di rappresentazione. In questa
cornice teorica, i contribuiti di Hauser, Chomsky e Fitch, hanno innescato un proficuo
dibattito tra gli studiosi delle scienze cognitive del linguaggio, soprattutto per ciò che
concerne la genesi del linguaggio e della comunicazione da un punto di vista
evoluzionistico. Nel saggio del 2002 si distingue una facoltà del linguaggio in senso
stretto, incastonata nell’interno della facoltà del linguaggio in senso ampio.

La FLB comprenderebbe, oltre alla FNL, il sistema senso-motorio in grado di elaborare


(produrre e ricevere) i segnali fonico acustici, del linguaggio; e il sistema concettuale
intenzionale per elaborare significati cui i segnali si riferiscono. Nella sua accezione
ampia il linguaggio si articolerebbe in due livelli di interfaccia, uno relativo al suono e
l’altro al significato: ogni espressione linguistica contiene una rappresentazione
fonetica che ha proprietà elaborabili dai moduli periferici del sistema senso-motorio e
rinvia a una rappresentazione semantica che si interfaccia con il sistema concettuale.
La FNL si identifica invece col solo meccanismo computazionale della ricorsività che
permette la produzione di enunciati sulla base della combinabilità dei suoi costituenti.
La sintassi sarebbe la dotazione unicamente umana che renderebbe la nostra capacità
simbolica enormemente più potente rispetto ai sistemi comunicativi delle altre specie
animali. Questa dotazione si avvale di ciò che Chomsky chiama merge, ossia la più
semplice operazione combinatoria di natura computazionale, che comprende come
input due oggetti e ne costruisce uno nuovo: grazie a questa capacità, necessaria non
solo al linguaggio ma anche al sistema dei numeri naturali, si ottiene un sistema
illimitato di espressioni gerarchicamente strutturate. Dunque, in un senso, quello
ampio, la facoltà del linguaggio si colloca in una più vasta architettura interagendo con
altri dispositivi e strutture concettuali presenti se pur in forme rudimentali anche in
altre specie animali. In un altro senso, quello stretto, è essenzialmente un meccanismo
ricorsivo, ciò che rende unica la capacità di simbolizzare e con essa la natura umana:
FLB contiene un’ampia varietà di meccanismi cognitivi e percettivi condivisi con altre
specie, ma solo meccanismi che stanno alla base della FNL, sono unicamente umani.
Questa ipotesi suggerisce che tutti i componenti periferici della FLB siano condivisi
con altri animali, più o meno nella stessa forma in cui si ritrovano negli umani, con
differenze di quantità piuttosto che di qualità. Ciò che è unico nella nostra specie è
proprio specifico della FLN, e include le sue operazioni interne così come le sue
interfacce con gli altri sistemi della FLB presenti nell’organismo.

4.8: linguaggio ed evoluzione: diversi approcci


Il linguaggio è di fatto lo strumento principale usato dalla specie umana per
comunicare. Ciò non implica che la sua origine ed evoluzione siano spiegabili
necessariamente al fine di comunicare. Questo tema divide il dibattito da molti punti
di vista: si tratta, in primo luogo, di fornire una spiegazione dell’origine del linguaggio
che riesce a coniugare la complessità dei sistemi linguistici con il quadro
evoluzionistico di Darwin, chiarendo anche e soprattutto le modalità attraverso cui si è
eventualmente adattato sotto la pressione del meccanismo della selezione naturale. È
possibile individuare almeno tre posizioni teoriche all’interno dell’attuale dibattito su
linguaggio ed evoluzione. L’approccio chomskyano afferma che il linguaggio è una
facoltà che non si è evoluta per la funzione comunicativa, né sulla base del meccanismo
della selezione naturale. Un secondo approccio, che ha come protagonisti, tra gli altri,
Pinker, Blum, Sperber, si colloca sempre nell’alveo teorico della scienza cognitiva ma,
diversamente da Chomsky, afferma una tesi adattazionista secondo cui il linguaggio è
una facoltà che si è adatta sotto il meccanismo della selezione naturale proprio per il
fine adattivo della comunicazione. Infine, una terza posizione, cui si può solo
accennare, è neoculturalista, e si colloca al di fuori della cornice strettamente
cognitivista: non solo nega la tesi che il linguaggio si sia evoluto per la comunicazione,
ma anche che si sia evoluto. Il linguaggio è piuttosto la manifestazione di altre capacità
cognitive, una capacità simbolica per Deacon, o un meccanismo imitativo e di
condivisione di intenzioni per Tomasello, che rigetta la prospettiva innatista della
grammatica universale. Dunque, non sarebbe un adattamento biologico, ossia un tratto
la cui base genetica è stata modellata dalla selezione naturale, piuttosto altre abilità
cognitive sono un adattamento e il linguaggio non sarebbe che una manifestazione di
queste abilità. La proposta di Chomsky si oppone a una certa spiegazione
evoluzionistica del linguaggio attraverso due mosse: in primis la facoltà del linguaggio
non si sarebbe evoluta per la comunicazione; In secondo luogo, non si sarebbe evoluta
sulla base della pressione della selezione naturale.

Innanzitutto, Chomsky è un convinto sostenitore della cosiddetta “tesi discontinuista”,


resa celebre su basi metafisiche da Cartesio, che afferma una cesura netta tra la
comunicazione animale e la capacità simbolica umana. Il linguaggio si basa su un
principio interamente differente da qualsiasi altro sistema di comunicazione animale.
È abbastanza verosimile che i gesti umani si siano evoluti dai sistemi di comunicazione
animale, ma non il linguaggio umano. Esso si basa su principi totalmente differenti.
L’approccio di Chomsky è pienamente naturalista, il linguaggio è un oggetto naturale
e come tale va analizzato, dunque il suo discontinuismo è molto diverso da quello
metafisico cartesiano. Il punto è come conciliarlo all’interno della teoria
evoluzionistica. La risposta è nel rifiuto della selezione naturale. Il linguaggio non
sarebbe tecnicamente un adattamento, ossia si sarebbe evoluto sulla base di
meccanismi diversi dalla selezione naturale, il cui nucleo esplicativo consiste in piccole
modifiche e cambiamenti casuali, dunque in termini gradualisti. In pratica, la
complessità delle regole sintattico-ricorsive del dispositivo computazionale della FNL,
cuore della facoltà simbolica umana, non ammetterebbe gradazioni stabilendo un
divario qualitativo fra linguaggio umano e comunicazione animale che non può essere
colmato con il ricorso al meccanismo gradualista della selezione naturale. L’argomento
evidenziato più volte da Chomsky nel corso degli anni fa affidamento alle critiche anti-
darwiniane coeve e anche alle nostre intuizioni. Anche se negli ultimi due decenni la
prospettiva di Chomsky si è sensibilmente modificata per alcuni aspetti, la concezione
autonomista e discontinuista del linguaggio è comunque preservata: la parte centrale
della facoltà del linguaggio si identifica con la competenza sintattico-grammaticale, la
quale è a sua volta indipendente nel suo funzionamento da altre capacità cognitive, e
rende possibile in seconda battuta l’espressione e quindi la comunicazione dei pensieri.
Una caratteristica che rappresenta la cifra della natura umana e non ammette gradi di
complessità dato che una creatura è umana e non lo è. Dunque, tra grammatica
universale ed evoluzione del linguaggio per selezione naturale, Chomsky sceglie la
prima. E per mantenere il suo approccio teorico nel quadro del naturalismo
evoluzionistico, si affida alle proposte del grande teorico dell’evoluzionismo Stephen
Jay Gould, secondo cui il meccanismo gradualista della selezione naturale è solo uno
dei dispositivi dell’evoluzione.

Questo punto rimanda alla disputa che vede contrapposti gli ultradarwinisti, che
affermano la priorità evoluzionistica dell’adattamento basato sulla selezione naturale,
ai naturalisti, tra cui c’è appunto Gould, che ridimensionano il ruolo preminente
attribuito all’adattamento e alla selezione naturale, affiancandogli la nozione di
exaptation, in questo quadro, adattamento ed exattamento rappresenterebbero i due
principali motori dell’evoluzione. La nozione introdotta da Gould di exaptation rompe
la stretta correlazione stabilita tra gli ultradarwinisti, tra struttura e funzioni all’interno
della loro concezione evoluzionistica. L’exaptation opera per cooptazione funzionale,
una struttura selezionata per certe finalità adattive è cooptata per un'altra funzione: ad
esempio, le piume degli uccelli sono selezionate per la funzione adattiva di
termoregolazione (adattamento), poi cooptate per il volo (exaptation) e,
successivamente, hanno subito degli adattamenti secondari per essere più funzionali al
volo. Anche recentemente Chomsky ha ribadito una tesi exattamentista del linguaggio
negando che esso sia una forma adattiva per la funzione comunicativa basata sulla
selezione naturale. Ma l’evoluzione non è solo selezione. In particolare, la FLN sarebbe
una forma di exattamento, “consideriamo la possibilità che certi specifici aspetti della
facoltà del linguaggio siano “spandlers”- sottoprodotti di vincoli preesistenti, piuttosto
che prodotti finiti di una storia della selezione naturale” il linguaggio umano è troppo
complesso, la FLN non sarebbe evoluzionisticamente spiegabile ne i termini di una
graduale estensione di un preesistente sistema comunicativo più rudimentale, piuttosto
sarebbe un effetto secondario, un abilità molto potente acquisita grazie alla comparsa
di un meccanismo destinato essenzialmente ad altri scopi. Questo meccanismo è che
ciò che Chomsky chiama Merge, che sarebbe comparso nella storia evolutiva
dell’uomo grazie a un ricablaggio del cervello, permettendo un’illimitata capacità
computazionale di produrre strutture mentali gerarchicamente strutturate. Da qui si
sarebbero evoluti i dispositivi sintattico-ricorsivi, non quindi come adattamento alla
comunicazione ma per uso interno, per sé stessi. Con i termini di Hauser: il linguaggio
è un sistema computazionale interno alla mente finalizzato per il pensiero e spesso
esternalizzato nella comunicazione. Ossi, il linguaggio si è evoluto per il pensiero
interno e per la pianificazione e solo dopo è stato cooptato per la comunicazione. La
FNL sarebbe così un modulo prodotto per collegare diversi moduli mentali, nei termini
chomskyani fornirebbe un’ottima soluzione al problema di collegare il modulo senso-
motorio al sistema concettuale-intenzionale (Hauser usa il termine evolingo per
indicare lo studio dell’evoluzione del linguaggio nella sua dimensione ricorsiva). In
questo quadro, il linguaggio non è in senso stretto un sistema di comunicazione: il
linguaggio non va inteso nei termini di un sistema di comunicazione. È un sistema di
espressione del pensiero, qualcosa di completamente diverso. Naturalmente esso può
essere usato per la comunicazione, come qualsiasi altra cosa fatta dalle persone. Ma in
qualsiasi senso utile del termine, la comunicazione non è la funzione del linguaggio, e
può perfino non avere alcuna importanza per comprendere le funzioni e la natura del
linguaggio.

Note: 10. Hauser piuttosto che concentrarsi solo sulla comunicazione animale,
l’approccio si rivolge all’analisi comparativa di alcune capacità cognitive, come i
sistemi di quantificazione, per individuare contiguità e differenze di natura
computazionale tra specie umana e animale che hanno una ricaduta nelle rispettive
capacità simboliche.

4.9: Argomenti per la tesi della continuità


Prima di esaminare la controproposta alle tesi chomskyane da parte di alcuni
protagonisti del dibattito cognitivista, tra cui Pinker e Sperber, è necessario accennare
al contributo teorico di Bickerton (1990, 1995) che cerca di coniugare alcuni aspetti
della prospettiva di Chomsky con alcuni elementi dell'impianto darwiniano per
risolvere il cosiddetto "paradosso della continuità, ossia la contrapposizione tra la
continuità evoluzionistica delle diverse specie e la discontinuità dei sistemi
comunicatavi umani e animali. In effetti, per l'autore il linguaggio umano non si
sarebbe evoluto dai sistemi comunicativi animali, troppo grande e il divario prodotto
dalla complessità della sintassi: se si considera però il linguaggio come un dispositivo
interno di rappresentazione mentale e non come un sistema di comunicazione, è
possibile superare il paradosso della continuità ipotizzando una sorta di continuismo
concettuale e rappresentazionale tra la cognizione animale e quella umana. In questo
quadro, l'ipotesi bickertoniana del protolinguaggio, secondo cui già l'Homo erectus
avrebbe usato un semplice privo di grammatica, poggia proprio su questa continuità di
natura concettuale. Successivamente, grazie a una singola mutazione che avrebbe
permesso una rapida riorganizzazione del cervello e delle basi anatomiche del tratto
vocale, sarebbe apparso il linguaggio vero e proprio. Recentemente, Bickerton è entrato
in aperta polemica con Chomsky e Hauser, ribadendo la sua posizione: la comparsa del
linguaggio come dispositivo mentale comportò certamente un cambiamento radicale
nell'articolazione del pensiero e nella formazione delle rappresentazioni mentali, ma
l'ipotesi che il precursore del protolinguaggio sia prelinguistico e di natura strettamente
concettuale ribalta i termini della proposta chomskyana: «Chomsky crede che il
pensiero umano sia venuto prima e abbia reso possibile linguaggio. lo credo che il
linguaggio sia venuto per primo e abbia reso possibile il pensiero umano», Pinker e
Bloom (2010) adottano una strategia completamente o versa. Non solo negano
l'incompatibilità tra un sistema complesso come il linguaggio e il gradualismo della
selezione naturale, ma sostengono che per spiegare la complessità del linguaggio
bisogna ricorrere proprio al quadro evoluzionista fornito dai meccanismi della
selezione. E per far questo è necessario innanzitutto rigettare la concezione secondo
cui la grammatica, al pari di altre strutture complesse come l'occhio o le ali, sia un
sistema che non ammette gradi di complessità e funzioni solo nella sua totalità. Come
si è visto, questa tesi è impiegata da Chomsky per sostenere una differenza qualitativa
tra natura umana e animale, preservando l'intuizione discontinuista cartesiana al netto
del suo dualismo metafisico. Pinker e Bloom ne conte- stano la base argomentativa:
L'idea per cui la grammatica del linguaggio naturale abbia una funzione soltanto se
considerata nella sua totalità è sorprendentemente comune. Le lingue di contatto,
l'inglese di base, la lingua dei bambini, degli immigranti, dei turisti, degli afasici, i
telegrammi ei titoli dei giornali evidenziano l'esistenza di un’ampia gamma di sistemi
di comunicazione affidabili che variano in efficienza e in potere espressivo. Questo è
esattamente quanto richiesto dalla teoria della selezione naturale.

A sua volta, Bloom coniuga selezione naturale, complessità del linguaggio e funzione
comunicativa, sostenendo che se la selezione naturale è l'unica spiegazione per la
complessità adattiva, e il linguaggio ha come fine adattivo la comunicazione, allora il
linguaggio si è evoluto per selezione naturale. Sulla stessa linea Pinker e Jackendoff
considerano il linguaggio come un adattamento evolutivo plasmato dalla selezione
naturale, quindi gradualmente, e il fine adattivo è proprio la comunicazione: [L]a
finalità (design) del linguaggio - la messa in corrispondenza di significato e suono - è
esattamente ciò che ci aspettiamo in un sistema evolutosi per la comunicazione di
proposizioni. Non possiamo trasmettere ricette da cucina, tecniche di caccia,
pettegolezzi o promesse reciproche per mezzo di una certa "maniera di camminare, o
modo di vestirsi o pettinarsi", perché queste forme di comportamento mancano di
dispositivi grammaticali che consentano alle proposizioni di essere codificate in modo
accessibile nei dettagli del comportamento. Sebbene Chomsky neghi il truismo che il
linguaggio "vada visto come un sistema per la comunicazione", egli non offre alcuna
ragione cogente per mettere in dubbio ciò, né spiega come dovrebbe essere fatto un
sistema di comunicazione per risultare più "fruibile" o meno "disfunzionale delle
lingue umane. Per questi autori l'originaria funzione del linguaggio coincide con la sua
funzione attuale, quella comunicativa. Il punto è stato articolate anche da Origgi e
Sperber (2000) che allargano e in un certo senso complicano la concezione gradualista:
la facoltà del linguaggio è chomskyanamente la precondizione per l'acquisizione delle
lingue, ma a loro avviso, e paradossalmente, una facoltà di linguaggio è adattiva solo
in un ambiente in cui già si parlano lingue, e nel quale si trovano quindi inputs per la
loro acquisizione. Pertanto, sembrerebbe che «la facoltà del linguaggio e una lingua
parlata siano l'una precondizione per l'altra». Sta di fatto che Origgi e Sperber,
contrariamente a Chomsky e Bickerton (1995), assegnano un valore biologicamente
adattivo al linguaggio perché assegnano un valore biologicamente adattivo alla
comunicazione; Che cosa rende la comunicazione di per sé adattiva? La comunicazione
ha una molteplicità di effetti. Mette gli individui in grado di beneficiare delle percezioni
e inferenze altrui, e accresce le loro conoscenze ben al di là di quel che potrebbero
conseguire da soli. Permette forme di pianificazione e azione coordinate. Può essere
usata per manipolare, ingannare, mostrare ingegno, sedurre, mantenere le relazioni
sociali, tutte cose che hanno conseguenze in termini di fitness.

4.10Quale ruolo per la comunicazione in un approccio cognitivista?


Al di là se da un punto di vista evolutivo il linguaggio sia concepito come un
adattamento alla comunicazione o come un dispositivo sviluppato per altre funzioni
cognitive, gran parte del dibattito cognitivista odierno considera il linguaggio
sostanzialmente nella sua funzione comunicativa. L’argomento standard procede più o
meno così, in tre mosse: la mente è considerata un sistema di rappresentazioni
manipolate da diversi dispositivi mentali, le cui funzioni individuano i processi
cognitivi sulla base di determinate regole; la facoltà del linguaggio si caratterizza
soprattutto nella sua funzione di collegare il suono al pensiero, dunque, i processi
comunicativi rappresentano semplicemente il risultato finale della funzione essenziale
del linguaggio, quella di esprimere i pensieri prodotti dalla mente. Questa è la tesi
classica della scienza cognitiva: nel rapporto tra linguaggio e pensiero, il linguaggio
deve essere inteso solo come strumento per esprimere pensieri.

A questo proposito, si può delineare uno spettro di tesi. A un estremo, c'è la tesi che
considera il linguaggio, appunto, come lo strumento di espressione di pensieri già
formati: il linguaggio, à la Fodor, è un dispositivo di input e output che si interfaccia
coi processi cognitivi centrali. All'altro estremo, c'è la tesi - cara a una certa prospettiva
filosofica (Humboldt), antropologica (Whorf). psicologica (Vygotskij) e linguistica
(Saussure) - che considera il linguaggio come il dispositivo essenziale per la
formazione di alcuni o addirittura di tutti i pensieri: come a dire, senza linguaggio
niente pensiero. Questa tesi è anche articolata in termini di dipendenza concettuale del
pensiero dal linguaggio da alcuni esponenti della filosofia analitica: Sellars, come si è
detto, e tra gli altri, Davidson, Dummett, McDowell. La tesi della scienza cognitiva
classica può essere articolata secondo diverse varianti. Sta di fatto che nessun autore
hai mai affermato una versione radicale della funzione comunicativa del linguaggio,
nessun autore ha affermato cioè la totale indipendenza del pensiero dal linguaggio: è
chiaro infatti che per la formazione di alcuni concetti entra in gioco soprattutto il
linguaggio. Il punto in questione è che qualunque sia la variante della tesi che considera
il linguaggio come lo strumento espressivo/comunicativo del pensiero, per alcuni
importanti sviluppi del dibattito il linguaggio da solo non basta per esplicitare
l'effettivo funzionamento dei processi comunicativi. Il quadro autonomista di
Chomsky, che rappresenta l'altra faccia del suo antievoluzionismo, restituisce il
linguaggio come un modulo computazionale di codifica e decodifica attraverso le
complesse interfacce cognitive che collegano (e trasformano) gli eventi del suono in
eventi mentali: anche se questi passaggi sono alquanto complessi e asimmetrici, da sola
questa concezione non può rendere conto dei reali processi comunicativi. Questi non
sono affatto così lineari come sostengono Fodor e Jackendoff, e Chomsky". Affidarsi
ai soli meccanismi di codifica/decodifica significa tralasciare aspetti fondamentali dei
processi comunicativi, come il contesto e l'intenzione del parlante, per fare due esempi
centrali. L'aspetto pragmatico della comunicazione e la dimensione interpretativa,
elementi consustanziali alla comunicazione umana, mostrano che sono necessari
processi mentali, "sforzi cognitivi" di tipo non linguistico, per dirla con Sperber e
Wilson, in grado di guidare il mittente e il ricevente nella condivisione dello scambio
comunicativo anche e soprattutto linguistico, attraverso la capacità di selezionare
opportunamente le pertinenze nell'ambiente spaziale e sociale, ossia le informazioni
adeguate in certe situazioni, al fine di produrre le giuste ipotesi sull'intenzione
comunicativa del mittente. Se da un punto di vista evolutivo il linguaggio è per Sperber
un adattamento biologico dovuto all'intensificazione degli scambi comunicativi
naturali, i processi comunicativi di tipo verbale non possono dipendere, né possono
essere spiegati, solo dal meccanismo di codifica e decodifica linguistica. Contestando
la concezione lineare dei processi comunicativi, Sperber e diversi protagonisti del
dibattito odierno avvalorano la tesi secondo cui alcuni dei dispositivi mentali necessari
ai processi comunicativi siano soprattutto inferenziali, tesi maturata principalmente
sulla base di alcune intuizioni filosofiche e di diverse evidenze empiriche prodotte dalle
ricerche della psicologia dello sviluppo.

Note: 11. Recentemente, in un passaggio in cui criticava le concezioni filosofico-


linguistiche referenzialiste per ribadire il suo approccio cognitivista, Chomsky ha
offerto un'apertura a una visione non lineare dei processi comunicativi: «La
comunicazione non è una questione di produrre qualche entità esterna alla mente che
l'ascoltatore coglie nel mondo, nello stesso modo in cui farebbe un fisico. Anzi, la
comunicazione è una questione di più o meno, in cui il parlante produce eventi esterni
e gli ascoltatori tentano di accoppiarli alle loro risorse interne come meglio possono.
A questo proposito parole e concetti, anche il più semplice di loro, sembrano essere
simili. La comunicazione si basa su capacità cognitive condivise, e riesce nella misura
in cui costrutti mentali condivisi, sfondo, riferimenti, presupposizioni ecc. fanno sì che
le prospettive comuni siano (più o meno) raggiunte».
4.11 Da Grice alla teoria della pertinenza
Secondo la lezione del grande filosofo del linguaggio Paul Grice, è necessario
distinguere, da una parte, una competenza semantico-linguistica per assegnare un
significato a un enunciato (sentence's meaning), ad esempio "che bella giornata", e
dall'altra, una dimensione in senso lato psicologica. In base a questa, regolata
idealmente dal principio di cooperazione declinato secondo alcune massime
conversazionali cui bisogna attenersi per sostenere una conversazione, la
comprensione di un proferimento linguistico da parte di un destinatario utilizzerebbe
inferenze non dimostrative (le cosiddette implicature) che colgono informazioni
linguistiche (il sentence's meaning) e informazioni non linguistiche reperibili nel
contesto, in modo da attribuire al mittente una certa intenzione comunicativa, il
significato inteso del locutore (speaker's meaning), ovvero ciò che il mittente ha inteso
dire utilizzando quel proferimento. Lo speaker's meaning può non essere interamente
"tradotto" dal significato della frase, in alcuni casi questo contraddice quello. È il caso
dell’ironia. Questo esempio, insieme ai molteplici usi del linguaggio figurato e alle
violazioni delle massime, invita a supporre che lo scambio comunicativo sia
essenzialmente una produzione di ipotesi tramite inferenze non dimostrative, che
sfruttano tutte le informazioni possibili nel contesto, linguistiche e non linguistiche.
Partendo dal proferimento linguistico e dal contesto, fonte a sua volta di una
molteplicità di informazioni condivisibili che costituiscono indefiniti ambienti
cognitivi per gli attori che partecipano allo scambio comunicativo, relativamente agli
scopi in gioco queste informazioni possono diventare premesse per attribuire la giusta
ipotesi interpretativa al significato del locutore: tra ciò che il parlante ha detto ("che
bella giornata") in un certo contesto (nel mezzo di una tempesta di neve) e ciò che il
parlante ha comunicato ("che brutta giornata"), c'è uno iato colmabile solo da una
mente di tipo inferenziale, che seleziona le informazioni adatte, pertinenti alla
situazione comunicativa. Da un punto di vista empirico l'intuizione filosofica di Grice
è stata feconda. Già si è parlato dell'ambito del mindreading: il dibattito nacque con la
pubblicazione nel 1978 di un saggio di Premack e Wood-ruff in cui si avanzava l'ipotesi
che anche i primati superiori fossero in grado di attribuire determinati stati mentali ai
propri simili e avessero quindi una teoria della mente. Con theory of mind ci si riferisce
all'ambito della psicologia ingenua impiegata per spiegare e prevedere il
comportamento altrui sulla base dell'attribuzione di stati mentali. Già Dennett
evidenziava che il solo test in grado di verificare la presenza di una teoria della mente
in una qualsiasi creatura passa necessariamente attraverso la possibilità di attribuire
una falsa credenza. In diversi campi molti studiosi ipotizzano un meccanismo mentale
che giunge alla piena maturazione verso i quattro anni di età, il TOMM (da Theory of
Mind Mechanism), un modulo mentale dominio-specifico in grado di mentalizzare il
comportamento altrui, cioè di produrre metarappresentazioni. Ora, indipendentemente
dalle diverse ipotesi e caratteristiche circa il funzionamento del mindreading che di
volta in volta sono emerse dal dibattito , il lettore della mente è in grado di elaborare
informazioni specifiche nel dominio della psicologia ingenua. Se si abbraccia l'ipotesi
modularista, partendo da un'azione di un soggetto. dal punto di vista dei processi
comunicativi, il meccanismo metarappresentazionale è essenziale per colmare lo iato
tra ciò che il parlante ha detto e ciò che il parlante ha comunicato. Partendo dalla
prospettiva griceana e isolando la massima della relazione (sii pertinente), Sperber,
Wilson (1993) hanno elaborato la ormai famosa teoria della pertinenza, una teoria della
cognizione e della comunicazione che sfrutta i processi inferenziali per esplicitare il
modo in cui la mente sceglie le informazioni adeguate al raggiungimento di certi scopi,
sulla base del rapporto tra i costi dello sforzo cognitivo impiegato per il trattamento
dell'informazione e i benefici prodotti dagli effetti cognitivi positivi che possono
emergere: secondo il principio cognitivo di pertinenza, i processi cognitivi tendono alla
massimizzazione della pertinenza. In questo quadro, la pertinenza è una proprietà
applicabile a qualsiasi stimolo esterno o rappresentazione interna che produce un
effetto cognitivo positivo. Nella versione più recente della teoria, gli autori hanno reso
cognitivamente plausibili le intuizioni filosofiche di Grice attraverso l’ipotesi di una
mente massivamente modulare, al cui interno s’inserisce il modulo del lettore della
mente. Individuano così nella capacità metarappresentazionale lo strumento essenziale
per i processi comunicativi.

4.12: Il modello ostensivo-inferenziale di Sperber e Wilson


La comunicazione è un processo ostensivo-inferenziale e si realizza attraverso due
livelli di intenzioni. C'è un'intenzione informativa, ossia an livello di informazione di
base veicolato dal mittente attraverso, ad esempio, un proferimento linguistico affinché
possa informare il destinatario di uno stato di cose. C'è poi l'intenzione comunicativa,
un secondo livello di informazione, che riguarda le informazioni di primo livello e
l'intenzione del mittente di renderle manifeste al destinatario. Ossia, il mittente rende
manifesta a un destinatario la propria intenzione di rendergli manifesta
un'informazione di primo livello: «un vero comunicatore vuole che il riconoscimento
delle sue intenzioni sia almeno una delle ragioni che spingono il destinatario a
soddisfare questa intenzione». È in questo senso che la comunicazione è ostensivo-
inferenziale: è ostensiva, perché il comunicatore vuole che il destinatario riconosca la
sua intenzione comunicativa, producendo un'aspettativa di pertinenza riguardo al suo
proferimento; ed è inferenziale, perché il destinatario fa inferenze per cogliere
l'intenzione comunicativa del mittente: Siamo tutti locutori e ascoltatori. Come
locutori, la nostra intenzione è che i nostri ascoltatori riconoscano la nostra intenzione
di informarli di un certo stato di cose. Come ascoltatori, cerchiamo di riconoscere ciò
di cui il locutore ha intenzione di informarci. Gli ascoltatori si interessano al senso della
frase enunciata solo per inferire ciò che il locutore vuole dire. La comunicazione riesce
non quando gli ascoltatori riconoscono il senso linguistico dell'enunciato, ma quando
essi inferiscono il “voler dire" del locutore.
Note: 12. Secondo l'ipotesi di una mente massivamente modulare, la mente sarebbe un
sistema composto da diversi componenti, ognuno dei quali compie una funzione
necessaria al sistema nel suo insieme e in modo indipendente dagli altri moduli. Questa
ipotesi è portata avanti da numerosi studiosi (tra gli altri, Pinker e Sperber), negando
le argomentazioni di Fodor (2001) ribadite anche recentemente, secondo cui solo i
dispositivi periferici della mente sarebbero modulari, ad esempio quelli legati ai
processi percettivi dell'elaborazione del linguaggio e del controllo motorio. Nel
dibattito odierno vi sono diverse proposte che tendono a ridefinire la stessa nozione di
modulo, dato che nella formulazione fodoriana i moduli sono considerati meccanismi
specifici per dominio essenzialmente "stupidi, nel senso che il loro funzionamento è
obbligato e sono cognitivamente impenetrabili, non possono accedere ad altre
informazioni. In questo modo, la natura locale delle elaborazioni è l'altra faccia della
rigidità dei moduli fodoriani, entrambe le caratteristiche mal si adatterebbero alla
natura olistica e flessibile delle elaborazioni centrali del pensiero (ad esempio,
ragionamento, fissazione delle credenze, categorizzazione). I sostenitori della mente
massivamente modulare affermano invece la compatibilità tra la natura flessibile e
olistica del pensiero e la rigidità dei moduli anche sulla base del funzionamento
dell'intero sistema mente, in particolare attraverso l'interazione dei diversi moduli, da
cui emergerebbe l'intelligenza umana e la sua capacità di adattarsi a tutti i contesti
possibili.

Come si è detto, per alcuni protagonisti del dibattito cognitivista il linguaggio è lo


strumento principale per esprimere il pensiero e comunicare invece per Sperber e
Wilson la comunicazione è innanzitutto una questione di intenzioni e inferenze, e si
concretizza nella capacità di leggere l'intenzione del comunicatore. Più
specificatamente, seguendo il principio comunicativo di pertinenza («Ogni stimolo
ostensivo comunica la presunzione della propria pertinenza ottimale»), la produzione
di uno stimolo ostensivo da parte di un mittente determina nel destinatario aspettative
di pertinenza che lo guidano verso il significato del parlante. In questo modo, se non si
coglie l'intenzione comunicativa, il linguaggio, inteso come modulo di codifica e
decodifica, da solo non basta per realizzare uno scambio comunicativo. E lo stesso
carattere ostensivo-inferenziale estromette la nozione di codice dalla definizione di
scambio comunicativo. A certe condizioni il riconoscimento dell’intenzione
comunicativa attraverso un comportamento ostensivo del mittente è condizione
imprescindibile affinché possa esserci uno scambio comunicativo. La prima
informazione è colta attraverso la seconda, ossia l’intenzione informativa può essere
elaborata solo attraverso il riconoscimento dell’intenzione comunicativa del mittente.
Attraverso la rivisitazione delle intuizioni di Grice si ha dunque un completo
ribaltamento della posizione standard della scienza cognitiva: la comunicazione non è
questione di codice, la comunicazione è essenzialmente riconoscimento di intenzioni e
può determinarsi anche in assenza completa di codice. Ovviamente, la comunicazione
più complessa coniuga processi linguistici e processi inferenziali, ma i segni linguistici
servono da indizi esattamente come le altre informazioni eventualmente disponibili nel
contesto, o condivise dal mittente e dal destinatario: «La comprensione linguistica è
un'impresa inferenziale che usa materiale decodificato». Certamente il linguaggio è lo
strumento più potente per dispensare indizi efficaci e precisi al destinatario, in modo
che possa inferire correttamente l'intenzione del parlante, ma la comprensione di uno
scambio verbale rimane comunque una questione ostensivo-inferenziale: «La
comprensione è un processo inferenziale che usa come input l'output della decodifica
linguistica, e che ha di mira lo svelamento del significato del locutore. La
comprensione consiste, quindi, nell'inferire lo stato mentale (un'intenzione di uno
specifico tipo) dal comportamento (un proferimento)». In questo quadro, come
segnalano Sperber, Wilson, si possono riscontrare diverse tipologie di comunicazione,
dalle più semplici a quelle più sofisticate: La comunicazione codificata non ha bisogno
di coinvolgere abilità metapsicologiche. Esiste ovviamente in natura, sia nelle forme
pure che miste (in cui la codifica e l'inferenza sono combinati). Molta comunicazione
animale è solo codificata. È sostenibile che qualche comunicazione umana non verbale
sia puramente codificata. La comunicazione verbale umana, al contrario, coinvolge una
miscela di codifica e inferenza. Contiene un elemento di attribuzione inferenziale di
intenzione; ma è anche parzialmente codificata, dato che la grammatica di una lingua
è proprio un codice che accoppia rappresentazioni fonetiche di enunciati con
rappresentazioni semantiche di enunciati.

4.13: Linguaggio e metarappresentazione


In diversi interventi Sperber si è soffermato sul primato della capacità di
mentalizzazione come prerequisito ontogenetico e filogenetico per l'evoluzione delle
altre abilità cognitive, compresa quella linguistica. A questo proposito, il dilemma
evolutivo secondo cui la facoltà del linguaggio e gli scambi linguistici sono
paradossalmente ognuno una precondizione dell'altro, è risolto da Origgi e Sperber
grazie alla priorità assegnata alla mentalizzazione: il linguaggio si è evoluto nei nostri
antenati perché già erano abili nella comunicazione inferenziale, capacità garantita
appunto dal mindreading: [L]a comunicazione verbale umana non si risolve mai in pura
e semplice de-codifica. Nella sua struttura di base, in effetti, la comunicazione
inferenziale non dipende neppure da stimoli linguistici: altri stimoli comportamentali,
possono fornire evidenze adeguate dell'intenzione del comunicatore. Tuttavia, gli
enunciati linguistici forniscono evidenze immensamente migliori per la comunicazione
inferenziale. Questo dimostra che il linguaggio come noi lo conosciamo si è sviluppato
come adattamento in una specie già impegnata (involved) nella comunicazione
inferenziale, e dunque già capace in buona misura di mindreading. In altri termini, dal
punto di vista della teoria della pertinenza, nei nostri antenati l'esistenza di mindreading
fu una precondizione per l'emergenza e l'evoluzione del linguaggio. L'idea è che vi sia,
da una parte, una generica capacità di mentalizzare, che l'uomo ha condiviso con i suoi
antenati e condivide con le specie più vicine da un punto di vista evolutivo; e che,
dall'altra, vi sia una specifica capacità di mentalizzare, solo umana, innescata e
plasmata dall'impiego del linguaggio articolato e dal suo effetto di ritorno sulla
cognizione. Questo punto, che tra cognizione sociale e linguaggio vi sia una reciproca
relazione di determinazione, una coevoluzione, è stato ribadito con forza da Ferretti
(2007) per affermare la tesi sperberiana che coniuga evoluzionismo e continuismo
metarappresentazionale, in modo da sconfessare il presunto carattere speciale che
Chomsky attribuisce alla natura umana sulla base dell'unicità del carattere ricorsivo
della facoltà del linguaggio (FLN). Esponendo la tesi della coevoluzione tra cognizione
sociale, linguaggio e comunicazione, Sperber rifiuta "la vecchia storia" secondo cui noi
comunichiamo solo grazie alla condivisione di un codice e ne afferma una nuova: tutta
la comunicazione umana è un effetto della capacità metarappresentazionale che
fornirebbe anche una giustificazione in termini gradualisti della complessità sintattico-
formale del linguaggio, dunque in termini antichomskyani: Secondo uno scenario
verosimile la capacità metarappresentazionale si sviluppa nelle specie ancestrali per
ragioni che hanno a che fare con la competizione, l'utilizzazione e la cooperazione, e
non di per sé con la comunicazione. Questa capacità metarappresentazionale rende
possibile una forma di comunicazione inferenziale, all'inizio come effetto collaterale,
e probabilmente in modo piuttosto accurato. Il carattere positivo di questo effetto
collaterale lo trasforma in una funzione di metarappresentazioni, e crea un ambiente
favorevole per l'evoluzione di un nuovo adattamento, una capacità linguistica. Una
volta che si è sviluppata la capacità linguistica, è abbastanza semplice immaginare un
reciproco sviluppo coevolutivo di entrambe le capacità. Dal linguaggio come unico
dispositivo per esprimere i pensieri e comunicazione, alla comunicazione inferenziale
come effetto della capacità di mentalizzazione, che in termini evoluzionistici ha fornito
l'ambiente adattivo per la stessa evoluzione della capacità linguistica, e dispone del
linguaggio per condividere l'intenzione del parlante. Rispetto alla prospettiva
chomskyana e della scienza cognitiva classica, il cambiamento di ruolo del linguaggio
è evidente. In primis, il linguaggio si riappropria di una funzione costitutiva: non è più
solo uno strumento di espressione di un pensiero già preformato e sostanzialmente
indifferente alla dimensione simbolica, ma interviene in alcuni aspetti della
costituzione della cognizione, in particolare in quella sociale, producendo una capacità
di mentalizzazione ancora più articolata e sofisticata. Per Sperber gli enunciati
linguistici forniscono «evidenze immensamente migliori per la comunicazione
inferenziale». Allo stesso tempo, l'abilità linguistica, grazie anche e soprattutto alla
sintassi, permetterebbe tipologie di mentalizzazioni altrimenti del tutto precluse, ad
esempio quelle che attribuiscono agli altri e a sé punti di vista epistemici, dunque
credenze". In questo modo, parte del dibattito in scienza cognitiva ha abbandonato la
versione radicale della tesi della funzione comunicativa del linguaggio e l'idea relativa
che la comunicazione verbale sia solo un processo lineare di codifica e decodifica
linguistica. Il linguaggio svolge di fatto un ruolo costitutivo nella formazione di alcuni
aspetti della cognizione e, allo stesso tempo, la comunicazione verbale non è solo una
faccenda linguistica. Quest'ultimo punto è ben articolato dal seguente passaggio di Lia
Formigari: L'ascoltatore deve ricostruire sulla base di indizi verbali e paraverbali la
struttura sintattica del messaggio, "leggere" le intenzioni del locutore, risalire dal
significato linguistico (quello che vogliono dire le parole) al significato del locutore
(quello che lui vuole dire). Deve "non perdere il filo", il che significa che deve (come
del resto il locutore) tenere a mente l'attacco della frase fino alla sua conclusione, per
appercepirla come un'unità pianificata in modo semanticamente e sintatticamente
coerente. Deve selezionare i dati pertinenti da quelli non pertinenti. Deve interpretare
le eventuali ambiguità lessicali o sintattiche, risolvere le ellissi, scoprire la co-referenza
delle anafore, orientarsi nello spazio della deissi, valutare il di più di senso che nasce
dagli usi figurati della lingua (metafore, ironia, iperbole, ec.), sceverare la ridondanza
superflua da quella solo apparente che serve in realtà a mettere a fuoco i contenuti e
fornire informazioni supplementari. Deve far reagire la nuova informazione con
l'insieme delle sue conoscenze e credenze pregresse (la sua "enciclopedia mentale",
come si suol dire) e verificarne la compatibilità o meno. Tutto questo, è il caso di dire,
con la rapidità del pensiero.

Note: 13. Si è detto che la teoria della mente si riferisce all'ambito della folk psycology
che normalmente un soggetto utilizza per spiegare e prevedere il comportamento altrui:
in certi casi è necessario appellarsi a stati mentali come desideri o intenzioni per
spiegare il comportamento altrui. In altri casi è necessario appellarsi a un'altra
fondamentale tipologia di stati mentali, la credenza, che si basa strettamente sulla
distinzione verità/falsità (una credenza, per essere tale, deve poter essere falsa). La
capacità di mentalizzare un comportamento attribuendo una falsa credenza (e il
superamento del relativo test della falsa credenza da parte di un bambino intorno ai
quattro/cinque anni) sarebbe possibile solo grazie a un pieno sviluppo della capacità
sintattico-linguistica.

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