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Comunicazione Politica, un approccio teorico - Riassunto del


libro di Flavio Chiapponi (da cap.1 a cap.8) - 2020/2021
Comunicazione Politica (Università degli Studi di Pavia)

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LEZIONE 1 – CHE COS’È “COMUNICAZIONE”

L A COMUNICAZIONE: IL CAMPO DI INTERESSE

La «comunicazione politica» allude ai fenomeni comunicativi che si collocano nella sfera politica. Ma cosa si
intende esattamente con questa espressione? Se ci riflettiamo, il significato è assai più complesso di quanto si
possa pensare.

In effetti, dire ciò non è sbagliato: tuttavia, l’affermazione non riesce ad inquadrare appieno i fenomeni che
rientrano nel campo di attenzione della disciplina, distinguendoli da quelli che ne rimangono esclusi. Per due
ragioni:

1. La comunicazione riguarda ogni ambito sociale: perciò, da una parte è difficile pensare alla comunicazione
nei termini di una dimensione distinta dai fatti sociali che accompagna; dall’altra, e di conseguenza, le
interazioni comunicativi non si collocano solo in politica - Si comunica infatti nelle più disparate situazioni, con i
mezzi più diversi, potendosi rivolgere ad una vasta gamma di destinatari, perseguendo una varietà
potenzialmente illimitata di scopi.

2. In secondo luogo, neppure il semplice collegamento con la politica chiarisce fino in fondo la questione.
In effetti, se il concetto di comunicazione è già di per sé sfuggente, quello di «politica» rischia di esserlo ancora
di più. Si tratta allora di capire, sul piano teorico, come e perché, nella millenaria vicenda dell’umanità, la politica
si è progressivamente affermata come insieme di comportamenti relativamente distinto, emancipandosi dagli
altri ambiti funzionali (come la religione o l’economia) e, almeno negli ultimi tre secoli, ha raggiunto una
dimensione di massa, aprendosi alla partecipazione di un numero crescente di attori. Capire chi sono questi
attori, perché si comportano in un certo modo e in quale rapporto stanno gli uni con gli altri significa cogliere il
significato universale della lotta politica. C’è politica sia nell’antica Roma sia nelle democrazie contemporanee
ma con caratteristiche diverse: chi fa politica, lotta per ottenere potere politico secondo le modalità definite dal
contesto in cui opera, dal regime in cui si trova. La comunicazione politica accompagna i fatti politici.

“COMUNICAZIONE” E “POLITICA”: UN NESSO IMPORTANTE MA COMPLESSO

Visto che la comunicazione accompagna la politica, bisogna sempre tenere conto del fatto che i mutamenti che si
producono nella sfera politica si ripercuotono anche sulle modalità, sulla quantità e sulla qualità dei processi
comunicativi in politica – esempio dei sièges oraux (palchi fonici) nella Rivoluzione Francese. Si colloca in quel
momento storico perché la comunicazione era un’arma di persuasione, l’oratore doveva convincere il parlamento,
il re decideva lui, non doveva convincere nessuno.

Allo stesso tempo, tuttavia, la delimitazione del campo di interesse della comunicazione politica si rivela
complessa. Tale complessità ha condizionato la ricerca da almeno due punti di vista:

1. la natura pervasiva della comunicazione ha alimentato approcci di studio multidisciplinari, che, se hanno
consentito di accumulare una messe di dati, cognizioni relative al fenomeno, non si sono rivelati del tutto idonei
a mettere a fuoco le specificità della comunicazione in politica;

2. le difficoltà sono state spesso superate artificialmente, restringendo il significato della comunicazione
politica in modo più o meno arbitrario, per esempio illuminandone un aspetto limitato (comunicazione
elettorale) propaganda elettorale. Questo è sbagliato perché la comunicazione politica non è solo elettorale,
quindi bisogna allargare lo sguardo non restringerlo.

UN DIVERSO INQUADRAMENTO DELLA “COMUNICAZIONE POLITICA”

«Comunicazione politica»: il sostantivo designa una specifica attività, l’aggettivo ne indica il contesto di
pertinenza.

Allora, dobbiamo focalizzare la comunicazione in quanto tale. Ciò vuol dire gettare luce sulle componenti essenziali
di qualsiasi processo comunicativo, che si instaura in un ambiente sociale, comunicazione umana tra un uomo (o
un gruppo di uomini) ed un altro uomo (o gruppo di uomini). In tal senso, la comunicazione è sempre una relazione,
che nasce dal concatenamento di azioni tenute da più soggetti e che perciò si colloca entro un orizzonte/contesto
sociale.

Una volta individuate le unità minime della comunicazione, successivamente sposteremo il fuoco sul secondo
termine, «politica». Per identificare i confini della sfera politica e cogliere il senso dei comportamenti tenuti al suo
interno, è necessario disporre di una teoria capace di distinguere il potere politico dagli altri poteri sociali: non solo
in relazione ad una specifica epoca storica o ad un ambito geografico definito (ad esempio: lo stato moderno di
matrice europea), ma in senso generale.

L A COMUNICAZIONE: IL MODELLO DI SHANNON E WEAVER

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Allorché si pensa alla comunicazione, intuitivamente viene alla mente un rapporto nel quale un emittente
trasmette un qualche tipo di contenuto (messaggio) ad un destinatario.

Nella letteratura accademica, questo schematico processo ha trovato una prima formalizzazione nel modello
variamente definito «matematico», «ingegneristico», «classico» o «postale» elaborato dall’ingegnere elettronico
Claude Shannon e dal matematico Warren Weaver alla fine degli anni Quaranta del Novecento.

Per questi autori, la comunicazione costituisce essenzialmente un processo unidirezionale, dal mittente al
destinatario. La catena comunicativa prende avvio da una fonte, che produce un messaggio (o un insieme di
messaggi), pronti ad essere comunicati. Nel passaggio successivo, grazie ad un trasmettitore, il messaggio viene
trasformato in segnali (codificazione), che a loro volta vengono trasferiti, mediante un certo canale, al ricevente, il
quale dovrebbe essere in grado di ricostruire il messaggio iniziale (decodificazione). In questo modo, il processo
comunicativo si compie ed approda a destinazione.

L’unico fattore che può compromettere la trasmissione è dato da rumori o disturbi di fondo, per esempio causati
dalle interferenze, che si verificano allorché più segnali scorrono nel medesimo canale allo stesso momento come i
segnali radio (comunicazione inefficace). Si può determinare quindi una alterazione del segnale trasmesso – che, a
sua volta, può determinare una differenza di significato più o meno sensibile tra il messaggio emesso dalla fonte e
quello decodificato dal ricevente. Al contrario, secondo i due studiosi la comunicazione è efficace nel momento in
cui si riscontra la perfetta coincidenza tra messaggio codificato e messaggio decodificato.

LE CRITICHE AL MODELLO SHANNON-WEAVER

Diverse critiche hanno preso di mira il valore descrittivo del modello.

A tale proposito, è stato osservato che Shannon e Weaver intendono la comunicazione come la riproduzione di un
messaggio dato. Secondo questa linea di ragionamento, lo schema non prevede alcuna differenza essenziale tra la
trasmissione di un impulso elettrico tra due interruttori (cioè fra due macchine) e la comunicazione orale tra due
esseri umani: la logica interna al modello ci porterebbe infatti a vedere entrambi i casi come occasioni di
riproduzione del messaggio dalla sorgente alla destinazione. Il che è irrealistico.

L’efficacia della comunicazione sociale, in ambiente umano, non coincide appieno con la capacità di ripetere
esattamente il messaggio cioè che c’è coincidenza tra il messaggio trasmesso e il messaggio ricevuto, bensì
dipende da una serie di altri fattori, di cui Shannon e Weaver non tengono conto (la reputazione, presso il
ricevente, del mittente; il contenuto del messaggio; l’esistenza di un contesto che può influenzare la risposta del
ricevente, solo per fare qualche esempio). Tutti aspetti che rimangono fuori da un approccio di stampo
«matematico».

Altri (Schramm 1954) hanno messo in luce che si tratta di una rappresentazione molto semplificata, che ignora
che, sul piano empirico, la comunicazione scaturisce da un insieme di interazioni e sviluppi aperto, senza fine: gli
uomini sono continuamente immersi in un flusso incessante di informazioni, che hanno difficoltà a maneggiare.

Tuttavia, l’obiezione più decisiva per i nostri scopi è quella che sostiene che schema sopra descritto risulta
inapplicabile alla comunicazione politica, così come a tutti i tipi di comunicazione nei quali mittente e ricevente
sono costituiti da entità collettive (Waller 1995). Ciò appare particolarmente evidente in campagna elettorale,
quando i partiti politici impegnati nella contesa emettono diversi messaggi, attraverso una pluralità di fonti (leader,
addetti stampa, organi collegiali); mentre i destinatari della comunicazione sono rappresentati da migliaia o milioni
di elettori. Qui l’accostamento di Shannon e Weaver si rivela descrittivamente povero, perché pensato in
connessione ad una comunicazione one-to-one e non molti-molti. Al fine di aumentarne l’aderenza alla realtà, si
rendono necessarie alcune correzioni.

IL MODELLO “POLITOLOGICO” DI LASSWELL

Harold Lasswell, tra i fondatori della scienza politica negli Stati Uniti nel 1948 aveva proposto una descrizione del
rapporto comunicativo che superava alcuni dei rilievi opposti al modello di Shannon e Weaver, conservandone la
maneggevolezza. Lasswell coniò una definizione destinata a divenire celebre, affermando che per descrivere in
modo appropriato un atto comunicativo occorre rispondere a cinque domande:

• Chi? emittente

• Dice cosa? contenuto

• Attraverso quale canale? mezzo

• A chi? destinatario

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• Con quale effetto? Conseguenze in termine di comportamento che le parole o il messaggio attivano

DISCUSSIONE DEL MODELLO LASSWELLIANO

Come possiamo osservare, vi sono elementi (in comune) che già figurano tra le unità costitutive del modello di
Shannon e Weaver: soggetti (mittente e destinatario); l’oggetto (il messaggio); lo strumento che rende
possibile la comunicazione, ovvero il «mezzo» nella formula di Lasswell, che ha lo stesso significato che il «canale»
assume nella formalizzazione vista in precedenza (quella di S e W)

Per Shannon e Weaver, il processo comunicativo è un atto sostanzialmente tecnico: per questo motivo nel loro
modello è molto accentuata l’importanza della riproduzione del messaggio, così come la focalizzazione
dell’attenzione sui possibili elementi di disturbo (le interferenze). L’inquadramento di Lasswell, al contrario, è di
matrice squisitamente politologica e si lega ad una teoria generale della politica, imperniata sulla nozione di
«potere», nell’ambito della quale egli intende la comunicazione – e più in generale il simbolismo politico, di cui il
linguaggio è la principale declinazione – come una risorsa a disposizione degli attori che vogliono esercitare potere.
Comunicazione come risorsa

La «formula di Lasswell» designa in realtà il tentativo del mittente di controllare, attraverso la comunicazione, il
comportamento del ricevente: ossia, di esercitare potere su di lui comunicando un determinato messaggio – un
potere chiamato solitamente «persuasione».

Alla luce di questo ragionamento, si capisce l’interesse che il modello lasswelliano concentra sull’effetto della
comunicazione, ovvero sul comportamento del ricevente: se quest’ultimo sarà conforme all’intento del mittente,
allora vi sarà esercizio di potere e, perciò, la comunicazione potrà essere considerata efficace; viceversa, l’assenza
di comportamento conforme decreta anche il fallimento della comunicazione. I critici hanno posto in evidenza la
parzialità della proposta di Lasswell che, in effetti, non costituisce una descrizione appropriata della comunicazione
in generale; al contrario, può essere utilmente applicata per l’esame ravvicinato di casi particolari di
comunicazione, specialmente in ambito sociale e politico.

L A SUPERIORITA’ DEL MODELLO LASSWELLIANO

Se volessimo trarre un bilancio all’ingrosso dal raffronto tra i due modelli elementari (entrambi danno un quadro
schematico dell’approccio comunicativo, sono una grande semplificazione di ciò che accade nella realtà)
l’accostamento di Lasswell è teoricamente superiore. Perché? A differenza di quanto accade per lo schema
di Shannon e Weaver, il modello lasswelliano è infatti applicabile solo e soltanto alla comunicazione che si sviluppa
tra un uomo (o un gruppo di uomini) e un altro uomo (o gruppo di uomini). In altri termini, pur delineando una
morfologia del tutto essenziale, la formula di Lasswell è suscettibile di essere immediatamente impiegata per lo
studio della comunicazione umana, in un contesto sociale – che cioè prevede la strutturale compresenza di una
pluralità di uomini, come si verifica in qualsiasi società, antica, moderna o contemporanea.

In vista della costruzione di un approccio politologico allo studio della comunicazione politica occorre approfondire
questo aspetto. Dobbiamo allora spostare il fuoco sulla comunicazione umana, isolandola non solo da quella che si
svolge tra le macchine ma anche da quella animale.

Perciò, bisogna prima di tutto fissare l’attenzione su un’abilità che costituisce il «principale metodo di
comunicazione» (Johansson 2005) tra gli uomini: il linguaggio.

LEZIONE 3 – LINGUAGGIO, COMUNICAZIONE, POLITICA

IL LINGUAGGIO UMANO: NOTE ESSENZIALI

Il linguaggio definisce una forma di comunicazione esclusivamente umana, è cioè una proprietà esclusiva
della nostra specie: Tutti gli animali comunicano, ma solo gli uomini sono capaci di articolare un codice che si
differenzia da quelli in uso presso le altre specie: il linguaggio, appunto.

Allora, occorre mettere in luce i tratti distintivi di questo codice, che lo differenziano dal sistema di comunicazione
animale. In particolare:

1. origine congenita: l’attitudine ad utilizzare il linguaggio quale mezzo di comunicazione risiede nel nostro
corredo genetico; la competenza linguistica è innata
2. immutabilità: il linguaggio non è una competenza che si perde, si è sempre in grado di articolare le parole
(salvo eventi traumatici o patologici);
3. universalità (non è possibile immaginare membri della specie umana che non siano dotati di linguaggio).

LINGUAGGIO UMANO E COMUNICAZIONE ANIMALE

Oltre alle precedenti, vi sono due proprietà che rendono conto della complessità del linguaggio umano e allo stesso
tempo lo distinguono dai sistemi di comunicazione animale. E sono:

1. la natura simbolica: il linguaggio consente di stabilire una relazione di significato tra segni grafici o fonemi
(parole scritte o parlate) e oggetti – una relazione (di significato) che permette anche la comunicazione di idee,
cioè di elementi astratti. Vi è astrazione quando il mittente trasmette una informazione relativa a oggetti non
fisicamente presenti – che vengono simbolizzati proprio grazie al linguaggio, acquistando così consistenza –
e ciò che più conta, la simbolizzazione è riconosciuta dal ricevente (opportunità del tutto preclusa alle altre
specie viventi); gli uomini posso parlare di comunismo, economia… L’uomo è l’unico essere vivente che uccide
per un’idea

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2. la multifunzionalità, che balza agli occhi allorché la si raffronta con la comunicazione mono-funzionale che
primeggia nel regno animale, una sola funzione es. vicinanza/lontananza del cibo. In particolare, il linguaggio
umano può assumere almeno tre funzioni – descrittiva, espressiva es idee astratte, prescrittiva es. avere come
oggetto ordini usata nella politica. Di qui la ragione per cui il linguaggio è indispensabile ai fini della stessa
esistenza delle società umane: le prassi connesse alla persistenza della vita collettiva richiedono
necessariamente l’assolvimento delle tre funzioni ora elencate. Nel caso, puramente ipotetico, del mancato
adempimento di tali attività, nessuna forma di società potrebbe emergere, mantenersi o svilupparsi.

LE VARIE FORME DELL A COMUNICAZIONE UMANA

Sebbene il linguaggio costituisca certamente il mezzo più impiegato nella comunicazione umana, non la
esaurisce. L’impiego del linguaggio tra uomini dà luogo ad un processo comunicativo, ma non tu t ti i processi
comunicativi tra uomini avvengono grazie al linguaggio. Un inventario completo delle modalità comunicative
adottate dagli uomini comprende, oltre al linguaggio:

a) i gesti e le altre condotte non verbali (movimento degli occhi, mimica facciale, il gesticolare, il distanziamento
spaziale). Si tratta di elementi che spesso accompagnano il discorso ma che, sul piano analitico, devono essere
mantenuti distinti dal comportamento linguistico;

b) i suoni non riconducibili al linguaggio (lo sparo dello starter che apre la gara dei 100 metri, l’esecuzione dell’inno
nazionale che attiva la partecipazione emotiva dell’uditorio)

c) le immagini.

LA COMUNICAZIONE UMANA: DEFINIZIONE CONCLUSIVA

Si può concludere che la comunicazione umana – che possiede tratti specifici che la differenziano dal sistema di
comunicazione in uso presso gli animali – si può definire come una relazione sociale nella quale un attore A,
l’emittente (individuo o gruppo), trasmette un certo contenuto (informazione), impiegando un determinato
strumento (mezzo), ad un ricevente (individuo o gruppo), il quale sviluppa, a seguito della comunicazione, una
reazione (feedback), suscettibile di essere osservata sul piano del comportamento. Il codice utilizzato
può essere linguistico, ma anche, come abbiamo visto, di altra natura: gestuale, iconico, sonoro, e via dicendo.

Questa definizione è sufficientemente generica e generale da potersi applicare ad un vasto insieme di interazioni
comunicative: anche perché trascura del tutto un aspetto importante ai fini dell’analisi, ovvero il
contesto nel quale l’atto comunicativo si dispiega. Allora, se il nostro scopo è quello di impegnarci nello
studio della comunicazione politica, conviene spostare il fuoco sulla politica come sfera di attività specifica, che
emerge in ogni società umana e che costituisce il contesto di pertinenza della comunicazione che ci interessa.

IL CAMPO DELLA “POLITICA”

Allorché si nomina la «politica» si fa riferimento ad un qualche tipo di potere, che si può individuare nel
prendere decisioni che valgono per una determinata collettività (di ampiezza variabile: ad esempio, un
movimento, un partito, un Comune, uno Stato).

Tuttavia, si tratta di una definizione del tutto preliminare. In particolare, per cogliere davvero l’essenza della
«politicità», dobbiamo capire perché certe decisioni sono «politiche» ed altre no.

Schematizzando, nella letteratura politologica sono a riguardo presenti due posizioni fondamentali:

1) la prima tradisce la sua origine nel campo degli studi filosofici e giuridici e tende a ricondurre la “politicità” delle
decisioni al contesto nel quale vengono assunte. È quella di Giovanni Sartori, il decano degli scienziati politici
italiani, secondo cui le decisioni politiche sono tali perché prese da un personale collocato in sedi politiche
(istituzioni, ruoli, cariche pubbliche); una decisione è politica se eseguita da una persona che ricopre un ruolo
politico es. il presidente del consiglio Conte prende una decisione, essa è politica, io che decido di andare a fare
la spesa, questa decisione non è politica.

2) la seconda discende invece da premesse teoriche che potremmo chiamare sociologico-weberiane, giacché
attribuisce il connotato «politico» alle decisioni che scaturiscono da una specifica struttura dell’azione. Non il
contesto, ma come l’azione viene strutturata.

UNA PROSPETTIVA INTEGRATA RIGUARDO ALLA POLITICITA’

Entrambe le posizioni sopra esposte, se intese in modo unilaterale, si prestano a rilievi critici, seppure per ragioni
speculari.

La prima rischia di imbastire un abito troppo stretto per la politica, il cui locus viene identificato esclusivamente
con lo Stato e la sua organizzazione istituzionale, lasciando fuori fenomeni politicamente significativi (basti pensare
alla campagna mediatica condotta da un importante gruppo imprenditoriale pro o contro il governo in carica).

La seconda, al contrario, presta il fianco all’accusa di averne cucito uno troppo largo, poiché tende a includere nel
dominio della politica tutte le forme di influenza coercitiva (cioè di potere basato sul controllo delle risorse di
violenza) oppure tutte le decisioni caratterizzate da una certa struttura dell’azione, comprese quelle dislocate al di
fuori della sfera politica (come in economia o in ambito generalmente sociale).

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È plausibile però osservare che le due traiettorie possono convergere nell’indicarci la strada da percorrere per
delineare il proprium, la specificità, della politica così come il tipico comportamento degli attori che possono dirsi
politici.

Tale strada è suggerita dall’indirizzo teorico prospettato da Mario Stoppino (Stoppino 2001), al quale, nella
prossima lezione, volgeremo lo sguardo.

LEZIONE 4 – CHE COSA È POLITICA

CHE COSA È LA POLITICA L’AZIONE POLITICA SECONDO STOPPINO

La concettualizzazione di «politica» a cui ci riferiamo viene dalla teoria generale interpretativa della politica
formulata da Mario Stoppino, uno dei più eminenti scienziati politici italiani, a lungo titolare dell’insegnamento di
Scienza politica presso l’Ateneo pavese.

Come altri teorici della politica, Stoppino afferma che il significato generale della politica si possa cogliere a partire
dalla descrizione di una forma di azione politica detta «nucleare» nel senso più semplice. Questa consiste in una
relazione di potere per cui un attore A, che esercita il potere politico, ottiene da un attore B, che lo
subisce, il comportamento conforme alla sua intenzione o al suo interesse, perché ciò costituisce la
premessa per raggiungere un valore o bene finale (rispetto, deferenza, ricchezza, ecc.), reputato
importante dallo stesso A.

La conformità di B designa perciò il mezzo per guadagnare il controllo del valore o dei valori ricercati (da A). Ma
non è tutto. La politicità dell’azione emerge appieno allorché A intende ottenere un qualche strumento per
controllare il comportamento preteso da B non solamente in una singola occasione, poniamo al tempo t, ma
anche successivamente, per esempio al tempo t1, t2, t3 e così via. Per chiarire il punto, diciamo che un conto è
che A, per rimpinguare la sua dotazione di risorse economiche, ottenga da B il versamento di una somma di
denaro una tantum; altra cosa è che, a scadenze periodiche, A possa richiedere il pagamento a B, contando sulla
regolarità della sua risposta conforme. C’è sempre il comportamento conforme di B (?).

L’OBIETTIVO È ALLORA STABILIZZARE LA CONFORMITÀ DI B LUNGO L A DIMENSIONE TEMPORALE ED


ASSICURARSI CHE, AD OGNI TENTATIVO DI ESERCITARE POTERE DA PARTE DI A, B RISPONDA
SISTEMATICAMENTE CON LA CONFORMITÀ.

ARENE POLITICHE “NATURALI” E “DOTATE DI GOVERNO”

La stabilizzazione della relazione di potere è cruciale per l’emersione del potere politico. In una società
premoderna, che Stoppino chiama “arena naturale” – lo «stato di natura» di Hobbes non c’è nessuno Stato che
regola – A raggiunge lo scopo grazie alla disponibilità fisica di risorse (economiche, simboliche, di violenza). Cosa
vuol dire? Che il comportamento conforme di B dipende dallo stock di risorse posseduto da A. Per esempio,
nella Roma classica, l’obbedienza continuativamente prestata dagli schiavi nei confronti dei patrizi si fondava
essenzialmente sulla forte asimmetria nella distribuzione delle dotazioni sociali, che vedeva i secondi detenere
enormi ricchezze e una cospicua quantità di mezzi di violenza (armi, uomini) rispetto ai primi.

Però, con l’evolversi della vicenda umana, nella misura in cui la politica guadagna autonomia cioè si distingue dalle
altre forme di attività come ad esempio la religione, e tende a racchiudersi in istituzioni, emerge anche un più
definito potere di governo – si pensi al Sacro Romano Impero, e poi via via alle corti delle principali dinastie
europee, alle città-stato e al debutto, dopo la Rivoluzione francese, dei grandi Stati nazionali, fino alla governance
multilivello che contraddistingue i nostri tempi.

Nel corso di questa evoluzione, la conformità di coloro che formano il campo sociale/aree sul quale le diverse forme
di potere politico si esercitano (i tanti attori B) da mezzo si trasforma in fine. Cioè: conseguire la sistematica
esecuzione proprie direttive diventa l’obiettivo principale dei governi – ciò perché l’obbedienza
incondizionata all’autorità politica costituisce la premessa indispensabile a qualsiasi forma di cooperazione sociale.
Nessuna attività economica o culturale o religiosa sarebbero pensabili senza l’ordine e la pace sociale garantiti
dalla politica.

In questo senso, il potere politico è un potere stabilizzato lungo una prospettiva temporale, obbedito
sistematicamente, e generalizzato, obbedito da tutti i membri perché chi non obbedisce viene forzato ad
obbedire: nel lessico stoppiniano, è cioè un potere garantito, a fronte del quale sono schierate le disposizioni ad
obbedire di tutti i membri della società soggetta al potere stesso – nelle monarchie assolute, i sudditi; nelle
democrazie contemporanee, i cittadini. In queste arene dotate di governo, la garanzia della conformità relativa ad
una pluralità di soggetti non può dipendere dal controllo fisico delle risorse materiali.

Sono invece le istituzioni politiche a fornire la garanzia della conformità dei soggetti sui quali il potere politico si
esercita: anzi, è il possesso di certi ruoli (politici) a consentire l’esercizio del potere. Nell’ancien régime,
sedersi sul trono significava contare sull’obbedienza sistematica dei sudditi. Nei regimi totalitari, come nel
nazionalsocialismo hitleriano o nel comunismo sovietico, assumere la guida del partito unico poneva il capo nella
posizione di poter decidere, politicamente, per l’intero Stato. Nel quadro delle democrazie contemporanee, la
formazione o il leader che ottengono il consenso maggioritario dell’elettorato solitamente si vedono assegnare il
ruolo di Presidente o di Primo Ministro, venendo così legittimati a governare. In tutti i casi, il potere politico si
definisce perciò un potere garantito (ossia stabilizzato, generalizzato e, poiché cristallizzato in capo
alle istituzioni, istituzionalizzato.

IL TRATTO DISTINTIVO DELLA POLITICA

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Da quel che abbiamo detto, deriva che il tratto distintivo del potere politico consiste nella produzione di
poteri garantiti per il campo sociale di riferimento. Cosa vuol dire? Significa che le decisioni, prese da coloro
che controllano i ruoli politici incardinati nelle istituzioni (es Conte con il COV-19), si traducono in politiche
pubbliche (economica, di difesa, sanitaria, scolastica, previdenziale, e via dicendo) che assicurano il godimento di
certi diritti ai sottoposti: cioè riconoscono ai sudditi o ai cittadini determinati poteri, verso i quali devono essere
prestate le corrispettive condotte conformi da parte degli altri membri della comunità governata (esempio della
compravendita o della pensione).

Si tratta di diritti che sono poteri garantiti: stabilizzati e generalizzati, che possono essere fatti valere nei confronti
di tutti coloro che fanno parte della società. (diritto di proprietà per esempio).

Naturalmente, la qualità e la quantità dei diritti (poteri garantiti) attribuiti ai membri della società variano in
rapporto alle circostanze di tempo e di spazio: in tal senso, i cittadini delle democrazie contemporanee sono
titolari di un maggior numero di diritti di quelli conferiti ai sudditi di una monarchia ottocentesca. Si può allora
sostenere, in estrema sintesi, che il potere politico è un potere garantito, sotto forma di ruoli di autorità, che
produce altri poteri garantiti (sotto forma di diritti) per il campo sociale di riferimento.

È qui evidente il collegamento con il filone di studi, di matrice sartoriana, che attribuisce la politicità del sistema
alla natura delle sedi decisionali. Nell’approccio stoppiniano, la caratterizzazione del potere politico comincia con la
descrizione di un’azione politica nucleare e sfocia nella localizzazione del potere politico in capo a ruoli, che
costituiscono le unità minime delle istituzioni: a scopo illustrativo, pensiamo al ruolo di Presidente della Repubblica,
di Presidente del Consiglio o di Deputato in un regime democratico rappresentativo; di Re in un sistema
monarchico; o ancora di Duce, Führer o Segretario del partito nel quadro di un totalitarismo fascista o comunista.
Ciascuno di questi ruoli coincide con una sede politica, dalla quale si producono diritti, il cui godimento, più o meno
esteso, dipende dalle caratteristiche strutturali dei rispettivi regimi.

IL REGIME POLITICO

La teoria di Stoppino risulta utile anche al fine di chiarire in che cosa consiste un «regime politico», le cui
componenti principali si possono ridurre a tre:

1) i valori, o principi dominanti del regime: possono essere più o meno elaborati, orientano l’azione politica del
governo e delimitano l’area entro cui essa può esplicarsi, e ci si aspetta che si esplichi. I valori cambiano in base
al regime politico. Sotto questo profilo, la loro funzione non risiede tanto nell’indicare precisi scopi di governo,
quanto nel porre ad essa dei limiti negativi e un orientamento generale;

2) le regole del gioco politico: sono le regole che decidono chi vince e chi perde, per dire così, nella
competizione politica che si sviluppa entro il regime. Possono essere contenute in precetti giuridici oppure
possono consistere in norme osservate di fatto. La loro salienza è perciò cruciale: senza esse, la lotta politica si
trasformerebbe nel conflitto, al limite violento (combattimento), che renderebbe del tutto impossibile il
funzionamento ordinato del sistema politico;

3) la struttura organizzativa del potere politico, che definisce l’assetto stabile delle differenti istituzioni, così
come le varie forme di produzione dei diritti, nonché il modo in cui esse risultano coordinate. Questi sono gli
aspetti forse più visibili e noti del regime, che spesso vengono studiati dai costituzionalisti: anche se occorre
ricordare che, sul piano empirico, talvolta ruoli di primaria importanza nell’organizzazione del potere politico
vengono svolti da attori o gruppi che non figurano nei testi costituzionali di un paese – poiché, in generale,
l’organizzazione reale del potere politico può discostarsi, in grado più o meno sensibile, da quella prevista nella
Costituzione scritta.

Queste sono le componenti essenziali di qualsiasi regime politico: la declinazione concretamente osservata di
questi fattori varierà a seconda del genere e poi della specie del sistema politico che ci troveremo di fronte. Quindi,
i valori, le regole del gioco e la struttura organizzativa di un regime liberaldemocratico saranno profondamente
discordanti dalla materializzazione degli stessi elementi in capo ad un regime totalitario o autoritario. Entro lo
stesso genere, si potranno poi riscontrare differenze più lievi ma comunque notevoli, come quelle che, nel campo
democratico, differenziano i regimi presidenziali da quelli parlamentari o semipresidenziali.

L A LOTTA POLITICA

Una volta descritto il regime, occorre capire cosa accade dentro a queste strutture, a queste «scatole», ovvero
come si svolge la lotta politica e chi vi partecipa.

Sappiamo che in tutti i regimi vi sono regole finalizzate a disciplinare la competizione per il potere. Di qui è facile
derivare che in tutti i sistemi politici, per quanto grandi siano le differenze tra i valori che li ispirano e
le disparità tra le rispettive morfologie istituzionali, si sviluppa una competizione che ha per oggetto
la conquista o il mantenimento dei ruoli politici – cioè i ruoli dai quali è possibile esercitare il potere politico o
di governo. Questo è, in estrema sintesi, il significato della lotta per il potere.

Il punto da fermare è che, proprio perché ciascun tipo di regime possiede caratteristiche proprie, che lo
differenziano dagli altri, ne segue che la competizione politica funziona diversamente, a seconda dei
regimi. A titolo illustrativo, possiamo individuare, tra i tanti possibili, almeno tre esempi di arene politiche dotate
di governo, storicamente esistiti od esistenti: la politica di corte (monarchie del XVII-XVIII secolo), la politica
burocratica (regimi a partito unico, come l’URSS) e la politica democratica (o «poliarchica») contemporanea.

L A LOTTA POLITICA NEI DIVERSI REGIMI

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Chiusura apertura significa quanto la lotta per il potere coinvolge tanti attori

Forza: quanto la lotta per il potere produce effetti

POLITICA DI CORTE

Il re decide chi promuovere o no nella corte cioè chi vince chi perde nella carriera politica lo decide il sovrano. La
politica è riservata SOLO ai nobili, la forza espansiva per questo è bassa perché la politica è confinata solo nella
corte, i nobili non si interessavano delle proteste popolari, perché avvenivano fuori dalla corte. Per esempio, la
Rivoluzione francese, iniziarono a preoccuparsi solo con la presa della Bastiglia, le proteste precedenti non gli
toccavano. Gli esiti sono incerti perché è il sovrano che decide, può cambiare idea quando gli pare. Fazioni nobiliari
cioè famiglie, sempre ambito chiuso.

POLITICA BUROCRATICA

Regimi di partito unico. Si fa carriera solo se si ha il gradimento dei burocrati al potere, è chiusa ma meno della
corte perché non dipende dalla nascita, infatti, si piò entrare nei ranghi del partito unico. È moderata significa il
partito unico ha delle branche per diversi ambiti sociali es economia, attività per la gioventù… sono branche che
hanno diversi scopi, ad esempio, lo scopo di coinvolgere nella politica. Gli esiti variano in base ai livelli della
gerarchia cioè nei ranghi inferiori o medi l’esito era più certo (ruoli di secondaria importanza), in quelli superiori
come, ad esempio, la lotta per il potere che avveniva tutte le volte che moriva il segretario del partito comunista
dell’URSS era molto incerta. Il sostegno dato dai capi delle forze sociali es sindacati, intellettuali…

POLITICA POLIARCHICA

Max apertura. Le elezioni decidono chi vince e chi perde, sempre nuovi leader, sempre nuovi interessi tutti possono
fare politica e tutti hanno libertà di espressione e opinione. è massima la forza espansiva perché chi lotta per il
potere ha interesse di ricercare sempre nuovi sostegni nuove forze sociali ad esempio ambientalisti, sportivi…
L’esito è certo perché esistono le elezioni, il conteggio dei voti è matematico. Gruppi di pressione sono ad esempio
gli industriali, sindacati operari tutti loro hanno molte risorse, se conquisti questi attori è più facile vincere le
elezioni.

LOTTA POLITICA E POTERE POLITICO

In ciascuno dei sistemi politici esaminati, la competizione per il potere scaturisce dalla concatenazione dei
comportamenti politici dei principali attori sulla scena. In generale, vi è competizione ogni volta che si sviluppa una
interazione (potremmo dire, un gioco) in cui ciascun partecipante ha l’obiettivo di ottenere per sé un premio – in
questo caso, il potere politico, cristallizzato in ruoli di autorità – accettando di disciplinare la propria condotta
secondo certe norme, tra cui è cruciale la regola del gioco, che stabilisce il risultato della competizione. Si lotta
secondo le regole del gioco

Per noi, il punto che accomuna i tre sistemi descritti è che una tale prassi esiste ed è accettata da tutti gli attori
politici. Sotto questo profilo, il fatto che la regola abbia un contenuto diverso – talvolta, sensibilmente
diverso – a seconda dei regimi (voto popolare, favore del sovrano, gradimento dei burocrati dirigenti) è irrilevante.
Vi è competizione ovunque i gruppi politici si contendono il potere politico accettando la regola del
gioco che disciplina la competizione stessa. Si tratta di una lotta politica regolata, che si mantiene entro gli
argini del regime.

Un ulteriore carattere comune alle tre arene è che, per coloro che vogliono conquistare e mantenere i ruoli di
potere politico cioè per chi fa politica, è necessario ottenere il consenso e il sostegno di altri attori
(rispettivamente, l’elettorato, il Re, i burocrati dirigenti). In tal senso, allora, la lotta politica equivale alla lotta
per conseguire, conservare o accrescere il consenso politico che conta davvero, quello decisivo – in
grado di volgere a proprio favore l’esito della competizione. Se è così, è allora immediato derivare che il sostegno
delle forze sociali che possiedono una elevata capacità di condizionare e di influenzare il potere di governo riveste
sempre importanza primaria. Si tratta di gruppi che possiedono ingenti quantità di risorse sociali, di vario tipo; e
che partecipano al processo politico per tutelare o promuovere i propri interessi (di matrice economica, culturale,
religiosa, sociale, eccetera), sostenendo le frazioni della classe politica che sembrano maggiormente propense a

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difenderne i valori e/o osteggiando quelle che paiono invece metterli a repentaglio (esempio: una grande industria
in democrazia tende a sostenere quelle fazioni politiche che sostengono essa).

Infatti, nei regimi democratici quel che conta è sì il consenso degli elettori; ma per essere votati, per i partiti o i
leader è solitamente necessario assicurarsi il sostegno di almeno una parte degli attori che possiedono risorse
significative per la politica, denominati gruppi di pressione industria, casa editoriale, perché questi ultimi sono
capaci di influenzare, più o meno direttamente, gli orientamenti del corpo elettorale.

Analogamente, è vero che nell’arena burocratica quel che si rivela decisivo è il gradimento dei burocrati dirigenti;
tuttavia, sui loro orientamenti pesa l’influenza dei quadri di vertice dei differenti settori funzionali della società
(rami produttivi, capi militari, dirigenti culturali, e via dicendo) per cui le diverse fazioni della classe politica
burocratica inclinano a collegarsi con almeno una parte di queste forze sociali.

Insomma, in ogni competizione politica, è sempre rintracciabile una cerchia di forze sociali il cui sostegno acquista
un rilievo primario nella lotta per il potere – che equivale allora alla lotta per la conquista o il mantenimento
del sostegno politico decisivo.

LOTTA POLITICA E SCAMBIO POLITICO

In ciascuno dei tre regimi la competizione per il potere coinvolge essenzialmente due tipi di attori:

1) i membri della classe politica, che concorrono per assicurarsi le posizioni di potere politico; cercano di
conquistare un potere garantito (il potere politico) sotto forma di ruoli di autorità, per cui si pongono alla ricerca
di un «chi» (chi governa? E tutti vogliono sostituire quel determinato “chi”) – si tratta delle forze politiche di vario
orientamento, nonché dei loro dirigenti, nelle arene poliarchiche; delle diverse frazioni nobiliari nella politica di
corte; dei componenti delle fazioni in cui è suddiviso il partito unico nell’arena burocratica;

2) i gruppi sociali, che si muovono per chiedere alle diverse frazioni della classe politica la protezione dei loro
interessi, in termini di decisioni politiche, offrendo in cambio il sostegno politico decisivo che sono in grado di
mobilitare, grazie alle risorse sociali che detengono; si può dire che per questi attori la politica rileva non per un
«chi», bensì per un «che cosa»: che cosa decide chi governa o chi si candida a governare, cioè quali tipi di poteri
garantiti, sotto forma di diritti, i gruppi politici intendono licenziare una volta al governo.

La concatenazione di tali comportamenti acquista il massimo significato proprio nelle poliarchie (democrazie),
tanto da dare luogo ad un vero e proprio «scambio politico»: da una parte, i gruppi politici offrono un «che cosa»
(le promesse di poteri garantiti sotto forma di diritti che si candidano a produrre in caso di vittoria elettorale) per
ottenere un «chi» (il sostegno decisivo dei gruppi di pressione); dall’altra parte, i gruppi di pressione ricercano un
«che cosa» offrendo in cambio un «chi», ovvero il consenso selettivo alla frazione della classe politica che ai loro
occhi appare più affidabile in vista della tutela dei loro interessi.

LEZIONE 5 – COMUNICAZIONE POLITICA

IL CAMPO DELL A COMUNICAZIONE POLITICA

Una volta esplorati i modelli elementari di comunicazione nonché la definizione dell’ambito della politica,
disponiamo di tutti gli elementi necessari ad attuare la connessione tra la prima e il secondo: arriviamo perciò a
circoscrivere in modo sufficientemente preciso il campo della «comunicazione politica».

In effetti, siamo ora maggiormente consapevoli sia della poliedricità che contraddistingue il dominio della

«comunicazione», sia della complessità che contraddistingue la «politica». Occorre allora tenere conto di questi
aspetti, nel momento in cui ci accingiamo ad individuare il nesso che li collega.

COME COLLEGARE I DUE TERMINI?

Il punto più delicato della questione risiede nelle modalità attraverso cui viene declinato il collegamento tra i
processi comunicativi (definizione di Lasswell), da una parte; e l’insieme dei comportamenti che chiamiamo
«politici», dall’altra. Poiché questi ultimi variano sensibilmente in rapporto alle condizioni di tempo e di spazio,
arrivando ad includere una vasta gamma di sfaccettature, dalla politica di corte a quella burocratica fino alla
poliarchia, la tenuta teorica del collegamento sarà tanto maggiore quanto più ampio sarà il campo dei fenomeni ai
quali il nostro concetto di

«comunicazione politica» potrà essere applicato (a prescindere dalla variabilità delle coordinate spazio-temporali e
dei regimi in cui si collocano i processi comunicativi presi in esame (cioè dobbiamo costituire questo nesso in
maniera decisamente generale che possa abbracciare epoche e regimi differenti)). Così come vi è «politica» sia nel
XVIII secolo sia all’epoca attuale; e dato che un qualche tipo di competizione politica è presente nella Grecia
classica, ma anche alla corte del Re Sole o nei regimi democratici contemporanei, come molti autori ci
rammentano, nella misura in cui la comunicazione accompagna da sempre la politica è plausibile derivarne che la
caratterizzazione della «comunicazione politica» debba occupare la medesima estensione concettuale.

Alla luce di queste considerazioni, occorre accertare il grado di completezza di alcune delle principali definizioni in
voga nella letteratura specialistica, bisogna capire se hanno il requisito di generalità. Si tratta di un passo
necessario, in vista della chiarificazione di quel che significa, nel senso appena precisato, studiare la
«comunicazione politica».

LA DEFINIZIONE DI CANIGLIA

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È una definizione divisa in due parti, nella seconda parte applica ciò che ha detto nella prima parte sul piano
empirico. Dà una definizione che allarga l’importanza della comunicazione rispetto a quella della politica, è una
definizione che si può estendere concettualmente e teoricamente?

«La comunicazione è qualcosa di più dei mezzi tecnici – la televisione, internet, ecc. - che la rendono possibile e
degli attori – giornalisti, consulenti, ecc. – che li gestiscono. E la comunicazione politica non è soltanto l’attività con
cui un politico invia un messaggio ai suoi elettori. Al contrario, si tratta di un aspetto costitutivo dei fenomeni
politici. Quello che occorre comprendere è che non esiste da un lato la politica, e dall’altro la comunicazione che ne
offre una rappresentazione a beneficio del pubblico. Al contrario, i fenomeni della politica – come il potere, la
democrazia, la leadership, l’azione collettiva, la nazione, ecc. – sono fatti di comunicazione o implicano una
dimensione comunicativa.

Parlando di forme della comunicazione politica non mi riferisco al fatto che questa può avere una natura televisiva
o face to face, cartacea o elettronica; non sto parlando dei supporti materiali, quanto invece delle diverse
situazioni del fare politica. Sono comunicazione politica le discussioni pubbliche che avvengono nelle assemblee
deliberative dei bilanci partecipativi; i rituali e i cerimoniali che costellano la vita pubblica di una nazione, come le
adunanze di massa e i cortei dei manifestanti antiG8; le classificazioni ufficiali con cui le burocrazie pubbliche
raggruppano le persone a fini amministrativi; perfino l’azione violenta inscenata dagli attentati terroristici.
Addirittura, esistono situazioni in cui non è la comunicazione politica a essere uno strumento al servizio del leader
e del suo potere, bensì sono invece il potere e il leader al servizio della comunicazione politica, come quando si
tratta di offrire rappresentazioni simboliche della società ai suoi cittadini, come avviene nelle fasi di mutamento
storico»

DISCUSSIONE CRITICA DELL A DEFINIZIONE

Si può senz’altro essere d’accordo con la premessa di Caniglia: è infatti corretto distinguere la comunicazione
politica dai media attraverso i quali si diffonde; così come è del tutto appropriato non accettare che
“comunicazione politica” sia solo la semplice comunicazione elettorale e sottolineare il fatto che il binomio

«comunicazione politica» non possa essere spezzato. Meno accettabile è quanto si afferma in seguito.

1. non è possibile cogliere il significato vero della politica: nella sua definizione, la nozione sembra acquistare
significato solo in rapporto ad una certa fenomenologia, che potrebbe apparire fin troppo estesa senza che ne
vengano scolpiti i meccanismi di funzionamento.

2. inoltre, l’inversione del legame tra comunicazione e politica non convince appieno, sembra che sia la
comunicazione l’ambito di questi fenomeni e la politica sia solo qualificante: se è vero quanto siamo andati
affermando circa la competizione politica ed i suoi protagonisti, è immediato osservare che la comunicazione ed
il linguaggio vengono assorbiti dalla lotta per il potere politico sotto forma di risorsa, fra le altre, a disposizione
degli attori che mirano a conquistare i ruoli di autorità, a mantenerli o a condizionarli. Allora, sono proprio i
leader politici e i capi dei gruppi sociali a impiegare la comunicazione strategicamente, allo scopo di
ottenere i loro scopi (condensati in quelli che abbiamo denominato il «chi» e il «che cosa» della politica).

Insomma, se Caniglia riconosce la complessità del raccordo con la politica, non riesce tuttavia a stabilire un
collegamento teoricamente solido con la comunicazione. Perciò il suo tentativo definitorio non risulta efficace nel
circoscrivere il perimetro della comunicazione politica.

L A DEFINIZIONE DI DORIS GRABER

«Il campo della comunicazione politica […] comprende la costruzione, la trasmissione, la ricezione e l’elaborazione
di messaggi che in via potenziale esercitano un significativo impatto, diretto o indiretto, sulla politica. Gli emittenti
o i riceventi del messaggio possono essere politici, giornalisti, membri di gruppi di interesse oppure privati
cittadini, non organizzati».

Questa definizione abbina una caratterizzazione completa del processo comunicativo, poiché si parla di
«costruzione»,

«trasmissione», «ricezione», «elaborazione» (le unità minime del modello di Lasswell) al collegamento dell’efficacia
della comunicazione ad una conseguenza ben precisa, «l’impatto, diretto o indiretto, sulla politica».

Tuttavia, anche questa definizione non appare immune da critiche.

L A CRITICA A GRABER

Cosa non va nella definizione precedente? Nel momento in cui la studiosa deve identificare gli attori politici, tra cui
avviene la comunicazione, nomina «politici, giornalisti, membri di gruppi di interesse oppure privati cittadini»;
ovvero, i principali protagonisti dell’arena politica poliarchica, ma non di altre. In altre parole, siamo in presenza di
una definizione sufficientemente precisa di quel che è la comunicazione politica nelle democrazie di massa; che
tuttavia non equivale alla comunicazione politica in generale.

Lo stesso problema, che consiste nella implicita contrazione semantica del concetto, tanto perentoria quanto
ingiustificata, si presenta spesso nelle analisi accademiche, tanto da rappresentare uno dei tratti distintivi di
questo ambito di studi.

Anzi, vi sono autori che, non in modo allusivo, bensì esplicitamente restringono l’impiego del concetto di

«comunicazione politica» al regime democratico. In questi casi, il ricercatore postula che, a causa di determinate
condizioni che si presentano esclusivamente nelle poliarchie, è corretto impiegare il concetto di «comunicazione

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politica» in maniera esclusiva, ovvero per indicare i fenomeni comunicativi che si verificano solo in tali regimi,
denominando in altra maniera i processi comunicativi che si dispiegano nei sistemi politici non democratici.

Naturalmente, la tenuta teorica di questa impostazione poggia, in grado decisivo, sulla solidità degli argomenti
prodotti a sostegno del ragionamento.

L’autore che più decisamente intraprende questa traiettoria analitica è Giampietro Mazzoleni.

L A DEFINIZIONE DI MAZZOLENI

«Appare qui un carattere fondante della comunicazione politica, ossia il suo legame con il contesto e le regole
della democrazia: lo scambio di risorse simboliche per la conquista del potere, la dialettica tra parti, sono possibili
solo in un contesto di libertà e di non coercizione. Così, la distinzione non solo epistemologica ma anche empirica
tra propaganda (nell’accezione più comune di manipolazione di grandi masse da parte di gruppi ristretti) e
comunicazione politica trova buoni argomenti a sostegno delle posizioni della Arendt e specialmente di Habermas
sul ruolo dell’opinione pubblica informata e critica, ruolo che il filosofo tedesco lega alla democrazia e soprattutto
alla partecipazione consapevole dei cittadini. Ne deriva che le relazioni (la comunicazione) tra gruppi di interesse e
di potere riscontrabili nella vita e nella storia degli imperi, dei regni, delle dittature antiche e moderne non si
possono a rigore considerare comunicazione politica».

CRITICA ALL’APPROCCIO DI MAZZOLENI

La tesi di Mazzoleni, ridotta al suo significato sostanziale, è che di «comunicazione politica» si possa parlare
solamente in rapporto alle democrazie: perché vi sarebbe un nesso vincolante tra le condizioni strutturali della
poliarchia (democrazia); e gli scambi comunicativi tra gli attori principali della comunicazione politica, che sono il
sistema politico, i media e i cittadini (caratteristici solo della democrazia), come egli stesso ci dice: «possiamo
definire la comunicazione politica lo scambio e il confronto dei contenuti di interesse pubblico-politico prodotti dal
sistema politico, dai sistema dei media e dal cittadino-elettore» (MAZZOLENI 1998, p. 29), «dove il sistema politico
include i partiti, le coalizioni, il Parlamento, gli organi di governo e amministrazione, la magistratura, il capo dello
Stato, ma anche i movimenti e i gruppi di pressione, mentre il sistema dei media comprende i mezzi di
comunicazione di massa (vecchi e nuovi), con cui la politica stabilisce rapporti di dipendenza e/o conflitto,
competizione e/o scambio» (COSENZA 2018, p. V).

Secondo questo ragionamento, la comunicazione politica (anzi, per Mazzoleni, la «propaganda») nei regimi
totalitari, autoritari o tradizionali, come nelle corti medievali e rinascimentali, dovrebbe comprendere solo le
interazioni comunicative prodotte dalle élites e aventi per destinatari i sudditi o la massa. Però, sappiamo che non
è così: prima di tutto, perché in quei sistemi politici non tutta la comunicazione ricade entro il rapporto governanti-
governati. Che dire, infatti, delle relazioni comunicative che si instaurano tra, poniamo, le diverse fazioni di un
partito unico entro un’arena burocratica?

Oppure, negli stessi regimi, come qualificare i rapporti che mettono in comunicazione i burocrati dirigenti e i capi
delle forze sociali, portatori del sostegno politico decisivo? E come intendere i processi comunicativi tra il sovrano e
i clan nobiliari che se ne disputano il favore? Certamente, in tutti questi casi, siamo al di fuori della propaganda»;
ma, altrettanto chiaramente, tali fenomeni non si collocano all’esterno del campo della comunicazione politica,
giacché siamo in presenza di messaggi trasmessi tra attori politici o politicamente rilevanti.

L’obiezione principale verso il modo in cui questo autore disegna i confini della «comunicazione
politica» è la stessa che può essere sollevata verso gli approcci «riduzionisti», che identificano
implicitamente la «comunicazione politica» (in generale) con un tipo specifico di comunicazione
politica, quella che ha luogo nelle poliarchie. La tesi per cui il concetto di «comunicazione politica» dovrebbe
applicarsi solamente alle interazioni comunicative tipiche delle democrazie non convincono. Al contrario, inteso in
senso circoscritto e limitato, allorché viene adottato per studiare la comunicazione politica nelle arene poliarchiche
democratiche, l’accostamento di Mazzoleni è utile e stipula un nesso appropriato tra comunicazione e politica. Non
possiamo però accettarlo quale approccio generale allo studio della materia.

“COMUNICAZIONE POLITICA”

Alla luce della nostra ricognizione, occorre ribadire con forza che, siccome vi è politica anche nei regimi non
democratici, possiamo (e dobbiamo) utilizzare il concetto di «comunicazione politica» per connotare/designare
anche i processi comunicativi che si verificano entro quei sistemi.

La «propaganda» nel significato di Mazzoleni identifica una possibile declinazione della comunicazione politica, fra
le altre, che connette le élites al potere (emittente) alle masse (ricevente) dove i tratti caratteristici del regime
(valori, regole del gioco, organizzazione dei ruoli) sono improntati ad un modello autoritario, totalitario o in ogni
caso non democratico. Insomma, come è stato osservato da diversi studiosi, il collegamento tra potere e
comunicazione politica compare in tutte le epoche e per tutti i tipi di governo. Ben prima che esistessero i sistemi
politici democratici rappresentativi, il consenso della popolazione si rivelò essenziale al fine del mantenimento
dell’ordine pubblico e la comunicazione costituì uno delle risorse essenziali per la coesione minima di ogni
comunità politica.

UNA DEFINIZIONE GENERALE DEL CAMPO DI STUDIO DELLA “COMUNICAZIONE POLITICA”

Se vogliamo davvero capire la comunicazione politica, nella sua complessità, dobbiamo abbandonare le
prospettive riduzioniste come quella di Mazzoleni e adottare un punto di vista generale, in linea con gli argomenti
fin qui sostenuti.

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Allora, possiamo intendere la comunicazione politica come una relazione, fondata sullo scambio e la
trasmissione di messaggi, che utilizzano diversi codici (non solo linguistico, ma anche iconico o
sonoro) e che fluiscono attraverso una pluralità di canali (oralità, mass media vecchi e nuovi),
ponendo così in collegamento gli attori che partecipano, a vario titolo, alla competizione per il potere
politico: con l’avvertenza che il numero e la qualità di questi attori non possono essere definiti precisamente una
volta per tutte, bensì dipendono in grado determinante dal tipo di regime nel quale la competizione si dispiega.

Come abbiamo più volte sostenuto, il legame comunicazione-politica è onnipresente nella millenaria vicenda
umana; tuttavia, la specifica connotazione di questo legame varia in rapporto alle forme cangianti che la lotta
politica ha acquistato, dipendendo queste ultime dai regimi e dunque dalle mutevoli circostanze di tempo e di
luogo.

LEZIONE 6 – I PREGIUDIZI ALLO STUDIO DELLA COMUNICAZIONE POLITICA

I PREGIUDIZI ALLO STUDIO DELL A COMUNICAZIONE POLITICA

Dunque, la scienza politica studia la comunicazione muovendo da un interesse che non riguarda la comunicazione
in sé, bensì investe il collegamento che la comunicazione instaura con la politica. La comunicazione quando viene
usata in politica.

Da questo punto di vista, è chiaro che lo scopo cognitivo della disciplina viene ottenuto se (e solo se) si
identificano dei nessi tra la dimensione comunicativa e la dimensione dei comportamenti politici,
nonché delle condizioni che li rendono possibili, delle istituzioni che vi presiedono, insomma di tutto quell’insieme
di elementi che la scienza politica, indipendentemente dalla comunicazione, è deputata ad analizzare.

Tuttavia, nella letteratura sono diffusi due pregiudizi che minano la possibilità di considerare il tema della
comunicazione politica come problematica che ricade nel dominio disciplinare e cognitivo della scienza politica:
l’uno perché distrugge l’oggetto medesimo che la disciplina (scienza politica) è chiamata a focalizzare;
l’altro perché investe lo studio di questo oggetto con considerazioni di segno normativo, di tipo
etico/morale, che dovrebbero invece rimanere al di fuori di ogni manifestazione del sapere scientifico.

Perciò, occorre prima di tutto volgere lo sguardo a queste distorsioni, allo scopo di coglierne la fallacia e perciò
rimuoverle, al fine dello studio scientifico della comunicazione politica.

“PANPOLITICISMO” E “PATOLOGISMO”

I due pregiudizi sono, rispettivamente, il «panpoliticismo» e il «patologismo». Si tratta, in pratica, di distorsioni che,
in quanto tali, inibiscono l’avalutatività dell’analisi – facendo così venire meno uno dei capisaldi di ogni indagine
scientifica, la wertfreiheit («libertà dai valori»), nella formulazione di Max Weber. Il lavoro intellettuale deve essere
libero dai valori.

Sintetizzando, secondo Weber l’adozione di una prospettiva scientifica per l’analisi dei fenomeni politici richiede
che il ricercatore agisca in modo del tutto svincolato dalla propria scala di valori. In altre parole, se lo
scienziato sociale intende perseguire efficacemente gli scopi cognitivi che orientano la sua ricerca, deve mettere a
riposo le proprie preferenze di ordine etico, affinché queste ultime non si intromettano nell’applicazione del metodo
scientifico. Ad esempio, ciò vuol dire che uno scienziato politico che volesse studiare il modello organizzativo di un
partito politico di estrema destra o di estrema sinistra, non dovrebbe essere animato da intenti diversi dalla pura
conoscenza del fenomeno, né dovrebbe consentire che i propri giudizi di valore rispetto all’oggetto di studio,
positivi o negativi, interferiscano con l’esame ravvicinato del medesimo.

Il «patologismo» costituisce un pregiudizio che, invece, instilla nell’analisi proprio pregiudizi di valore. Prima, però,
vediamo che si intende per «panpoliticismo».

CHE COS’E’ IL “PANPOLITICISMO”

Oggi, viviamo in ciò che molti chiamano «società dell’informazione» o «società dei media», intendendo che
l’influenza sociale degli operatori della comunicazione, così come dalla logica mediatica che li anima, ha raggiunto
punte sconosciute nelle società precedenti e arriva a svolgere funzioni imprescindibili nelle relazioni sociali.

Si tratta di un dato di fatto. Tuttavia, può dare luogo ad interpretazioni erronee, che cedono al pregiudizio del

«panpoliticismo»: una concezione per cui quella «politica» non è una comunicazione particolare, distinta e
distinguibile da altri tipi di comunicazione; bensì coincide con la comunicazione in quanto tale, con il suo
impiego o con i processi che lo condizionano, in una parola con la comunicazione in quanto istituzione sociale. Per
questo pregiudizio, tutta la comunicazione è politica indipendentemente dall’argomento della conversazione.

Perché questo indirizzo di studi è sbagliato? Perché, adottando questa prospettiva si approda ad una indebita
sovra- estensione del concetto, per la quale il dominio della politica (e della comunicazione che la
accompagna) giunge ad includere fenomeni che, almeno sul piano analitico, dovrebbero rimanere
distinti se non distanti dal campo circoscritto dalla lotta per il potere politico, quali i comportamenti
osservati dagli attori in ambito culturale, economico, famigliare, intimo e via dicendo. Perciò, sono da respingere le
interpretazioni che postulano la perfetta e assoluta sovrapponibilità della comunicazione politica con la
comunicazione in quanto tale. La comunicazione politica è una PARTE della comunicazione.

ESEMPI DI “PANPOLITICISMO”

Il panpoliticismo è da respingere, come sappiamo da quanto abbiamo fin qui studiato: infatti, l’insieme dei
comportamenti che chiamiamo «politici» è ben delimitato, cioè possiede dei confini chiari che lo separano
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dalle altre sfere di attività sociali. In altre parole, la politica identifica una porzione della società e la
comunicazione politica riguarda i flussi comunicativi che si sviluppano entro quell’ambito.

Tuttavia, il pregiudizio del panpoliticismo, che implica l’ubiquità (onnipresenza) della comunicazione politica, risulta
piuttosto diffuso, sia in alcuni approcci analitici che mirano a costruire una interpretazione complessiva della
società contemporanea, sia in diversi accostamenti di taglio accademico, che paiono finalizzati alla comprensione
del ruolo giocato dalla comunicazione in relazione alla politica democratica.

Tra i primi, figurano senz’altro tutti gli orientamenti filosofici e dottrinari di matrice olistica (che hanno per oggetto
l’intero, interpretazione complessiva della realtà), quali il neomarxismo o il post-strutturalismo. Un esempio dei
secondi va ricercato invece nella teoria «comunicazionale» del potere di Manuel Castells, secondo cui le odierne
società democratiche si reggono sul nesso comunicazione-potere – che nel suo approccio appare del tutto
svincolato da una logica strumentale. Secondo Castells, infatti, la comunicazione non è semplicemente una
risorsa/strumento, assieme ad altre, del potere politico. Al contrario, la centralità sociale di cui le reti
comunicative godono nei regimi democratici induce Castells a intravedervi le fonti del potere politico,
di modo che, anche in questo caso, si realizza la saldatura teorica in senso co-estensivo ed olistico tra
comunicazione e politica. La comunicazione smette di essere uno strumento del potere per diventare
il potere stesso (tutta la comunicazione è politica. MA È SBAGLIATO)

CHE COSA È IL “PATOLOGISMO”

A differenza di quanto abbiamo rilevato per il panpoliticismo, qui il requisito della specificità risulta rispettato:
l’oggetto di studio è effettivamente la comunicazione che si dispiega entro la sfera politica (per esempio, l’oratoria
dei capi, il simbolismo di massa nei partiti, le strutture comunicative delle dottrine). Tuttavia, come il termine
stesso suggerisce, questo approccio muove dal presupposto per cui la comunicazione politica, in
particolare il linguaggio, sia in tutto o in parte patologica, cioè malata, nel senso che danneggia o
distrugge funzioni comunicative considerate essenziali. Il linguaggio politico per definizione è malato e per questo
ci impedisce di cogliere/ attribuirgli funzioni comunicative vere.

Va detto che il pregiudizio è alimentato da taluni casi empirici che, storicamente, documentano la falsità della
propaganda o dei discorsi dei leader nei regimi totalitari, ovvero le menzogne e le distorsioni che non esitano a
manifestarsi anche nella comunicazione politica delle democrazie (esempio: Tony Blair e la guerra in Iraq nel
2003), al fine di legittimare e di giustificare la condotta dei leader politici e di governo. Ma questi sono fatti singoli,
quindi non bisogna definire il linguaggio politico come malato nella sua totalità. Gli studiosi che adottano questa
prospettiva di analisi, da un lato, attuano una ricognizione delle fallacie e delle manchevolezze che connotano la
comunicazione politica; dall’altro, tendono a suggerirne un impiego corretto e perciò non-malato.

ESEMPI DI “PATOLOGISMO”

A differenza di quanto osservato nel caso del panpoliticismo, qui è più difficile collegare il pregiudizio a visioni del
mondo o a sistemi di pensiero generali, poiché la problematica riguarda piuttosto singole (e numerose) proposte
interpretative. Un esempio viene dal grande scrittore George Orwell, per cui il linguaggio politico, in particolare
attraverso l’impiego di eufemismi (La sostituzione di un'espressione propria e abituale con una attenuata o
alterata, suggerita da scrupolo morale o religioso o da riguardosità: per es. alienato per pazzo; andarsene per
morire), mira a «manipolare» l’opinione pubblica. Perché?

Lo stratagemma linguistico dell’eufemismo permette ai politici di mascherare verbalmente concetti, eventi o prese
di posizioni al fine di eludere o attenuare dei significati sgraditi al pubblico – come succede allorché si
impiega l’espressione «pacificazione» per designare, nel corso di un conflitto, l’intervento di truppe militari contro
civili disarmati e indifesi. L’abbondante ricorso a questa figura retorica, a parere dello scrittore inglese, qualifica il
linguaggio politico come manipolatorio e, quindi, patologico – determinando un incremento della capacità
persuasiva dei discorsi che i leader indirizzano ai cittadini, al prezzo però di un sensibile deterioramento della
comunicazione politica, in termini di chiarezza e di precisione dei messaggi.

Altri autori hanno rinvenuto lo stesso utilizzo patologico e manipolatorio del linguaggio in capo a leader come
Mussolini o Berlusconi, oppure in collegamento ad un tipo di comunicazione povera di riferimenti fattuali (il
«Politichese» della Prima Repubblica) muovono l’emotività degli ascoltatori, a prescindere dai dati della verità.

PERCHE’ IL PATOLOGISMO VA RESPINTO?

Il punto è che il patologismo va respinto perché, aderendo a questo pregiudizio, non otteniamo affatto un
affinamento della nostra cognizione della comunicazione politica anzi ne ricaveremmo un quadro distorto.
Principalmente per due ragioni:

1. il patologismo asserisce che sono le distorsioni, le lacune o le anomalie a determinare i tratti distintivi della
comunicazione politica, perché la si confronta con un parametro spesso implicito di «comunicazione non
malata». Ad esempio, se un certo leader, poniamo Salvini, Renzi o Grillo, viene descritto come il portatore di
una comunicazione “malata”, “distorta” o “manipolatoria”, ecco che immediatamente segue la specificazione
dei connotati di “correttezza”, “appropriatezza”, “trasparenza”, che la comunicazione politica dovrebbe
assumere. Ora, è chiaro che non si può affermare che una cosa sia corretta o scorretta senza disporre di un
parametro di valutazione. Cosa vuol dire tutto questo? Vuol dire che, in realtà, l’approccio patologico
procede – ecco il pregiudizio – assumendo un modello ideale di comunicazione politica, che
potremmo chiamare della “persuasione razionale” cioè quella comunicazione che tende a
convincere con modelli razionali, aperti con pro e contro eccetera. In altre parole, gli studiosi che
cedono a questo pregiudizio formulano valutazioni tendenzialmente negative dei tratti propri della
comunicazione osservata perché li confrontano con uno schema astratto che si contraddistingue per la
linearità, la coerenza logica e l’argomentazione aperta, tutte caratteristiche proprie dei messaggi finalizzati a
trasmettere informazioni, linguaggio tipico delle lezioni accademiche, sermoni religiosi quelle manifestazioni
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linguistiche che vogliono convincere sul piano razionale. In realtà, questo modello ideale rappresenta un
criterio etico, la cui funzione risiede, cioè, nell’approvare (avvalorare) certe modalità comunicative
e nel disapprovarne (svalorizzarne) altre. Allora, pare legittimo concludere che l’approccio,
nonostante le parvenze analitiche, è funzionale ad obiettivi di natura prescrittiva e valutativa, con
buona pace della wertfreiheit weberiana. Sotto questo profilo, lo scopo non è quello di cogliere le variabili
che guidano la scelta di un certo tipo di comunicazione politica, quanto piuttosto di correggerne i difetti e le
imperfezioni, esibendo così un intento «terapeutico», che dovrebbe invece rimanere estraneo all’ambito di
applicazione del metodo scientifico – anche perché in più di una circostanza la comunicazione politica per
raggiungere i suoi scopi (acquistare o mantenere il sostegno politico decisivo) deve necessariamente
assumere forme e modalità di trasmissione che si discostano dal modello .

2. In secondo luogo, la tesi patologica non spiega affatto i tratti comunicativi così individuati, ma si
limita a descriverli. Nella misura in cui adotta un criterio etico per valutare la comunicazione politica, il
patologismo punta semplicemente a verificare se i fatti comunicativi si conformino o meno al modello
avvalorato – con la prevedibile conseguenza che, data la natura ideale del modello stesso, è inevitabile che i
fatti si discostino dalle prescrizioni dello schema. La funzione che possiamo attribuire all’approccio si esaurisce
allora in questo raffronto.

Perché, per esempio, l’oratoria di Mussolini o il discorso di Berlusconi mettono in atto un intento manipolatorio e
non razionale? O ancora, per quali motivi il «politichese» non si pone l’obiettivo di comunicare direttamente ai
cittadini- elettori? È inutile esigere una risposta a tali interrogativi dagli studiosi che scivolano nel pregiudizio
patologico considerandolo malato: perché, proprio per come è strutturato, il loro accostamento non può formulare
alcun responso.

In effetti, un conto è mostrare che taluni eventi comunicativi sono tali grazie all’accertamento del loro grado di
conformità/difformità rispetto ad un determinato standard ideale; tutt’altro conto è precisare le ragioni che
presiedono ad un certo comportamento comunicativo e non ad un altro. Giova ribadire che il patologismo appare
del tutto inadeguato per spiegare, giacché non focalizza alcuna connessione tra la variazione della comunicazione
politica, da una parte, e le variazioni dei fattori di natura squisitamente politica, come il tipo di regime o le
circostanze politicamente rilevanti, che danno luogo ai comportamenti comunicativi dei leader politici, dall’altra.

LEZIONE 7 – APPROCCI ALLO STUDIO DELLA COMUNICAZIONE POLITICA

L’APPROCCIO POLITOLOGICO E GLI ALTRI

Al fine di cogliere appieno le peculiarità dell’accostamento politologico, è utile esaminarle in rapporto ad alcune
discipline che, a vario titolo, si sono interessate di comunicazione politica: la linguistica, l’etica del linguaggio e
la sociologia della comunicazione.

A questo riguardo, è bene tenere conto di un paio di precisazioni:

1. le specificità di ciascun orientamento emergono grazie al confronto tra le diverse branche della conoscenza
specialistica; il confronto ci aiuto a individuare le specificità di ognuno.

2. occorre limitarci a rilievi del tutto generali, senza addentrarci nelle distinzioni di ordine contenutistico e
metodologico di settori disciplinari che hanno ormai raggiunto dimensioni ragguardevoli, per qualità e per
quantità.

Procederemo dunque in maniera schematica e sintetica.

UN ESAME SCHEMATICO

In particolare, è utile organizzare l’esame comparativo dei diversi approcci – quello POLITOLOGICO, quello
LINGUISTICO, quello dell’ETICA DEL LINGUAGGIO e quello della SOCIOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE – secondo
scansioni che corrispondono ad altrettanti interrogativi:

- Perché l’accostamento in questione si interessa della comunicazione politica?


- Di quale tipo di comunicazione politica si interessa nello specifico?
- In vista di quale scopo la studia?

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L A LINGUISTICA

Il linguaggio, quale modalità prevalente nei processi comunicativi, costituisce l’oggetto principale di studio della
linguistica e del suo ramo più avanzato, la semiotica. Perciò, la risposta alla prima domanda è quasi ovvia:
proprio perché (anche) la comunicazione politica è composta da unità del linguaggio, non sorprende che la
linguistica la consideri e la studi, giacché rientra appieno nel suo campo di analisi.

Quale comunicazione politica solitamente rientra nello sguardo analitico di questi studiosi? Si possono citare i temi
di ricerca più frequentemente approfonditi nel nostro paese, dove questa tradizione di ricerca possiede un forte
radicamento: dalle indagini in prospettiva storica aventi per oggetto la formazione del lessico politico nei ceti colti,
specialmente intorno ai vocaboli «democrazia» e «Stato», agli studi sul linguaggio politico e delle amministrazioni
pubbliche fino alla descrizione dei mutamenti intervenuti nella retorica politica contemporanea, anche per effetto
dell’introduzione dei nuovi media, in primis di Internet e dei social networks.

Tali dinamiche sono state esaminate principalmente in capo a due specie di oggetti: a) l’oratoria e la retorica dei
capi politici, da Mussolini a Craxi, da Berlusconi a Renzi; b) il linguaggio politico veicolato dai media, vecchi
(televisione) e nuovi (il web 2.0), specialmente in rapporto alla mediatizzazione della politica democratica.

Quanto alle finalità di questo indirizzo di ricerca, consistono perlopiù nel rilevare, riconoscere, individuare e
classificare le strutture linguistiche impiegate nel campo della comunicazione politica. Per esempio,
l’idea può essere di identificare i costrutti linguistici che ricorrono più frequentemente nei discorsi politici dei
leader, quali: l’utilizzo preferenziale di certi pronomi personali («io», «noi», «loro»), il ricorso a certe costruzioni del
periodo (paratassi, coordinazione (più semplice), o ipotassi, subordinazione (più raffinata)), oppure ancora il
grado di importazione, nell’alveo del linguaggio politico, di termini provenienti dai linguaggi tecnici o specialistici
(«operazione chirurgica», «asfaltare», «rottamazione»).

Differenze con l’approccio politologico: non si interessa a tutta la comunicazione politica (solo linguaggio); non si
pone alcun obiettivo di teoria (politica).

ETICA DEL LINGUAGGIO

Tale accostamento scaturisce da una pluralità di fonti intellettuali: tra cui i filosofi morali di scuola britannica, come
Wittengstein e Austin, insieme ad un nutrito insieme di scrittori (Orwell, Huxley e, in Italia, Pasolini e Calvino) e di
studiosi della comunicazione massmediale (secondo un’impostazione influenzata prevalentemente da Chomsky).
Perché questi autori rivolgono la loro attenzione alla comunicazione politica? In sintesi, le ragioni sono
essenzialmente due. Da un lato, l’approccio etico/morale promuove una visione del mondo per cui la
comunicazione in generale e il linguaggio in particolare designano gli strumenti attraverso i quali è
possibile esercitare il pieno controllo della realtà sociale: sennonché, la modernità ha determinato una
sempre più accentuata proliferazione di linguaggi diversi, il cui effetto aggregato è spesso la confusione. Gli
studiosi che si riconoscono in questo indirizzo ritengono che la riduzione della complessità linguistica costituisca
una mossa preliminare e necessaria a risolvere i principali problemi che affliggono l’umanità. Perché il linguaggio
controlla la realtà sociale, quindi se è più facile è anche più facile controllare essa.

Quindi, il linguaggio rappresenta la leva su cui agire per introdurre mutamenti positivi nella condizione
umana. Dall’altro lato, l’interesse per il linguaggio politico scaturisce dal timore e dalla preoccupazione
relativi al collegamento che si instaura tra comunicazione e violenza. In tal senso, ad essere prese di mira
sono in particolare le espressioni che, sul piano comunicativo, paiono finalizzate a ridimensionare o addirittura a
colorare positivamente le conseguenze drammatiche degli atti violenti grazie all’impiego di eufemismi o di vocaboli
tecnici.

Non a caso, passando agli oggetti su cui si punta l’attenzione degli studiosi, questo accostamento si è occupato, in
via preferenziale, del linguaggio politico ideologico (è il linguaggio delle grandi ideologie come fascismo, nazismo,
comunismo): che, trasfigurando la realtà, non è una descrizione reale della realtà, e possedendo un accentuato
grado di adattabilità, in funzione degli scopi ideologici perseguiti, non è un linguaggio oggettivo, presta per
definizione il fianco alle critiche volte a ripristinarne la stretta aderenza ai fatti del mondo così come si presentano,
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privi cioè del condizionamento operato dal filtro ideologico. Di qui la focalizzazione sulla propaganda bellica,
della quale viene messa in luce la falsità, mirata a rafforzare il pregiudizio e l’aggressività verso il nemico; oppure
sul linguaggio articolato nell’ambito delle dottrine politiche, specialmente di matrice totalitaria.

Quanto agli scopi, l’intento fondamentale dell’etica del linguaggio è di tipo terapeutico: punta a rilevare i difetti
e le distorsioni (le ‘malattie’) che affliggono la comunicazione e a ripristinarne la veridicità e l’aderenza alla realtà.

Lo scostamento dall’approccio politologico è davvero marcato: avendo finalità morali, e non cognitive,
l’etica del linguaggio persegue un obiettivo che, dal punto di vista della scienza politica, non abbiamo difficoltà a
qualificare come viziato dal pregiudizio patologico – che si aggiunge ai limiti che ne riducono l’oggetto al linguaggio
ideologico.

L A SOCIOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE

Questo accostamento è caratterizzato da una decisa impronta massmediologica. Cioè: i sociologi della
comunicazione si interessano agli eventi comunicativi specialmente in rapporto agli effetti o alle
conseguenze che l’attività dei media determina sul comportamento sociale – ne viene che, inquadrando
la comunicazione politica, l’enfasi cadrà sul ruolo esercitato dai mass media, in particolare dai nuovi media, nel
plasmare le condotte degli attori politici. Ad esempio, un filone particolarmente prolifico ha posto in evidenza le
modificazioni che l’adozione di Twitter ha determinato nel rapporto governanti-governati nelle democrazie
contemporanee, plasmandolo nel senso della personalizzazione e della disintermediazione. Cioè una
comunicazione immediata e diretta tra il politico e i suoi seguaci.

Quanto agli oggetti su cui cade l’interesse sociologico, si collocano solitamente a tre livelli: la comunicazione
interpersonale; la comunicazione di massa; la comunicazione dei nuovi media. Quanto agli scopi dell’approccio
sociologico, l’obiettivo dell’analisi trascende la semplice descrizione dei fatti e ha l’ambizione di costruire una
teoria delle comunicazioni di massa, cioè identificare meccanismi esplicativi che aiutino a spiegare perché
l’esposizione ai flussi comunicativi diffusi dai mass media producono determinati effetti anziché altri.

Le finalità teoriche tendono ad avvicinare la sociologia della comunicazione alla scienza politica nell’analisi della
comunicazione politica, la diversa estensione dell’oggetto di studio distingue i due approcci (gli studi
teorici condotti secondo una prospettiva di scienza politica hanno per oggetto tendenzialmente tutta la
comunicazione politica (tutte le forme e tutti gli attori). Mentre per la sociologia della comunicazione l’oggetto dello
studio è il linguaggio dei mass media.

L A SCIENZA POLITICA

La scienza politica intende la comunicazione nei termini di un comportamento, tra gli altri, che si colloca
saldamente dentro la sfera politica e perciò suscettibile di essere indagato, in relativa autonomia; di qui l’interesse,
come detto, per le condotte comunicative tenute da diversi attori politici (leader, gruppi di pressione e cittadini);
infine, la finalizzazione degli sforzi conoscitivi mira a stabilire connessioni teoriche tra i medesimi comportamenti
comunicativi, da una parte, e i fattori politici che vi presiedono, dall’altra.

Semmai, giova rimarcare il fatto che una delle difficoltà insite in questa impresa conoscitiva, se non la principale,
deriva dal fatto che i confini della politica o della lotta per il potere non sono affatto stabili, bensì cambiano nel
corso del tempo: la «politica» alla corte del Re Sole, nel XVII secolo, non possiede la stessa estensione che le è
propria nei regimi totalitari o democratici del XX secolo.

Ne deriva che l’oggetto della disciplina è soggetto a cambiamenti. Inoltre, anche i canali di trasmissione della
comunicazione politica variano, allo stesso modo, lungo l’asse cronologico, esercitando una influenza niente affatto
secondaria sia sulle tecniche di articolazione dei messaggi, sia sul loro contenuto.

LEZIONE 8 – L’APPROCCIO POLITOLOGICO ALLA COMUNICAZIONE POLITICA: LINEE


EVOLUTIVE E METODI DI INDAGINE

L’EVOLUZIONE DEGLI STUDI POLITOLOGICI DELLA COMUNICAZIONE POLITICA

Come abbiamo detto, i confini della sfera politica sono cambiati nel corso del tempo, includendo diversi tipi di
attori e di comportamenti specifici. Allo stesso modo, in corrispondenza a questa evoluzione, si è sviluppato lo
studio dei fenomeni comunicativi in politica. Oggi ci proponiamo, a conclusione del capitolo II del volume, di
illustrarne le linee principali.

Un primo dato da tenere in mente: il campo dei fenomeni e dei concetti della comunicazione politica non
rappresenta semplicemente il prodotto della rivoluzione tecnologica che ha investito l’ambito della comunicazione
e del suo impatto sul sistema politico. Nel dopoguerra, prima negli Stati Uniti e poi in Europa, la diffusione dei
mezzi di comunicazione di massa – in particolare, della televisione – ha comportato un profondo mutamento nel
rapporto tra governanti e governati in democrazia (es. dibattito politico tra Nixon e Kennedy nel 1960). In effetti, la
saldatura tra mezzo televisivo e comportamento politico che si è così prodotta, nel segno della cosiddetta
«videopolitica» ha immediatamente attirato l’attenzione degli scienziati politici. Non a caso, i primi studi di questo
tipo si concentrano sulle campagne elettorali, specialmente relative alle elezioni presidenziali nel sistema politico
americano, quale momento istituzionale in cui la saldatura esibisce tutta la sua rilevanza.

UN ERRORE ORIGINARIO: COMUNICAZIONE POLITICA = COMUNICAZIONE ELETTORALE

Nel ragionamento appena accennato, tuttavia, risultano evidenti talune lacune originarie dell’approccio
politologico alla comunicazione politica: oltre ad un certo “etnocentrismo” – il trattare cioè dinamiche
significative prevalentemente per il sistema politico statunitense, trascurando di indagare gli stessi fenomeni in
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chiave comparata – le prime indagini tendevano a far coincidere la comunicazione politica con quella
elettorale, compiendo così un grossolano errore di prospettiva, per cui una parte dell’oggetto di studio (la
propaganda dei vari candidati e partiti, indirizzata ai cittadini allo scopo di intercettarne il sostegno) veniva
scambiata per il tutto (la comunicazione politica nella sua totalità, che consta di diverse forme, che fluiscono
attraverso più canali, per l’azione di una pluralità di soggetti, non solo i leader o i candidati in lizza, in vista di
obiettivi diversificati).

Per quanto limitato, tuttavia, il paradigma di studio della comunicazione politica fondato sul modello del

«convincimento dell’elettore» o voter persuasion ha plasmato le analisi della comunicazione politica per oltre
trent’anni e ha contribuito ad isolare tanti dati empirici. Quel che bisogna però avere chiaro è che questi contributi
rimangono di taglio specialistico e non generale.

LE “TRE FASI” DELL A COMUNICAZIONE POLITICA

Cercando invece di acquistare un punto di vista generale, Blumler e Kavanagh (1999) hanno cercato di ricostruire
gli snodi evolutivi che hanno marcato lo sviluppo degli studi dedicati alla comunicazione politica, collegandoli a
certi tratti dominanti dei sistemi politici democratici. Nello specifico, le fasi così identificate, che sfumano l’una
nell’altra senza discontinuità nettamente definite, sono le seguenti: fase «pre-moderna», «moderna» e «post-
moderna».

L A FASE “PRE-MODERNA”

La fase «pre-moderna»: coincide con i due decenni successivi alla Seconda guerra mondiale. Quando ancora
non si verifica la diffusione di massa della TV, si qualifica come «l’età dell’oro» dei partiti politici. Organizzandosi
perlopiù secondo il modello del partito di massa, questi dominano il circuito della comunicazione politica,
che tende ad esibire tre caratteri: sul piano del contenuto, i leader politici generalmente sono portati a parlare dei
temi che stanno loro a cuore, con enfasi sui programmi e sulle ideologie che li distinguono dagli avversari;
l’accessibilità al sistema dei media è relativamente agevole, per cui i capi di partito non incontrano difficoltà a
diffondere questi messaggi nel sistema politico, grazie a comizi, affissioni murarie, annunci e stampa di partito;
infine, i cittadini fungono da amplificatori dei messaggi stessi, giacché la competizione politica è solitamente
difensiva, in quanto prevale un comportamento di voto «di appartenenza»), per cui le elettrici e gli elettori
tendevano a votare, per abitudine, per coerenza e perché ‘si faceva così’ lo stesso partito che avevano sempre
votato). In Italia, questa fase ha una durata maggiore di quanto è avvenuto negli altri Paesi europei e negli USA,
tanto che può dirsi definitivamente esaurita solo con la «discesa in campo» di Silvio Berlusconi (1994).

L A FASE “MODERNA”

La fase «moderna» si distingue perché la televisione si afferma come principale mezzo di comunicazione politica.

Negli USA, può dirsi raggiunto pienamente negli anni Sessanta, in Europa si impone con un certo ritardo. Conviene
distinguere un impiego diretto (gli attori politici adottano e impiegano direttamente la tv per conseguire i loro
scopi) e uno indiretto della TV ai fini di comunicazione politica. Rientrano nel primo tipo due fattispecie: gli spot
elettorali a pagamento, ovvero le comunicazioni brevi dirette a influenzare il comportamento di voto dei cittadini a
favore di un partito o di un candidato – in America, il Presidente Eisenhower li utilizzò già a partire dagli anni
Cinquanta, in Italia furono massicciamente impiegati negli anni Ottanta, per poi essere vietati dalla legge sulla par
condicio del 2000; le trasmissioni televisive autogestite – come le «Tribune politiche» italiane degli anni Sessanta,
fino ai messaggi autogestiti, a pagamento o gratuiti, tuttora permessi dalla legislazione vigente. Viceversa,
l’impiego indiretto del mezzo televisivo avviene allorché i politici sfruttano le risorse di tempo e di spazio messe a
loro disposizione dalle trasmissioni di informazione e dai talk shows politici («Porta a Porta», «Matrix», «Ballarò» o
«Di Martedì», tra i più famosi degli ultimi anni) ovvero dai contenitori di intrattenimento popolare, come
«Pomeriggio Cinque», «La vita in diretta» o «Uno Mattina», solo per citare esempi celebri tratti dai palinsesti
italiani.

Proprio grazie all’impiego generalizzato del mezzo televisivo si sono imposte tendenze quali la spettacolarizzazione
della politica, ovvero l’incipiente avanzata della politica pop. In questa fase, predomina il «voto di opinione», per
cui i cittadini inclinano sempre più ad esibire un comportamento di voto variabile, che si orienta a seconda della
personalità dei candidati e dei loro programmi elettorali – uno sviluppo del tutto naturale alla luce della
personalizzazione della politica che rappresenta un tratto strutturale delle democrazie contemporanee. In più, la
competizione politica tra partiti e leader si fa più serrata: la comunicazione appare sempre meno selettiva – non si
rivolge a segmenti specifici dell’elettorato, distinti sulla base delle loro convinzioni dottrinarie e/o di determinati
tratti sociodemografici, bensì inclina a farsi generalista e, perciò, semplificata, rifuggendo le ideologie e le identità
rigide tipiche dell’era precedente, per privilegiare invece messaggi poco elaborati, adatti a intercettare un
consenso più largo, al limite catch-all («pigliatutti»).

LA FASE “POST-MODERNA”

La fase «post-moderna» è caratterizzata sia dal declino della TV generalista (ci sono più canali), sia
dall’emersione di due innovazioni che modificano il contesto mediatico. Si tratta delle seguenti:

1. diffusione di nuove tecnologie di trasmissione di programmi (via cavo, satellite, Internet TV) e di nuove abitudini
di consumo, come la fruizione in streaming, che permette una ricezione più tematica, personalizzata e
interattiva dei palinsesti).

2. prende piede il ricorso alla Rete quale alternativa alla TV, per diverse finalità – culturali, di svago, di
informazione.

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Se in Italia questa fase stenta ancora oggi a guadagnare una posizione di predominanza nel campo della
comunicazione politica, certamente se ne manifestano significative avvisaglie, che solitamente gli studiosi
identificano nei termini di una accentuata frammentazione, sia dal lato dell’offerta che dal lato del consumo della
comunicazione politica.

Si delinea così una scansione per la quale, nella secolare storia della democrazia, la pluralità delle fonti di
informazione, che già Dahl enumerava tra le garanzie di base delle poliarchie assicura non più (soltanto) la
possibilità di ottenere una informazione completa, bensì può tradursi anche in disorientamento e dis-informazione,
come il proliferare delle fake- news o delle post-verità documenta in ampia misura.

La fase post-moderna porta con sé uno slittamento del modello relazionale di riferimento: da quello del
broadcasting tipico degli stadi di sviluppo precedenti, a quello peer-to-peer tipico delle interazioni che trovano in
Internet il loro ecosistema privilegiato.

UN BILANCIO

La tripartizione di Blumler e Kavanagh è ormai un classico della letteratura. La sua efficacia sembra però limitarsi
al piano classificatorio, giacché fornisce criteri per ordinare le varie tematizzazioni operate nel campo della
comunicazione politica, piuttosto che isolarne il contributo al fine della costruzione di modelli teorici, idonei ad
interpretare il fenomeno comunicativo secondo le categorie della scienza politica.

D’altra parte, occorre sottolineare anche i limiti della suddivisione in tre fasi: si tratta infatti di una
periodizzazione a corto raggio e parziale, sia perché tiene conto esclusivamente dei regimi democratici occidentali,
sia perché non sembra sfuggire alla distorsione originaria poc’anzi rilevata, che tende a circoscrivere l’analisi
empiricamente fondata della comunicazione politica alla comunicazione elettorale.

L A METODOLOGIA DI INDAGINE: CENNI DI INQUADRAMENTO

Il lavoro di Bucy (2016) distingue quattro gruppi di metodi solitamente impiegati per lo studio della comunicazione
politica:

1. Metodi «quantitativi» (questionario, esperimento, analisi del contenuto o content analysis);

2. «Tecniche analitiche» (non metodi inseriti in un disegno di ricerca organico, ma tecniche appunto applicate ad un
ecosistema di media diventato sempre più complesso – democrazie avanzate) – ad esempio: mediation analysis,
network analysis (cerca su internet cosa sono).

3. «Tecniche biologiche» (reazioni del corpo umano alla somministrazione di stimoli comunicativi, macchina della
verità);

4. «Metodologie qualitative» (interviste, focus group, analisi della retorica politica), spesso usate come integrazione
ad altre tecniche di ricerca: questi strumenti possono infatti aiutare i ricercatori a spiegare quei concetti che non
risultano immediatamente evidenti dai test empirici.

Occorre tuttavia sottolineare che le metodologie di indagine, secondo i canoni della scienza politica di impianto
empirico, dovrebbero esibire solidi legami con un orientamento teorico altrettanto distinto. In altre
parole, gli sforzi di investigazione in tema di comunicazione politica sono finalizzati a svelare nessi teorici:
sappiamo che questo è il tratto peculiare di ogni approccio politologico allo studio della comunicazione politica.

RICAPITOL ANDO…

Ricapitoliamo un poco quanto abbiamo affermato finora circa il tipo di studio che la scienza politica persegue in
connessione all’oggetto della comunicazione politica.

1. Il campo riguarda tutte le fattispecie comunicative che si collocano entro la sfera politica: la comunicazione
politica è sì costituita da una fenomenologia piuttosto variegata (il linguaggio, le immagini, i suoni e la musica, e
via elencando), che si può rilevare in capo ad una pluralità di attori (i leader e i partiti o movimenti politici, i
gruppi di interesse, i media e i cittadini, solo per citarne alcuni) che però – e questo è il punto saliente – deve
essere ricondotta ad un ambito di pertinenza ben individuato, la politica – a sua volta definita, in
corrispondenza a determinate circostanze di tempo e di luogo, dai confini storicamente variabili della lotta per il
potere (non-senso del panpoliticismo);

2. queste caratteristiche individuano un oggetto di studio che è incomparabilmente più esteso di quello al quale si
interessano le altre discipline;

3. l’esame ravvicinato della comunicazione politica secondo i canoni della scienza politica di orientamento empirico
va condotta applicando con rigore la «avalutatività» di marca weberiana: ne viene che, nella prospettiva
politologica, sono da respingere tutti gli accostamenti valutativi all’oggetto di studio, perché viziati dal
pregiudizio del patologismo.

UNA “TEORIA DELLA COMUNICAZIONE POLITICA”

Atteggiamento esplicativo significa «Fare teoria», con esplicito riferimento alla comunicazione politica, vuol dire
prima di tutto «spiegare» la comunicazione politica, ovvero capire perché le istanze comunicative indagate
si presentano in un certo modo anziché in un altro: perché, per esempio, Beppe Grillo utilizza in grande quantità il
linguaggio non verbale o ricorre sistematicamente al turpiloquio, mentre Matteo Renzi esibisce un discorso politico
dove si palesa uno storytelling basato sul concetto di «nuovo» e sul campo semantico che da questo scaturisce?

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Naturalmente, i fattori esplicativi sono da ricercare entro la sfera politica, ovvero tra gli oggetti di natura
specificamente politica.

le strategie cognitive prescelte dalla scienza politica inclinano a privilegiare modelli esplicativi fondati sopra
rapporti di causalità tra fatti (se x… allora y). In via generale, ciò significa formulare nessi tra variabili
specifiche e ben individuate. In particolare, Si noti un aspetto importante: sono le variabili extra-comunicative
(politiche) – x – a dare forma alle istanze comunicative - y. Restano da chiarire quali sono gli oggetti politici che
plasmano e strutturano la comunicazione. Schematizzando un poco, questi elementi paiono essenzialmente di tre
tipi:

• Regimi: l’assetto stabile dei sistemi politici, plasma la comunicazione politica

• Ruoli: es. una capo partito rivoluzionario non parla allo stesso modo di un politico parlamentare

• Situazioni: es parlare in situazioni ordinarie è diverso dal parlare in situazioni straordinarie

LEZIONE 9 – DEMOCRAZIA E COMUNICAZIONE POLITICA: CENNI DI INQUADRAMENTO


TEORICO

I REGIMI POLITICI: UNA CLASSIFICAZIONE

In questa e nelle prossime lezioni, prenderemo in considerazione gli approcci che, nell’ambito di teorie
esplicative dei fatti e dei comportamenti politici, hanno cercato di collocare la comunicazione politica in
rapporto ad una o più delle dimensioni politologicamente rilevanti individuate nel nostro ultimo incontro: regimi,
ruoli, situazioni.

In particolare, cominciamo dai regimi. Come abbiamo detto, questi figurano tra le variabili politiche che plasmano
la comunicazione politica. Per stabilire qualche collegamento esplicativo tra il regime e le forme/modalità/contenuti
della comunicazione politica degli attori che vi agiscono, per prima cosa è importante avere chiari i tipi di regime. A
questo scopo, una classificazione schematica distingue:

a) democrazie (o poliarchie): sono i regimi dove le fondamentali libertà (di pensiero, di parola, di stampa, di
organizzazione) sono garantite a tutti i cittadini e nei quali l’esito della competizione per il potere viene deciso
dalle elezioni – libere, ricorrenti, corrette –, alle quali si presentano più partiti, lasciando ai cittadini-elettori il
potere di designare i loro rappresentanti, che andranno ad occupare i ruoli di governo e i seggi parlamentari;

b) totalitarismi: sono sistemi nei quali il potere politico è controllato in modo monopolistico da un partito e dove
la lotta per il potere politico si svolge secondo le modalità dell’arena burocratica. Le masse non rivestono alcun
ruolo nel determinare la composizione del governo e non si vedono riconosciuta alcuna libertà. I governanti
impiegano la violenza terroristica come metodo privilegiato di controllo e di repressione del dissenso (Unione
Sovietica staliniana, Germania nazista);

c) autoritarismi: sono perlopiù i regimi che nel linguaggio ordinario vengono chiamati “dittature” (es. quelle
militari); assomigliano nei loro caratteri costitutivi ai totalitarismi – poiché i diritti fondamentali della popolazione
non godono di alcun riconoscimento e i detentori del potere politico lo esercitano in modo tendenzialmente
monopolistico, senza cioè sottoporsi al controllo democratico connesso a “vere” elezioni; tuttavia, di solito non
arrivano a soffocare ogni espressione del pluralismo sociale, negoziando semplicemente la non ingerenza delle
organizzazioni sociali (per esempio, la chiesa o i sindacati) nella sfera politica; inoltre, difettano di taluni
elementi propri dei regimi totalitari, ad esempio la forza di mobilitazione della popolazione attraverso la
propaganda, usata dai totalitarismi, gli autoritarismi vogliono invece la smobilitazione delle masse. Esempi: la
Spagna sotto Francisco Franco (1939-1975) oppure la Jugoslavia comunista fino alla morte di Tito (1980);

d) regimi tradizionali: democrazie, totalitarismi e autoritarismi costituiscono risposte nettamente differenziate al


problema di integrare entro lo Stato nazionale gli strati popolari, allargando la partecipazione politica (XIX-XX
secolo): si collocano perciò nell’era contemporanea. Viceversa, i regimi tradizionali si fondano sopra assetti
istituzionali che rifiutano la politica di massa, articolandosi perlopiù secondo un ordinamento monarchico, più o
meno liberalizzato, che funziona secondo i tratti tipici della politica di corte. Si tratta di assetti tipici di epoche
storiche precedenti al XIX secolo, resistono ancora sparuti esempi in alcuni Paesi africani (Swaziland),
mediorientali (Arabia Saudita, Brunei, Emirati Arabi Uniti, Oman), asiatici (Bhutan) o dell’Oceania (Tonga).

DEMOCRAZIA E COMUNICAZIONE POLITICA

Circoscriviamo lo sguardo alle democrazie (poliarchie) e operiamo una rassegna degli approcci teorici che hanno
messo al centro del loro interesse esplicativo il nesso democrazia-comunicazione politica.

Sotto questo profilo, guardando al livello analitico al quale collocano il collegamento teorico tra aspetti
comunicativi ed elementi propri dei regimi democratici, si possono riconoscere tre filoni di indagine principali:

- gli accostamenti sistemici, i quali connettono la comunicazione politica alle componenti strutturali della politica
utilizzando la nozione di sistema politico nei termini elaborati negli anni Cinquanta e Sessanta da David Easton :
esempi di questo indirizzo di ricerca sono i lavori della scuola fondata da Gabriel Almond, specialmente di taglio
comparato (ALMOND – POWELL 1988); e di Karl Deutsch, che considera la comunicazione come l’attività
specifica di ogni autorità politica, necessaria al controllo di quelli che egli chiama i «nervi del governo»
(DEUTSCH 1963);

- i modelli processuali intendono la comunicazione politica quale una risorsa principalmente impiegata nel
processo politico dalle élites, cioè i leader politici, al fine di conquistare o mantenere i ruoli di autorità nel quadro
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delle poliarchie – si pensi, a titolo illustrativo, allo schema predisposto da Murray Edelman, che al regime
democratico associa tanto il trionfo della «politica spettacolo», quanto l’impiego della manipolazione, grazie a
cui i governanti sono in grado di celare ai governati la vera natura del dominio a cui sono sottoposti (EDELMAN
1977, 1987 e 1988);

- gli approcci massmediologici, che focalizzano l’attenzione sui canali attraverso cui viene propagata la
comunicazione politica: nelle poliarchie odierne; si tratta principalmente dei mass media, vecchi (radio, TV) e
nuovi (Internet, social networks); sono accomunati dal postulato per cui le democrazie odierne sono investite da
cambiamenti rilevanti – nel senso della cosiddetta «post-democrazia» (CROUCH 2003) o della «democrazia del
pubblico» (MANIN 2010) – che, a loro volta, alimentano la mediatizzazione della politica, attribuendo ai mezzi di
comunicazione di massa un ruolo inusitato nell’ambito della competizione per il potere (MAZZOLENI – SCHULZ
1999; ESSER – STRÖMBÄCK 2014).

Cominciamo, in chiave schematica, ad esaminare ciascun gruppo di approcci, per poi trarne un bilancio critico.

I TRATTI COMUNI AGLI APPROCCI SISTEMICI

Gli scienziati politici che impiegano l’accostamento sistemico per l’analisi della comunicazione politica si
caratterizzano per due tratti distintivi:

1. non parlano di regime, bensì preferiscono il concetto di «sistema politico», seguendo per lo più la formulazione di
David Easton (v. successiva slide). La differenza non è meramente terminologica, bensì identifica concetti
chiaramente distinti. Al riguardo, basti affermare che il concetto di «sistema» si colloca ad un livello di generalità
più elevato di quello di «democrazia» o di «poliarchia», che già conosciamo. Infatti, qualsiasi tipo di regime può
essere descritto come un «sistema», dato che, come accade per gli organismi umani o per le automobili,
anche in politica «Un sistema implica una qualche interdipendenza delle parti e qualche tipo di confini tra di esso
ed il suo ambiente» (ALMOND – POWELL 1988, p. 28). Si compone cioè di un insieme coordinato di elementi,
ciascuno deputato all’adempimento di determinate funzioni, ritenute cruciali per la sopravvivenza del sistema; tale
insieme è dotato di una propria materialità, quindi è separato dall’ambiente – anche se il problema
dell’individuazione dei confini che lo delimitano è molto più complicato per i sistemi politici che non per un
organismo vivente oppure per gli oggetti fisici o materiali.

2. l’analisi della comunicazione politica ha per oggetto principale i regimi democratici: entrambi gli
accostamenti che esamineremo, quello di impronta almondiana e quello proposto da Deutsch, si riferiscono agli
Stati Uniti, quale terreno privilegiato di verifica empirica dei loro asserti teorici. Appare perciò corretto considerarli
alla stregua di teorie che si pongono, tra gli altri, l’obiettivo di qualificare la comunicazione politica in rapporto al
sistema politico democratico.

LO SCHEMA DI FUNZIONAMENTO DEL SISTEMA POLITICO (SECONDO EASTON)

Secondo Easton, in tutti i sistemi politici si assiste alla conversione degli input provenienti dall’ambiente –
essenzialmente, le domande di protezione dei vari interessi (economici, culturali, religiosi, e via elencando) che
una pluralità di attori sociali rivolge alla politica, accompagnandole con il conferimento selettivo di un sostegno
più o meno ampio – in outputs (policies, cioè decisioni ed azioni politiche). Questi ultimi producono
modificazioni sull’ambiente sociale, grazie ad un meccanismo di retroazione (feedback), che a loro volta sono
destinate ad alimentare nuove domande, cioè input. Al centro di questo processo ininterrotto sta una sorta di
«scatola nera» (black box), espressione con cui Easton designa il cuore stesso della politica, il luogo destinato alla
«destinazione imperativa dei valori in una società», ove si realizza la trasformazione degli input in output.

L’APPROCCIO DI ALMOND E POWELL (PRIMO APPROCCIO SISTEMICO)

Nel loro monumentale volume Comparative Politics. System, Process, and Policy, originariamente pubblicato nel
1966 (ALMOND – POWELL 1988), i due scienziati politici elaborano uno schema interpretativo che, oltre ad inserirsi
a pieno titolo nel campo degli accostamenti sistemici, si contraddistingue per un elevato grado di articolazione e di
raffinatezza teorica.

Tuttavia, senza entrare nel dettaglio, per cogliere il senso della loro analisi della comunicazione politica in
democrazia occorre puntare l’attenzione su due proprietà. In primo luogo, tale accostamento incorpora un
orientamento “struttural- funzionale”, cioè definisce le diverse attività (azioni e relazioni) che si dispiegano entro il
sistema (e lo qualificano) come “funzioni” (ciò che accade dentro il sistema politico), che a loro volta vengono
svolte da “strutture” (ad esempio chiesa famiglia…): semplificando, si tratta di tutte le organizzazioni sociali.

Tale connotato implica l’idea che ciascuna delle sezioni o strutture in cui il sistema è scomponibile sia
delegata allo svolgimento o all’adempimento di certe operazioni, cioè le funzioni, reputate
indispensabili per la sopravvivenza del tutto o per l’espletamento di determinate attività che lo
definiscono (funzioni). Recependo questo indirizzo, Almond e Powell asseriscono che le funzioni essenziali di
ciascun sistema politico si collocano a tre livelli: sistemico, processuale e di policy (delle politiche pubbliche).
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Nei termini dello schema precedente, il livello processuale designa principalmente l’insieme dei fenomeni e dei
nessi tra fenomeni che dalle emissioni (input) conducono alle emissioni (output); quello delle politiche pubbliche ha
a che vedere con i meccanismi di retroazione; infine, il livello sistemico, che qui più ci interessa, riguarda le attività
di mantenimento e di adattamento del sistema stesso.

Processuale: trasformazione di input in output

Politiche pubbliche: feedback

Sistemico: il mantenimento della blackbox e dell’efficienza

In secondo luogo, il sistema politico e le funzioni che esso esercita sono composti da due tipi di materiali: la
struttura, cioè le azioni e le relazioni tra le azioni (comportamenti tenuti dagli attori es. la lotta per il potere); la
cultura politica, formata dagli atteggiamenti che i nostri autori considerano come la componente “psicologica”
del sistema politico: ciò che la gente “pensa”, i valori.

IL LIVELLO SISTEMICO

In sintesi, le funzioni che hanno per oggetto il mantenimento in efficienza del sistema (livello sistemico) sono:
reclutamento politico, socializzazione politica e comunicazione politica. Tuttavia, mentre reclutamento e
socializzazione corrispondono, nel loro schema teorico, ad un ben preciso tipo di contenuto – il reclutamento
riguarda la struttura politica, la socializzazione la cultura politica – la comunicazione non viene collegata ad alcun
materiale preciso. Anzi, gli studiosi ribadiscono la portata generale del fenomeno comunicativo, sulla base del fatto
che i comportamenti politici sono pur sempre comportamenti sociali, che necessariamente postulano la
comunicazione tra gli attori. La tesi non è priva di ambiguità: in effetti, essi asseriscono, la comunicazione politica
«ha molto a che vedere con il mantenimento e l’alterazione della cultura e della struttura politica della società»
(Almond e Powell 1988, p. 208).

Quanto alle strutture deputate alla comunicazione politica come funzione sistemica, sono:

1. Contatti diretti informali (interazioni face to face)


2. Strutture sociali non politiche (famiglia o altri gruppi primari la cui membership non è collegata alla
politica);

3. Strutture politiche di input (partiti politici, associazioni di interesse, movimenti collettivi);


4. Strutture politiche di output (parlamento, governo, burocrazia);
5. Mezzi di comunicazione di massa.
Ovviamente, il grado di autonomia delle strutture cambia a seconda della natura del regime, giacché il controllo
esercitato dalla politica su di esse tende a variare da un massimo (nei regimi totalitari) ad un minimo (in quelli
democratici).

LE CONSEGUENZE DELL A COMUNICAZIONE POLITICA

Almond e Powell asseriscono che l’espletamento delle funzioni comunicative da parte delle agenzie sopra descritte
genera importanti conseguenze in ciascuno dei livelli analitici previsti dal modello (sistemico, processuale e delle
policy). Le conseguenze della comunicazione politica sui livelli analitici del sistema.

- Sul piano sistemico la comunicazione politica svolge un ruolo importante per la persistenza e per il mutamento
della struttura e della cultura politiche: ciò perché sia il reclutamento politico, sia la socializzazione richiedono
l’impiego di strumenti comunicativi;

- a livello processuale, specialmente entro un quadro democratico, informazione e comunicazione costituiscono


ingredienti indispensabili per garantire un effettivo controllo dei governanti da parte dei governati. Cioè: si può
parlare di “sovranità popolare” solo se i cittadini sono messi nelle condizioni di avere a disposizione tutte le
informazioni relative sia alle principali questioni in agenda (la realizzazione di una riforma fiscale, l’avvio di un
programma di opere pubbliche, l’adozione di direttive provenienti dalla UE; solo per citare alcune questioni
spesso dibattute nelle poliarchie europee), sia al comportamento tenuto delle diverse élite politiche, nonché di
mettersi in contatto gli uni con gli altri per accompagnare le loro richieste con la mobilitazione collettiva del
sostegno. È chiaro che lo snodo è problematico: l’assunto su cui si regge tutto il ragionamento è la piena
informazione dell’opinione pubblica, assunto che risulta largamente irrealistico;

al livello delle politiche pubbliche, la comunicazione politica, in quanto funzione di adattamento e di


manutenzione sistemica, è principalmente chiamata a porre rimedio alle distorsioni informative che scaturiscono
dall’intervento degli apparati burocratici nella fase finale dell’emissione delle policy: dai provvedimenti in tema di
istruzione a quelli aventi per oggetto le prestazioni sanitarie, dalle tutele previdenziali fino alle normative in tema
di sicurezza sui luoghi di lavoro, eccetera, il significato e le finalità delle azioni intraprese dai governi possono
essere percepite in maniera errata o ambigua dai cittadini, a causa dei messaggi emessi, in fase attuativa, dagli
organismi burocratici sottoposti, spesso a causa dei limiti intrinseci a queste organizzazioni.

LEZIONE 10 – L’APPROCCIO SISTEMICO DI KARL W. DEUTSCH, INDRODUZIONE AGLI


APPROCCI PROCESSUALI

POTERE COME COMUNICAZIONE: IL MODELLO DI DEUTSCH


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I tratti qualificanti del modello proposto da Deustch non si differenziano, sul piano sostanziale, dal classico modello
sistemico di Easton (v. lezione 9, slide 6), egli ne delinea però una versione particolarmente originale, che
conferisce all’interpretazione sistemica una accentuazione di matrice cibernetica, che, quale branca specializzata
della conoscenza scientifica, esercitò un profondo fascino intellettuale sugli scienziati americani all’inizio degli anni
Quaranta (scienza del movimento).

Situata al crocevia tra matematica, fisica e ingegneria, questa «nuova scienza relativa ad un vecchio oggetto»
(DEUTSCH 1963, p. 76) intendeva rappresentare un ambito della ricerca finalizzato allo studio di qualsiasi
«meccanismo autoregolativo», cioè suscettibile di modulare le proprie prestazioni o attività in conseguenza di una
retroazione (feedback): per esempio, tra le applicazioni pratiche della cibernetica occorre citare il dispositivo che
conferisce ad un puntatore laser la capacità di fissarsi sopra un bersaglio e di mantenerne l’inquadramento, a
prescindere dai mutamenti di posizione – in tal senso, tutti gli aggiustamenti di mira che il puntatore produce in
risposta ai movimenti del bersaglio sono frutto di una retroazione, ovvero di una ridefinizione della posizione
iniziale (collocata al tempo t0), in seguito agli spostamenti dell’oggetto che si intende colpire (al tempo t1, e poi t2,
t3, fino a tn).

In questo clima intellettuale, Deutsch, amico personale di Wiener, orientò il suo impegno scientifico verso un fine
particolarmente ambizioso: applicare la cibernetica all’analisi e alla interpretazione dei fatti sociali e politici. È
questo lo scopo generale che ispira la sua opera principale, The Nerves of Government: Modes of Political
Communication and Control (DEUTSCH 1963).

L’APPROCCIO SISTEMICO NELLA VERSIONE DI DEUTSCH

Deutsch considera lo schema di Easton nei termini di uno strumento universalmente valido, che può cioè essere
adottato per l’interpretazione di qualsiasi sistema, vivente o artificiale, biologico o tecnologico, purché basato sul
principio di aggiustamento o di auto-regolazione delle prestazioni.

«Spesso e per molto tempo gli uomini si sono interessati al potere statale in maniera molto simile a come certi
osservatori cercano di valutare la potenza muscolare di un cavallo o di un atleta. Altri hanno descritto le leggi e le
istituzioni degli stati in modo molto simile a come gli specialisti di anatomia descrivono lo scheletro o gli organi di
un corpo. Questo libro, più che occuparsi delle ossa o dei muscoli del corpo politico, si interessa dei suoi nervi: i
suoi canali di comunicazione e di decisione. Questo libro suggerisce l’idea che potrebbe essere fruttuoso
guardare agli stati un po’ meno come problema di potere e un po’ più come problema di guida; e tenta di
dimostrare che la guida è decisamente un problema di comunicazione».

I TRATTI ESSENZIALI DEL MODELLO

- Il problema fondamentale che la teoria politica dovrebbe risolvere viene identificato nella guida del sistema-
Stato verso determinati obiettivi (in senso metaforico: la guida). Non solo: la questione è di tipo
comunicativo, cioè la chiave per sciogliere il dilemma di leadership e di ordinata gestione del sistema politico
risiede nella comunicazione.

- Che cosa vuol dire? Questa impostazione riduce tutti gli snodi del modello sistemico (immissioni, trasformazione,
emissioni, retroazione) ad altrettante unità di comunicazione. Perciò, la comunicazione non individua
semplicemente un mezzo – che permette, per esempio, l’elaborazione e la trasmissione di informazioni che
designano tanto le richieste avanzate verso il sistema politico, quanto la proclamazione delle politiche pubbliche
emesse nell’ambiente – bensì identifica la materia stessa della politica. La politica è comunicazione e la
comunicazione è politica.

- La morfologia analogica del modello acquista così il proprio significato: muscoli e ossa sono importanti per
attivare l’azione negli uomini e negli altri esseri viventi; ma senza il sistema nervoso che veicola l’impulso ad
agire dal cervello (il centro-guida del sistema) alla periferia dell’organismo (braccia e gambe), il corpo
rimarrebbe inerte. Allora, i singoli nervi che lo compongono rappresentano il livello cruciale al quale
esaminare le condotte umane, quale esito prodotto da un sistema suscettibile di regolazione
autonoma. Applicando la medesima tesi al governo delle democrazie, Deutsch sostiene che, per determinarne
la guida politica, occorre porre sotto la lente d’ingrandimento i «nervi» del sistema, ossia le comunicazioni che
definiscono gli input, li trasformano in output e attivano le retroazioni.

IL PARTICOLARE SIGNIFICATO DELLA “RETORAZIONE” PER DEUTSCH

Deutsch attribuisce al concetto di «retroazione» una valenza esplicativa pressoché sconosciuta agli
altri modelli sistemici. Il perché è presto detto. Secondo Almond e Powell (che seguono Easton), il punto cruciale
dell’approccio sistemico sta nel nucleo del sistema (“black box”), ove ha luogo la conversione degli input in output;
mentre il processo di feedback designa, genericamente, tutte le conseguenze prodotte dall’impatto delle politiche
pubbliche sull’ambiente.

Al contrario, per Deutsch la retroazione rappresenta, in conformità ai canoni cibernetici, «quella frazione di output
che ritorna all’agente come input in grado di riprodurre nuovamente l’atto o di interromperlo» ed egli le assegna
un ruolo cruciale nella sua interpretazione «comunicativa» della politica. Il che non sorprende: se il sistema politico
viene interpretato come un insieme coordinato di attività il cui tratto distintivo risiede nell’attitudine all’auto-
regolazione e all’auto-correzione, è chiaro che il motore, per così dire, che alimenta l’efficacia del modello si sposta
dalla black box al congegno che mette in movimento tale capacità, ossia la retroazione.

Il concetto di retroazione acquista qui un significato specifico, perché indica il meccanismo che avvia e porta a
compimento l’aggiustamento del sistema politico o di alcune sue prestazioni. Nel definire il comportamento
successivo alle comunicazioni di feedback, il regime terrà allora conto delle nuove informazioni – nuove perché non
esistenti prima dell’attivazione del processo di retroazione –, correggendosi così in maniera del tutto autonoma. Si
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potrebbe dire, semplificando un poco, che la logica comunicativa e auto-regolativa del sistema ha nel feedback il
suo dispositivo di innesco.

Deutsch distingue, a questo riguardo, due tipi di feedback:

1) il feedback positivo, o rinforzante, tende ad amplificare gli effetti e le dimensioni della deviazione di un
sistema dal suo stato iniziale – cioè, opera nella stessa direzione della deviazione;
2) il feedback negativo, o correttivo, indica le attività che intervengono per riportare il sistema al suo stato
iniziale (omeostasi) – cioè, opera in senso contrario rispetto alla deviazione.

IL BINOMIO DEMOCRAZIA-COMUNICAZIONE

Fissate queste coordinate, come avviene il raccordo democrazia-comunicazione politica in Deutsch?

In primo luogo, la poliarchia costituisce il quadro implicito nel quale lo studioso americano situa il suo
ragionamento: gli esempi citati da Deutsch riguardano essenzialmente il sistema democratico statunitense.

In secondo luogo, riprendendo il linguaggio metaforico dell’autore, l’insieme di attività messe in campo dal governo
di una democrazia è simile a quello richiesto dalla guida di un’auto su una strada ghiacciata: le difficoltà che
l’autista deve affrontare richiedono che egli sappia prevedere ampiezza e intensità delle slittate sul ghiaccio, in
modo da poter aggiustare la rotta con movimenti quasi impercettibili del volante, giacché una reazione troppo
lenta o una sterzata decisa potrebbero accentuare le sbandate, col rischio di finire fuori strada e sfasciare la
vettura. Nelle condizioni date, lo scopo del pilota è uno solo: mantenere l’auto in carreggiata. Si tratta di un caso in
cui il problema si risolve grazie ad un feedback negativo, nel senso che la correzione del sistema (l’auto) non può
che derivare da azioni in senso contrario (i movimenti dettati dal volante) alla deviazione iniziale del sistema
stesso (la slittata sul ghiaccio che determina lo sbandamento).

Se applichiamo il ragionamento alla politica, la situazione si complica, per due ragioni fondamentali. Primo:
i sistemi politici, e in particolare le democrazie, non perseguono un solo fine, bensì mettono in atto una
complessità di azioni e procedure finalizzate all’ottenimento di una pluralità di scopi, di politica estera come di
tenore domestico, in ambito economico così come nel campo del welfare state, solo per citare alcuni esempi.
Secondo: gli stessi scopi variano in corrispondenza delle circostanze di tempo. I fini storicamente
perseguiti dai governi democratici in Europa differiscono in larga misura, a seconda che ci si collochi nel XIX secolo
oppure negli anni Duemila. Proprio per queste ragioni, nelle poliarchie il processo di apprendimento risulta
complesso, nutrendosi di feedback tanto positivi quanto negativi. Per certi aspetti, il compito che Deutsch assegna
alla politica consiste nell’assunzione di responsabilità di decidere rispetto ad una molteplicità di «scopi possibili che
possiedono diversi gradi di priorità, urgenza e rilevanza».

L’esercizio del potere politico per Deustch costituisce un mezzo mediante il quale è possibile semplificare lo
svolgimento delle azioni collettive, imponendo certe condotte come comandi, senza bisogno di dover apprendere
ma imboccando, appunto, una sorta di “scorciatoia”, grazie a cui le direttive provenienti dal potere politico sono
dotate di una prevalenza sociale, data dalla loro connessione con il monopolio della forza legittima.

UNA TEORIA COMUNICATIVA DEL POTERE POLITICO

In una democrazia, l’efficacia del potere, ossia – in senso cibernetico – la sua «capacità regolativa», che prevede
ripetuti aggiustamenti nelle varie aree di policy in risposta alle comunicazioni di feedback, dipende però da un
fattore decisivo: la fiducia, che si esprime come sistema di aspettative consolidate e condivise dai cittadini
circa le azioni promosse dallo Stato. In questo senso, allora, il potere politico è lo strumento attraverso cui,
per mezzo dei meccanismi di correzione attivati dai feedback negativi e positivi, viene mantenuta la
coordinazione sociale, fondata anch’essa su basi comunicative.

Poiché la percezione e la comprensione del comando vengono elaborati esclusivamente in termini comunicativi,
così come la retroazione, risulta chiaro perché possiamo definire lo schema proposto da Deutsch come un
approccio che delinea una teoria comunicativa del potere politico.

Non solo perché, come abbiamo già rilevato, tutti i passaggi cruciali previsti dal modello sistemico consistono in
comunicazioni. Per un verso, le comunicazioni di massa, insieme agli attori che le trasmettono (i mass media,
certamente, ma anche tutte quelle organizzazioni capaci di produrre rappresentazioni socialmente accettate e
persuasive della situazione sociale, come quelle politiche in senso stretto – partiti, movimenti collettivi, leader,
istituzioni), costituiscono il livello di analisi teoricamente più pregnante, giacché qui si incrociano sia le mire di
controllo dello Stato sui comportamenti collettivi (dimensione verticale del potere), sia la partecipazione dei
cittadini alla vita democratica (dimensione orizzontale). Ed è a questo crocevia che le aspettative ed i legami
fiduciari, necessari alla cooperazione sociale, si stabiliscono.

Per l’altro verso, lo snodo svela la problematicità del nesso democrazia-comunicazione politica.
L’allineamento di Deutsch al modello cibernetico implica la desiderabilità della democratizzazione
dell’informazione, che costituisce un tratto specifico delle società moderne. Tuttavia, in questo caso, è facile che si
determini un sovraccarico di comunicazione, che facilmente si trasforma in un overload decisionale, a fronte del
quale la «scorciatoia» del potere non funziona più: la stabilità delle istituzioni politiche viene messa perciò a
repentaglio, riverberandosi «in una crisi della fiducia generale nella democrazia e in un ripiegamento dell'individuo
nella sfera privata della soddisfazione immediata».

FEEDBACK E AGGIUSTAMENTO: LA COMUNICAZIONE NELLE DEMOCRAZIE

Insomma, la stabilità delle poliarchie deriva dalla combinazione ottimale di decisione (comandi «scorciatoia») e
apprendimento (esito dei processi di retroazione). Poiché persegue scopi numerosi e mutevoli, la politica
democratica non può che assumere un andamento altalenante, entro cui si possono isolare le diverse
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potenzialità che si possono affidare ai feedback negativi o positivi. Mentre i primi si esauriscono nei movimenti di
riduzione progressiva dello stimolo (si pensi all’adozione di politiche keynesiane in economia quale risposta a
flessioni nella domanda di beni e servizi, come accadde negli Stati Uniti per la Grande Crisi del 1929); i secondi
consistono in reazioni che amplificano lo stimolo stesso e che, sabotando i dispositivi di controllo sociale,
conducono a situazioni di circolo vizioso (per esempio: il panico sociale o l’inflazione, che dopo il 1929 colpirono
duramente quei governi democratici che, per fronteggiare la recessione, non adottarono misure di policy calibrate
sull’espansione della spesa pubblica, come il New Deal di Roosevelt).

Si tratta di contingenze particolarmente «sfidanti» per le democrazie: tuttavia, nella misura in cui non vengono
poste limitazioni alle reazioni di feedback positivo, si può raggiungere una soglia-limite, oltre la quale – una volta
evitati il crollo o la disintegrazione del sistema – si realizza una nuova condizione di stabilità. A questo
proposito, secondo Deutsch, per riportare il sistema democratico in condizioni di ordine e di sicurezza
conviene velocizzare il dissolvimento del circolo vizioso mediante il controllo cibernetico della
comunicazione. Una illustrazione di questa modalità di azione consiste nella tattica di sotto-rappresaglia – una
retorica improntata ad introdurre nel sistema aumenti decrescenti degli elementi disgregativi del sistema – che
Deutsch riconosce nella comunicazione di Kennedy del marzo 1962, che rispose alle minacce sovietiche attivando
una reazione del sistema che va nella stessa direzione dello stimolo (feedback positivo) – che si rivelerà efficace
nel respingere la provocazione e nel mantenere in sicurezza la democrazia americana.

Per Deutsch il potere politico ed i meccanismi che lo regolano, qualificati sub specie comunicativa – i
«nervi» grazie ai quali si esercita il controllo sul sistema – appaiono decisivi al fine di «produrre,
conservare o mutare gli impegni sociali». La sfida primaria per i regimi democratici risiede nel promuovere il
perseguimento di un insieme variabile di scopi, conservando al contempo la propria autonomia. Operando in
questo modo, le poliarchie si pongono su un continuum idealmente definito da due possibili esiti (polari): da una
parte, sta l’autodistruzione, sotto il peso del sovraccarico comunicativo e, per conseguenza, decisionale; dall’altra
parte si collocano lo sviluppo e l’accrescimento autonomi del sistema democratico, che si dimostra in grado di
sopravvivere e di espandere il proprio intervento in una pluralità sempre maggiore di ambiti. Detto diversamente, il
dilemma del potere democratico sta nell’accettare la complessità sociale e, nello stesso tempo, di controllarne e
indirizzarne lo sviluppo, mantenendo una certa distanza dalla società medesima: in questo quadro, la
comunicazione individua la materia stessa della politica.

GLI APPROCCI PROCESSUALI

Negli accostamenti «processuali», alla comunicazione politica che si dispiega nelle democrazie viene assegnato un
ruolo subordinato ad un fine prevalente, che solitamente coincide con la conquista e/o il mantenimento
dell’autorità da parte delle élites politiche, spesso a discapito delle domande di cambiamento avanzate dai
cittadini. Allora, se negli approcci sistemici l’attenzione degli studiosi si fissa sui regimi, in questo caso il fuoco
inclina a spostarsi piuttosto sui ruoli incardinati nelle istituzioni democratiche, che definiscono appunto i loci della
leadership politica.

Il punto è che, in tale prospettiva, ai leader viene imputato un utilizzo manipolatorio della comunicazione politica. Il
tema dell’impronta manipolatoria o solo «apparentemente» democratica del potere politico è uno dei Leitmotiv
della cultura contemporanea.

Al fine di lumeggiarne le illustrazioni più indicative, fermeremo lo sguardo sopra un paio di approcci, che, seppure
con articolazioni e toni differenti, condividono un assunto di base: nelle poliarchie contemporanee, la
comunicazione si presenta essenzialmente come una risorsa a disposizione dei leader politici, grazie alla quale i
primi riescono sia a mantenere il potere, eludendo in tutto o in parte i dispositivi di controllo democratici, sia,
laddove si rende necessario, a limitare i diritti dei cittadini.

Al di là di questo postulato comune, ciascun approccio si caratterizza per una impostazione originale. Conviene
quindi procedere ad una ricognizione sommaria di tali contributi, cominciando, nella lezione di giovedì prossimo,
dallo studioso che, forse più degli altri, ha insistito sulla natura manipolatoria della politica (e della comunicazione)
nei regimi democratici: Murray Edelman.

LEZIONE 11 – GLI APPROCCI PROCESSUALI AL NESSO DEMOCRAZIA-COMUNICAZIONE


POLITICA

L’APPROCCIO DI EDELMAN

Le linee fondamentali dell’approccio di Edelman sono tracciate in The Symbolic Uses of Politics, edito nel 1964 e
più volte ristampato. Egli elabora la tesi per cui il rapporto tra leadership politica e cittadini è suscettibile di essere
compreso analizzando le sue componenti simboliche. In che senso?

La funzione principale del simbolismo – che ha nel linguaggio il vettore principale – è quella di produrre
«acquiescenza», da parte della massa, in risposta alle principali azioni politiche promosse dai governi democratici.
Entro questo paradigma i simboli manifestano e/o costituiscono la dimensione essenziale del funzionamento del
sistema politico.

Cioè: il processo di governo delle democrazie (i suoi esiti principali: la distribuzione dei ruoli di autorità e
l’emanazione delle politiche pubbliche) viene raffigurato come un grande «spettacolo politico» che, producendo
simboli che agiscono sulla mente degli individui, ne ottiene facilmente il consenso, lasciando però del tutto
inalterate le condizioni di disuguaglianza e di deprivazione patite dai gruppi sociali meno abbienti, disorganizzati – i
quali, accecati dai simboli, non percepiscono né la loro posizione di enorme svantaggio, né l’opportunità di
ribellarsi e di agire politicamente contro il sistema che li opprime.

Questo è il nocciolo del pensiero di Edelman. E sempre procedendo (molto) sinteticamente, possiamo asserire che
l’autore elabora una interpretazione della politica – implicitamente, quella americana – che parte dal
riconoscimento che le istituzioni e il processo politico adempiono ad una duplice funzione:
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1. strumentale, che consiste nella allocazione/distribuzione di vantaggi concreti e/o di beni tangibili
(ovvero: ricchezza, proprietà, rispetto sociale, status, e via elencando);
2. espressiva, che designa la dimensione simbolica della politica, nella quale i simboli politici sono prodotti,
diffusi e recepiti.

A questo schema si abbina una visione elitistica, secondo cui gli attori rilevanti nella lotta per il potere nel
quadro democratico sono élites: leader politici e minoranze organizzate (solo per citare qualche esempio:
grandi corporations, organizzazioni di massa quali i sindacati o le chiese, mass media), le quali, controllando
risorse ingenti ed importanti per la società, possono influenzare l’azione del governo; mentre la massa, che è
sostanzialmente sprovvista di risorse, «è confinata ad un ruolo eteronomo e suscettibile di manipolazione, sì che le
credenze e le istituzioni (segnatamente quelle democratiche che accentuano il peso politico della massa)
assumono una natura fittizia e divengono strumenti di potere per le élites».

IL FUNZIONAMENTO DELLA POLITICA SECONDO EDELMAN

Dimensione STRUMENTALE:

Élite Politica  Beni/Vantaggi tangibili  Gruppi Organizzati

Dimensione SIMBOLICA:

Èlite Politica  Simboli  Massa

Consenso

L A POLITICA DEMOCRATICA SECONDO EDELMAN

Al fine di mantenere le proprie posizioni di potere entro la poliarchia, è necessario che l’élite – al singolare, poiché
per Edelman non esiste alcuna articolazione pluralistica della leadership politica, descritta come monolitica e
dotata di forte coesione interna, al di là della apparente frammentazione in partiti politici – assolva «due funzioni:
da un lato, distribuire beni materiali ai gruppi organizzati che hanno risorse per premere sui centri decisionali
(dimensione strumentale della politica); dall’altro, produrre simboli che gratificano i bisogni psicologici di
sicurezza della massa, invocando miti a cui la massa aderisce intensamente (dimensione simbolica)».

La comunicazione veicola i simboli alla massa – come per Lasswell, il linguaggio identifica il simbolo per eccellenza:
la ricezione dei simboli, agendo a livello psicologico, determina l’acquiescenza della massa che,
rimanendo del tutto inconsapevole di quel che accade nella dimensione strumentale, ignora le basi reali del
potere al quale rimane soggetta, che invece sono da ricercarsi nello scambio di vantaggi materiali che lega l’élite
ai gruppi di pressione (grandi multinazionali, industrie, sindacati, chiese, e via dicendo: in una parola, minoranze
organizzate).

Ai fini della stabilità degli assetti democratici, è necessario che la dimensione strumentale rimanga celata agli
occhi della massa, grazie all’effetto generato dall’impatto dei simboli, che attiva il comportamento di acquiescenza
e che rappresenta, perciò, il fondamentale meccanismo esplicativo nella teoria di Edelman.

LA FORZA DEI SIMBOLI SECONDO EDELMAN

Ma perché, precisamente, il simbolismo ha successo nell’estrarre il sostegno all’élite al potere dalla massa?

Per Edelman, i simboli, veicolati dalla comunicazione, designano fattori cognitivi ed emotivi (nascono
dall’esperienza e hanno un impatto emotivo) in grado di controllare direttamente le credenze e i sentimenti della
massa, secondo una «dicotomia fondamentale»:

i simboli possono cioè determinare un effetto di rassicurazione, evocando credenze alle quali la massa appare
particolarmente sensibile ed affezionata (ad esempio, i miti della sovranità popolare, dell’eguaglianza, della
giustizia sociale); oppure possono trasmettere una minaccia, che intacca o mette a repentaglio la sicurezza
psicologica degli individui (il «pericolo rosso» agitato dal Maccartismo nell’America degli anni Cinquanta, le
rivendicazioni aggressive e scomposte dei movimenti de-segregazionisti come il Black Power o le Black Panthers
negli anni Sessanta, le generose prestazioni del welfare state che dilapida le tasse degli americani, biasimate da
Ronald Reagan negli anni Ottanta).

Il punto importante è che la significazione simbolica, agendo ora sull’una ora sull’altra leva, per funzionare non
richiede alcun allineamento ai dati di realtà. In altre parole, non occorre che il significato dei simboli sia realistico: il
simbolismo riesce ad estrarre comportamenti conformi dalla massa a prescindere dal suo grado di corrispondenza
con i dati empirici – ecco allora affacciarsi il carattere manipolatorio della politica democratica. Perché? E. fornisce
due spiegazioni:

1. il significato dei simboli si combina alla (e deriva dalla) distanza della politica (rispetto all’esperienza diretta della
maggioranza dei cittadini); per la maggioranza dei cittadini, la politica è un’attività molto lontana dalla loro vita
quotidiana

2. tesi costruttivista: i simboli sono gli unici fatti che contano in politica (simboli e fatti coincidono). La politica è un
fatto essenzialmente simbolico

LO SGANCIAMENTO SIMBOLI/REALTA’: CONSEGUENZE

Dalla separazione tra simbolismo politico e conoscenza fattuale derivano alcune conseguenze rilevanti, sul piano
della teoria di Edelman:
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1. dato che funzionano in chiave evocativa, i simboli alludono sempre a miti, ovvero a modelli ideali della politica,
che, in quanto schemi generali di azione, funzionano soprattutto da strumenti di razionalizzazione, spiegando i
fatti della politica e giustificando/rafforzando le credenze (mitiche, appunto) degli individui («sovranità
popolare»).

2. le credenze attivate dai simboli sono l’elemento che collega il comportamento della massa e la politica, studiata
nei suoi aspetti mutevoli e caratterizzata dal dualismo funzionale che separa la dimensione simbolica da quella
strumentale – distinguendo gli attori che ottengono solo simboli (la massa) dai soggetti che ricevono benefici
tangibili (i gruppi organizzati);

3. la comunicazione politica di matrice simbolica (simbolismo) è un potente fattore di stabilizzazione degli assetti
democratici, in quanto, agendo sulle leve psicologiche di rassicurazione/minaccia, genera l’acquiescenza della
massa all’azione dell’élite politica. In altre parole, i governi democratici sono in grado di assicurarsi la conformità
ed il sostegno delle masse o evocando i miti fortemente sentimentalizzati dai cittadini (basti citare il «governo
del popolo»); o adoperando simboli di minaccia, che esigono ed invocano l’intervento dei leader politici per
rimuovere il pericolo; oppure tutte e due le cose insieme, come quando la minaccia investe le medesime
credenze mitiche.

I miti, che riguardano tutte le istituzioni della politica democratica (le elezioni, la leadership, i Parlamenti,
l’amministrazione, la giustizia, e così via), nel momento in cui si manifestano attraverso attività osservabili,
diventano riti, la cui funzione è appunto di simboleggiare le credenze mitiche, essendo totalmente sprovvisti di altri
significati (le elezioni e le campagne elettorali in democrazia svolgono un ruolo solamente simbolico, cioè evocano
il mito della sovranità popolare, senza tuttavia mantenere le promesse relative all’esercizio, da parte degli elettori,
di un “vero” controllo sui comportamenti dei leader politici

L A COMUNICAZIONE POLITICA E DEMOCRAZIA IN EDELMAN

Insomma, per Edelman mito e rito servono esclusivamente quali canali emotivi per mobilitare il sostegno che la
massa assicura all’una o all’altra delle diverse opzioni in campo (policy, candidati, posizionamenti di valore), la cui
contrapposizione è solo formale – o, nei termini di Edelman, simbolica. Gli scopi fondamentali dello «spettacolo
politico» sono sempre due, ottenuti grazie al distacco tra la sfera strumentale e quella simbolica: assicurare
all’élite l’acquiescenza della massa; garantire ai gruppi organizzati il ricevimento di beni/vantaggi tangibili, grazie
alla produzione mitica e rituale orchestrata dall’élite nella dimensione simbolica.

Il simbolismo come lo intende Edelman designa un tipo di comunicazione falsa per definizione: sia perché
spezza il nesso di significazione tra simboli e realtà; sia perché il simbolismo è finalizzato a nascondere, agli occhi
della massa, lo scambio che avviene sul mercato strumentale, dove vengono dislocati i vantaggi materiali ottenuti
dai gruppi organizzati. Ne deriva la matrice intimamente manipolatoria del potere politico nelle democrazie
contemporanee.

E anche i linguaggi politici vengono tipizzati a seconda del fatto che si collochino ora nell’una, ora nell’altra
dimensione della politica:

- il linguaggio esortativo viene tipicamente impiegato nella dimensione simbolica: è, per intenderci, il
linguaggio parlato dagli attori politici (leader, partiti, movimenti) che si rivolgono ad un pubblico di massa, al fine
di garantirsi il sostegno. Giusto per citare alcune illustrazioni, è il linguaggio delle campagne elettorali, dei
dibattiti parlamentari e, più in generale, di ogni manifestazione comunicativa e pubblica. Si tratta di un misto di
argomentazione razionale – un discorso fatto di premesse, inferenze, conclusioni – che ottiene l’effetto di
imprimere logicità alla comunicazione; e di termini ambigui, che invece funzionano emotivamente
(“democrazia”, “giustizia”, “bene comune”), proprio perché privi di un preciso referente empirico. È il linguaggio
che attiva i dinamismi piscologici di rassicurazione/minaccia, sui quali si innesta l’acquiescenza della massa
verso l’élite;
- il linguaggio di contrattazione si situa nella sfera strumentale della politica, che rimane nascosta agli occhi
del pubblico di massa – Edelman ha in mente specialmente i rapporti di lobbying e clientelari che non di rado,
nella politica statunitense, contrassegnano le relazioni tra partiti e gruppi di pressione, specie in vista delle
candidature alla Presidenza. Di conseguenza, se il linguaggio esortativo è connotato emotivamente ed evocativo
di miti altamente sentimentalizzati, quello di contrattazione rifugge dall’oscurità e formula i termini di un do ut
des. Ciò imprime alle parole una nota di chiarezza e di concretezza;
- infine, il linguaggio del diritto, che stabilisce ed applica le norme giuridiche. Secondo Edelman, può essere di
due tipi: quello legislativo riguarda direttamente la formulazione delle leggi e lo svolgimento dell’attività
giuridica, mentre quello amministrativo trova il suo ambito di impiego privilegiato nella burocrazia e ha per
oggetto essenzialmente i regolamenti. Sul piano sintattico e lessicale, i due tipi sono sostanzialmente simili,
abbondano di definizioni e di imperativi e fanno per lo più ricorso a termini tecnici, il cui significato è
difficilmente intellegibile fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori. Inoltre, entrambi operano sia nell’arena
simbolica, sia in quella strumentale – cioè, legislatori e burocrati utilizzano il linguaggio sdoppiandone il
significato, a seconda che i destinatari siano le minoranze organizzate ovvero la massa. In questo senso,
ambedue le specie di linguaggio producono effetti che si discostano dal rispetto formale delle leggi e dei
regolamenti: in linea con l’interpretazione generale di Edelman, producono piuttosto la distribuzione di vantaggi
tangibili oppure nella trasmissione di rassicurazioni emotive (simboli) alla massa.

L’APPROCCIO DI MANUEL CASTELLS: UN ACCOSTAMENTO ARTICOLATO

Castells elabora una teoria «comunicazionale» del potere, «caleidoscopica», i cui capisaldi sono contenuti in

«Comunicazione e potere». In questo ciclopico sforzo di teorizzazione, ci limiteremo a richiamare gli snodi
particolarmente salienti ai fini della nostra indagine, cercando in particolare di porre in luce le ragioni che

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giustificano l’inclusione della proposta di Castells nella classe dei modelli processuali, nonché l’ossatura del suo
tentativo esplicativo.

Al fine di coglierne i nessi essenziali, occorre isolare tre aspetti:

1. la teorizzazione del potere (e del «dominio») abbozzata da Castells;


2. il ruolo che, in tale impostazione teorica, rivestono i mezzi di comunicazione di massa;
3. le modalità attraverso le quali la mente umana elabora i segnali ricevuti dai mass media, in connessione ai
comportamenti politicamente rilevanti.

L A TEORIA DEL POTERE DI CASTELS: CENNI GENERALI

Ogni società, esistente o storicamente esistita, può essere descritta, secondo Castells, dal punto di vista delle
forme di potere, sociale e politico, in essa prevalenti. In tutti i casi, però, il potere si configura come una relazione
asimmetrica – cioè sempre sbilanciata, in misura più o meno accentuata, verso l’intenzione o l’interesse dell’attore,
individuale o collettivo, che lo esercita.

La tipizzazione di Castells prevede due classi principali: potere coercitivo – ossia fondato sul controllo delle risorse
di violenza (armi ed eserciti), sul loro impiego effettivo o sulla minaccia di impiegarle – e potere simbolico, che si
basa sulla legittimazione dell’azione sociale per effetto di determinati simboli (discorsi, linguaggi, ideologie).
Integrando fonti intellettuali quali Foucault, Weber e Habermas, egli afferma che «i due principali meccanismi di
formazione del potere» risiedono nella «violenza» e nel «discorso». Attenzione: in questa sede, «potere» equivale a
«potere sociale», cioè relazioni potestative che si situano nella e nelle società.

Le società moderne e contemporanee sono contrassegnate dall’esistenza di una pluralità di conflitti, di diversa
matrice (economica, politica, culturale, eccetera), che oppongono interessi differenziati – giacché il perseguimento
di taluni scopi sociali (per esempio, il rispetto dell’ambiente) oppone gli attori che si battono per il loro ottenimento
ad altri, che parteggiano per realizzare obiettivi divergenti e spesso incompatibili (si pensi alla costruzione di
un’estesa area residenziale con villette, condomini e insediamenti commerciali).

Alla luce di queste considerazioni, non è difficile comprendere perché «I conflitti non cessano mai; semplicemente
si sospendono grazie ad accordi temporanei e contratti instabili che sono trasformati in istituzioni di dominio
(potere politico) da quegli attori sociali che raggiungono una posizione di vantaggio nella lotta di potere, sia pure a
costo di concedere un certo grado di rappresentatività istituzionale alla pluralità di interessi e valori che rimangono
subordinati».

POTERE E DOMINIO

Secondo Castells, le istituzioni dello Stato, così come tutte le organizzazioni e i discorsi che hanno una funzione
regolativa, per sospendere il conflitto, della vita sociale, sono relazioni di potere «cristallizzate». Perciò,
esercitano il dominio sulle altre e funzionano come il mezzo generalizzato che permette agli attori
sociali di esercitare il proprio potere, così che essi possano realizzare i propri fini.

Nei termini di questo schema, in una democrazia è il potere politico che permette ai gruppi organizzati di
natura economica (si pensi alle aziende) di perseguire legittimamente i loro fini (realizzare un profitto),
grazie alla sua natura regolativa, che è esclusiva, nel senso che non vi è altra agenzia sociale in grado di
supplire questa funzione esercitata dallo Stato. Naturalmente, il processo che porta alla emersione e alla
strutturazione del potere politico è stabilito da gruppi e attori (capi, movimenti, dinastie, a seconda delle epoche
storiche) che giungono a plasmare l’organizzazione statale facendone uno strumento che rispecchia i propri
interessi – la storia europea pullula di casi illustrativi di queste dinamiche, dalla monarchia inglese fino alla tardiva
unificazione italiana.

Castells ribadisce che la forma storicamente prevalente (lo Stato) non rappresenta che un caso nel ben più
numeroso campo dei prodotti derivati dai processi di strutturazione dei poteri sociali e politici. Senza entrare nelle
articolazioni di questo ragionamento, già questi accenni ne documentano l’originalità: il punto è che il potere non è
localizzato in una determinata sfera sociale (per esempio per Marx l’economia) né è individuato in capo ad una
certa istituzione, ma risulta distribuito sull’intero spettro dall’azione sociale. Tuttavia, esistono «espressioni
concentrate di relazioni di potere», la cui funzione è di condizionare e inquadrare le pratiche potestative nella
società più ampia, imponendo il dominio: «Il potere sociale è relazionale, il dominio (potere politico) è
istituzionale».

LEZIONE 12 – L’APPROCCIO PROCESSUALE DI CASTELLS


POTERE E DOMINIO (RIPRESA)

Abbiamo visto nella lezione di ieri che secondo Castells in ogni epoca storica il potere politico si configura come
dominio, ovvero come forma di potere regolativa degli altri poteri sociali, che si cristallizza in istituzioni politiche
(«il potere è relazionale, il dominio è istituzionale»).

Lo Stato democratico incarna una forma storica del dominio (quella attuale), che ha in comune con quelle
precedenti (gli imperi storici, le monarchie assolute, e via dicendo) il fatto che la quantità di potere che esso
detiene dipende, in ultima analisi, dalla struttura sociale in cui opera. Anzi, il raccordo tra dominio e
struttura sociale rappresenta la «questione più decisiva» al fine di cogliere la relazione tra potere e Stato. Allora, la
caratterizzazione del potere politico implica la precisazione di almeno due dimensioni:

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1. le risorse su cui esso si fonda. In tal senso, lo Stato prevale sui micropoteri (cioè sui poteri sociali esercitati al
di fuori della politica) grazie al collegamento privilegiato con il controllo delle risorse di violenza. Tuttavia, il
dominio statale trova il suo completamento – e, in certo grado, il suo affinamento – nella modulazione dei
discorsi disciplinari, cioè nella produzione di simboli legittimanti dell’autorità politica (si notino le assonanze con
Edelman);
2. il contesto storico, che modella la struttura sociale. I fattori che definiscono i confini della società e dello
Stato nell’epoca attuale sono i processi legati alla globalizzazione e l’emergere della società in rete. Entrambi si
innestano, appunto, sopra reti di comunicazione.

L A FORZA DEL CONTESTO STORICO DEL POTERE POLITICO E L A SOCIETA’ A RETE

Spostiamo l’attenzione sul secondo ordine di elementi. Si tratta di aspetti strutturali, che riguardano cioè la
morfologia della società contemporanea. Da una parte, la globalizzazione disarticola il nesso, di matrice
weberiana, tra territorio e politica: le forme prevalenti del potere politico non sono più sovrapponibili ai confini
nazionali. Ciò produce un mutamento nelle frontiere che definiscono la società, che trascina con sé pure le
modificazioni delle relazioni di potere che trascendono il quadro nazionale. Non si ha la scomparsa dello Stato
nazionale, bensì la sua ricollocazione in un contesto profondamente diverso dal passato: i confini nazionali sono
semplicemente una delle dimensioni nelle quali operano il potere politico e il contro-potere, ovvero le istanze
sociali che si pongono nella prospettiva di articolare una sfida allo status quo. In altre parole, lo Stato-nazione
non evapora quale assetto specifico di organizzazione sociale, tuttavia evolve verso una nuova forma,
quella dello «Stato a rete».

Il che corrisponde alla configurazione della società a rete: la tesi di Castells è che oggi il contenitore
principale delle relazioni di potere, sociali e politiche, non è più lo Stato nazionale, con le sue
frontiere territorialmente nitide e stabilizzate. Un’analisi aggiornata del potere richiede la precisazione delle
«reti socio-spaziali del potere (locali, nazionali, globali) che, nella loro intersezione, configurano le società»
(Castells 2017, p. 11). Da questo punto di vista, la nozione di «società» perde un attributo cruciale, ovvero la
stabilità dei propri confini: la nuova società si qualifica infatti per possedere frontiere sfumate e instabili,
a causa dell’incessante mutamento nella geometria delle reti globali che presiedono alla strutturazione delle
pratiche e delle organizzazioni sociali.

A loro volta, le reti sono insiemi di nodi, ovvero di componenti la cui salienza dipende dalla capacità di assorbire
una maggiore quantità di informazioni adeguate e di elaborarle in modo sempre più efficiente – cioè di contribuire
all’efficacia del network nel realizzarne gli obiettivi (a loro volta definiti dai valori e dagli interessi programmati
nelle reti). Se per qualche ragione l’utilità, intesa in questo senso, dei singoli nodi viene meno, le reti tendono a
riconfigurarsi, eliminando i nodi «difettosi» e aggiungendone altri. Detto diversamente, le reti sono strutture di
comunicazione complesse, che si edificano intorno a un insieme di obiettivi (che la rete intende ottenere),
che assicurano tanto la coesione rispetto allo scopo, quanto la flessibilità di esecuzione, adattandosi all’ambiente.
Gli obiettivi e le procedure secondo cui agiscono sono programmate da attori sociali, mentre il meccanismo
evolutivo delle reti è dato dalla loro capacità di autoconfigurarsi in risposta agli stimoli ambientali, nella ricerca
continua di assetti più efficienti – si noti qui la concordanza con il funzionamento del modello cibernetico di
Deutsch.

DOMINIO E CONTRO -POTERE NELLA SOCIETA’ DI RETE

L’asserzione focale di Castells è che le reti costituiscono «il modello fondamentale […] di ogni genere di vita»
(Castells 2017, p. 15).

Ma se è così, perché l’immagine prevalente di ogni società (nonché della sua evoluzione) è quella di un ordine
gerarchico, agganciato ad una struttura rigida del potere politico? Semplice: perché la struttura del dominio
regolativo esercitato dalla politica, collegata al controllo delle risorse coercitive e legittimata dai discorsi
disciplinari, si è rivelata, in ogni epoca, storicamente prevalente.

Ciò accade in conseguenza del fatto che la logica orizzontale della rete si presenta, oltre certe soglie dimensionali
(cioè su larga scala), meno efficiente (ai fini del mantenimento/accrescimento del potere) della logica verticale
tipica della politica, almeno nelle età in cui la comunicazione veniva elaborata e trasmessa grazie a tecnologie pre-
elettroniche.

Nei termini di Castells, il dominio è istituzionale, il potere (comunicativo, della rete) è relazionale. La
fondamentale matrice del conflitto in ogni società è quella che oppone un certo tipo di potere sociale, sostenuto
dal dominio politico e dai discorsi disciplinari che lo legittimano, ed organizzato secondo una logica verticale; ad un
contropotere, che si struttura secondo una logica orizzontale e grazie a discorsi alternativi a quelli dominanti –
ovvero, le unità costitutive di ogni tentativo di contrapporsi e/o di sovvertire il dominio passano per la
comunicazione e per i dispositivi tecnologici grazie ai quali la comunicazione stessa è elaborata e trasmessa.

La storia del mondo è la storia di contrapposizione tra il potere politico, concettualizzato come
dominio, a struttura verticale, che si appoggia a risorse coercitive e simboliche e costituisce l’ancora che
mantiene la stabilità del sistema sociale, assicurando ai relativi poteri sociali (di diversa matrice: culturale,
economica, militare, burocratica, eccetera), conflittuali tra di loro, il perseguimento dei propri scopi particolari; e il
contro-potere, che si fonda su risorse eminentemente simboliche (i discorsi alternativi), il cui potenziale
si rivela grazie alle innovazioni tecnologiche applicate alle comunicazioni e che possiede una struttura
reticolare, che si articola in una pluralità di nodi, tutti co- essenziali ai fini di garantire l’efficacia del discorso
alternativo al dominio. La dialettica potere/contro-potere secondo il nostro autore rappresenta una sorta di legge
naturale.

I NESSI CON LA COMUNICAZIONE (MASS MEDIA) E IL LIVELLO PSICOLOGICO

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La società a rete contemporanea, in combinazione con le innovazioni tecnologiche di Internet e degli strumenti del
web 2.0, legittima la messa in discussione dello Stato nazionale, a vantaggio del contro-potere, cioè dei
discorsi alternativi al potere (politico) dominante, finora storicamente prevalente.

In questa possibilità di invertire la tendenza consolidata, Castells intravede nuove opzioni di democratizzazione per
le poliarchie contemporanee, nel senso della loro ulteriore apertura alla partecipazione dei cittadini al governo
della cosa pubblica e, quindi, nell’allargamento dello spazio occupato dalla logica orizzontale e reticolare promossa
dai movimenti del contro-potere.

Fissati questi punti, per cogliere appieno il significato dello schema occorre precisare due elementi
complementari: perché le innovazioni tecnologiche digitali spostano decisamente la bilancia del potere a favore
dei movimenti che si contrappongono al dominio istituzionalizzato; quali sono i meccanismi che, a livello
individuale, sostengono la mobilitazione del contro-potere e ne incrementano le probabilità di successo. Mentre il
primo richiede una messa a fuoco delle condizioni strutturali che plasmano la comunicazione di massa nelle
democrazie contemporanee, il secondo impone di volgere lo sguardo sui dinamismi psicologici che, a livello
individuale, attivano i comportamenti di massa favorevoli al contro-potere, arricchendone così le chances di
scardinare lo status quo per poi avviare la stabilizzazione del potere su nuove basi discorsive.

IL RUOLO DEI MASS MEDIA: DALL A COMUNICAZIONE DI MASSA ALLA AUTO -COMUNICAZIONE DI MASSA

Castells distingue la comunicazione one-to-one (es.: colloquio orale tra un emittente e un destinatario del
messaggio), dalla comunicazione di massa.

La prima è interattiva (prevede cioè la reciprocità nello scambio di informazioni e significati condivisi), la seconda
può assumere anche una forma unidirezionale. È il caso della comunicazione di massa tradizionale
(broadcasting), che si articola secondo una struttura uno-molti e si propaga mediante canali quali giornali, radio,
TV, che riducono al minimo le possibilità di relazioni interattive – i destinatari della comunicazione assumono un
ruolo perlopiù passivo, limitandosi a ricevere il messaggio.

L’avvento del world wide web identifica una discontinuità epocale, nel senso che segna l’emersione di una nuova
forma di comunicazione interattiva, «caratterizzata dalla possibilità di inviare messaggi many-to-many, in tempo
reale o in un momento stabilito» (Castells 2017, p. 60).

In altri termini, l’innovazione tecnologica dischiude nuove frontiere comunicative e, in particolare, apre l’era della
auto- comunicazione di massa: il messaggio può raggiungere un pubblico virtualmente illimitato e globale, ma, a
differenza di quanto accade per i mass media tradizionali, esso è auto-prodotto; l’individuazione dei destinatari e la
selezione/trasmissione di specifici contenuti da Internet e dai social networks appaiono cioè determinate in proprio
dall’utente-fabbricatore del messaggio.

Perciò, nella società a rete attuale comunicazione interattiva, comunicazione di massa e auto-comunicazione di
massa coesistono. La progressiva convergenza nelle forme della comunicazione, che vengono tutte organizzate
secondo una logica ipertestuale, cioè in contenuti compositi e interattivi, che mescolano differenti espressioni
culturali, scaturenti dalle interazioni umane, costituisce tuttavia uno sviluppo senza precedenti.

LE CONSEGUENZE PER L A COMUNICAZIONE

Questo inedito mix deriva da trasformazioni cruciali nel processo comunicativo, fra cui spiccano, in particolare, la
già citata trasformazione tecnologica, fondata sulla digitalizzazione della comunicazione, sulle reti
informatiche, sul software avanzato, sulla sostanziale ubiquità delle reti wireless, che rendono possibile un diffuso
accesso alla Rete e, di conseguenza, la comunicazione multiscalare (locale/globale); e la ridefinizione della
struttura della comunicazione organizzativa e istituzionale - nell’epoca della comunicazione di massa il
mittente erano i mass media e i destinatari il pubblico in generale, oggi gli assetti strutturali che definiscono la
comunicazione sono profondamente mutati, in particolare a seguito della commercializzazione e della
internazionalizzazione dei media.

I fenomeni appena descritti vengono intesi quali riflessi delle relazioni di potere sociale. Queste ultime orientano
l’evoluzione della comunicazione «multimodale», che si avvale cioè di tutte le forme disponibili (interattiva, di
massa, autocomunicazione di massa). In un mondo descritto come il quadro nel quale si gioca un confronto tra
potere e contro- potere su basi essenzialmente comunicative, non è un caso che il nostro autore imputi al
digital divide, ovvero all’accesso ancora differenziato alla comunicazione digitale, il ruolo di formidabile
moltiplicatore delle disuguaglianze di classe, etnia, razza, età e genere del dominio (cioè del potere politico), in
chiave planetaria: «la crescente influenza che le corporation nei settori dei media, dell’informazione e della
comunicazione esercitano sulle authority pubbliche di regolamentazione possono distorcere la rivoluzione della
comunicazione mettendola al servizio degli interessi del business» (CASTELLS 2017, pp. 62-63).

Malgrado il nostro autore consideri strutturale l’ambivalenza di questi sviluppi, perché legata alla natura plurale e
conflittuale delle poliarchie contemporanee, ne traccia comunque un bilancio positivo, giacché registra comunque
la prevalenza, a livello di massa – ossia dei cittadini – di comportamenti che si avvalgono delle nuove tecnologie
per portare avanti progetti, difendere interessi e promuovere valori accomunati dall’autonomia rispetto al dominio.

Il dato che conviene fermare è che le trasformazioni sopra schematizzate bilanciano il conflitto a
vantaggio dei movimenti di contestazione al dominio, che nascono e si alimentano specialmente grazie alla
partecipazione dei cittadini, dischiusa dalla auto-comunicazione di massa – che «permette ai soggetti comunicativi
di comunicare in senso lato, con un’autonomia senza precedenti» (CASTELLS 2017, p. 165). Dunque, in quanto
discorsi alternativi, l’autonomia e la logica reticolare dei movimenti si contrappongono alla struttura verticale del
potere politico, incrementando, grazie ad Internet, le proprie chances di successo. L’inedita libertà comunicativa
degli attori è però insidiata dalle reazioni dei poteri sociali collegati al dominio istituzionalizzato: che si esprimono
principalmente in capo alle «reti commerciali multimediali globali», ovvero le grandi corporations multinazionali

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che operano in modo ibrido nei campi del business e dei media. Appropriandosi delle nuove tecnologie
comunicative e cogliendo le implicazioni della innovativa struttura a rete, questi attori presidiano la stabilità del
sistema a fronte delle sfide portate dai movimenti che promuovono la cultura dell’autonomia e dell’organizzazione
reticolare.

IL LIVELLO PSICOLOGICO

Nell’edificio teorico di Castells, questi sviluppi non troverebbero giustificazione senza un elemento di raccordo tra
la dimensione “macro” e quella “micro” dell’indagine, dato da una certa descrizione dei meccanismi psicologici
che, a livello individuale, assecondano ed amplificano le dinamiche sociali e politiche appena tracciate.

Castells estende l’applicazione dello schema teorico all’organismo umano: egli vede l’uomo come un organismo
vivente ordinato secondo un modulo a rete. Perciò, egli osserva la formazione delle immagini mentali
individuali e ne tratteggia una descrizione che assomiglia alla spiegazione del funzionamento di una rete di
comunicazione.

Egli afferma che gli uomini sono «reti in connessione con un mondo di reti». E qui si innesta una prospettiva
analitica fortemente sbilanciata in senso costruttivista, simile a quella dell’ultimo Edelman. In effetti, il nostro
autore afferma che noi costruiamo la realtà (la mente umana), reagendo ad eventi concreti: il comportamento di
reazione, attivato dal cervello, elabora tali eventi in base a modelli pre-acquisiti, poiché «gran parte dell’attività di
elaborazione è inconscia». In virtù di questa argomentazione, Castells sostiene che la realtà non è né oggettiva, né
soggettiva, bensì una costruzione materiale ibrida, che somma ciò che accade nel mondo fisico con l’elaborazione
mentale degli stessi accadimenti ad opera del cervello (perlopiù inconscia).

IL RUOLO DELLE EMOZIONI

L’elaborazione consapevole emerge invece col tempo, accompagnando la crescita del soggetto. Nasce cioè dalla
necessità di integrare un maggior numero di immagini mentali, prodotte dalla percezione, con le immagini
già acquisite e depositate nella memoria. Il principio che organizza questa attività più complessa è il sé,
ovvero l’identificazione dell’individuo in carne ed ossa, in vista del cui benessere viene attuata la manipolazione
delle immagini mentali. In questo processo, le componenti emotive rivestono un ruolo primario: «Le
rappresentazioni mentali diventano motori di azione significativa incorporando le emozioni, i sentimenti e i
ragionamenti che definiscono il modo in cui viviamo» (CASTELLS 2017, p. 173).

In pratica, le immagini mentali producono emozioni, e queste ultime orientano gli uomini ad agire. Il
nostro autore spiega nel dettaglio questa dinamica, asserendo che il cervello elabora eventi (interiori o esteriori) in
base alle mappe (o reti di associazione), cioè all’insieme dei collegamenti tra fatti e immagini mentali già
archiviate nella memoria. Secondo questa prospettiva, l’uomo è una rete che, a fronte di uno stimolo, reagisce
attivando un preciso protocollo, riconoscendo l’input e connettendolo ad una certa immagine, che a sua volta
produce un output emotivo, da cui promana, alla fine della catena del ragionamento, il comportamento.

Tutte queste attività sono messe in moto dalla comunicazione: in altri termini, «perché il cervello operi la
connessione tra […] mappe [cerebrali] ed eventi esterni, bisogna che abbia luogo un processo comunicativo»
(CASTELLS 2017, p.

174). Da questo punto di vista, Castells focalizza il linguaggio come forma principale di comunicazione e ne
distingue differenti componenti, collocate a diversi livelli analitici.

La connessione comunicazione-emotività diventa perciò cruciale in questo schema: e si realizza in


capo alle fonti della comunicazione e della auto-comunicazione di massa: «Particolarmente importante per
l’analisi della formazione del potere è comprendere in che modo si producono le notizie nei media e come vengono
selezionate e interpretate dalla gente» (CASTELLS 2017, p. 193). Sotto questo profilo, numerosi studi confermano
che le notizie che sollevano timori o veicolano minacce alla sicurezza dei consumatori-utenti dell’informazione
sono quelle che colpiscono maggiormente l’interesse degli individui, che reagiscono prontamente: la paura, specie
a livello collettivo, costituisce un formidabile innesco dell’attenzione, nonché una potente bussola per canalizzare
le condotte individuali e collettive. I due livelli sono, solitamente, collegati: il timore nutrito verso un pericolo
individuale è connesso alla percezione di un potenziale danno per la società.

EMOZIONI, COMUNICAZIONE, MASS MEDIA

Da quanto detto, deriva che i media giocano un ruolo preponderante nel colpire la percezione del pubblico e nel
creare frame (rappresentazioni) condivisi. Tutte le principali attività esercitate dai mezzi di comunicazione di massa
– dall’attribuzione di salienza primaria a certi temi (agenda-setting), al più o meno esplicito suggerimento di criteri
per valutare la condotta di leader politici e governi (priming), fino al promuovere una certa interpretazione,
valutazione e/o soluzione di determinati fatti (framing) – impattano sul circuito emotivo, attivando un certo
comportamento collettivo, grazie al meccanismo della significazione.

Ne derivano due conseguenze rilevanti per la qualità delle poliarchie e per il rapporto governanti/governati. In
primo luogo, quanto più i contenuti dell’informazione prodotta dai media secondo le modalità sopra
sintetizzate è allineata ai frame mentali già presenti nel pubblico, tanto più è facile che queste
rappresentazioni ne sortiscano rafforzate. In secondo luogo, da questo ragionamento segue che quanto
più le élites politiche detengono il controllo sui frame diffusi dai media – in altre parole, quanto più
dominio e potere comunicativo si saldano – tanto più aumentano i rischi di manipolazione dei
consumatori-cittadini-utenti dell’informazione.

Vi sono situazioni in cui questo rischio si concretizza ad un elevato livello di probabilità, come quando i «frame si
riferiscono a eventi culturalmente congruenti (per esempio, la difesa della nazione contro il nemico dopo l’11
settembre o in tempo di guerra)» (CASTELLS 2017, p. 203), o, nel caso italiano, la rappresentazione mainstream

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del fenomeno migratorio. Viceversa, i contro-frame, ovvero le immagini mentali prodotte dai professionisti
dell’informazione che tendono ad aderire ai discorsi alternativi promossi dagli attori del contro-potere (movimenti),
esercitano una maggiore influenza sull’opinione pubblica allorché si riferiscono ad eventi culturalmente ambigui,
come per esempio il ruolo dei governi nel gestire emergenze o catastrofi ambientali e climatiche, quando l’asserita
volontà di proteggere la popolazione dagli effetti dannosi di questi eventi viene contraddetto dalle risultanze
empiriche sul campo (come è accaduto negli Stati Uniti per l’uragano Katrina del 2005 o per l’ondata sismica che
colpito l’Italia centrale nel biennio 2016-2017). Pure in questo caso, però, il nesso di omogeneità con i frame già
presenti nel pubblico è cruciale, giacché, per essere sufficientemente potenti da rappresentare una sfida
impegnativa per i frame fabbricati dall’élite, «i contro- frame debbono essere culturalmente consonanti con il
pubblico – o almeno con la percezione che i giornalisti hanno della pubblica opinione» (CASTELLS 2017, p. 204).

Insomma, la lotta tra potere e contro-potere si riflette nel confronto serrato tra frame e contro-frame:
dall’esito di questo confronto, nel quale gli operatori dell’informazione rivestono un ruolo primario, scaturisce il
rafforzamento dell’élite politica che esercita il dominio oppure dei movimenti di contro-potere – a differenza di
Edelman, Castells pensa che, in determinate situazioni, la presa del potere istituzionalizzato possa perdere
mordente ed indebolirsi.

IN CONCLUSIONE

Dunque, sul terreno comunicativo si svolge una battaglia cruciale per gli equilibri di potere nelle democrazie
contemporanee, che vede governi, media e cittadini collocati in posizioni differenti: queste ultime sono definite
eminentemente in termini comunicativi, in linea con i postulati del complesso edificio teorico elaborato da Castells;
nonché, per quel che riguarda la massa, collegate al processo di significazione che si dispiega a livello cerebrale. Il
grado di condizionamento che élites e media possono però esercitare sul pubblico non è né sistematico né
unidirezionale: si presenta più elevato in determinate circostanze (frame culturalmente congruenti, come nei casi
di guerra o di emergenza) e, in ogni caso, dipende dal grado di corrispondenza con le mappe mentali già diffuse
nel pubblico, nonché dal quantum di attrattività esercitato dai frame del contro-potere.

LEZIONE 13 – GLI APPROCCI MASSMEDIOLOGICI, LA “MEDIATIZZAZIONE”

MEDIATIZZAZIONE E TEORIA DELLA DEMOCRAZIA

Gli studiosi che analizzano il raccordo democrazia-comunicazione politica secondo un indirizzo


massmediologico non tessono un canovaccio teorico complesso e ricco di sfaccettature alla luce del quale
interpretare il significato del nesso così stabilito. Fissano invece l’attenzione sui canali attraverso cui la
comunicazione viene diffusa e postulano la rilevanza della mediatizzazione, sostenendo che questo fenomeno
causa trasformazioni inedite ed epocali dei regimi democratici contemporanei e produce perciò effetti significativi
sulla comunicazione politica.

Per cogliere il senso del loro ragionamento, occorre allora gettare luce su questi mutamenti, al fine di disporre di un
quadro teorico al quale appoggiare la trattazione sviluppata dagli accostamenti massmediologici. Il punto è che tali
riferimenti vanno ricercati al di fuori di questi modelli, specialmente nei concetti di «post-democrazia» (CROUCH
2003) o di «democrazia del pubblico» (MANIN 2010). Sono i media che producono mediatizzazione che causa
trasformazioni cruciali nei regimi democratici contemporanei e quindi nella comunicazione politica.

“POST-DEMOCRAZIA” E COMUNICAZIONE POLITICA

Nella post-democrazia, secondo Crouch «anche se le elezioni continuano a svolgersi e condizionare i governi, il
dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti
(leader politici) nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi
gruppi. La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai
segnali che riceve. A parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall’interazione tra
i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici» (CROUCH 2003, p. 6).

Si tratta di sviluppi che non conducono, nel breve termine, ad assetti non democratici; tuttavia, quanto più il
cedimento si consolida, tanto più emergono spinte preoccupanti per il mantenimento delle proprietà che
contraddistinguono il progetto «ambizioso» della democrazia. Fra queste, Crouch cita alcune conseguenze
importanti per la comunicazione politica.

1. la divaricazione tra comunicazione politica «di élite» e di massa: in passato il vocabolario dei leader politici era
un vocabolario elevato che si allineava alle cerimonie ufficiali e si distanziava dal linguaggio ordinario, ora il
linguaggio della politica spettacolo è molto più semplice ma non è né quello elevato del passato né quello
ordinario delle masse, è il sintomo più evidente del decadimento della dialettica politica.

2. il consolidamento del modello «pubblicitario» di comunicazione: le tecniche dei leader per convincere i cittadini
a votare per loro sono più ispirate alla logica commerciale e pubblicitaria, votare è come una campagna
pubblicitaria cioè scegliere il prodotto migliore, anche questo è sintomo di decadimento

3. l’accresciuta personalizzazione della politica: Prende posto alla grande lotta tra ideali, anche questo viene visto
come negativo

L A “DEMOCRAZIA DEL PUBBLICO”

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Bernard Manin (2010) asserisce che siamo in presenza di un mutamento strutturale nel campo delle democrazie
mature, che stanno abbandonando il modello delle «democrazie di partito» per aderire ai principi della
«democrazia del pubblico» (audience democracy).

Questo passaggio si può accertare in relazione a quattro dimensioni:

1. le procedure attraverso cui vengono eletti i rappresentanti politici;


2. il grado della (parziale) autonomia degli eletti rispetto alle organizzazioni che ne hanno assicurato l’elezione;
3. la misura della libertà riconosciuta alle diverse espressioni dell’opinione pubblica;
4. infine, la «prova della discussione», ossia la sede o le sedi principali, di natura tendenzialmente deliberativa, in
cui i rappresentanti eletti sono chiamati a difendere pubblicamente/dialetticamente i propri posizionamenti
programmatici, ideologici o di policy.

“DEMOCRAZIA DEL PUBBLICO” E APPROCCIO MASSMEDIOLOGICO

Lo schema proposto nella slide precedente mostra piuttosto chiaramente gli attori che controllano il rapporto
democrazia-comunicazione politica nei due tipi di regimi: rispettivamente, i partiti politici e i media. Perciò, non è
casuale che i promotori dell’approccio massmediologico colleghino molte delle loro tesi ai postulati teorici elaborati
da Manin: qualificare le poliarchie moderne come democrazie del pubblico, significa, allo stesso tempo, attribuire ai
media una assoluta centralità nell’instaurazione del rapporto governanti-governati; di conseguenza, con questa
mossa, si indirizza ipso facto l’interpretazione del nesso comunicazione politica-democrazia lungo un asse
massmediologico.

Potremmo perciò affermare che vi è complementarietà tra gli approcci massmediologici e le teorizzazioni generali
à la Manin oppure à la Crouch: le seconde sembrano funzionare da inquadramento agli approcci massmediologici.
Certi contributi, non a caso, si presentano esplicitamente come i naturali riverberi di questi approcci sul terreno
dell’esame ravvicinato delle forme di comunicazione politica nel contesto democratico (cfr. ad esempio de Beus
2011). Questo aspetto ci consente di evidenziare che la portata interpretativa della spiegazione
massmediologica risulta limitata, specialmente se raffrontata agli accostamenti di natura sistemica o
processuale.

Le posizioni degli studiosi che si riconoscono in questo filone della ricerca danno luogo a posizionamenti di medio
raggio, che non si pongono scopi di teoria generale (Esser – Strömback 2014).

LA MEDIATIZZAZIONE

Il concetto di «mediatizzazione», comune a tutti gli approcci, designa essenzialmente il ruolo assunto dagli attori e
dagli strumenti della comunicazione nelle società democratiche (il ruolo dei media nelle società democratiche). Tali
dinamismi plasmano in profondità la qualità ed i contenuti del dibattito pubblico, producendo effetti
strutturali/duraturi dai quali gli attori politici difficilmente possono prescindere.

Vi sono due definizioni del fenomeno. A livello generale, la mediatizzazione consiste in «un processo di crescita
incrementale di lungo periodo dell’importanza dei media e della loro influenza diretta ed indiretta nelle varie sfere
della società» (Esser – Strömbäck 2014, p. 6). L’accresciuta salienza dei media nonché le conseguenze che ne
scaturiscono si prestano ad essere indagate da diversi angoli visuali, tanti quanti sono gli ambiti sociali interessati.
In senso più specifico, il concetto designa «la crescente intrusione della logica propria dei media sotto forma di
regola istituzionale in settori – come la comunicazione politica – dove predominavano altre regole di definizione
delle condotte qualificate come appropriate» (Kriesi 2013, p. 10). Più nel dettaglio, la tracimazione del criterio di
funzionamento proprio dei media sul terreno politico condiziona essenzialmente la comunicazione tra governanti e
governati.

Tale rapporto negli ultimi decenni è sottoposta ad una duplice pressione: da un lato, i canali attraverso cui i media
raggiungono i cittadini sono proliferati e si sono differenziati, giacché agli schermi televisivi e alla radio si
sommano la Rete e i circuiti dei social networks; dall’altro, questi sviluppi appaiono saldamente collegati con
l’ingresso sul mercato di operatori commerciali, caratterizzati da un orientamento ai consumatori e dalla necessità
di assicurarsi risorse provenienti da sponsor privati. In tal senso, il risultato netto della combinazione delle variabili
individuate risiede nella prevalenza della “logica mediatica” sulla “logica politica”, specialmente nello strutturare il

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nesso governanti/governati. Questo rapporto si struttura sempre di più con una logica mediatica piuttosto che
secondo una logica politica e ciò gravita di conseguenze.

LE DIMENSIONI DELL A MEDIATIZZAZIONE

Taluni autori (Esser – Strömbäck 2014, pp. 6-8) hanno individuato quattro dimensioni della mediatizzazione politica,
ciascuna delle quali è correlata con le altre:

a. fonti di informazione: la politica risulterà tanto più “mediatizzata” quanto più i media costituiscono i principali
mezzi grazie ai quali i cittadini ricevono notizie e informazioni in relazione ai fatti politici e alla società – in altre
parole, quanto più la comunicazione politica è mediata dai mass media tanto più ci troviamo davanti a un
elemento che sposterà la politica verso il polo della mediatizzazione. Perché i cittadini dipendono dai media per
le loro conoscenze della politica.
b. istituzionalizzazione/autonomia: affinché i media possano esercitare una influenza significativa sulla politica,
è necessario che essi esibiscano una certa autonomia dalle altre istituzioni sociali e politiche; il che vuol dire che
i soggetti mediatici debbono collocarsi in una fase avanzata del processo di istituzionalizzazione oppure debbono
costituire un sistema istituzionale vero e proprio – in tal senso, più il sistema dei media è istituzionalizzato e
(perciò) autonomo da altre istituzioni, maggiore è il grado di mediatizzazione della politica;
c. pratiche mediali: tale dimensione focalizza la misura in cui i media sono guidati, nella copertura giornalistica
degli eventi politici, dalla logica mediatica, secondo cui la percezione dei fatti e del loro livello di “notiziabilità”
sono definiti dalle esigenze e dagli standard propri dei media medesimi, piuttosto che da una logica politica, che
riflette le valutazioni degli attori, appunto, politici. Tanto più la logica mediatica prevale su quella politica
nell’indirizzare l’attenzione dei media, tanto più si potrà asserire che la mediatizzazione della politica si colloca
ad uno stadio avanzato es. meglio parlamentare all’isola dei famosi piuttosto che la regione che ha cambiato
colore politico dopo tot anni.
d. infine, la dimensione delle prassi politiche riguarda il grado in cui gli attori politici (istituzioni, leader, partiti)
sono guidati, nel loro comportamento, dalla logica mediatica anziché da quella propriamente politica: quanto più
la prima prevale sulla seconda, tanto più elevato è il livello di mediatizzazione. Politici che vanno da Barbara
D’Urso.

Sul piano teorico, buona parte della capacità descrittiva del ragionamento appena abbozzato risiede nel confronto
tra i due tipi di logica, politica e mediatica. Sappiamo che la prevalenza della seconda sulla prima quale criterio che
plasma la condotta degli attori (sia politici che mediatici) costituisce un indice affidabile della mediatizzazione della
politica nel quadro poliarchico. Tuttavia, se vogliamo cogliere appieno il senso di questa argomentazione, è
necessario lumeggiare il significato di «logica politica», così come sul contenuto della «logica mediatica».

LE COMPONENTI DELL A LOGICA POLITICA

POLITY: aspetti morfologici, istituzionali della politica cioè il regime. POLICY: la formulazione e realizzazione delle
politiche pubbliche. POLITICS: Lotta per il potere.

La logica politica si compone di tutte le parti. La logica mediatica si concentra sugli aspetti più pubblici come la
politics, un po’ la policy, per niente la polity.

LE DIMENSIONI DELL A LOGICA MEDIATICA

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PROFESSIONALIZZAZIONE: il grado in cui la professione giornalistica è autonoma cioè istituzionalizzata,


orientamento interesse pubblico.

COMMERCIALIZZAZIONE: i grandi media sono imprese commerciali. TECNOLOGIA: modalità di produzione e


riproduzione dell’informazione.

Quanto più la logica mediatica tende a condizionare il comportamento politico degli attori in politica, allora ci
troviamo esposti al fenomeno della mediatizzazione e allora la comunicazione politica assume i caratteri che i
fautori dell’approccio massmediologico computano alla società contemporanea mediatizzata.

LEZIONE 14 – GLI APPROCCI MASSMEDIOLOGICI: L’ACCOSTAMENTO DI BLUMLER, LA LETTURA


DI MARCINKOWSKI- STEINER

IL PUNTO DI VISTA DI BLUMLER

Jay Blumler, muovendosi entro un paradigma di taglio massmediologico, ha cercato di stabilire in quale misura
l’adozione di comportamenti conformi a quella che le élites politiche percepiscono essere la logica mediatica
contribuisce ad alimentare la mediatizzazione della comunicazione politica (BLUMLER 2014). Al fine di sottolinearne
la natura volontaria ed autonoma, egli asserisce che si tratta di «auto-mediatizzazione»: in altre parole, non vi è
alcun vincolo esterno che induce i leader o le istituzioni politiche ad adottare stili di azione allineati ai canoni
mediatici, così come essi li intendono. Al contrario, la ratio del comportamento sta nell’aspettativa di trarne
vantaggi da questo autoadeguamento, specialmente sul piano della ricerca del sostegno nell’arena mediatica. Se
io mi allineo a quello che IO percepisco come logica mediatica, allora posso trarne vantaggio per i consensi.

Se ciò corrisponde al vero, ne sortisce una descrizione della comunicazione politica come semplice riflesso della
logica mediatica, che attribuisce ai media un ruolo sconosciuto nelle società precedenti l’attuale: se sono i
parametri mediatici a dettare il contenuto e la forma della comunicazione politica, allora è evidente che i media
svolgono un ruolo propriamente politico. Sotto questo profilo, la mediatizzazione della comunicazione (politica) può
determinare il logoramento/decadimento qualitativo della democrazia da molti punti di vista. Blumler ne elenca
sei, sei rischi (v. slide seguente).

LOGICA MEDIATICA E RISCHI PER LA DEMOCRAZIA

1. Se si crea una saldatura tra logica mediatica e comunicazione delle élites politiche, è probabile che, come
sostiene Castells, i frame fabbricati e diffusi dai media, specialmente dai news media, conquistino centralità e
non debbano fronteggiare sfide comunicative veicolate da rappresentazioni simboliche e linguaggi alternativi: la
mediatizzazione allora aumenta la probabilità del verificarsi di «ingiustizie comunicative» (il dibattito
pubblico diventi chiuso accessibile solo alle élite politiche, chiuso in particolare a quelli anticonformisti) (Blumler
2014, p.37), stante la sostanziale chiusura del dibattito pubblico verso quei gruppi che sono portatori di discorsi
anticonformisti o comunque diversificati rispetto alla retorica mainstream (out-groups);
2. la comunicazione mediatizzata tende costantemente a prediligere la focalizzazione delle questioni
immediate (la popolarità di questo o di quel leader, gli atteggiamenti degli elettori verso le ultime misure
licenziate dal governo, le onnipresenti liti nella coalizione di maggioranza), trascurando le tematiche di medio-
lungo periodo, che sono però quelle che decidono della sopravvivenza e del benessere delle società
democratiche (la crescita economica, la collocazione del Paese entro l’orizzonte strategico della politica estera,
la protezione dell’ambiente);
3. a causa soprattutto della propagazione di frame monolitici e/o di stereotipi, la mediatizzazione può limitare,
a volte severamente, le capacità dei cittadini di prendere coscienza delle alternative a disposizione per
affrontare questioni importanti, nonché di compiere scelte informate – detto diversamente, Blumler teme una
deriva manipolatoria della comunicazione politica, nel senso della contrazione della quantità e della qualità
dell’informazione in una democrazia; diminuzione della quantità e qualità dell’informazione disponibile per i
cittadini.
4. data la convergenza comunicativa tra politici e media, il rischio è quello che questi ultimi abdichino rispetto
alla loro funzione di controllo del potere politico, azzerando le loro facoltà critiche verso le proposte di
policy¸ le decisioni e gli outputs licenziati dai governi;
5. la possibilità che la classe diretta possa trarre spunti utili dal conflitto o dal confronto tra diverse fazioni,
leader o proposte politiche – per esempio, ai fini del chiarimento della posta in gioco, in occasione di una contesa
elettorale o di un dibattito particolarmente acceso intorno ad una questione importante per l’opinione pubblica
(pensiamo alle politiche dell’occupazione o alla regolamentazione dei flussi migratori) – risulta drasticamente
ridimensionata se queste interazioni si riducono a poco più che a semplici scambi di insulti, che invece spesso
corrispondono a quel che la logica mediatica tende ad imporre, in nome dell’audience e dello share negli ascolti;
6. infine, ed è forse il rischio più grave nel quadro delle poliarchie contemporanee, la mediatizzazione sembra in
grado di offuscare, o addirittura di spezzare, il nesso di responsabilità che in una democrazia dovrebbe
mantenersi sempre operativo: i cittadini devono infatti essere consapevoli di quali sono gli attori politici a cui
imputare la responsabilità del governo. Dunque, la semplice osservazione empirica per cui i leader politici hanno
modificato i loro comportamenti comunicativi allo scopo di adattarsi alla logica dei media solleva una questione
importante per la teoria della democrazia: non saremo giunti al punto per cui i leader democraticamente eletti,
perciò responsabili (accountable) delle loro decisioni nei confronti dell’elettorato, dipendono da istituzioni
mediatiche, sottratte a qualsiasi circuito elettorale, rappresentativo e di accountability?

Lea
der
Media
(giornalisti)
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Tuttavia, Secondo Blumler, i rischi risultano attenuati dal fatto che la auto-mediatizzazione, in realtà, rappresenta
una proprietà tipicamente associata ad un modello piramidale di comunicazione politica è sempre dall’alto verso il
basso, a questo modello sono agganciati i rischi.

Il modello piramidale di produzione/diffusione della comunicazione politica considera essenzialmente tre specie di
attori: i (leader) politici, gli operatori dei media e il pubblico – notate la perfetta compatibilità di questo schema con
la teorizzazione della democrazia del pubblico (Manin 2010). Ma vi è di più: gli attori politici di vertice e i giornalisti
tessono fitte e complesse relazioni interistituzionali tra di loro, collocandosi al vertice della piramide e veicolando la
comunicazione verso il basso (ai cittadini-elettori) – dando così luogo ad un sistema di trasmissione delle
informazioni che è unidirezionale (alto verso basso) ed esclude l’interazione e la reciprocità, giacché il pubblico
esaurisce il proprio ruolo nel ricevere la comunicazione.

Nelle poliarchie di oggi, il modello sopravvive in collegamento con alcune forme di comunicazione politica (i
comunicati ufficiali delle istituzioni di vertice, come, in Italia, la Presidenza del Consiglio o la Presidenza della
Repubblica): sul piano della capacità di descrivere, in generale, il rapporto che si instaura tra attori politici e media
in democrazia, questa schematizzazione è invece da considerarsi obsoleta e, ormai, irrealistica.

La sua solidità si è rivelata solo apparente, sotto i colpi portati dai processi di espansione, segmentazione
e frammentazione delle prassi comunicative che hanno caratterizzato, nell’ultimo ventennio, i regimi
democratici maturi (Blumler 2014, p. 38), specialmente a seguito dell’applicazione delle innovazioni
tecnologiche digitali (Internet e i social networks) alla comunicazione politica. Per averne cognizione, basta
ricordare taluni sviluppi, sufficienti a mettere in discussione il modello piramidale: i leader politici emettono una
pluralità di messaggi indirizzati ad un ampio spettro di destinatari, fra i quali i cittadini rappresentano soltanto uno
dei possibili target; i media hanno accesso ad un insieme molto più articolato di fonti, che non si esauriscono alle
élites politiche; infine, gli stessi cittadini sono diventati produttori di informazione (come nel caso del citizens’
journalism) e, più in generale, la logica orizzontale dei nuovi media ha proiettato gli elettori da un ruolo marginale
(destinatari della comunicazione) ad una posizione più attiva (o, per meglio dire, inter-attiva e inter-agente),
almeno a livello potenziale.

Questi processi hanno fatto saltare i contrafforti della struttura piramidale a cui la mediatizzazione appariva
agganciata, tanto che, nelle parole di Blumler, quest’ultima non rappresenta più «the only political communication
game in town». In particolare, egli ritiene che il corpus della comunicazione politica nelle odierne poliarchie sia
simile, metaforicamente, ad uno spettro lacustre, alimentato da diversi affluenti.

MEDIATIZZAZIONE COME PROCESSO “REVERSIBILE”: L A LETTURA DI MARCINKOWSKI – STEINER

Collocandosi entro gli approcci massmediologici, Marcinkowski e Steiner insistono sulla reversibilità e sulla
portata comunque relativa della mediatizzazione (MARCINKOWSKI – STEINER 2014).

Applicando all’arena mediatica delle democrazie l’approccio sociologico basato sulla teoria dei sottosistemi
formulata da Luhmann, essi muovono dalla premessa che la mediatizzazione riguarda le relazioni che si
sviluppano tra il sottoinsieme dei media, da una parte; e gli altri sottosistemi sociali, dall’altra. Quindi,
la “mediatizzazione della politica” ha a che vedere con i rapporti che si instaurano tra la sfera politica e l’arena
mediatica.

Questa prospettiva, perciò, ridimensiona l’originalità del fenomeno, interpretandolo semplicemente come un caso
particolare delle interazioni che, nella società moderna e democratica, si sviluppano tra i diversi sub-sistemi sociali.
Sul piano teorico, la «mediatizzazione» si colloca allora allo stesso livello analitico di quel che potremmo definire
«commercializzazione» per designare, ad esempio, l’influenza esercitata dalla logica economica (legata al
conseguimento di un profitto) sugli altri ambiti sociali; analogamente, la «politicizzazione» potrebbe indicare la
subordinazione dei comportamenti che si collocano in settori esterni alla politica (per esempio: culturale,
economico, religioso, eccetera) a criteri di condotta propriamente politici, quali la ricerca del consenso.

LE IMPLICAZIONI DELL A LETTURA “REL ATIVISTA”

In tale approccio, la mediatizzazione non rappresenta il «meta-processo» attraverso cui si articola il


mutamento sociale, che dovrebbe inevitabilmente condurre alla «società dei media». La nozione designa, più
semplicemente, le relazioni di interdipendenza del sistema dei media con gli altri sottosistemi sociali (tra cui la
politica).

Nella misura in cui, entro le società moderna, cresce la specializzazione delle aree funzionali, è probabile che
aumenti anche la salienza relativa del sottosistema mediatico – come semplice conseguenza del ricorso ai media
da parte degli attori che operano nelle altre sfere, poiché la comunicazione riveste una rilevanza strumentale per
tutti i settori sociali. Il che vuol dire che, per cogliere il senso del fenomeno, occorre concepirlo come inserito in una
fitta rete di relazioni di interdipendenza tra sottosistemi sociali. Implicazioni:

1. Rifiuto del nesso di causalità stringente tra la diffusione sociale delle innovazioni tecnologiche e la
mediatizzazione: la critica colpisce «l’idea […] che vede i cambiamenti sociali ed organizzativi come causati
dai media, un’idea che non è in grado di indicare in maniera convincente né che cosa conferisce ai media il loro
potere di condizionamento, al di là della loro mera disponibilità, né ciò che rafforza tale potere» (MARCINKOWSKI
– STEINER 2014, p. 87);
2. l’esistenza di un «sistema dei media», autonomo e perciò operante secondo una propria logica, costituisce una
condizione necessaria ma non sufficiente affinché si avvii il processo di mediatizzazione: la chiave per
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decifrare tale sviluppo sta quindi nel concepire il sistema dei media quale un complesso funzionale altamente
specializzato, dotato di una capacità impareggiabile di garantire ai contenuti della comunicazione sociale
l’attenzione e l’accettazione da parte della pubblica opinione;
3. si parla precisamente di mediatizzazione allorché gli altri sotto-sistemi sociali assorbono tale
capacità, perché, e nella misura in cui, ne hanno bisogno al fine di svolgere efficacemente le proprie funzioni
sociali: seguendo questo fil rouge, la politica mediatizzata nasce non dal semplice condizionamento che i media
esercitano sugli attori politici; piuttosto, trae alimento dal fatto che questi ultimi si appropriano degli strumenti
mediatici ai fini di migliorare la propria performance, secondo criteri specificamente politici – ad esempio, per
ampliare il raggio della ricerca del consenso in campagna elettorale o per aumentare la propria popolarità in
vista di decisioni rilevanti per i destini del governo o di passaggi parlamentari particolarmente delicati.

Insomma, questa singolare versione dell’approccio massmediologico ribalta il senso della relazione tra
politica e media, rispetto alla connotazione prevalente in questo filone della ricerca (ma non solo): in effetti, gli
studiosi asseriscono che

«la mediatizzazione della sfera politica non deve essere intesa come il sintomo di una cultura politica deteriorata,
né come una colonizzazione patologica della politica ad opera dei media: piuttosto, essa è anzitutto e soprattutto
necessaria al fine di rendere possibile la politica in condizioni di accresciuta interdipendenza e di elevati livelli di
complessità e di inclusione politiche» (MARCINKOWSKI – STEINER 2014, p. 88), quali sussistono nelle democrazie
attuali.

LEZIONE 15 – UN BILANCIO CRITICO DEGLI APPROCCI AL NESSO DEMOCRAZIA-


COMUNICAZIONE POLITICA

UN BILANCIO CRITICO DEGLI APPROCCI

In quale misura gli accostamenti sottoposti ad esame ravvicinato nelle lezioni precedenti sono utili ai fini della
messa a fuoco dei fattori extra-comunicativi che plasmano la comunicazione politica nelle poliarchie?

La risposta si colloca a due livelli:

1. occorre avanzare una lettura complessiva dei modelli sistemici, processuali e massmediologici, allo scopo di
saggiare se e come questi schemi, nel connotare la comunicazione politica in rapporto ai sistemi democratici,
tengono conto delle variabili genuinamente politiche;
2. è necessario verificare che la trattazione del nesso democrazia-comunicazione politica sviluppata dagli approcci
censiti non presti il fianco né ai pregiudizi che a volte caratterizzano lo studio del fenomeno politico-
comunicativo (panpoliticismo, patologismo), né ad altre lacune che potrebbero limitarne drasticamente
l’efficacia interpretativa.

APPROCCI ALLO STUDIO DELLA COMUNICAZIONE E VARIABILI POLITICHE

APPROCCI ALLO STUDIO DELL A COMUNICAZIONE E VARIABILI POLITICHE: DISCUSSIONE 1

La tabella esprime il grado in cui i modelli incorporano una connessione teoricamente significativa con ciascuno dei
fattori politici, cioè a quale livello questi ultimi orientano l’interpretazione e la tipizzazione della comunicazione
politica. Ogni fattore viene considerato rilevante, in ciascun impianto teorico, nella misura in cui funge da criterio
per esplicare la comunicazione politica o per tracciarne delle tipologie. Tale nesso teorico può esibire gradazioni di
intensità differenziate: in tabella, le parentesi indicano una debole teorizzazione in rapporto alla dimensione
evidenziata.

A corredo della illustrazione, fissiamo alcuni punti schematici.

Approcci sistemici: L’adozione di una prospettiva di indagine impostata secondo i canoni eastoniani porta gli
studiosi a concentrarsi sul sistema politico, una nozione che ricomprende tutte e tre le dimensioni
politicamente rilevanti (regimi, ruoli, situazioni). Perciò, il collegamento teorico unisce comunicazione (politica) e
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sistema politico: non a caso Almond e Powell la qualificano come una funzione sistemica, cioè che aiuta il sistema
ad apportare le necessarie correzioni, provenienti dal meccanismo di feedback.

Il rapporto così individuato è assai generico e povero di contenuto esplicativo. La comunicazione politica
«nella formulazione esplicita di Almond e Powell, si presenta come una funzione molto debole e incerta» (Stoppino
2006, p. 204). Vi sono molti indizi di questa debolezza: dal fatto che si tratta dell’unica funzione sistemica che è
sprovvista di uno specifico ancoraggio ad una delle due dimensioni del sistema politico, alla sostanziale
identificazione delle agenzie di comunicazione politica con quelle deputate alla socializzazione politica. A ben
vedere, vi sono, qua e là, indizi che consentono di affermare che essi connettono la comunicazione politica al tipo
di regime, poiché sostengono che le forme della prima variano al variare della natura (democratica, autoritaria o
totalitaria) del sistema politico. Tuttavia, il nesso così abbozzato rimane rapsodico e fragile: nel senso che non è né
ulteriormente specificato, per esempio in corrispondenza ai ruoli o alle situazioni; né costituisce un parametro alla
luce del quale tracciare una tipologia della comunicazione politica in democrazia e, per differentiam, nei sistemi
non democratici. Perciò, la connessione non ci aiuta a distinguere i tratti qualificanti la comunicazione
politica in rapporto al variare dei fattori politici: l’approccio di Almond e Powell si rivela quindi inefficace,
giacché si limita ad individuare un legame generalissimo, che annulla ogni potenzialità esplicativa in una notte
hegeliana dove tutte le vacche sono bigie semplicemente perché è buio.

Deutsch: qualificare il suo accostamento in relazione alle variabili politiche risulta ancora più difficoltoso, poiché
nella sua versione l’orientamento sistemico si abbina ad una adesione acritica alla cibernetica. Il connubio genera
un approccio che, per un verso, privilegia l’allineamento con i postulati teorici che lo informano piuttosto il
fondamento empirico dei medesimi, secondo i canoni della scienza politica; per l’altro verso, sottrae la
comunicazione al paradigma che la vede come una risorsa a disposizione dell’autorità politica per farne,
invece, l’essenza della politica medesima. Insomma, come già accennato, in questo schema la natura del
potere politico è intimamente comunicativa: perciò, controllare i «nervi del potere» significa controllare la
comunicazione che fluisce entro il perimetro del sistema politico. Questo compito non può che spettare alla
leadership: esattamente come accade per il cervello nel corpo umano, sono le élites politiche che, dovendo
assumere la guida del sistema, hanno la responsabilità di avviare la comunicazione che ne governa le funzioni,
provvedendo ai necessari aggiustamenti in seguito del feedback, positivo o negativo, che si innesca sul piano
comunicativo.

Il disegno di Deutsch collega la comunicazione ai ruoli di autorità: i leader politici devono guidare il sistema verso
l’ottenimento dell’ampio ventaglio di scopi proprio di una democrazia, di conseguenza essi controllano la
comunicazione, che designa la sostanza della loro attività. Tuttavia, la connessione leadership politica-
comunicazione resta solo abbozzata, perché non dà luogo ad alcuna caratterizzazione pregnante dei
tratti che la seconda dovrebbe assumere per effetto del legame così stabilito. Lo stesso ragionamento
vale per l’altra dimensione politologicamente rilevante, le situazioni: anche in questo caso vi è un embrionale
tentativo di instaurare un nesso esplicativo tra un determinato tipo di comunicazione e una particolare situazione,
definita in termini politici, come quando il nostro autore illustra l’espediente retorico della tattica di
sottorappresaglia, in relazione agli attriti USA-URSS del 1962, aventi per oggetto gli armamenti nucleari. Orbene,
egli identifica nell’eloquio kennediano un esempio di risposta comunicativa classificata nel campo dei feedback
positivi, in presenza di una «situazione complessa». Ma, di nuovo, la connessione non acquista un significato
teorico forte: se tattica di sottorappresaglia e complessità vanno a braccetto, in quale misura risposte differenti
allo stesso stimolo (per esempio, un feedback negativo) trovano declinazione sul piano comunicativo? E in quale
situazione incontrano le condizioni ottimali per manifestarsi? Muovendoci entro le coordinate che delimitano lo
schema di Deutsch, non è possibile rispondere a tali questioni, proprio perché il modello proposto non appare
teoricamente attrezzato allo scopo di individuare collegamenti significativi con il livello analitico delle situazioni.

DISCUSSIONE 2

Accostamenti processuali: Edelman e Castells parametrizzano l’ancoraggio della loro analisi al regime democratico,
che non è perciò oggetto di variazione. Viceversa, entrambi mettono in relazione la comunicazione politica ai ruoli.

Edelman tipizza il linguaggio politico (esortativo, di contrattazione, giuridico) in corrispondenza della dimensione
della politica, simbolica o strumentale, nel quale viene impiegato. Il punto che giova rimarcare è che in
ciascun ambito agiscono attori differenti: questo modo di procedere fa dipendere le peculiarità della
comunicazione politica (emotività vs. razionalità, ambiguità vs. chiarezza) dagli scopi perseguiti dagli attori che
rivestono determinati ruoli (élite politica, gruppi di pressione). Perciò il collegamento così stabilito risulta
teoricamente solido. La stessa cosa non si può dire per le situazioni. In relazione a questi elementi, la
proposta teorica di Edelman si opacizza. Perché? Lo studioso americano abbozza una tipologia della comunicazione
politica che autorizza a ritenere che l’impiego di un linguaggio emotivamente connotato nella sfera simbolica si
farà più intenso durante le campagne elettorali piuttosto che al di fuori da questi periodi (almeno) formalmente
limitati. E ciò accade perché in queste occasioni la celebrazione dei miti democratici (sovranità popolare, giustizia,
eguaglianza) si rende più necessaria, al fine di ottenere l’acquiescenza della massa.

Tuttavia, questa articolazione dell’argomentazione rimane per lo più implicita nello schema di Edelman,
poco o punto approfondita: perciò si può ritenere teoricamente poco elaborata e il suo contributo alla
comprensione del fenomeno comunicativo rimane modesto.

Castells: per un verso, connette la comunicazione ai ruoli politici che presiedono allo svolgimento della lotta per il
potere nel quadro della poliarchia. In effetti, l’impiego di una comunicazione assistita dal collegamento alla
struttura di dominio istituzionalizzata è tipica delle élites politiche e dei gruppi di interesse che garantiscono loro il
sostegno politico decisivo, in cambio della garanzia di poter perseguire pacificamente i loro fini sociali. In tal senso,
il contenuto dei discorsi

«disciplinari», finalizzati a legittimare lo status quo, è plausibilmente collegato ad una certa morfologia delle
relazioni politiche tra questi attori; così come l’impiego della comunicazione ad assetto «reticolare» da parte dei
movimenti, che rappresentano la principale incarnazione del «contro-potere», si collega allo scopo di ribaltare
l’equilibrio di potere vigente, in nome di frame alternativi a quelli dominanti. I nessi così istituiti assumono un
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rilievo teorico primario. Lo stesso grado di robustezza speculativa promana anche dalla connessione con
le situazioni. In particolare, in questa prospettiva appaiono convincenti sia la descrizione delle condizioni nelle
quali la sfida portata dal contro-potere si fa più seria e le probabilità del suo successo, sul piano del sostegno di
massa ai frames anticonformisti, aumentano; sia la precisazione dell’origine tecnologica delle opportunità che oggi
i movimenti hanno di prevalere nella battaglia che si combatte sul piano della comunicazione, grazie al
collegamento privilegiato con gli strumenti della Rete, di Internet, della comunicazione digitale in senso lato.

DISCUSSIONE 3

Approcci massmediologici: hanno portata teorica limitata. Ciò si manifesta, anzitutto, nella mancata
tipizzazione della comunicazione politica in rapporto alla variabilità dei regimi: tanto il raccordo con una
specifica versione del sistema democratico (che sia la «democrazia del pubblico» di Manin o la «postdemocrazia»
di Crouch), quanto la focalizzazione del fenomeno della mediatizzazione, che non potrebbe semplicemente
prodursi, nei termini descritti da questi attori, in sistemi non pluralistici, ancorano saldamente gli approcci
massmediologici all’assetto democratico del regime. Tuttavia, questo collegamento non orienta la tipizzazione della
comunicazione politica democratica quale fenomeno comunicativo avente caratteristiche differenziate rispetto alla
retorica politica che si riscontra, puta caso, nelle monarchie assolute o in altri tipi di regime.

Resta da capire se questi modelli costituiscono riferimenti validi per interpretare il raccordo della comunicazione
politica con il regime democratico, in relazione alle altre variabili politiche. Anche qui, il contributo di chiarificazione
generato dall’orientamento massmediologico appare carente. In primo luogo, nessuno degli studiosi passati in
rassegna impiega il nesso con i ruoli per fondare un’interpretazione delle forme della comunicazione
politica nella poliarchia, segnando, in certo grado, un arretramento cognitivo rispetto agli schemi di matrice
processuale. Certo, Esser e Strömbäck tematizzano modalità e contenuti della comunicazione politica in rapporto
alla interazione tra logica mediatica e logica politica, identificando i leader politici e i media come gli attori
fondamentali del processo politico democratico – relegando i gruppi di pressione ad un ruolo, per dir così, da
comprimario. Blumler, dal canto suo, sembra attento a qualificare la comunicazione politica mediatizzata,
comparandone la configurazione piramidale del passato alla conformazione “lacustre” che invece caratterizza le
società contemporanee, nonché descrivendo, in ambedue i casi, il posizionamento assunto da leader politici,
media (nello specifico, news media) e pubblico nella produzione/trasmissione dei contenuti mediatici. Infine,
Marcinkowski e Steiner capovolgono il verso solitamente attribuito allo sviluppo della mediatizzazione, che, nel loro
accostamento, cessa di essere una modalità di colonizzazione della politica ad opera della logica mediatica, per
designare, al contrario, una condotta strategica adottata dalla leadership politica, una volta percepita la necessità
di assicurarsi un accesso continuativo all’arena mediatica. Tuttavia, il punto è che in nessuno di questi
modelli la connessione con i ruoli, pur diversa nelle sue articolazioni, acquista la rilevanza teorica di
un criterio finalizzato a cogliere i tratti dominanti della comunicazione politica in democrazia. Analogo
rilievo si può formulare, in riferimento all’accostamento di Esser e Strömbäck, per l’inquadramento relativo alle
situazioni: non basta asserire che, entro le arene competitive delle poliarchie contemporanee, le manifestazioni
della logica politica o la sua combinazione con quella mediatica si rafforzano nei periodi di contesa elettorale. Di
nuovo, ci troviamo di fronte ad un andamento argomentativo che, nel migliore dei casi, descrive anziché spiegare.

UN BILANCIO “LAMENTEVOLE”

Nessuno degli approcci sottoposti ad esame ravvicinato incorpora un collegamento teorico forte tra la
comunicazione politica e tutti i fattori politici a suo tempo isolati. Anzi, per essere più precisi, solo i modelli
processuali imbastiscono, con successo, una connessione importante con almeno due dei parametri
individuati, i ruoli e le situazioni (vd. slide 3). Il bilancio sembrerebbe del tutto sconfortante. E tuttavia, dalla
discussione affiorano elementi utili in vista di ridefinire le coordinate della nostra ricognizione, alla ricerca di una
teoria capace di dare senso alla comunicazione politica adottata dalla pluralità di attori (classe politica, classe
dirigente, classe diretta) che tipicamente agiscono nel quadro delle democrazie contemporanee.

A questo scopo, è però necessario passare ad illustrare le ragioni per le quali gli accostamenti qui considerati
mancano il bersaglio, cioè non riescono, sic et simpliciter, a porre le basi indispensabili ai fini della costruzione di
una teoria della comunicazione politica di portata generale. Ci limiteremo, a tale riguardo, a qualche
considerazione sommaria, esposta in forma sintetica nella slide successiva.

I LIMITI DEGLI ACCOSTAMENTI ANALIZZATI

DISCUSSIONE DEI LIMITI

- A-specificità: è lecito osservare che sia gli accostamenti sistemici, sia quelli che incorporano un orientamento
massmediologico, si rivelano inadeguati a tracciare nessi specifici tra la comunicazione politica, da una parte, e
le proprietà strutturali della poliarchia, dall’altra. Per ragioni diverse (approcci sistemici: focalizzazione del
sistema quale livello teorico privilegiato – elevata generalità; il concetto di mediatizzazione porta la teorizzazione
su un piano assolutamente generico), le connessioni individuate dagli studiosi che si riconoscono in questi
indirizzi di indagine rimangono del tutto allusive e si collocano ad un elevato livello di generalità.
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- Patologismo: l’accostamento Crouch, in quanto viziato dal patologismo, non appare idoneo ad integrare e a
correggere l’orientamento massmediologico in vista della corretta messa a fuoco della comunicazione politica.
Lo scivolamento verso una prospettiva valutativa, per lo più contrassegnata dal segno negativo, appare evidente
allorché questo autore ritiene deprecabile l’impiego, da parte della leadership democratica, di un registro
comunicativo allineato a quel che egli definisce il «modello pubblicitario», che oppugna sia il discorso razionale,
sia lo scambio dialogico. Si tratta però di (pre)giudizi, che non dovrebbero trovare alcuno spazio, per le ragioni
già evidenziate né entro lo studio politologico della comunicazione politica, né, più in generale, in nessuna opera
avente pretese scientifiche. Nel campo degli accostamenti processuali, Edelman giudica il linguaggio politico
falso in quanto tale: nel quadro di un approccio che sottovaluta drasticamente i poteri minimi politicamente
rilevanti di cui è titolare la classe diretta (STOPPINO 2001), che, è bene ricordarlo, nelle poliarchie conserva
sempre il potere di designare i governanti e di verificarne l’accountability¸ egli sostiene che i simboli servono a
celare, agli occhi della massa, quel che accade nel mercato strumentale – i vantaggi tangibili elargiti dall’élite
politica ai gruppi organizzati. Inoltre, i simboli stessi sono sprovvisti di un ancoraggio con l’empiria, elidendo così
le basi stesse della significazione. Perciò, il cedimento al pregiudizio patologico è, in qualche modo,
consustanziale alla teoria edelmaniana, giacché scaturisce dai fondamenti stessi del modello.

- Panpoliticismo: in Castells, non è sempre semplice distinguere i livelli di analisi nei quali si articola il suo edificio
teorico: la dimensione politica, in cui si disloca il conflitto tra potere e contro-potere, sfuma in quella sociale,
dove i gruppi lottano per l’ottenimento di fini incompatibili e i tradizionali confini territoriali e cronologici
vengono abbattuti dalla globalizzazione e dalla rivoluzione della comunicazione digitale. Questa continua
sovrapposizione di piani non agevola la delimitazione della sfera politica come ambito sociale autonomo; di
conseguenza, la teorizzazione della comunicazione politica si espone al pregiudizio del panpoliticismo. In effetti,
mirando a costruire una teoria “comunicativa” del potere, questo autore finisce in realtà per eguagliare la
comunicazione (come istituzione sociale) al potere: una distorsione che si manifesta esplicitamente, specie
laddove egli sembra equiparare il controllo delle reti alla capacità di condizionare i flussi informativi e, grazie
all’innesco identificato nella psicologia individuale, il comportamento umano – ipostatizzando il ruolo
(potestativo) delle reti anziché concepirle come risorse del potere.

CONCLUSIONI: CHE COSA ABBIAMO IMPARATO

Primo: se vogliamo comprendere le proprietà generali della comunicazione politica entro i regimi democratici, la
loro specificità non può che emergere dalla comparazione con i tratti caratterizzanti la comunicazione politica nei
sistemi non democratici (limitando lo sguardo ai principali esempi suggeriti dalla storia contemporanea,
totalitarismi e autoritarismi). In tal senso, gli approcci sistemici o massmediologici consentono di avviare il dibattito
sulle molteplici funzioni della comunicazione politica o sul ruolo assunto, entro il circuito comunicativo
politicamente rilevante, dai mass media nelle democrazie attuali; tuttavia, mantenendo ferma la connessione con
il regime democratico, è ovvio che le peculiarità che scaturiscono dalla connessione con gli aspetti strutturali del
sistema rimangono tutto sommato in ombra, semplicemente perché i casi non sono soggetti a variazione (cioè, i
nostri autori si occupano, più o meno esplicitamente, delle sole poliarchie).

Secondo: malgrado i difetti e le lacune che ne riducono le potenzialità esplicative, gli approcci processuali si sono
dimostrati più attrezzati a stabilire connessioni teoricamente pregnanti tra la comunicazione politica e le variabili
politiche (ruoli e situazioni). Da ciò è immediato derivare una indicazione importante per l’inquadramento del
fenomeno comunicativo nella politica democratica: la focalizzazione del processo politico, ovvero della
competizione per il potere e dei comportamenti tenuti dagli attori che vi partecipano, a vario titolo (classe politica,
gruppi di pressione e cittadini), costituisce una mossa imprescindibile per individuare i fattori politici ai quali
agganciare l’interpretazione della comunicazione politica. Sotto questo profilo, la saldatura tra la messa a fuoco dei
meccanismi che orientano la lotta politica, da un lato, e i ruoli e le situazioni, dall’altro, attuata dai modelli
processuali appare idonea a lumeggiarne le peculiarità.

Mettendo a profitto queste indicazioni, nel nostro percorso successivo cercheremo di inquadrare le forme di
comunicazione politica maggiormente presenti nelle odierne poliarchie; nonché di procedere alla loro esplicazione,
istituendo nessi teorici con le variabili genuinamente politiche ed extra-simboliche; successivamente, proveremo
ad analizzare, seguendo lo stesso canovaccio espositivo, la comunicazione politica nei regimi autoritari e totalitari,
al fine di porre in rilievo le proprietà generali che la allontanano dagli stili e dai contenuti della retorica democratica

LEZIONE 16 – IL PROCESSO POLITICO NELLE DEMOCRAZIE: ATTORI, COMPORTAMENTI


TIPICI E COMUNICAZIONE POLITICA
DEMOCRAZIA: PROCESSO POLITICO, ATTORI, COMPORTAMENTI POLITICI

Mettendo a profitto quanto esaminato nelle lezioni precedenti, spostare l’attenzione sulla politica nelle poliarchie
significa mettere a fuoco quel che accade nel processo politico normale, cioè chiarire quali sono i comportamenti
tipici di tre tipi di attori:

a) la classe politica – i membri della classe politica si impegnano nella lotta per il potere perché ciò costituisce la
loro attività prevalente (sono gli «uomini politici»), lotta per il potere, competere per i ruoli di autorità, che è
autonoma e necessaria); è necessaria nel senso che chi vuole ricoprire un ruolo di autorità necessariamente
deve partecipare alla lotta per il potere es. fondare un partito e vincere le elezioni, autonoma perché i singoli
uomini politici possono essere diversi dal punto di vista ideologico, però dal punto di vista del comportamento si
comportano in maniera uguale cioè elezioni. Autonoma dal punto di vista delle idee dei partiti, tutti fanno la
stessa cosa quando lottano per il potere. Per questi attori, la politica conta per il suo «chi».
b) i gruppi di pressione: organizzazioni che non sono politiche, che svolgono attività di altro tipo (produttiva,
culturale, rappresentanza di interessi) che però hanno per la politica un interesse indiretto – per questi attori, la
politica conta per il suo «che cosa»: essi esercitano perciò una pressione sugli attori politici (di governo, ma

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anche di opposizione), che è una domanda (di provvedimenti politici) chiedendo la tutela dei loro interessi (
accompagnata, rafforzata dal sostegno promessa di conferimento, minaccia di ritiro);
c) la classe diretta: sono gli attori che non sono impegnati nella lotta per il potere, che perciò non fanno parte della
«classe politica», né hanno a disposizione risorse bastevoli per assicurare loro la possibilità di premere sopra il
governo e le varie articolazioni della classe politica medesima, cioè non appartengono neppure ai «gruppi di
pressione»; sono, in altre parole, i «semplici» cittadini - Il tipo di azione che la scienza politica attribuisce a
questi soggetti è la «partecipazione politica», un concetto che ricomprende tutti i comportamenti politici della
classe diretta (assai vari): anche per questi attori la politica rileva per il suo «che cosa».

L A RICERCA DEI “DIRITTI”

Riassumendo, il significato pragmaticamente rilevante imputabile sia alla pressione politica (il comportamento
tipico dei gruppi di pressione), sia alla partecipazione politica (il comportamento tipico della classe diretta) sta
nella ricerca di determinati contenuti delle decisioni politiche, in cambio del sostegno, selettivamente
conferito o ritarato, alla classe politica. Entrambi chiedono ai governi e ai leader politici delle poliarchie di
tutelare – nel senso di promuovere, consolidare e accrescere – i loro diritti.

Per «diritti» intendiamo poteri garantiti, ovvero comandi rispetto ai quali sono schierate le disposizioni ad obbedire
– cioè ad adottare una condotta conforme – da parte di tutti i membri della comunità politica di riferimento; in caso
di inosservanza, infatti, è possibile ricorrere a istituzioni (in primis, i tribunali) che sanano il torto, forzando la
condotta conforme dei responsabili.

Anche l’azione tipicamente svolta dalla classe politica può essere interpretata come una ricerca di potere
garantito, questa volta sotto forma di ruoli di autorità. Che cosa è, infatti, la posta in palio della competizione
politica nelle varie arene liberaldemocratiche di oggi? Per cosa lottano Trump e Clinton, Salvini e Zingaretti, Le Pen
e Macron? Lottano per ottenere, in conformità alle regole del gioco della poliarchia (il voto popolare), un potere che
è cristallizzato in ruoli: di parlamentare, di Presidente del Consiglio, di Capo di Stato, e via elencando. Orbene, i
ruoli non sono altro che, di nuovo, poteri garantiti, validi cioè erga omnes, riconosciuti da tutti i cittadini, a
prescindere dall’identità e dagli orientamenti programmatici degli occupanti pro tempore dei ruoli medesimi.

Detto diversamente, in tutti i regimi democratici il potere politico è ancorato a ruoli di autorità, i cui titolari
vengono periodicamente scelti sulla base di elezioni libere, ricorrenti e corrette, che costituiscono la
manifestazione più evidente della sovranità popolare e del controllo esercitato dai governati sui governanti
(SCHUMPETER 1964). È allora possibile concludere che tutti i principali protagonisti del processo politico nelle
poliarchie ricerchino poteri garantiti, sebbene in forme diversificate (vedi tabella successiva).

IL “CHI” INCONTRA IL “CHE COS A”: LO SCAMBIO POLITICO

Risulta ora forse più comprensibile la formula già utilizzata per descrivere i dinamismi della competizione politica
nelle democrazie, per cui i leader politici ricercano un «chi» (chi governa) offrendo un «che cosa», ovvero
la promessa di certi contenuti delle decisioni politiche; viceversa, i gruppi di pressione (e i cittadini)
ricercano un «che cosa» (provvedimenti favorevoli ai fini del pacifico e remunerativo utilizzo delle
proprie risorse sociali e del proprio attivismo) promettendo il conferimento o minacciando il ritiro del
sostegno politico ai vari protagonisti della lotta per il potere, al governo o all’opposizione.

Queste condotte trovano concatenazione (e comunanza di significato) in quello che è stato definito lo «scambio
politico» (STOPPINO 2001, pp. 383-389). Adottando una prospettiva d’insieme, e vagliando i comportamenti
tipicamente assunti dai principali attori in un’arena poliarchica nel loro rapporto reciproco, è immediato notare che
tale rapporto può essere effettivamente descritto come una sorta di scambio: da un lato, i gruppi politici
scambiano certi contenuti delle decisioni politiche per ottenere il sostegno politico dai gruppi di pressione e dei
cittadini; dall’altro lato, cittadini e gruppi di pressione sono pronti a sostenere i governanti e/o i leader politici che si
incaricano di produrre diritti che soddisfano le loro richieste.

Ridotta all’essenziale, è questa la descrizione del «cuore» del processo politico democratico. Che va però
analizzata in rapporto alla struttura dei ruoli e alle situazioni, due variabili che si presentano in forma variegata nel
campo democratico. La lotta per il potere cambia molto tre periodi di pace e periodi di guerra.

L A STRUTTURA DEI RUOLI NELLE POLIARCHIE

La classificazione forse più impiegata per le democrazie utilizza come criterio la loro forma di governo e distingue:

1. Governi parlamentari: l’esecutivo deve avere un rapporto positivo, esplicito (con l’espressione di un voto di
fiducia) ovvero implicito (finché non si arriva ad un voto di sfiducia), con il Parlamento;
2. Governi presidenziali: i tratti fondamentali del sistema presidenziale (USA) sono tre – A) il Presidente, che è il
Capo dello Stato, guida anche l’esecutivo ed è eletto direttamente dai cittadini – con una votazione
intermedia in seno al Collegio dei Grandi Elettori che tuttavia con ha mai sovvertito gli esiti del voto popolare – e,
almeno in parte, in modo separato dal potere legislativo (Camera dei Rappresentanti e Senato, che insieme
formano il Congresso); B) il Presidente non ha il potere di sciogliere il Congresso; C) quest’ultimo non può
sostituire, sfiduciare o dimissionare il Presidente, fatta eccezione per la condanna del Presidente a seguito della
messa in stato di accusa (impeachment);
3. Governi semi-presidenziali: si carattterizzano per tre condizioni (Francia): «1) il presidente della repubblica è
eletto a suffragio universale; (2) egli possiede poteri piuttosto rilevanti; (3) egli si trova comunque di
fronte un primo ministro e ministri che possiedono un potere esecutivo e governativo, i quali possono
rimanere in carica solo se il parlamento non mostra loro la sua opposizione» (DUVERGER 1980, p. 166).
L’esempio più calzante è dato dalla Francia, dove il Presidente (Capo dello Stato) è eletto direttamente dai
cittadini ma deve al contempo nominare un Primo Ministro (capo del governo), espressione della maggioranza
politica uscita vittoriosa dalle elezioni. Quindi, si tratta di un esecutivo duale: qui sta la principale
divergenza rispetto al presidenzialismo americano, che prevede invece un esecutivo «monocefalo». Inoltre, a
differenza di quanto accade negli USA, nella Quinta Repubblica francese il Presidente ha il potere di sciogliere il
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parlamento (l’Assemblea Nazionale). Il dualismo dell’esecutivo risulta più evidente quando Presidente della
Repubblica e Primo Ministro appartengono a partiti diversi, situazione che può determinare difficoltà – addirittura
lo stallo decisionale – nella emanazione delle policy, laddove vi è discordanza di orientamenti programmatici tra
le due «teste» dell’esecutivo.

ANCORARE LO STUDIO DELLA COMUNICAZIONE POLITICA ALLA STRUTTURA DEI RUOLI

La differenziazione degli assetti democratici così formulata fornisce un prezioso substrato al quale ancorare lo
studio della comunicazione politica dei leader. Le ragioni sono presto dette.

È pensabile che le caratteristiche strutturali dei regimi democratici plasmino la lotta per il potere entro le rispettive
arene, dando luogo a contesti diversificati: in tale prospettiva, allora, la competizione politica che si sviluppa
in un parlamentarismo tende a configurarsi in maniera relativamente distinta da quanto accade nel
quadro di un regime presidenziale – anche se le stesse dinamiche possono investire i parlamentarismi, come il
caso del successo di Berlusconi in Italia non manca di ricordarci. Tuttavia, è abbastanza interessante notare che
fenomeni simili si sono manifestati allorché nei sistemi parlamentari si sono prodotti dinamismi che ne hanno
alterato la fisionomia, avvicinandoli alle proprietà tipiche del presidenzialismo americano (personalizzazione della
politica, investitura elettorale degli esecutivi), come è accaduto per l’Italia della Seconda Repubblica a partire dal
1994). Insomma, è qui in gioco il nesso sul quale tanto abbiamo insistito finora: sul piano teorico, la
comprensione della comunicazione politica deve fondarsi sul nesso tra variabili comunicative e fattori
extracomunicativi. In questa prospettiva, la struttura dei ruoli di una poliarchia costituisce uno, se
non il principale, fattore da tenere in considerazione.

Inoltre, proprio perché l’assetto strutturale inclina a condizionare il comportamento strategico della
classe politica, finalizzato ad ottenere il consenso degli elettori e dei gruppi di pressione, è plausibile che il
rapporto così individuato valga anche per le condotte comunicative: per esempio, gli appelli diretti da
parte dei capi di Stato al «popolo» o alla «nazione», aventi per oggetto la mobilitazione del consenso a favore
oppure contro determinate policy o certi avversari politici, hanno verosimilmente maggiori probabilità di essere
avallati e di riuscire laddove i cittadini eleggono direttamente il Presidente, come nei presidenzialismi o, in talune
circostanze, nei semipresidenzialismi, piuttosto che nei regimi parlamentari, dove il Capo dello Stato svolge per lo
più compiti di rappresentanza e perciò solitamente si attiene (o dovrebbe attenersi) alla equidistanza rispetto alle
parti in gioco. Da questo punto di vista, l’articolazione strutturale delle poliarchie (parlamentare,
semipresidenziale o presidenziale) plasma il contesto politico nel quale l’azione comunicativa si
dispiega: perciò, il nesso tra comunicazione e fattori politico-istituzionali acquista pregnanza sotto il
profilo teorico.

CONTESTO ISTITUZIONALE E SITUAZIONI

Gli elementi contestuali che rilevano ai fini della comprensione politologicamente orientata della comunicazione
politica non si esauriscono alla configurazione dei ruoli (e del regime): bensì comprendono anche le situazioni,
ovvero «gli eventi e le circostanze che […] esercitano influenza sull’adempimento dei ruoli e sull’andamento del
regime» (FEDEL 1999, p. 45).

In tal senso, è celebre l’esame ravvicinato del linguaggio politico che Lasswell ha condotto in collegamento al
grado di crisi, ovvero in rapporto ad «una situazione nella quale sono minacciate o inflitte gravi privazioni […]. Di
conseguenza, la struttura delle aspettative costituisce la caratteristica dominante delle crisi » (LASSWELL 1965, p.
23). La situazione di crisi è cioè definita dall’impiego o dalla minaccia dell’impiego della violenza che, come egli ci
dice, plasma le aspettative degli attori politici coinvolti e, per questa via, ha un impatto rilevante sullo stile
comunicativo che essi esibiscono, crisi bellica.

UN ESEMPIO: L ASSWELL, LE SITUAZIONI E IL “LIVELLO DI CRISI”

Seguendo il filo del ragionamento sviluppato da Lasswell, è possibile enumerare diverse circostanze, che
corrispondono a diversi livelli di crisi.

1. il combattimento identifica probabilmente la situazione in cui la crisi si manifesta in misura massima: è in


svolgimento un conflitto e la comunicazione si contrae drasticamente, limitandosi al minimo indispensabile; ciò
dà luogo ad uno stile ripetitivo, conciso e uniforme (si pensi a slogan, parole d’ordine, ordini di attacco o di
difesa);
2. l’enunciazione delle decisioni (leggi, sentenze, provvedimenti amministrativi e via dicendo) si colloca ad un
livello di crisi inferiore: non vi è violenza in atto, ma la decisione, in virtù della connessione con le risorse
coercitive – di cui qualsiasi governo democratico dispone in modo tendenzialmente monopolistico ed esclusivo
(Stoppino 2001) – suscita tensioni, che la comunicazione deve in qualche maniera prevenire e controllare; ne
deriva uno stile variegato e prolisso, che pone in risalto i motivi che stanno a fondamento della decisione,
nonché le giustificazioni finalizzate ad anticipare le possibili obiezioni degli avversari e dell’opinione pubblica alle
azioni intraprese;
3. la formazione delle decisioni identifica una pluralità di intercorsi comunicativi (dal dibattito parlamentare alle
negoziazioni che avvengono tra rappresentanti diplomatici nell’arena interstatale) ed imprime allo stile retorico
peculiarità molto simili all’enunciazione: il livello di crisi è, in linea di principio, contenuto ma può innalzarsi
improvvisamente qualora gli attori entrino in conflitto – a tale riguardo, tanto nelle trattative che hanno luogo tra
i corpi diplomatici, quanto nel discorso parlamentare che oppone leader e partiti diversi, Lasswell intravede la
presenza di fattori di salvaguardia, per dir così, che incentivano il mantenimento degli scambi comunicativi e
rendono costosa la rottura e/o il ricorso alla coercizione (rispettivamente, la prolissità del linguaggio diplomatico
e le regole che disciplinano l’ordinato svolgimento del confronto parlamentare);
4. infine, nelle occasioni cerimoniali (insediamento ufficiale delle autorità del regime, celebrazione di valori-
chiave, anniversari di eventi particolarmente significativi) la situazione è tale da non generare aspettative di
violenza, né vincola gli attori a prendere decisioni: il tratto stilistico che predomina è la ripetitività, quando non la

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ridondanza, giacché sia la comunicazione verbale sia quella iconica adempiono alla funzione di valorizzare i
simboli di identificazione del gruppo politico (Kertzer 1989; Lasswell – Kaplan 1997).

QUALCHE OSSERVAZIONE CONCLUSIVA

Uno sguardo sommario alla letteratura specialistica conferma che. i ruoli e le situazioni individuano i fattori politici
ai quali conviene ancorare lo studio politologicamente orientato della comunicazione politica, con specifico
riferimento ai leader nelle democrazie di massa contemporanee

Per quanto riguarda i ruoli, la tripartizione delle poliarchie in base alla loro forma di governo (parlamentare,
semipresidenziale o presidenziale) appare adeguata a differenziare la struttura della lotta per il potere entro le
arene competitive e a ricavare, per quella via, indicazioni utili a cogliere il significato della comunicazione adottata
dalla leadership.

Al livello delle situazioni, traendo spunto dai contributi considerati, sembra corretto differenziare, anzitutto, tra le
circostanze «ordinarie» (routine), da un lato, e quelle «straordinarie» (extra-routine) dall’altro. La motivazione è
semplice: dal punto di vista della classe politica, un conto è comunicare in condizioni di abitudini acquisite e di
stabilità del contesto, ove le sfide e le domande politiche che i leader devono affrontare non richiedono particolare
investimento di energie, in termini di impegno o di urgenza – poiché rientrano in quel che si è soliti designare come
«ordinaria amministrazione»; tutt’altro è comunicare in circostanze che mettono sotto pressione la leadership,
allorché si verificano fatti straordinari o emergenze che necessitano una reazione eccezionale (nel senso di «non
comune») per essere fronteggiate con successo. In linea con questo ragionamento, conviene allora raccordare lo
studio della comunicazione delle élites politiche sia a situazioni che ricadono appieno nella routine, come le
elezioni e la campagna elettorale; sia a situazioni che fuoriescono dalla consuetudine, come accade per le crisi che
investono le democrazie odierne, tanto a seguito della recessione economica, quanto a causa delle minacce ai
valori democratici provenienti dall’utilizzo della violenza da parte dei gruppi terroristici.

LEZIONE 17 – LA COMUNICAZIONE DEI LEADER NEI PRESIDENZIALISMI IL “GOING


PUBLIC”
Ora completeremo lo schema visto nella lezione precedente.

L A COMUNICAZIONE DEL PRESIDENTE US A: SAMUEL KERNELL E IL GOING PUBLIC

Cominciamo a riempire la tabella occupandoci di un tipo particolare di comunicazione della classe politica
americana (Presidente USA): il cosiddetto going public.

Il volume di Samuel Kernell, Going Public. New Strategies of Presidential Leadership costituisce un classico nella
letteratura in tema di comunicazione politica dei Presidenti degli Stati Uniti: questo studioso individua una forma
specifica della retorica presidenziale, il going public, appunto, e collega la sua emersione così come il suo utilizzo a
modificazioni intervenute nel funzionamento del sistema politico e presidenzialismo americani. Come funziona il
sistema politico e il regime presidenziale negli Stati Uniti.

Di che cosa si tratta? Essenzialmente, di una particolare strategia comunicativa: il going public (letteralmente,
«l’andare in pubblico», cioè imprimere alla retorica una svolta in direzione del pubblico) rappresenta una modalità
di esercizio della leadership presidenziale che punta a comunicare direttamente con i cittadini americani,
«scavalcando» i loro rappresentanti al Congresso, allo scopo di ricevere approvazione per il proprio
comportamento o affinché le misure che il Presidente reputa qualificanti per la sua Amministrazione ricevano il
«via libera» dalle Camere.

In altre parole, consiste in «una strategia con la quale un presidente promuove sé stesso e le sue politiche […]
appellandosi al pubblico americano per averne il sostegno» (KERNELL 1993, p. 2). Casistica eterogenea.

UNA STRATEGIA SEMPRE PIU’ COMUNE

Kernell riscontra che il going public costituisce una risorsa strategica sempre più utilizzata dai Presidenti
statunitensi: nella prima metà del Novecento, il ricorso all’appello diretto ai cittadini era raro e si manifestava in
occasioni eccezionali – a tale proposito si ricordano i famosi «discorsi al caminetto» di Franklin D. Roosevelt,
trasmessi dalla radio in orario serale, con cui il Presidente ricordava agli Americani (e ai loro rappresentanti eletti al
Congresso) la necessità di garantire alle misure del New Deal promosse dalla sua Amministrazione un solido
sostegno, per contrastare i terribili effetti scaturiti della Grande Crisi economica del 1929.

Al contrario, secondo i dati raccolti per il periodo 1929-1990, i discorsi proferiti dagli inquilini della Casa Bianca e
indirizzati immediatamente ai cittadini subiscono un deciso incremento a partire dagli anni Sessanta (grosso modo,
in corrispondenza del mandato presidenziale ricoperto da John Fitzgerald Kennedy: KERNELL 1993, p. 92). Sono
queste cifre che inducono a ritenere che il going public, da tattica impiegata sporadicamente e in
circostanze extra-ordinarie, si sia trasformato in una pratica abituale, inserita appieno nella routine della
comunicazione politica del Presidente.

PERCHE’? LE RAGIONI DEL CRESCENTE RICORSO AL GOING PUBLIC

Kernell ricerca un nesso esplicativo tra variabili comunicative, da una parte, e fattori genuinamente
politici, dall’altra, spostando il fuoco sui mutamenti che hanno investito il sistema politico degli Stati Uniti
nonché sulla meccanica di funzionamento del governo presidenziale nel XX secolo.

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In particolare, egli sostiene che si è assistito al passaggio da una situazione di «pluralismo istituzionalizzato», che
ha condizionato i comportamenti della classe politica e dei gruppi di pressione americani fino alla prima metà del
Novecento, ad una di «pluralismo individualistico», che invece è prevalente a partire dagli anni Sessanta.

PLURALISMO ISTITUZIONALIZZATO VS. PLURALISMO INDIVIDUALISTICO

Il pluralismo istituzionalizzato è caratterizzato da un assetto fortemente verticistico o elitario della


politica: sono le élites politiche e sociali a condizionare in maniera stabile gli esiti del processo politico – usando il
nostro lessico, il «chi» e il «che cosa» della politica, chi vince nella lotta per il potere e che cosa decide chi vince.

I canali attraverso cui i cittadini possono partecipare alla politica sono due: le strutture organizzate dei partiti e dei
gruppi di pressione, le quali, agendo come gatekeepers (portieri), controllano, rispettivamente, il reclutamento dei
leader politici e la mobilitazione del consenso sociale a sostegno dei loro interessi, articolati alla classe politica allo
scopo di tutelarli.

Qualora emergano divergenze tra i membri della classe politica e/o i principali gruppi di interesse, la strutturazione
delle loro relazioni reciproche rende vantaggiosa l’adozione di una strategia ben precisa, da parte dei leader
politici, e in primis del Presidente: il bargaining, ovvero la «negoziazione», in vista di arrivare ad un
compromesso, relativo al contenuto delle decisioni politiche, che soddisfi tutte le élites in gioco. Ciò accade perché
questa tecnica si allinea alle aspettative degli attori: in una situazione di pluralismo istituzionalizzato, cioè, tanto
sul versante dei gruppi politici, quanto dal lato dei gruppi organizzati, ci si attende che verrà comunque trovata
una soluzione condivisa (a livello della policy, della legge o del provvedimento oggetto di contrasto) e che nessuno
si sottrarrà al compromesso così individuato.

Insomma, in questo contesto, non vi è alcun incentivo al going public: soprattutto per il fatto che i cittadini
non sembrano possedere le risorse per esercitare una pressione sui loro rappresentanti tale da assecondare i
disegni presidenziali. In effetti, Kernell non manca di rilevare che Roosevelt, nel 1937, tentò questa strada:
cercando di far passare al Congresso il provvedimento che portava a sei i membri della Corte costituzionale, egli
tentò, timidamente per la verità, di sollecitare gli Americani a fare pressione sui loro rappresentanti. Vuoi per le
modalità inedite dell’azione presidenziale, vuoi per la limitatezza della diffusione dell’appello – se comparati con le
proprietà del moderno going public: Kernell asserisce che si trattò di un indirizzo drasticamente circoscritto «a
Washington» – il discorso non sortì le conseguenze auspicate e la proposta fallì miseramente, a riprova che
bargaining e going public sono incompatibili.

PLURALISMO INDIVIDUALISTICO COME INSIEME DI CONDIZIONI FAVOREVOLI AL GOING PUBLIC

L’affiorare del «pluralismo individualistico» determina modificazioni cruciali nel sistema politico americano, tali da
scompaginare il quadro di vincoli e di opportunità a disposizione della classe politica, che rendono remunerativa la
strategia del going public e, per converso, penalizzano il bargaining.

La nuova configurazione si qualifica per la rottura degli assetti elitari e per la maggiore apertura nei confronti della
partecipazione dal basso. Secondo Kernell, l’innesco che ha accelerato il mutamento è rappresentato dal
ridimensionamento del potere esercitato dai partiti americani, in particolare nel loro progressivo declino quanto a
capacità di controllare il comportamento dei votanti. Nello specifico, l’indebolimento delle organizzazioni di partito
si è manifestata attraverso tre dimensioni:

1. l’adozione di nuovi arrangiamenti istituzionali in sede al Congresso, con la concentrazione del lobbying,
ovvero della pressione sui rappresentanti eletti, in capo a strutture certamente più aperte (i Comitati) e allo
stesso tempo inclini ad agire autonomamente e a svincolarsi dal controllo dei partiti nazionali – ciò ha reso il
bargaining, per sua natura limitato a ristrette cerchie di élites, del tutto inutilizzabile per l’ottenimento del
sostegno politico rilevante;
2. il varo di riforme che hanno democratizzato il processo di selezione dei candidati alla Presidenza,
trasferendo il potere di candidatura dalle organizzazioni di partito a livello dello Stato, agli elettori;
3. l’innalzamento nella frequenza con cui, nel presidenzialismo americano – che prevede una rigida
separazione dei poteri tra le istituzioni – si produce, a seguito delle elezioni presidenziali o di metà mandato,
l’esito del governo diviso.

In effetti, l’adozione del going public appare particolarmente vantaggiosa allorché si verifica quest’ultima
circostanza, nella quale il partito avverso al Presidente controlla una o entrambe le Camere del Congresso: significa
che, per esempio, un Presidente Repubblicano si trova ad esercitare il proprio mandato dovendo confrontarsi con
una maggioranza parlamentare Democratica (o viceversa).

“GOVERNO DIVISO” E GOING PUBLIC

Sommato alla netta divisione dei poteri fissata nella Costituzione americana e al sistema di checks and balances
che disciplina le relazioni istituzionali tra esecutivo (Presidenza) e legislativo (Congresso), il terzo fattore appare
cruciale in vista di incentivare il going public.

Perché? Perché il conflitto tra il Presidente ed il Congresso, circa le decisioni da assumere nei principali ambiti di
politiche pubbliche (dalla sanità al fisco, dall’occupazione all’immigrazione), assume frequentemente una
visibilità «pubblica».

Non solo: gli oppositori del Presidente possono puntare a indebolirne il consenso mettendolo di fronte
a scelte difficili o penalizzanti, anche se questa condotta mette a repentaglio i loro obiettivi di policy –
come accadde durante il mandato di Bush padre (1988-1992), quando un Congresso a maggioranza Democratica
preferì rigettare le aperture presidenziali, finalizzate ad allargare la protezione dei diritti civili o ad espandere
l’elargizione delle indennità di disoccupazione (scopi che rientravano nel programma del Partito Democratico),
preferendo inviare ripetutamente alla firma presidenziale i provvedimenti aventi per oggetto decisioni che il
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Presidente stesso si era impegnato pubblicamente a contrastare – ponendolo così in una posizione difficoltosa:
giacché, a norma di Costituzione, egli poteva porre il veto sulle proposte di legge non gradite, ma se
successivamente il Congresso avesse approvato di nuovo le medesime misure con una maggioranza dei 2/3
(eventualità molto probabile in caso di governo diviso), queste sarebbero diventate comunque legge, vanificando il
veto presidenziale. Proprio per questa ragione, Bush spesso firmò i provvedimenti approvati in sede parlamentare,
compresi quelli rispetto ai quali si era dichiarato contrario, nella consapevolezza che la sua opposizione sarebbe
stata inutile, dati i rapporti di forza al Congresso: ma in questo modo gli Americani ebbero la chiara
percezione che il Presidente non era in grado di mantenere le promesse. Perciò, la sua sconfitta alle
elezioni del 1992, ad opera dello sfidante Bill Clinton, non sorprese gli osservatori e gli specialisti di politica
americana.

A ben vedere, nella situazione data Bush avrebbe potuto tentare il going public: una carta giocata con successo dal
suo predecessore, Ronald Reagan (meno tasse).

SEMIPRESIDENZIALISMO FRANCESE E COMUNICAZIONE POLITICA DEL PRESIDENTE

Lo studio di Nicola Genga sulla comunicazione politica del Presidente francese mira invece a dare sostanza ai nessi
stabiliti nella seconda riga della tabella riproposta nella prima slide.

In particolare, Genga riflette sulla natura esplicativa del ruolo di Presidente entro la democrazia semipresidenziale
francese. Il suo studio muove dall’idea che «la presidenza della Quinta Repubblica sia un ‘ruolo oggettivo’,
in grado di occupare stabilmente una posizione centrale nell’immaginario politico francese, a
prescindere da qualsiasi variante legata all’interpretazione della funzione da parte dell’uno o dell’altro uomo
politico» (GENGA 2011, p. 16). La convinzione di questo autore è che il ruolo presidenziale possieda proprietà tali
da esercitare una influenza decisiva sui comportamenti di coloro che lo ricoprono pro tempore: incluse le loro
condotte comunicative.

In tal senso, una parte della comunicazione presidenziale è condizionata, ipso facto (per il fatto stesso che
venga ricoperto quel ruolo), dal possesso del ruolo, in modo del tutto svincolato dalla personalità degli individui
che si avvicendano al vertice delle istituzioni della République. Ecco allora l’esplicita rivendicazione della natura
esplicativa del nesso intercorrente tra elementi linguistici cioè comunicazione del presidente francese, da una
parte, e i fattori extralinguistici del contesto politico-istituzionale, dall’altra, che plasma ed indirizza l’impegno
conoscitivo.

L A “PREMINEMZA” GIURIDICA DEL PRESIDENTE NELL’ORDINAMENTO FRANCESE

Genga illustra i poteri associati al ruolo di Presidente sul piano giuridico (analizza gli articoli della Costituzione che
ne disciplinano i poteri): da questo esame emerge l’accentuata autonomia della figura presidenziale: anche
sul piano comunicativo (l’art. 16 gli riserva il diritto di indirizzare messaggi alla nazione, mentre l’art. 18 prevede la
sua facoltà di pronunciare davanti alle Camere riunite un discorso «politicamente insindacabile», che può essere
cioè dibattuto ma non sottoposto a voto da parte dell’Assemblea).

«Nel complesso, oltre a detenere l’egemonia politica del paese, il presidente della Quinta repubblica risulta,
quindi, uno dei locutori più liberi mai esistiti in Francia. Non ha, infatti, limiti all’esternazione e in
teoria non è tenuto a pronunciarsi pubblicamente in occasione di precise scadenze. Stando alla lettera
costituzionale, può farlo quando desidera, dove vuole, con gli interlocutori che predilige» (GENGA 2011, p. 44).

L’IMPIANTO DELLA RICERCA

Una volta gettata luce sulle prerogative di potere e di comunicazione associate al ruolo, tenendo conto della
meccanica bipolare del sistema politico francese così come, in connessione, della logica mediatica – che tende
sempre più ad affiancare, alla rappresentazione ieratica del monarca repubblicano super partes, l’immagine di un
leader politico «come gli altri» – lo sguardo del ricercatore si fissa sul problema relativo alla selezione del corpus
delle dichiarazioni oggetto di investigazione.

In particolare, lo studio di Genga abbraccia un periodo piuttosto lungo (1974-2011), coincidente con il mandato di
quattro Presidenti: Valéry Gisgard D’Estaing (1974-1981), François Mitterrand (1981-1995), Jacques Chirac (1995-
2007) e Nicolas Sarkozy (2007-2012).

L’impianto della ricerca è dunque di taglio comparativo: quindi, la scelta delle unità di analisi punta a massimizzare
i margini di comparabilità tra i reperti protocollari esaminati. Seguendo tale impostazione, appare congrua la
delimitazione del perimetro dell’analisi alle comunicazioni rituali della Presidenza: eventi comunicativi, cioè, che si
caratterizzano per il loro carattere formale, lo svolgimento secondo modalità standardizzate, la celebrazione in
corrispondenza di date o luoghi che assumono un particolare significato simbolico – come il 14 luglio (anniversario
della presa della Bastiglia, passaggio cruciale della Rivoluzione francese) o gli auguri al popolo francese in
occasione del 31 dicembre. Ma non è tutto. Genga adotta anche un altro criterio esposto in Tabella 2, quello delle
situazioni, distinguendo opportunamente le circostanze oratoriali nelle quali il Presidente formula un discorso
pubblico senza contraddittorio, cioè monologo, secondo un andamento monologico della comunicazione; dalle
occasioni nelle quali i comportamenti comunicativi danno luogo ad un dibattito, o comunque acquistano una forma
dialogica, in quanto il Capo dello Stato interagisce pubblicamente con altri attori. In ciascun ambito rientrano
diverse fattispecie.

LEZIONE 18 – LA RETORICA DEL PRESIDENTE FRANCESE E I DISCORSI


PROGRAMMATICI DEI CAPI DI GOVERNO NEI REGIMI PARLAMENTARI (IPOTESI DELLA
RICERCA)
Come abbiamo visto, la ricerca di Genga sopra la comunicazione politica del Presidente francese tiene conto della
retorica emessa dal Capo dello Stato in Francia nelle occasioni rituali o cerimoniali, distinguendo poi:
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1. I monologhi – a loro volta, si tratta di tre insiemi di messaggi presidenziali: i discorsi dello Stato che sono i
messaggi che il presidente indirizza al personale amministrativo che agisce nelle istituzioni francesi, sono
messaggi “monocorde” che seguono rigorosamente il protocollo, i discorsi alla nazione in cui il presidente è più
libero, sono il luogo di celebrazione dell’essere francese, e infine gli appelli televisivi in cui si rivolge alla
collettività per esempio per l’emergenza covid;
2. i dialoghi – qui la strategia persuasiva del parlante deve tenere conto della presenza di altri soggetti, che hanno
facoltà di interagire con lui – possono interromperne l’eloquio con richieste di chiarimento, domande che lo
inducono a cambiare l’oggetto del discorso, puntualizzazioni che avvalorano o, al contrario, mettono in
discussione le sue affermazioni, e via dicendo. Si tratta di una situazione comunicativa molto più complessa del
monologo. Ne deriva uno sviluppo argomentativo della comunicazione. Gli attori impegnati nel dialogo danno
vita ad un confronto, a partire da opinioni in certo grado discordanti (altrimenti, il dialogo perderebbe
consistenza) e che solitamente ne fa emergere i fondamenti razionali, attuandosi secondo procedure regolate e
rivolgendosi ad un pubblico dotato delle competenze adeguate a coglierne il senso e le articolazioni. Nel caso del
campione selezionato da Genga, le unità di analisi riguardano le interviste televisive rilasciate dai Presidenti in
occasione della festa nazionale del 14 luglio: un dialogo pubblico e mediatizzato, che si alimenta di scambi
domanda-risposta tra uno o due giornalisti e il Capo dello Stato.

I RISULTATI DELLA RICERCA: I MONOLOGHI

Come sappiamo, i fattori politici (e giuridici: Costituzione del 1958) in Francia assegnano al Presidente della
Repubblica un ruolo bifronte: egli è infatti chiamato sia a rappresentare l’unità nazionale, sia a
personificare il capo dell’esecutivo, specialmente nel caso di concordanza tra la sua appartenenza
partitica e il colore della maggioranza parlamentare.

Cominciando dai monologhi, l’immagine che prevale è certamente la prima. Almeno un paio di elementi
convergono nel documentare questa conclusione:

1. tutti i Presidenti sembrano accomunati da una oratoria epidittica, non soggetta a dibattiti, nella quale il
filo conduttore è dato dalla celebrazione della Francia, di suoi valori, della sua storia. Si tratta, appunto,
di «una costante delle esternazioni presidenziali», che si manifesta nell’appello ad un substrato etico
largamente condiviso, stabilendo così un contatto positivo con l’uditorio, all’insegna, appunto, dei valori
che uniscono i Francesi. A rinforzo, il pathos dell’oratoria presidenziale funziona come amplificatore
dell’affermazione di queste virtù «civili» non controverse – a titolo indicativo, non è un caso che il
sostantivo «France» sia il più ricorrente nei discorsi presidenziali: dove simboleggia, però, non tanto un
mero aggregato territoriale o nazionale, bensì «una categoria etico-spirituale»;
2. questo sviluppo del discorso pare corroborato pure dalla sostanziale assenza di riferimenti agli oggetti
«partigiani» del dibattito politico, come le ideologie o le appartenenze partitiche, o persino temi
particolarmente connotati nel senso della loro parzialità es. immigrazione. In omaggio alla sua funzione di
rappresentanza simbolica, pare quasi che il linguaggio della Presidenza – più che «dei Presidenti» – inclini alla
«spersonalizzazione» e alla de-politicizzazione.

Alla luce di queste considerazioni, qual è il significato del monologo rituale?

- funzione «liturgica» (necessaria alla legittimazione e al consolidamento delle istituzioni): dovere pubblico,
esibizione dell’ethos su cui si fonda la comunità nazionale;
- questa retorica è evidentemente plasmata dal ruolo: è il ruolo di custode dei valori della Repubblica e di
rappresentante supremo dell’unità dei Francesi a plasmare il monologo rituale del Presidente.

I RISULTATI DELL A RICERCA: I DIALOGHI

Volgendo lo sguardo ai dialoghi rituali, i risultati autorizzano una lettura meno univoca. Per due ragioni:

1. La situazione interattiva dell’intervista, pur in occasione della celebrazione della festa nazionale francese, si
presta di più alla manifestazione verbale delle opinioni, delle valutazioni e/o delle trame discorsive collegate alla
strategia politica perseguita dal Presidente (venatura politica del ruolo presidenziale). Naturalmente, l’intensità
con cui questi orientamenti si manifestano dipendono anche dallo stile adottato dai singoli inquilini dell’Eliseo
(ad es.: Giscard d’Estaing cauto nel pronunciarsi sulle questioni «divisive», che riguardano la stretta attualità;
Mitterrand e Chirac inclinano invece ad affrontare di petto i nodi politici, mentre Sarkozy pose fine alle interviste
rituali del 14 luglio, concedendo l’ultima nel 2008.
2. i mutamenti intervenuti nell’arena mediatica francese hanno progressivamente relegato ai margini la TV
generalista, che negli anni Settanta e Ottanta rappresentava invece il principale – quando non esclusivo – canale
di comunicazione adottato dalla Presidenza per rivolgersi direttamente ai cittadini; la diffusione capillare della
Web TV e dei social networks hanno arricchito il repertorio degli strumenti attraverso i quali la leadership politica
– non solo in Francia – riesce a comunicare immediatamente con la classe diretta. Da questo punto di vista,
Sarkozy si è rivelato un Presidente particolarmente attento ad impiegare una pluralità di mezzi di
comunicazione, esibendo anche spiccate doti di news management. All’origine di questo sviluppo, tuttavia,
Genga non individua un’attitudine strettamente personale dell’ultimo Presidente oggetto di analisi, bensì la
manifestazione di una tendenza che investe tutte le democrazie mature, la colonizzazione della politica da parte
dei media – quello che abbiamo chiamato mediatizzazione. Tali dinamiche assecondano un linguaggio che dà
maggiore spazio al pathos (emotività) piuttosto che al logos (raziocinio), finalizzato ad accentuare l’impatto
emotivo delle parole a svantaggio della significazione razionale. Va tuttavia notato che, anche nel caso dei
dialoghi, sono le variabili di matrice politico-istituzionale (il ruolo presidenziale), sommate alle diverse situazioni
che definiscono il contesto politicamente rilevante nel quale gli atti comunicativi si producono, a orientare le
scelte linguistiche dei Presidenti.

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L A COMUNICAZIONE POLITICA NEL REGIME PARLAMENTARE: LE DICHIARAZIONI PROGRAMMATICHE DEI


CAPI DI GOVERNO

Giorgio Fedel analizza una specie di comunicazione che è cruciale nel quadro di questi regimi, ovvero le
dichiarazioni programmatiche dei capi di governo.

Di che si tratta? Un elemento comune a tutti i parlamentarismi è il fatto che, in occasione dell’insediamento di un
nuovo esecutivo, il leader (Primo Ministro, Cancelliere o Presidente del Consiglio) proferisce un discorso davanti alle
Camere (Parlamento), con il quale enuncia il programma che la compagine governativa intende realizzare e, su
queste basi, egli richiede o presuppone la fiducia del Parlamento.

Il passaggio è di estremo interesse: l’investigazione sistematica delle dichiarazioni consente infatti di ricavare
indicazioni sul funzionamento delle istituzioni politiche – giacché esiste, appunto, un nesso tra aspetti
linguistici e fattori politico- istituzionali extralinguistici: nella misura in cui i secondi plasmano i primi, la
comunicazione rivela certi andamenti dell’istituzione che non si possono cogliere attraverso il mero esame della
morfologia strutturale.

Per accertare la solidità di tale relazione, Fedel intraprende un’analisi pilota dei discorsi programmatici dei capi di
governo in tre sistemi parlamentari: Regno Unito, Germania e Italia (Prima Repubblica). L’indagine si regge su
un’ipotesi che appare pienamente congruente con la schematizzazione qui accolta (vedi tabella lezione 17, slide 1)
e che focalizza le componenti del contesto entro il quale l’atto comunicativo ha luogo.

LE IPOTESI DELLA RICERCA

L’ipotesi appena esplicitata indirizza pure la scelta dei casi: Italia, Regno Unito e Germania rappresentano tre
contesti assimilabili, perché appartenenti al genere dei regimi parlamentari, ma divergono rispetto alle procedure
istituzionali e alle condizioni politiche che presiedono alla formazione dei rispettivi governi – dunque
l’investigazione delle dichiarazioni programmatiche dei rispettivi capi di governo consente di sottoporre al vaglio
l’ipotesi sopra delineata, accertando il grado in cui le scelte linguistiche cambiano al cambiare dei fattori
politici e istituzionali che le plasmano.

Per cogliere appieno il significato di tale disegno, occorre precisare, sinteticamente, le modalità attraverso cui si
formano gli esecutivi nei tre sistemi.

IL PROCESSO DI FORMAZIONE DEI GOVERNI NEI TRE REGIMI

Italia: la Costituzione (artt. 92 e 94) prevede che il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio e,
su sua indicazione, i Ministri, e che l’esecutivo (governo) così composto debba ottenere la fiducia delle Camere. Ma
come si avvengono concretamente questi passaggi? Prima di nominare il premier, il Capo dello Stato avvia delle
consultazioni con gli esponenti dei diversi partiti rappresentati in Parlamento, traendone indicazioni circa la possibile
coalizione di governo. Dopo di che, conferisce l’incarico ad un leader che si presume possa avere successo nel
costituire il gabinetto, il quale a sua volta inizia una serie di consultazioni informali, mirate a concordare un
programma di governo tra le forze politiche che daranno vita alla coalizione e a definire gli incarichi ministeriali. Una
volta nominato, il Governo è tenuto a prestare giuramento davanti al Presidente della Repubblica e, entro 10 giorni, a
presentarsi alle Camere, dove, per bocca del Presidente del Consiglio, viene enunciata la piattaforma programmatica.
Il discorso avvia il dibattito parlamentare il cui sbocco finale è la votazione della mozione di fiducia al governo.

Germania: il processo di insediamento dell’esecutivo riguarda essenzialmente la figura del Cancelliere, che gode di
un’accentuata preminenza, in termini di prerogative, rispetto agli altri Ministri. La procedura è la seguente: il Capo
dello Stato, sentiti i leader dei partiti che siedono al Bundestag (la Camera bassa del Parlamento tedesco), propone
alla medesima assemblea un candidato alla guida dell’esecutivo. Il Bundestag, senza alcun dibattito, procede alla
votazione, che avviene a maggioranza dei suoi membri. Ottenuto il voto favorevole, il neoeletto viene ufficialmente
nominato Cancelliere dal Presidente della Repubblica – che, su sua indicazione, nomina anche i ministri. Il processo si
conclude con il discorso programmatico del capo del governo, in una delle prime sedute utili del Bundestag.

Regno Unito: non vi è una Costituzione scritta, la formazione del cabinet osserva regole consuetudinarie. La corona
designa il Primo Ministro e, su proposta di questi, gli altri Ministri. Costituito così il governo, il premier scrive un
discorso contenente le linee programmatiche secondo cui intende orientarne l’azione politica, che poi viene letto dal
re o dalla regina innanzi alle camere (Queen’s Speech) e riletto dallo Speaker all’apertura dei lavori della Camera dei
Comuni. In questa sede si apre quindi la discussione, nella quale intervengono diversi oratori – tra i quali,
solitamente, il leader dell’opposizione, che critica le dichiarazioni programmatiche. La discussione termina con la
replica del Primo Ministro, che risponde alle obiezioni e ai rilievi emersi nel corso dello scambio comunicativo,
illustrando con maggiore dettaglio il programma.

LE CONDIZIONI POLITICHE NEI TRE CASI


• Nel caso italiano le fasi di consultazione delle forze politiche da parte del Capo dello Stato o del Presidente
del Consiglio incaricato hanno una rilevanza sconosciuta nel parlamentarismo tedesco o in quello britannico:
ciò accade perché nell’Italia della Prima Repubblica la formazione degli esecutivi non è espressione diretta
del voto degli elettori, bensì l’esito della ricerca negoziale di un accordo tra partiti . In pratica, sebbene il
fenomeno non sia sconosciuto neppure nella politica italiana di oggi, nella Prima Repubblica accadeva che,
sistematicamente, le elezioni non producessero, quale esito immediato, il governo; servivano
piuttosto a determinare il peso di ciascun partito in Parlamento, grazie alla quota di voti (e, di
conseguenza, di seggi) ottenuta. E infatti, l’esecutivo nasceva dopo le elezioni, a seguito delle

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contrattazioni tra le forze partitiche, nelle quali venivano decise sia la morfologia della coalizione di governo,
sia il contenuto delle misure che dovevano alimentare l’attività governativa.

• Nel caso tedesco, l’investitura del Cancelliere deriva dalle urne: questo perché, dato l’assetto
tendenzialmente bipolare del sistema politico, i maggiori partiti sono capeggiati da un leader che è candidato
a capo dell’esecutivo prima delle elezioni, di modo che la vittoria di una certa formazione politica indirizza la
scelta del Presidente della Repubblica riguardo la nomina del Cancelliere. Da questo punto di vista, il
Bundestag ratifica le scelte dei cittadini, giacché accorda la fiducia ad una personalità (e ad un governo) già
provvisti di legittimazione popolare.

• Nel Regno Unito, il bipartitismo e la regola elettorale maggioritaria uninominale a turno unico determinano un
risultato peculiare. Per un verso, il voto per il parlamento è, allo stesso tempo e soprattutto, voto per
il governo – che premia un partito e non una coalizione di partiti. Per l’altro verso, il leader del partito che ha
ottenuto il maggior numero di seggi alla Camera dei Comuni è, ipso facto, capo del governo. La particolarità
dell’esito è tale perché il premier e l’esecutivo non solo beneficiano di una investitura popolare diretta, ma
possono anche contare sul sostegno di una maggioranza parlamentare garantita – dal 1945, ciò non si è
verificato solo nel 2010, quando le elezioni hanno prodotto il cosiddetto hung Parliament, ovvero nessun
partito era in grado di controllare la maggioranza assoluta dei seggi nella Camera dei Comuni. Generalmente,
tuttavia, nel sistema britannico la procedura di formazione del governo è svincolata dalle mediazioni
partitiche e la relazione fiduciaria tra governo e parlamento è praticamente automatica – perciò tacita:
l’espressione di un voto di fiducia è del tutto superflua.

UNA LETTURA SCHEMATICA

Schematizzando un poco, riguardo ai fattori politico-istituzionali che ci interessano, potremmo concludere che nei tre
sistemi oggetto di indagine il nesso fiduciario tra parlamento e governo varia lungo due dimensioni:

«a) l’esistenza o meno di un rapporto di immediatezza tra il voto degli elettori e la scelta del governo; sicché abbiamo
governi in cui il leader riceve una investitura esplicita da parte dell’elettorato (caso britannico e tedesco) e governi
che emergono dalle trattative tra le forze politiche nel momento postelettorale (caso italiano);

b) la dislocazione del discorso programmatico del capo dell’esecutivo in rapporto al timing della relazione fiduciaria
tra governo e parlamento» (Fedel 1999, pp. 59- 60)

Per cui abbiamo sistemi nei quali le dichiarazioni programmatiche seguono l’ottenimento della fiducia parlamentare
(in Germania e Regno Unito), mentre in Italia il Presidente del Consiglio che espone le linee programmatiche del suo
governo davanti alle Camere non ha ancora ricevuto un voto di fiducia.

LEZIONE 19 – LA COMUNICAZIONE DELLA CLASSE POLITICA: I DISCORSI PROGRAMMATICI


DEI CAPI DI GOVERNO NEI REGIMI PARL AMENTARI

L A METODOLOGIA DI INDAGINE DELL A RICERCA DI FEDEL

Mi collego alle ipotesi di ricerca sulle dichiarazioni programmatiche dei capi di governo condotta da Fedel 1999
(lezione 18).

Una volta precisate le ipotesi di ricerca, appunto, occorre chiarire la metodologia di indagine: egli seleziona un
campione dei discorsi proferiti dai capi del governo e lo analizza secondo un metodo di analisi del contenuto di
derivazione lasswelliana.

Ovvero, la struttura argomentativa dei testi relativi alle dichiarazioni programmatiche di ciascun capo di governo
viene disaggregata a livello delle unità minime di significato (le frasi, costituite da soggetto e predicato). L’analisi
mira poi a enucleare i simboli che avvalorano (in senso positivo o negativo), dal punto di vista del primo ministro,
certi oggetti, che definiscono azioni o aspetti del sistema politico che vengono perorati o avversati
nell’argomentazione. Ad esempio, se il Presidente del Consiglio affermasse: «la collaborazione tra i partiti di
governo costituisce un grande traguardo di democrazia, in grado di garantire un futuro di benessere all’Italia», è
evidente che sta valorizzando (caricando di valore positivo) la coalizione tra i partiti che sostiene l’esecutivo;
d’altro canto, se si scagliasse «contro coloro che non tengono in alcun conto il nostro avvenire democratico», è
ugualmente chiaro che sta rappresentando negativamente i propri avversari o comunque attori politici ai quali
collega una minaccia.

I SIMBOLI DI LEGITTIMITA’

1. I «simboli di legittimità» contenuti nei discorsi sono espressioni (singole parole o insiemi di parole) che
veicolano un orientamento di valore (positivo o negativo). Lo scopo di Fedel è individuare i simboli e

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classificarli in una griglia, che si articola in quattro categorie generali (ciascuna delle quali prevede diverse
sottocategorie): Stato, società, partiti e ordine interstatale. Con una precisazione importante: un singolo
vocabolo (o il medesimo insieme di vocaboli) non svolge sempre la stessa funzione – potrà allora essere
assegnato a differenti categorie simboliche, a seconda dei contesti discorsivi nei quali compare – basti pensare,
a questo riguardo, ai diversi significati che è possibile imputare a molti lemmi del lessico politico («elezioni»,
«democrazia», «Costituzione», ecc.). Il punto da fermare è che quel che conta, ai fini dell’analisi, è il
significato dei simboli, non il significante – il segno grafico – che li veicola. Es porto a spasso il “cane” è
diverso da quello scrittore è un “cane”. Quello che conta è il significato non il significante.
2. Procedendo in questo modo, dalla verbalizzazione delle dichiarazioni programmatiche è possibile estrarre le
relative mappe simboliche: dati quantitativi, suscettibili perciò di comparazione tra casi. A questo proposito, le
principali classi previste dalla griglia classificatoria possono essere considerate come i contenitori di determinati
oggetti che acquistano un senso ben preciso in rapporto all’azione di governo, secondo lo schema che segue.

Società Società

Governo Stato SPIEGAZIONE

Nel diagramma, il
governo rappresenta il motore del sistema politico (evidente il richiamo a Easton e al suo «sistema politico») e
perciò è il portatore di un programma entro cui vengono delineate le linee che danno forma alle politiche

Ordine
Partiti Interstatal
e
pubbliche.

Lo «Stato» designa l’insieme delle risorse istituzionali e degli apparati a disposizione dell’esecutivo (governo) per
perseguire i suoi obiettivi: si tratta degli strumenti grazie ai quali il governo trasforma i propri orientamenti
programmatici in outputs operativi e decisioni vincolanti.

A loro volta, gli esiti decisionali producono conseguenze essenzialmente e verso due ambiti, che raggruppano i
soggetti, individuali e collettivi, destinatari dell’azione governativa: la società e l’ordine interstatale.

Tuttavia, questo processo non si svolge in un ambiente privo di vincoli. Detto altrimenti, vi sono attori che
condizionano la conformazione e il processo decisionale del governo dall’esterno: i partiti, soprattutto, possono
influenzarne il processo di formazione, il grado di coesione, la persistenza in carica. Inoltre, pure gli attori sociali (la
società), pongono vincoli all’attività di governo, nella misura in cui inviano alla politica richieste di proteggere i loro
interessi – infatti, la società «non è solo l’ambito di azione del governo, bensì anche il fondamento democratico del
sistema politico, talché il governo ne recepisce le istanze» (FEDEL 1999, p. 71).

Grazie a questo schema, è possibile classificare i risultati quantitativi della ricerca condotta da Fedel.

INTERPRETAZIONE DEI RISULTATI

1. Il caso italiano si discosta dagli altri due. Nell’Italia della I Repubblica i Presidenti del Consiglio concentrano le
loro invocazioni simboliche su due categorie, lo Stato e i partiti, che assommano quasi il 64% dei simboli
rilevati, mentre le classi che accolgono la dimensione finalistica dell’azione politica, società e ordine
interstatale, appaiono residuali. Nei casi tedesco e britannico, gli esiti sono ribaltati: Cancellieri e Primi Ministri
sembrano attribuire poca attenzione ai condizionamenti esterni (partiti) e all’assetto istituzionale (Stato), che

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rimangono al di sotto del 30%, per focalizzare invece significati relativi ai contesti nei quali l’azione di governo è
destinata a produrre effetti concreti, sul versante domestico (società) così come nell’arena interstatale.
2. La nitida divaricazione osservata sul piano simbolico collima esattamente con un’altra linea di distinzione,
quella suggerita dalle ipotesi di ricerca di Fedel: che, sul piano dei fattori istituzionali, separa un sistema
politico dove il governo non è prodotto immediatamente dal verdetto elettorale e dove il
Presidente del Consiglio, nel momento in cui espone le linee programmatiche, non ha ancora
ottenuto la fiducia delle Camere (Italia); dagli altri due, in cui gli esecutivi beneficiano di una
investitura elettorale diretta e i capi di governo proferiscono il discorso programmatico avendo già
incassato la fiducia. Qualche considerazione sommaria basta a rendersi conto che i due piani sono collegati e
che perciò le ipotesi risultano corroborate.
3. Nella I Repubblica, la formazione del governo non scaturisce dalle scelte degli elettori, ma dalle contrattazioni
tra i partiti: che definiscono sia la composizione, sia la durata dell’esecutivo (che non coincide praticamente mai
con i cinque anni della legislatura). Il governo italiano si trova così in una situazione di instabilità e di
vulnerabilità: cioè, il Presidente del Consiglio non ha alcuna garanzia che il suo esecutivo possa durare per un
arco di tempo sufficiente a realizzare il programma, poiché le dinamiche della lotta politica, spesso esacerbate
dalla eterogeneità della coalizione, possono in qualsiasi momento travolgerlo – determinando, per esempio, la
defezione di un partner, qualora la mossa si riveli remunerativa sul piano della ricerca del consenso. Anzi, il
discorso programmatico si rivela uno strumento per fare fronte all’incertezza e ciò spiega lo sbilanciamento
verso il polo «potestativo» delle mappe simboliche. Per i capi dell’esecutivo italiani, stante la problematicità
della situazione, il quadro di riferimento più importante non riguarda l’azione di governo considerata in sé e per
sé, bensì le sue premesse. Tali precondizioni, in quanto precarie, catturano il fuoco dell’attenzione:
per questa ragione «è giocoforza che la simbolizzazione si plasmi sugli attori partitici, le cui interazioni e
mediazioni sono decisive per la formazione dell’esecutivo e la sua persistenza temporale; e sullo “stato”: poiché
un governo non compatto e in balìa delle mutevoli tattiche delle forze politiche incontra ostacoli nel disporre
dell’apparato statale di implementazione delle policies» (Fedel 1999, p. 106, corsivo nell’originale).
4. In Germania e nel Regno Unito, l’investitura dei governi scaturisce immediatamente dalle urne: questa
legittimazione diretta fa sì che il Cancelliere o il premier si collochino in una posizione per cui il loro mandato
corrisponde, di solito, alla durata della legislatura; i primi ministri possono inoltre contare sulla solidità della
relazione fiduciaria instaurata con il Parlamento. Ne deriva una conseguenza importante: l’esecutivo è messo al
riparo dalla lotta per il potere per un tempo almeno sufficiente a perseguire i suoi obiettivi di policy. Detto
altrimenti, il governo gode di una condizione di stabilità e la sua azione politica si colloca entro un orizzonte di
certezza: sotto questo profilo, la concentrazione delle invocazioni dei primi ministri tedesco e britannico sulla
simbolizzazione finalistica (società e ordine interstatale) non stupisce. Infatti, è chiaro che il leader di un
esecutivo stabile e dalle prospettive certe impiega il linguaggio in funzione della (fondata e legittima)
aspettativa di realizzare il programma, sicché «sono i simboli finalistici, denotanti i soggetti o le sfere cui sono
indirizzati gli obiettivi del programma, ad avere il sopravvento» (FEDEL 1999, pp. 108-109).
5. Così, sono i fattori politico-istituzionali, inerenti al ruolo del capo del governo nei tre sistemi parlamentari, a
plasmare le dichiarazioni programmatiche: non a caso, ad una simile configurazione delle variabili politiche
corrisponde una morfologia affine delle mappe simboliche (Germania e Gran Bretagna), mentre da un diverso
allineamento delle componenti politiche deriva una struttura simbolica nettamente distinta e distante, come
quella osservata nella Prima Repubblica italiana.

L A COMUNICAZIONE DELL A CLASSE POLITICA: LE SITUAZIONI (ORDINARIE E STRAORDINARIE)

Le analisi finora passate in rassegna (Kernell e il going public, lo studio di Genga sul Presidente francese, la ricerca
di Fedel sui capi di governo nei sistemi parlamentari) focalizzano il ruolo giocato da fattori politico- istituzionali
incardinati nel regime (rispettivamente, presidenziale, semipresidenziale e parlamentare) nell’indirizzare la
comunicazione politica della classe politica.

Tuttavia, le variabili suscettibili di plasmare il linguaggio politico dei leader nelle democrazie contemporanee non si
esauriscono a queste: un peso importante hanno anche le situazioni.

Nelle prossime lezioni, cercheremo di focalizzare il ruolo rivestito da queste ultime, sia in rapporto a fenomeni che
costituiscono la routine della democrazia (elezioni), sia in rapporto a fatti che spezzano questa routine (per
esempio, le crisi economiche).

Ovviamente, il ragionamento è che le due diverse situazioni imprimano dinamiche diverse alla comunicazione
emessa dalla classe politica delle poliarchie contemporanee.

LEZIONE 20 – LA COMUNICAZIONE POLITICA E CAMPAGNA ELETTORALE: CONCETTI DI


BASE E GLI ATTACCHI “FACCIA A FACCIA” TELEVISIVI

COMUNICAZIONE POLITICA E SITUAZIONI POLITICHE

Nella parte finale del cap. IV, si tenta di sviluppare la connessione tra situazioni politiche e comportamenti
comunicativi della classe politica. La tesi di fondo è che, appunto, in certe occasioni sono gli elementi di fondo che
definiscono la situazione politica a plasmare le scelte retoriche dei leader politici – e ciò sia in rapporto ad eventi
ordinari nella cornice democratica (tra cui spicca la campagna elettorale), sia rispetto a situazioni extra-
ordinarie (come la crisi economica o la guerra al terrore).

Prima di illustrare studi di marca politologica che riflettono su questo nesso, è utile riflettere sul significato di alcuni
termini che designano altrettanti tipi di comunicazione politica emessa in campagna elettorale dalla classe politica
delle poliarchie mature.

L A PROPAGANDA ELETTORALE

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Si può perciò affermare che la propaganda elettorale, cioè la comunicazione che i leader indirizzano ai gruppi di
pressione e ai cittadini allo scopo di ottenerne il sostegno alle elezioni, è suscettibile di essere analizzata da una
pluralità di punti di vista. Ci limitiamo a segnalarne alcuni:

1. guardando ai destinatari, i messaggi possono rivolgersi agli elettori in generale o a specifici segmenti
dell’elettorato, distinti sulla base, per esempio, di criteri sociodemografici (genere, età, occupazione, luogo di
residenza e/o di lavoro, e via elencando) o specificamente politici;
2. la generalità o la specificità dei destinatari si coniuga con i contenuti dei messaggi: i due piani sono cioè
connessi, nel senso che, per esempio, allorché un partito o un candidato decidono di confezionare una campagna
di comunicazione indirizzata al pubblico in generale, è plausibile che venga data priorità a temi rilevanti per tutti i
cittadini, a prescindere dalle differenze di occupazione, di reddito o di opinione politica (che insistono, per
esempio, sui beni pubblici, quali la sanità, l’istruzione o la cura dell’ambiente); viceversa, allorché ci si rivolge a
categorie particolari o a pubblici segmentati si punterà verosimilmente su questioni specifiche;
3. rispetto ai canali impiegati, alle classiche modalità di condurre la campagna (contatti «face-to-face» o «porta a
porta», affissione di manifesti, distribuzione di volantini) e all’impiego dei mass media tradizionali (radio, giornali
e TV) si sono affiancate, negli ultimi anni, sofisticate tecniche di propagazione della comunicazione elettorale, che
si basano essenzialmente sull’impiego di Internet e dei più frequentati social network, come Facebook, Twitter e
Instagram;
4. gli effetti della comunicazione elettorale costituiscono la sfaccettatura più complicata da assoggettare ai
tentativi di interpretazione teorica; sotto questo profilo, sono i risultati elettorali a costituire il banco di prova
definitivo, in grado di accertare se la strategia che un candidato, un partito o una coalizione hanno seguito
durante la campagna si è rivelata efficace o meno. A questo riguardo, un aspetto degno di nota è che sempre più
negli ultimi anni i leader politici hanno adottato una forma di comunicazione elettorale improntata alla cosiddetta
pubblicità negativa.

UN AMBITO DELLA RICERCA COMPLESSO

Quindi, si tratta di un settore della ricerca la cui complessità appare evidente. In tale quadro, possiamo focalizzare
taluni contributi che rientrano nell’impostazione qui delineata, che stipulano cioè un nesso esplicativo tra aspetti
politico- istituzionali e andamento della comunicazione elettorale.

Prima, occorre tuttavia soffermarsi sopra il significato di alcuni concetti in uso nella letteratura specialistica, al fine
di identificare i tratti prevalenti nella comunicazione elettorale nelle poliarchie. Questo esame ravvicinato offrirà il
destro per delucidare l’orientamento dominante negli studi della comunicazione politica e, in connessione, le
ragioni per le quali riteniamo vantaggioso perseguire un approccio di natura esplicativa circa i fenomeni osservati.

POLITICA ED ECONOMIA

Molti concetti impiegati per descrivere le strategie comunicative dei leader politici in campagna elettorale
provengono dal lessico proprio dell’economia aziendale: questa mutuazione semantica è coerente con una
interpretazione analogica dei fatti politici, che assimila la competizione per il potere nelle poliarchie alla
concorrenza tra imprese nel libero mercato. Alla sostenibilità di questa similitudine hanno contribuito una
pluralità di fattori, di natura squisitamente politica, quali:

- il declino e, dopo la data simbolica del 1989 (caduta del Muro di Berlino), la fine della politica ideologica; nei
sistemi di partito europei, ciò ha significato l’indebolimento – e al limite l’azzeramento – della capacità di
richiamo delle dottrine che per lungo tempo avevano stimolato la partecipazione politica «anti-sistema» oppure
«pro-sistema» nel quadro democratico – socialismo, comunismo, liberalismo, conservatorismo confessionale o
laico, nazionalismo, e via dicendo;
- il drastico contenimento del ruolo giocato dai partiti nei processi politici delle democrazie mature, nonché
la (connessa) contrazione delle loro strutture organizzative, che nel nostro Paese si sono riverberati in una
diffusa delegittimazione della politica e in una crisi di rappresentanza senza precedenti;
- la personalizzazione della politica, che, affermatasi in maniera veemente durante gli anni Sessanta negli
Stati Uniti, è diventata una proprietà comune a tutte le poliarchie consolidate, fino a incarnare un connotato
irreversibile della lotta politica, che designa la «crescente focalizzazione dei fenomeni politici su attori individuali
e un parallelo ridimensionamento degli attori collettivi (anzitutto dei partiti)» (BORDIGNON 2013, p. 5);
- la mediatizzazione, che, come sappiamo, indica l’adeguamento delle comunicazioni emesse dalla leadership
politica, nonché degli altri comportamenti politicamente rilevanti delle élites, ai canoni della media logic

Secondo gli studiosi, la convergenza di queste spinte ha creato un mercato elettorale (MANNHEIMER – SANI
1987) rispetto al quale le conoscenze e le strategie ispirate dal marketing politico si dimostrano necessarie, in
vista della massimizzazione delle chances di successo alle urne.

IL MARKETING POLITICO

«Il marketing designa il processo attraverso cui le aziende selezionano i clienti, analizzano i loro bisogni e poi
sviluppano le innovazioni di prodotto, la pubblicità, l’attribuzione di un prezzo e le strategie di distribuzione sulla
base di quelle informazioni. In politica, l’applicazione del marketing appare incentrata sullo stesso
processo, attraverso l'analisi dei bisogni di elettori e cittadini; il prodotto diventa una combinazione
multiforme data dal politico stesso, dalla sua immagine e dal programma che egli sostiene, che viene poi
propagandata e indirizzata ad un pubblico adeguato.

Sebbene il prezzo non si possa direttamente applicare alla politica, vi è comunque un posizionamento relativo
ai valori, che il politico offre ai cittadini e agli elettori in cambio del loro sostegno.» (NEWMAN 1999, p.
3).

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Il successo ottenuto da Forza Italia nel marzo 1994 dovrebbe bastare a certificare, quantomeno, la percorribilità e,
in certe condizioni, l’efficacia di una strategia di comunicazione elettorale fondata su queste premesse: nel nostro
Paese, tuttavia, un certo clima culturale ha spesso commentato negativamente il ricorso a siffatte prassi – studio
del mercato elettorale, sondaggi di opinione, allineamento della comunicazione alle emozioni e alle preferenze
manifestate dai cittadini – riconducendole all’etichetta negativa del berlusconismo. In realtà, da un punto di vista
empirico e perciò estraneo ai giudizi di valore, occorre affermare che tali strumenti possono essere di grande aiuto
nel promuovere un programma, un partito o un candidato, specialmente quando, come nel caso di Berlusconi, si è
in presenza di un leader e di una formazione politica del tutto sconosciuti sul proscenio politico. Dall’altra parte,
non bisogna illudersi circa i risultati: non basta, cioè, applicare meccanicamente le mosse di marketing che si sono
rivelate azzeccate in un determinato sistema politico e in favore di uno specifico candidato per avere la certezza di
conseguire lo stesso esito altrove (es. negativo: Monti).

LO STORYTELLING

Tra le pratiche comunicative più impiegate nel quadro di una campagna di marketing politico, figura lo
storytelling, una tecnica ampiamente impiegata nella comunicazione aziendale (FONTANA 2010) ma che
recentemente ha trovato una applicazione sistematica in politica.

Negli Stati Uniti, dove l’«arte del raccontare storie» da decenni riceve l’attenzione degli analisti, la ‘moda’ dello
storytelling raggiunge l’apice già negli anni Novanta (COSENZA 2018, pp. 22-23), anche se un esempio
particolarmente illustrativo delle modalità operative della «narrazione», per utilizzare una delle traduzioni più
impiegate nel nostro Paese, va ricercato nella campagna presidenziale di Barack Obama del 2008. Da questo
esempio, è possibile enucleare i principali caratteri che imprimono efficacia allo storytelling di un candidato:

- giacché è parte di una strategia persuasiva (Ventura 2019, p. 74), che si dispiega entro un’arena mediatica
affollata di attori e, perciò, di messaggi, di racconti e di storie, il primo requisito che una determinata narrazione
deve possedere è di essere memorabile: «Uno dei maggiori problemi contemporanei è fare in modo che il
contenuto e il mezzo della comunicazione generino attenzione e diventino ricordo» (Fontana 2010, p. 23) presso
il pubblico o i pubblici ai quali l’atto comunicativo si indirizza – sotto questo profilo, le storie suscettibili di fissarsi
nella memoria individuale e collettiva devono possedere determinate proprietà;
- la trasfigurazione mitica degli attori e dei fatti che il racconto produce devono trasmettere emozioni: le più
potenti narrazioni contemporanee paiono fondarsi sulla mobilitazione delle paure e delle speranze dei cittadini,
facendo leva sui meccanismi di rassicurazione/minaccia antichi quanto il genere umano, sui quali gli scienziati
politici specialisti della comunicazione politica come Lasswell e Edelman avevano puntato l’attenzione già dalla
metà del secolo scorso;
- un tema delicato è quello della veridicità delle «storie» diffuse dai candidati in campagna elettorale: sono vere?
Sono false? E, in quest’ultimo caso, come va considerato il sostegno acquisito per mezzo di racconti non
veritieri? Le questioni normative non possono essere risolte in questa sede: tuttavia, sul piano empirico è
importante sottolineare che, al fine di essere credibile, lo storytelling deve essere verosimile. In tal senso, le
narrazioni sono assimilabili ai romanzi: quando leggiamo I promessi sposi, non ci chiediamo se quel che racconta
Manzoni corrisponda a fatti concretamente avvenuti o no, eppure la vicenda narrata è certamente plausibile e,
nella misura in cui i lettori sono consapevoli che si tratta di un prodotto di fantasia, non vi può essere inganno. Il
che ci indica che un possibile modo di risolvere il dilemma etico relativo al grado di verità dello storytelling
risiede, oltre che negli ordinari strumenti di fact checking, nell’accrescere il grado di consapevolezza
degli elettori circa l’impiego, da parte dei politici, di questi strumenti;
- infine, non cadere in quello che potremmo denominare eccesso di storytelling (COSENZA 2018): le storie, per
generare credibilità e gettare il ponte narrativo che è cruciale ai fini della persuasione, debbono essere
verosimili. Allora, è chiaro che, se i votanti percepiscono una notevole distanza tra la realtà e la narrazione
promossa da un determinato leader politico, il racconto non risulterà credibile (Renzi dopo 2016).

Insomma, lo storytelling individua un tassello importante nella retorica delle leadership politiche democratiche,
specialmente prima delle elezioni: ciò accade anche perché nell’arena mediatica predomina una certa
rappresentazione dei fatti politici, allineata ai canoni della media logic. In altre parole, si registra «il fatto che la
politica assorbe i formati propri della rappresentazione mediatica e in particolare televisiva, che a loro volta
mettono in scena soprattutto personaggi e storie» (VENTURA 2019, p. 57, corsivo nell’originale) – da questo angolo
visuale vi è cioè un potente incentivo, nelle poliarchie contemporanee, all’«uso del racconto ai fini della
comunicazione politica» o alla «concezione strumentale della storia personale dei politici» (SALMON 2014, pp. 34-
35), dato dalla concordanza con l’immagine della politica diffusa dai principali mezzi di comunicazione di massa, in
primis dalla TV e dai social network.

I FRAMES

Gli stessi ambiti appena indagati costituiscono il contesto privilegiato ove si consuma il confronto tra leader in
campagna elettorale, che spesso si combatte a colpi di frames, intesi ora come componenti di una più vasta
strategia di storytelling, ora come unità particolarmente rilevanti in vista della costruzione
dell’immagine e della proposta politica dei candidati. Precisamente, cosa si intende con questo termine?

Il concetto ha origine in sociologia, per iniziativa di Erving Goffman, il padre dell’interazionismo simbolico, ma la
sua dislocazione nell’ambito della comunicazione politica designa le modalità attraverso cui vengono
«inquadrati» eventi, questioni o fenomeni considerati importanti. Più precisamente, come affermato da
Mark Entman, la costruzione del frame implica «la selezione di alcuni aspetti di una realtà percepita, rendendoli
salienti in un contesto comunicativo, in modo tale da promuovere una particolare definizione del problema, una
certa interpretazione causale, una valutazione morale e/o suggerimenti per come trattare la questione descritta».

Banalmente, si tratta di una «cornice» cognitiva grazie alla quale ciascuno di noi ordina i fatti e i protagonisti della
politica e procede alla loro interpretazione, attribuendovi un certo significato piuttosto che un altro.

LE COMPONENTI DEL FRAME


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1. la focalizzazione di alcuni aspetti di un fenomeno, di una questione, di una policy: come accade per altre
«scorciatoie cognitive», il framing è una costruzione semantica che semplifica l’oggetto del discorso al quale si
riferisce, giacché deliberatamente ne seleziona taluni elementi, trascurando gli altri, es immigrazione come
invasione;
2. a questi viene attribuita una importanza soverchiante nella comunicazione, promuovendone
l’identificazione con la questione stessa alla quale si collegano: in altri termini – e qui sta tutta la forza della
semplificazione – si eguaglia una parte (gli elementi selezionati dal frame) con il tutto (la questione complessiva
da cui il frame viene estratto);
3. questi passaggi paiono finalizzati a promuovere una lettura ben precisa della issue o del fenomeno
in questione, nonché delle cause che li hanno prodotti e dei possibili rimedi – ovviamente, lo scopo finale
consiste nell’accreditare il frame, nel farlo percepire non come una possibile rappresentazione della realtà: bensì
come la realtà tout court, ricavandone consenso politico.

Non può sfuggirci la grande rilevanza che queste operazioni rivestono in campagna elettorale, specialmente
laddove la semplificazione attuata con il frame corrisponde ad opinioni ampiamente diffuse nell’opinione pubblica.
Un esempio emblematico, a questo riguardo, è il framing dell’immigrazione che Lorenzo Pregliasco ha osservato
nella comunicazione del leader della Lega, Matteo Salvini (Pregliasco 2018).

In realtà, durante la campagna – e ormai sempre più anche al di fuori, nella comunicazione di routine dei leader di
partito e di governo – storytelling e framing dovrebbero essere il punto di arrivo di una strategia suggerita e
coordinata da esperti spin doctors, ovvero professionisti di varia estrazione che si incaricano «di mostrare in luce
positiva e favorevole l’azione e il progetto di un attore politico» (Sorice 2012, p. 105), con particolare riferimento
all’arena mediatica e agli operatori dell’informazione.

UN BILANCIO DEL “GLOSSARIO”

Sul piano analitico, il bilancio che si può trarre dal breve glossario appena tracciato è ambivalente.

Da una parte, gli studi citati assolvono ad una funzione di documentazione che è importantissima, fotografando
i dinamismi che riguardano le pratiche, le strategie e le tecniche comunicative impiegate dalle leadership
democratiche allo scopo di ottenere il sostegno dei cittadini.

Dall’altra parte, la maggior parte delle indagini mostra limiti evidenti, perché produce un contributo che
si presenta come puramente descrittivo: mentre, come accade per ciascun ambito delle conoscenze umane,
anche nel campo della comunicazione politica le varie traiettorie analitiche dovrebbero puntare, almeno in ultima
istanza, alla interpretazione delle dinamiche sottoposte ad esame, secondo un accostamento di taglio esplicativo.

A questo compito non paiono adeguati neppure gli approcci improntati ad una sorta di «giustificazionismo», nel
senso che istituiscono un mero collegamento tra talune prassi comunicative esaminate in capo alla leadership e
l’obiettivo generale delle campagne elettorali, ovvero l’ottenimento del voto popolare.

Sotto questo profilo, giova rimarcare che giustificare certi comportamenti verbali non significa affatto
spiegarli, ovvero rintracciare le cause, le variabili o i fattori che li determinano. Ad esempio, per quanto
l’affermazione sia plausibile, ai fini esplicativi non basta asserire che il framing di una certa questione (poniamo,
l’immigrazione) assume una specifica configurazione perché riprende alcune immagini condivise a livello di massa
e, in virtù di questo nesso, procura un aumento del consenso elettorale ai leader che lo adottano.

Perché non basta? Per una ragione semplice: rimangono in ombra una pluralità di elementi (nonché le
relazioni che li collegano gli uni con gli altri) che risultano invece necessari per poter dar luogo ad un
resoconto esplicativo. Ci limitiamo, in chiave schematica, a citarne qualcuno. In primo luogo, la direzione della
relazione causale così stabilita non è empiricamente verificata (né verificabile): è l’opinione pubblica a plasmare gli
stereotipi impiegati nella costruzione dei frame propagati dai leader politici o sono invece questi ultimi a
determinare il gradimento verso certe rappresentazioni dei fenomeni sociali? In secondo luogo, anche ammettendo
di poter identificare il verso della relazione, che tipo di legame intrattiene quest’ultima con le componenti del
contesto entro cui si materializza? Perché, stando al nostro esempio, un certo tipo di frame funziona nel nostro
Paese e si dimostra invece poco o punto efficace in altri, come gli Stati Uniti? Infine, qual è il ruolo esercitato in
questo processo dai mass media?

È ormai una cognizione comune che gli organi di informazione rivestano una duplice funzione nei confronti della
comunicazione emessa dalle élites politiche (VAN AELST – WALGRAVE 2016), giacché rappresentano tanto i vettori
grazie ai quali i leader ottengono notizie circa i principali fatti politici, quanto l’arena nella quale sono chiamati a
misurarsi, sul piano comunicativo, con gli avversari – allora, qual è il condizionamento esercitato dai media, da
entrambi i punti di vista, sulla costruzione del frame in questione e, in connessione, sul tipo di impatto che riceve a
livello di massa?

Insomma, se vogliamo capire la comunicazione elettorale, in generale è necessario rintracciare i fattori extra
comunicativi che la plasmano, abbandonando la mera descrizione e il giustificazionismo.

I “FACCIA A FACCIA” TELEVISIVI IN ITALIA E IN FRANCIA

Ponendosi su questa strada, Sylvain Rivet (RIVET 2001) mira ad isolare le variabili che influenzano la retorica dei
leader politici impegnati nei «faccia-a-faccia» (battaglie retoriche) televisivi in Italia e in Francia.

Nei sistemi democratici, questi confronti tra i candidati al governo rappresentano sovente il punto culminante della
campagna elettorale: e ciò perché si tratta di battaglie simboliche, in cui la posta in gioco è doppia. Per un verso,
ogni candidato punta a dominare, retoricamente, l’avversario, imponendo la propria definizione della situazione
discorsiva, grazie agli attacchi portati alle tesi sostenute dal contendente; per l’altro, l’obiettivo finale è quello di
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conquistare il potere politico: la “vittoria” nel dibattito viene dunque considerata come una premessa necessaria al
successo elettorale.

Sul piano retorico, «vincere» significa persuadere il pubblico che i fallimenti e le lacune della politica sono
responsabilità degli avversari, attribuendosi, al contempo, il merito di quel che va bene. Per questa ragione, Rivet
propone una analisi empirica comparata degli attacchi verbali registrati durante i due dibattiti televisivi che hanno
concluso la campagna elettorale per le elezioni politiche italiane del 19 aprile 1996 e per le presidenziali francesi
del 1995, tenutesi rispettivamente tra Silvio Berlusconi e Romano Prodi e tra Jacques Chirac e Lionel Jospin.

Ipotesi: i fattori ideologici modellano il discorso dei candidati - cioè, a prescindere dalla differenza dei
contesti analizzati (parlamentarismo italiano e semipresidenzialismo francese), i candidati di destra o conservatori
(Berlusconi e Chirac) esibiscono una retorica comune e differenziata rispetto al discorso proferito da quelli di
sinistra o progressisti (Prodi e Jospin).

TIPI DI ATTACCI VERBALI NEI “FACCIA A FACCIA”

Gli attacchi retorici mirati a screditare l’avversario agli occhi del pubblico televisivo (rectius: degli elettori che
seguono il confronto TV e che andranno a votare) sono principalmente di due tipi:

1. gli si addebita la responsabilità di una situazione che egli ha deliberatamente cagionato (argomento di
causalità) ovvero si tenta di presentare una situazione presente (o futura) come l’effetto (negativo) che
scaturisce dalle sue decisioni o dai suoi progetti (argomento di conseguenza) – solitamente, questo tipo di
contestazioni hanno per oggetto le proposte programmatiche e/o le idee politiche degli avversari;
2. oppure, si mira a screditare l’interlocutore: una modalità che, già nella retorica classica, circoscrive
un’argomentazione ad hominem.

Gli attacchi del primo tipo dischiudono una gamma di possibili forme retoriche: gli argomenti di causalità
riguardano o la persona, o il contesto - allorché deve presentare sé stesso in chiave positiva o deve difendersi dalle
contestazioni mossegli dal rivale, durante il confronto un candidato può attribuirsi il merito di una situazione o
esporre una giustificazione, «mentre attaccando il suo avversario ne stigmatizzerà la responsabilità oppure la
fortuna» (Rivet 2001, p. 458). Con specifico riguardo agli argomenti di conseguenza, Rivet distingue sei modalità di
«effetto nefasto», cioè di formalizzazione delle conseguenze deleterie associate alla condotta dei rivali: perversità,
futilità, messa a repentaglio, predizione creatrice, impegno fatale, eccesso di volontà.

Gli argomenti ad hominem possono dirigersi contro differenti bersagli – le contraddizioni tra le parole e le idee
professate dagli avversari, oppure l’incompatibilità tra quanto essi affermano e le loro azioni, o ancora i loro tratti
individuali strettamente intesi, quali il carattere, il livello di istruzione, la vita pubblica, familiare o sessuale, le
scelte religiose, e via dicendo –, tutti accomunati dal riferirsi ad aspetti personali, cioè aventi per oggetto la
persona del rivale, al di là delle variabili politiche (programmi, schieramento partitico, cariche ricoperte, ideologie).

I RISULTATI DELLA RICERCA

Malgrado le differenze di contesto tra Italia e Francia, la supposizione che postulava una sorta di isomorfismo
retorico tra candidati provenienti dallo stesso versante ideologico viene empiricamente confermata: «In Italia,
come in Francia, il candidato di destra è più ‘aggressivo’ di quello di sinistra. Inoltre, il candidato di destra
preferisce attaccare con degli argomenti, di conseguenza, piuttosto che con argomenti di causalità. Cioè, al
contrario del suo contendente, fonda le sue argomentazioni preferibilmente sugli effetti nefasti e non sulla
responsabilità. Infine, gli attacchi ad hominem sono marginali per il candidato di destra, e sempre meno numerosi
di quelli fatti dal suo avversario. In effetti, i candidati di sinistra personalizzano di più i loro attacchi, per mezzo di
argomenti di responsabilità (causalità) ovvero di attacchi ad hominem» (RIVET 2001, p. 466).

Il punto è che, focalizzando il contesto degli atti comunicativi, ovvero la specifica situazione discorsiva (il
dibattito in diretta TV), che, insieme alle appartenenze ideologiche dei candidati, designa i fattori politicamente
rilevanti che plasmano gli attacchi verbali, è possibile arrivare a spiegare i tratti linguistici osservati.

In tal senso, la retorica conservatrice, fondata per lo più su argomenti di conseguenza, punta sul denunciare gli
effetti negativi della visione del mondo e del programma degli avversari; un sistema di valori paradossalmente
messo in crisi dal tracollo dei regimi dell’Est e dal declino della politica ideologica, che in effetti trova puntuale
riverbero, nella retorica di sinistra, nell’incremento degli attacchi ad hominem – giacché, se le mappe concettuali
una volta fornite dall’ideologia non sono più fonte di identità e hanno perso mordente, è plausibile che la polemica
si sposti sul terreno delimitato dai tratti personali (e personalizzanti) degli avversari, che vengono fatti oggetto di
attacco mirato.

LEZIONE 21 – LA COMUNICAZIONE POLITICA E SITUAZIONI STRAORDINARIE: CRISI


ECONOMICA E GUERRA AL TERRORE

COMUNICAZIONE POLITICA DELL A LEADERSHIP E CRISI ECONOMICA: UNA INTRODUZIONE

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Passando alla comunicazione politica della leadership politica nelle democrazie in relazione a situazioni non di
routine, la crisi economica rappresenta una situazione piuttosto indicativa per esaminare queste
dinamiche. In effetti, la recessione determina un quadro di vincoli e opportunità particolarmente problematico per
la classe politica: la contrazione delle performances economiche implica drammatiche ripercussioni sociali
(disoccupazione, precarizzazione del lavoro, flessione nel reddito disponibile delle famiglie, tra le altre), che
complicano la ricerca del consenso e perciò esercitano un impatto significativo sulla competizione politica
delle democrazie. Sotto questo profilo, generalmente sono i leader e le formazioni politiche al governo a
dover fronteggiare le maggiori difficoltà, specialmente se le misure messe in campo per combattere la crisi si
rivelano inefficaci: ma è innegabile che la gravità della situazione imponga anche alle opposizioni una
attenta considerazione delle strategie da intraprendere per tentare di insidiare il sostegno di cui
godono gli avversari e/o conquistare sufficiente consenso per accedere, in prospettiva, ai ruoli di
governo. In particolare, sul piano politico, le crisi economiche:

1. si prestano ad essere impiegate come armi politiche a disposizione della classe politica sul piano dialettico
e comunicativo: «Le crisi attirano l’attenzione dei mass media, che punteranno il riflettore sulle questioni e sugli
attori coinvolti. […] In termini politici, le crisi sfidano gli attori dentro e fuori il governo a tessere narrazioni
convincenti su ciò che sta accadendo e sulla posta in gioco, perché sta accadendo, come i politici hanno agito
nella fase preparatoria della crisi e come propongono che si dovrebbe affrontare la crisi e imparare da essa.
Coloro i cui racconti sono considerati persuasivi possono guadagnare prestigio e sostegno; coloro che sono
percepiti come incapaci finiscono per incarnare i capri espiatori della crisi» (‘t Hart – Tindall 2009, p. 22, corsivo
nostro);
2. concorrono a «de-istituzionalizzare» le convinzioni e le pratiche di policy consolidate: in questo senso,
più una crisi è percepita come grave e più sembra essere causata da problemi prevedibili (ed evitabili) nella
progettazione o nell’attuazione delle politiche pubbliche, più è ampio lo spazio che si crea per una revisione delle
policy e per il successo delle proposte di riforma (radicale). Gli eventi critici inclinano perciò ad avvantaggiare gli
oppositori dello status quo ovvero i freschi occupanti delle cariche di governo, ai quali non si può attribuire la
responsabilità delle difficoltà, ma che possono far leva sulla crisi per giustificare la necessità di cambiamenti – per
esempio, nelle politiche del lavoro, nel fisco o nella produzione industriale – che avrebbero comunque cercato di
introdurre.

IL RUOLO DELL A COMUNICAZIONE POLITICA NELLE CRISI ECONOMICHE

Secondo lo studio preso in considerazione (‘t Hart – Tindall 2009), la comunicazione politica riveste un ruolo
cruciale nella gestione della crisi: l’accento cade sulla capacità della classe politica – e, in particolare, sui leader
incumbent, che detengono responsabilità di governo nel momento cui le difficoltà si manifestano – di creare un
frame convincente della crisi, ma che al contempo minimizzi il loro ruolo nell’averla prevista o
determinata, attribuendone invece l’origine ai programmi, all’ideologia o alle decisioni implementate dagli
avversari o comunque, a fattori che in nessun modo possano essere ricondotti alla propria azione politica.

Più precisamente, per sperare di aver successo, il framing dovrebbe illustrare in maniera convincente almeno
quattro aspetti: la natura e la gravità della crisi; le sue cause; le responsabilità relative alla sua
comparsa e/o alla sua escalation; infine, le sue implicazioni a livello delle policy .

I frame così prodotti verranno impugnati come armi retoriche dagli attori politici: ciascuno tenterà di far
accettare la propria interpretazione della crisi come autorevole, tanto dai media quanto dai cittadini. In tal senso,
allorché le crisi designano eventi o sviluppi percepiti dai membri delle comunità interessate come minacce gravi ai
valori e alle strutture sociali fondamentali, non vi è solo una strada possibile nella costruzione dei frame, perché
differenti possono essere le percezioni, a livello di massa, della crisi stessa. In tal senso, vi sono tre tipi di framing
che i membri della classe politica possono intraprendere per cercare di affermare, pubblicamente e a livello
mediatico, una specifica lettura della crisi, allo scopo di difendersi dagli attacchi polemici e, viceversa, di aggredire
le posizioni degli avversari.

Frame 1: Routine
Gravità: minimizzata
Cause: esogene
Percezione,
interpretazione,
framing Frame 2: Minaccia
Eventi Negativi
Gravità: riconosciuta
= CRISI (attore A,B,…n) Cause: esogene

Frame 3: Opportunità
Valori, interessi, ruoli Gravità: massimizzata
(attore A, B, …n) Cause: endogene

CONFRONTO TEORICO E CRISI ECONOMICA

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• Il primo dei frame esposti in figura si potrebbe definire routinario («business as usual»), e consiste
principalmente nel rappresentare i f atti come un incidente; incorpora quindi una tendenza a minimizzarne
la rilevanza, nella convinzione che la crisi non debba dare luogo ad alcuna ripercussione rilevante sotto il
profilo della lotta politica o della formulazione di politiche pubbliche;

• Il secondo connota la crisi come una minaccia: la situazione viene descritta come una sfida che mette in
discussione il bene collettivo, inscritto nello status quo prima che la recessione si palesasse, e quindi
incorpora una predisposizione a difendere i governanti, nonché le politiche pubbliche e le pratiche
consolidate dalle critiche provenienti dai leader rivali;
• infine, si può raffigurare la crisi come una opportunità: cioè, approfittare della parentesi negativa per fare
emergere la vulnerabilità della situazione precedente pre-crisi – il frame punta ad individuare
comportamenti censurabili da parte dei governanti nonché i profili di debolezza nelle linee di policy delle
quali i primi sono responsabili, con l’obiettivo di mobilitare il sostegno necessario alla loro sostituzione e/o
alla modifica sostanziale dei provvedimenti emanati.

A parere di ‘t Hart e Tindall, nella fase politica post-recessione il frame che più si presta a generare un dibattito,
ovvero un confronto comunicativo tra élites politiche di governo e di opposizione avente per oggetto la crisi – i cui
risultati sono rilevanti ai fini della lotta per il potere – è il terzo (crisi come opportunità).

In questa occasione tutti gli attori cercheranno di mantenere o allargare il proprio consenso, facendo
leva sulla crisi allo scopo di «sfruttare politicamente la situazione» (crisis exploitation): in particolare, nel
framing sviluppato da ciascun leader in gioco la scelta cruciale riguarda il tema della responsabilità o, nei termini
solitamente impiegati dagli avversari della coalizione di governo, della colpa rispetto alla situazione prodottasi.

L’andamento del confronto retorico che così si determina e, soprattutto, il suo esito, sono meno ovvi di quel che ci
si potrebbe aspettare: è sì lecito attendersi una struttura della discussione che vede gli attori di opposizione
accusare i governanti incumbent di aver causato (o di non aver saputo contrastare) la spirale negativa, mentre
questi ultimi cercheranno di mettere in campo una strategia comunicativa di difesa; tuttavia, non è certo che, a
livello di massa, il risultato del dibattito dia meccanicamente luogo al ritiro del sostegno ai leader di
governo e/o al suo trasferimento sugli avversari.

Gli attori di opposizione devono valutare se esistono le condizioni per costruire un frame persuasivo che
incolpi chiaramente i governanti della crisi; se queste premesse non sussistono, per esempio perché le
informazioni disponibili certificano la portata globale della recessione e al contempo le percezioni diffuse dei
cittadini, accertate con strumenti di survey, non sono del tutto sfavorevoli agli incumbent, una strategia che
punti a non colpevolizzare eccessivamente le élites al potere potrebbe rivelarsi più vantaggiosa. I
governanti, per l’altro verso, potrebbero scartare la mera negazione delle proprie responsabilità, privilegiando una
strategia retorica di elusione o di allargamento delle responsabilità connesse alla gestione della crisi – si pensi al
dirottamento delle colpe sugli apparati organizzativi subordinati al controllo politico, come per esempio la pubblica
amministrazione. A questo riguardo, i nostri autori cercano di costruire uno schema capace di catturare tanto le
opzioni comunicative intraprese dagli attori politici nel periodo post-recessione, quanto i probabili esiti del
dibattito che si sviluppa nel caso di impiego del terzo tipo di framing, specialmente in rapporto al
tema delle colpe/responsabilità.

SCELTE COMUNICATIVE E POSSIBILI ESITI DEL DIBATTITO SULL A RESPONS ABILITA’ DELLA CRISI

IL DIBATTITO SULL A CRISI: TRE CASI EMPIRICI

Sembra che in due casi su tre le forze di opposizione si siano rivelate più abili nella crisis exploitation. Da un lato
la colpevolizzazione delle forze al governo riguardo alla recessione si rivela una strategia vincente in Gran
Bretagna e negli Stati Uniti, mentre l’elusione delle responsabilità in Germania penalizza i socialdemocratici a
vantaggio del Cancelliere uscente, che ha trascinato la CDU al successo.

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Dall’altro lato, tuttavia, una lettura attenta della tabella consente di sottolineare che sono stati i fattori politici
specificamente registrati in ciascun contesto a vincolare e a guidare le scelte comunicative degli
attori di governo e di opposizione; e, quindi, a spiegare tanto le diversità relative all’andamento del dibattito
sulla crisi, quanto l’impatto che l’esito del confronto retorico ha prodotto sui dinamismi della competizione per il
potere.

Detto altrimenti: se, poniamo, le condizioni politiche determinatesi negli Stati Uniti non avessero
permesso ad Obama di costruire un frame persuasivo imperniato sulla colpevolizzazione dei
Repubblicani (cosa che si sarebbe verificata nel caso in cui le posizioni in tema di policy economico-finanziaria
dei Democratici fossero state allineate a quelle dell’Amministrazione Bush), probabilmente avremmo osservato
una differente configurazione della retorica dello sfidante e forse egli non sarebbe stato in grado di
prevalere nella corsa alla Casa Bianca. Analoghe considerazioni, mutatis mutandis, valgono per gli altri casi.

Insomma, le risultanze empiriche evidenziano che i tratti comunicativi osservati dipendono «dai diversi sistemi
politici e dai differenti contesti nei quali i leader dell’opposizione [ma anche quelli al governo] operano»
(McCAFFRIE 2009, p. 302, testo tra parentesi nostro).

L A GUERRA AL TERRORE NELLA RETORICA DEL PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI

Gli attacchi suicidi alle Torri Gemelle del World Trade Centre di New York e al Pentagono, l’11 settembre 2001, ad
opera dei dirottatori legati alla organizzazione terroristica islamica Al Quaeda, guidata dallo «sceicco del terrore»
Osama Bin Laden, hanno segnato uno spartiacque nella storia recente delle democrazie: riprendendo le categorie
di Lasswell, il grado di crisi – ovvero, l’emergere di una situazione internazionale nella quale l’aspettativa
dell’impiego della violenza è massima (LASSWELL 1965) – si è improvvisamente innalzato, mettendo a repentaglio
un bene fondamentale nel quadro democratico, ovvero la sicurezza individuale e collettiva.

Insomma, si è aperta una fase nella quale le aspettative connesse all’utilizzo delle risorse coercitive hanno
plasmato, in maniera ancora più incisiva, le azioni della classe politica, sia nell’ambito delle relazioni internazionali,
sia sul versante domestico dei sistemi democratici. Tra questi rientrano ovviamente le condotte comunicative.

CRISI, CARISMA E RETORICA POLITICA

In effetti, sono ormai innumerevoli gli studi che hanno posto sotto la lente di ingrandimento il discorso e la retorica
politica che hanno accompagnato la lotta al terrorismo internazionale, secondo diversi approcci disciplinari.
Restringendo lo sguardo ai contributi recanti l’impostazione qui suggerita per l’esame ravvicinato della
comunicazione politica, di matrice teorico-esplicativa, risulta particolarmente intrigante la ricerca condotta in
prospettiva comparata da Michelle Bligh, Jeffrey Kohles e James Meindl sulla retorica di George W. Bush (BLIGH –
KOHLES – MEINDL 2004).

Nello specifico, il contributo è interessante perché mira ad accertare empiricamente una classica asserzione di Max
Weber, per il quale il carisma dei capi tende ad emergere nei momenti di crisi, ovvero quando la routine politica
viene scompaginata e messa in discussione da sfide inedite – un contesto largamente compatibile con la situazione
creatasi dopo l’11 settembre. Gli autori cercano di verificare questa ipotesi puntando l’attenzione su due unità
d’analisi principali:

1. un campione di dichiarazioni e di discorsi pubblici pronunciati dal Presidente Bush prima e dopo l’attacco alle
Torri Gemelle;
2. la rappresentazione mediatica della retorica presidenziale, in entrambi i periodi oggetto di indagine.

La comparazione è quindi diacronica: lo scopo è di capire, attraverso un’investigazione sistematica della retorica
presidenziale, se la crisi determinatasi nel sistema politico americano e nell’arena della politica internazionale a
seguito dell’aggressione di Al Qaeda abbia aperto una finestra di opportunità per la manifestazione del carisma di
Bush; in secondo luogo, se questo attributo della leadership sia stato recepito dalla rappresentazione mediatica
dell’autorità presidenziale – perciò è utile raffrontare i tratti dominanti dell’oratoria di Bush, così come l’immagine
del Presidente diffusa dai mass media, prima dell’11 settembre con la configurazione che questi parametri hanno
assunto dopo la stessa data. Il quesito assume particolare rilevanza proprio perché riferito ad un Capo di Stato che,
fino al 2001, gli analisti e gli studiosi di scienza politica certo non reputavano incarnare un modello di leadership
forte.

L A METODOLOGIA DELL A RICERCA

Esiste una cospicua letteratura che collega la manifestazione delle «doti soprannaturali» che stanno a fondamento
del carisma alla dimensione comunicativa e linguistica, nel senso che si ritiene che «il contenuto retorico del
discorso carismatico giochi un ruolo importante nelle attribuzioni del carisma» (BLIGH – KOHLES – MEINDL 2004, p.
214) e, in connessione, nel riconoscimento della natura carismatica del potere da parte dei subordinati –
necessario al mantenimento dell’autorità. Da questo angolo visuale, i nostri autori asseriscono che i messaggi
aventi un contenuto «carismatico», perché pronunciati da un leader che possiede le doti del carisma, presentano
solitamente sette caratteristiche, che facilmente emergono dal raffronto con i tratti distintivi dei discorsi dei politici
«non carismatici»:

1. richiami più numerosi alla storia della comunità politica e alla continuità tra passato e presente;
2. maggiori riferimenti alle identità collettive e meno riferimenti all’interesse personale del leader;
3. cenni più positivi alla dignità e alle capacità dei seguaci, intesi sia come individui, sia come entità collettive
(patria, nazione, Paese);
4. allusioni più frequenti alla somiglianza del leader con i seguaci (identificazione con i sottoposti)
5. maggiore presenza dei collegamenti all’etica e alle giustificazioni di ordine morale dell’azione politica, che si
accompagna al restringimento dei riferimenti ai risultati tangibili e alle giustificazioni strumentali (del tipo
mezzo-fine) delle condotte assunte;
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6. rimandi a obiettivi collocati in uno spazio temporale distante, drastica contrazione dei costrutti riferiti agli oggetti
e agli obiettivi collocati nel breve periodo;
7. più riferimenti alla «speranza» e alla «fede».

In sostanza, la ricerca consiste nel verificare se il contenuto dei discorsi del Presidente Bush
incorporasse o meno alcuni o tutti questi elementi a seguito della crisi prodottasi dopo l’11
settembre, in rapporto alla retorica precedente. Inoltre, i ricercatori intendono accertare se le (eventuali)
differenze riscontrate hanno esercitato qualche influenza nella raffigurazione della retorica presidenziale, così
come nelle reazioni che tale rappresentazione ha prodotto a livello di massa, da parte dei media.

IL CAMPIONE E I RISULTATI DELL’ANALISI

Muovendosi in vista del corroborare o meno le ipotesi, a livello metodologico Bligh, Kohles e Meindl hanno operato
in tre direzioni.

Hanno isolato 74 «grandi discorsi» del Capo dello Stato, così definiti perché presentavano due caratteristiche che
ne certificavano l’inclusione nelle esternazioni del going public: il testo era presente sul sito ufficiale della Casa
Bianca e la loro trasmissione era avvenuta durante il prime time televisivo, allo scopo di massimizzarne l’audience.
Da questo corpus hanno estratto un campione rappresentativo di 117 frammenti di testo, della lunghezza variabile
da 100 a 500 parole, 58 riferiti al periodo precedente all’attacco di New York e 59 successivi. Questo materiale è
stato poi sottoposto ad analisi del contenuto, grazie al software DICTION, ritenuto affidabile perché già largamente
utilizzato per l’esame scientifico del lessico presidenziale (HART 1987).

Considerando la lista dei sette caratteri come variabili dipendenti, e la collocazione prima o dopo l’11 settembre
come le due variabili indipendenti, l’analisi multivariata del campione ha confermato che la retorica presidenziale
esibiva differenze statisticamente significative tra i due periodi e che lo spartiacque che determinava un
innalzamento nella frequenza con cui le proprietà «carismatiche» si presentavano nei discorsi tenuti da George W.
Bush era situato proprio in corrispondenza della crisi aperta dagli attacchi terroristici. Senza entrare nei dettagli,
basti pensare che i riferimenti all’etica e alle giustificazioni morali dell’azione politica passavano da una media di
3,51 parole per discorso (pre-attacchi) ad una di 6,87; allo stesso modo, l’identificazione del leader con i seguaci
da 156,31 a 164,68, i richiami alla collettività americana da 7,86 a 12,71 e via dicendo (BLIGH – KOHLES – MEINDL
2004, p. 220).

Appurato il mutamento intervenuto nell’oratoria presidenziale, gli autori hanno cercato di verificare quale fosse
l’atteggiamento prevalente nell’arena mediatica rispetto a questa evoluzione. Per rispondere, i ricercatori hanno
selezionato un campione di 442 articoli di commento alle dichiarazioni di Bush, raccolti dal 20 gennaio 2001 all’11
marzo 2002, provenienti da quotidiani e settimanali nazionali, nonché dalle trascrizioni delle trasmissioni dedicate
al tema dalle più rappresentative reti televisive americane. Queste unità sono state esaminate secondo la stessa
tecnica impiegata per l’analisi del contenuto dei discorsi presidenziali (DICTION). I risultati rispecchiano fedelmente
quelli desunti dall’investigazione del linguaggio pubblico di George W. Bush. L’immagine diffusa dai media della
retorica del Presidente incorporava, in modo significativo, più riferimenti alla comunità subito dopo l’11 settembre.
Inoltre, i commenti dedicati agli interventi del Presidente contenevano più riferimenti alla sua identificazione con i
seguaci. Altre differenze importanti includevano i maggiori riferimenti al linguaggio del Presidente, descritto come
attivo e orientato all’azione e, allo stesso tempo, le allusioni alle questioni ordinarie, collocate nell’orizzonte
temporale del «qui ed ora». Infine, la descrizione dell’oratoria presidenziale post-crisi da parte dei media esibiva
una maggiore attenzione ai valori e alla morale.

A completamento della ricerca, quale utile variabile di controllo, i nostri autori si sono interessati anche delle
reazioni registrate presso il pubblico, a seguito dei mutamenti che hanno investito sia la retorica presidenziale, sia
la sua rappresentazione mediatica. Sotto questo profilo, la questione sulla quale gli studiosi hanno spostato il fuoco
riguarda il grado in cui il notevole innalzamento rilevato nell’approvazione dell’operato di Bush da parte dei
cittadini statunitensi, subito dopo l’attacco al World Trade Centre di New York, è da imputare all’evoluzione in senso
carismatico della sua oratoria e della relativa immagine diffusa dai media americani. Da questo punto di vista, il
team ha raffrontato la presenza e il trend delle proprietà carismatiche, tanto in capo alla retorica presidenziale,
quanto in capo alla sua rappresentazione mediatica, con l’andamento del gradimento del Presidente, dal suo
insediamento avvenuto il 20 gennaio 2001 fino al mese di marzo 2002, misurato dalla media dei risultati ottenuti
da tre delle più importanti reti di sondaggio statunitensi (ABC News/Washington Post, CNN/USA Today/Gallup e
Newsweek/Princeton Associates), che hanno somministrato telefonicamente ad un campione rappresentativo di
elettori americani una survey composta da una, semplice, domanda: «approva o non approva il modo in cui George
W. Bush sta svolgendo il suo ruolo in qualità di Presidente?». Ebbene, le risultanze empiriche mostrano che il tasso
di approvazione dell’operato del Presidente è aumentato, mediamente, di 16 punti dopo l’11 settembre, rispetto ai
livelli precrisi (BLIGH – KOHLES – MEINDL 2004, p. 226). Ciò vuol dire che le qualità carismatiche, che hanno
sempre più caratterizzato il discorso presidenziale e che si sono riverberate nei resoconti e nei commenti articolati
dai media, sono state riconosciute dal pubblico americano, che ha tributato al suo Presidente un consenso
sconosciuto prima dell’aggressione terroristica perpetrata da Al Qaeda. Le ipotesi di ricerca risultano perciò
verificate.

LEZIONE 22- PRESSIONE SUL POTERE E COMUNICAZIONE POLITICA

IL COMPORTAMENTO POLITICO DEI GRUPPI DI PRESSIONE

Nel processo politico delle poliarchie di massa (DAHL 1993), il comportamento tipico dei gruppi di pressione
consiste nell’avanzare alla classe politica richieste di protezione dei propri interessi (di varia natura: economica,
culturale, sociale, eccetera), accompagnate dalla promessa di conferimento (o dalla minaccia di ritiro) selettivo del
sostegno: attraverso queste domande qualificate, essi esercitano appunto una pressione sui leader, tanto di
governo quanto di opposizione, al fine di ottenere determinati contenuti delle decisioni politiche.

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Perciò, le variabili extralinguistiche ed extra comunicative che plasmano la comunicazione politica di questi attori
vanno ricercate entro questa cornice teorica.

In altre parole, la focalizzazione del contesto di potere entro cui si articolano sia le condotte politicamente rilevanti
dei gruppi di pressione, sia le loro strategie comunicative – i due aspetti sono collegati – ai fini esplicativi riveste
centralità assoluta. Tuttavia:

1. le regole del gioco, che stabiliscono quali sono i comportamenti ammessi nel quadro della competizione per il
potere non sono le medesime in t ut t i i regimi democratici. Anzi, talune differiscono proprio in connessione alla
pressione politica (ad esempio, USA);
2. il formato e la meccanica dei sistemi di partito, insieme al grado di autonomia, più o meno accentuato, dei
gruppi di pressione dai partiti, contribuiscono a generare differenti configurazioni del contesto proprio delle
arene democratiche, che a loro volta inclinano ad indirizzare diversamente le scelte strategiche dei gruppi di
pressione nel campo della comunicazione;
3. i fattori direttamente connessi all’attività dei gruppi di pressione, come le loro dimensioni organizzative o la
morfologia dell’ambito sociale entro cui agiscono, condizionano le loro possibilità di “pesare” presso gli
interlocutori politici.

L A RICOGNIZIONE DELL A COMUNICAZIONE POLITICA DEI GRUPPI DI PRESSIONE

Perciò, la ricognizione circa la comunicazione politica articolata dai gruppi di pressione segue le stesse modalità,
già viste per l’analisi della comunicazione dei leader, entro i diversi sistemi democratici (parlamentarismi,
semipresidenzialismi, presidenzialismi).

Rispetto a quell’excursus, tuttavia, la trattazione si colloca ad un livello di analisi più generale, senza tematizzare
minuziosamente le connessioni tra fattori politici (principalmente ruoli e situazioni) e gli andamenti comunicativi. In
questo caso, sono due le ragioni che suggeriscono di dare priorità alle esigenze di sintesi e di semplificazione.

1. Per un verso, la varietà e la complessità interne alla casistica che, nelle democrazie di massa, si raccoglie sotto
l’etichetta-ombrello «gruppi di pressione» sono assai più accentuate rispetto a quanto abbiamo osservato per la
«classe politica». Ciò si può imputare direttamente ai tratti strutturali del regime e alle sue regole del gioco
(vd. Capitolo 1): in effetti, questi imprimono alla competizione per il potere i caratteri dell’apertura e
dell’espansività – per cui nuovi interessi sociali, ed i gruppi che li rappresentano e che si muovono al fine di
tutelarli, vengono continuamente attratti nell’orbita della lotta per i ruoli di governo, alla quale essi partecipano
offrendo sostegno in cambio dei diritti che la classe politica produce o promette di produrre (specie in campagna
elettorale).
2. Per l’altro verso, e in connessione, una volta fermati i nessi teoricamente significativi per lumeggiare la
comunicazione politica dei gruppi di pressione in relazione a singole fattispecie – rappresentative dei ruoli e/o
delle situazioni rilevanti ai fini della loro piena comprensione –, l’intelaiatura esplicativa può essere
facilmente impiegata per dare conto, per via analogica, di una fenomenologia più ampia. In questo
senso, invece di esplicitare ogni possibile declinazione empirica dello schema, allargando il raggio dell’analisi,
proveremo a spostare il fuoco sopra un caso particolarmente rilevante nelle società contemporanee, quello dei
mass media – la cui trattazione sarà funzionale ad evidenziare le distanze che distinguono il nostro approccio da
quelli più largamente impiegati nello studio della comunicazione politica, recanti un’evidente impronta
massmediologica.

I LIMITI ALLA PRESSIONE POLITICA: QUALCHE ESEMPIO

Per quanto riguarda le relazioni tra potere politico e rappresentanza degli interessi, l’intelligibilità delle azioni che i
vari gruppi di pressione tengono nei confronti della classe politica, finalizzate ad ottenere policy che consentano
loro di condurre efficacemente e in modo remunerativo la loro attività, non è certamente agevolata da
rappresentazioni semplicistiche, tese ad asserire l’assoluto predominio dei grandi gruppi sui concorrenti dotati di
minori risorse, nonché sul governo, che sarebbe invariabilmente condizionato dalle loro sollecitazioni.

Insomma, da una parte, la pressione designa un campo di fenomeni ineliminabili dall’orizzonte delle poliarchie;
dall’altra parte, la loro manifestazione non deve indurci a ritenere che le decisioni assunte dai governi o i punti
programmatici adottati dai partiti siano il semplice riflesso delle domande qualificate avanzate dalle organizzazioni
di rappresentanza degli interessi.

A questo proposito, una certa cautela è suggerita non solo dalla natura pluralistica dei regimi democratici, che fa sì
che le richieste provengano da una platea assai estesa di attori – che verosimilmente si muovono a tutela di
posizioni differenziate quanto non incompatibili; ma anche dalle difficoltà che i medesimi gruppi incontrano nel
conferire efficacia al loro comportamento.

A questo riguardo, Key (1948) distingue i problemi interni, relativi alla mobilitazione del consenso della
membership a supporto delle istanze indirizzate alla politica, da quelli esterni, che riguardano la propaganda che i
gruppi dirigono verso i non membri e, in generale, all’opinione pubblica, al fine di conquistarne l’appoggio. Tra
questi ultimi, che limitano le possibilità di guadagnare consenso per le loro posizioni di policy – e dunque riducono
drasticamente la probabilità di interloquire efficacemente con il potere politico, ottenendo i provvedimenti
perseguiti, spiccano:

1. le risorse che è necessario investire, nonché il livello a cui occorre operare, al fine di intraprendere una
campagna mediatica capace di incidere significativamente sull’opinione pubblica, sembrano essere fuori dalla
portata della maggior parte dei gruppi di pressione;
2. a volte, il carattere aperto della comunicazione indirizzata all’opinione pubblica a scopi persuasivi può
danneggiare, anziché avvantaggiare, la causa del gruppo, specialmente se riguarda questioni controverse,

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eticamente sensibili o che riguardano i diritti delle minoranze – come accade non di rado per questioni quali
l’aborto, l’omosessualità o la disciplina dei flussi migratori;
3. i gruppi che agiscono come sponsor delle campagne di pubblicità finalizzate a convincere l’opinione pubblica
possono temere che i loro sforzi si traducano in effetti negativi qualora il loro sostegno alla causa fosse rivelato
pubblicamente: per esempio, il supporto assicurato alla campagna di un candidato che intende alleggerire i
vincoli sul fumo nei locali pubblici in nome della libertà individuale, da parte di una lobby legata all’industria del
tabacco, potrebbe ritorcersi in una censura del candidato stesso, qualora il sostegno goduto presso la lobby – in
termini di risorse economiche e/o di comportamento di voto – diventasse di dominio pubblico.

Insomma, la tesi di Key è piuttosto nitida: se «non vi è dubbio che le influenze di gruppo condizionino il voto», la
natura di quel condizionamento nonché il ruolo della leadership dei gruppi di pressione nel finalizzare il sostegno
alla classe politica, orientando il comportamento elettorale dei seguaci, a fatica possono essere spiegati ricorrendo
a teorie che imbastiscono nessi troppo meccanici o semplicistici tra appoggio delle organizzazioni di interesse e
formulazione di linee di policy a loro favorevoli.

LE MODALITA’ DELL A PRESSIONE POLITICA

I principali contributi di taglio politologico che si sono occupati di definire le tattiche finalizzate ad ottenere le policy
auspicate dai gruppi di pressione assecondano una lettura per cui la molteplicità delle condotte tenute da questi
attori appare irriducibile ad un’analisi sistematica. Tra le tipologie formulate per catturarne le manifestazioni,
convenzionali e non convenzionali, figura quella classica di Meynaud, il quale distingue cinque categorie:

1. la persuasione, grazie alla quale i rappresentanti dei gruppi di pressione mirano a «convincere l’autorità
competente della giustezza delle proprie rivendicazioni […] attraverso l’esposizione di argomentazioni razionali»
(MEYNAUD 1972, p. 186), perciò la comunicazione e le abilità comunicative degli attori acquistano qui una
centralità assoluta;
2. le minacce: solitamente rappresentano una reazione al comportamento poco ricettivo o di chiusura che le élites
politiche oppongono alle richieste formulate dai gruppi e si possono articolare a diversi livelli;
3. l’elargizione di risorse economiche, in particolare di denaro: a livello collettivo, si tratta del finanziamento
dei partiti politici, che è ammesso ed esplicitamente regolato in molte poliarchie contemporanee (inclusa l’Italia),
mentre a livello individuale questa modalità sfocia facilmente nelle pratiche di corruzione;
4. il sabotaggio dell’azione governativa può esprimersi attraverso diverse forme: recentemente, una molto
impiegata è rappresentata dal rifiuto di pagare le imposte – più volte minacciato, per esempio, dalle
organizzazioni vicine alla Lega (Nord) in Italia, tra il 1992 e il 2014;
5. l’azione diretta, di cui lo sciopero, ovvero l’astensione dal lavoro da parte degli iscritti ai sindacati, costituisce
la modalità più nota, che ormai trascende l’originario ambito privato ed economico per assumere una valenza
invariabilmente politica – il fatto che in molti casi i principali danneggiati da queste azioni siano i cittadini
sovente costituisce per i gruppi un incentivo ad adottarle, nella convinzione che i governanti o i partiti si
dimostreranno più morbidi nei confronti delle loro richieste pur di evitare sacrifici ai governati.

L’elenco non va considerato come un repertorio di tattiche a cui i gruppi possono indifferentemente attingere. Al
contrario, gli attori incontrano diversi limiti alla loro libertà di ricorrere all’una o all’altra forma di pressione: per
esempio, le risorse disponibili e/o che si desiderano utilizzare per ottenere il comportamento conforme dalla classe
politica, che spesso sono esigue per le organizzazioni di ridotte dimensioni; o, ancora, l’esistenza di quel che
Meynaud chiama «veto sociale», per cui l’utilizzo di certe modalità di pressione (quali la corruzione, la concussione
oppure l’azione diretta) appare precluso – anche al fine di non alienarsi spezzoni significativi dell’opinione pubblica.

SISTEMI POLITICI E TECNICHE DI PRESSIONE

Fra i fattori che vincolano la scelta delle tecniche adeguate ad indirizzare efficacemente la pressione, rientrano non
solo le differenti morfologie istituzionali che contraddistinguono le democrazie contemporanee (presidenzialismi,
semipresidenzialismi e parlamentarismi), ma anche le relazioni che si instaurano, sul piano strutturale, tra sistema
partitico, partiti e gruppi di pressione. A questo riguardo, il contributo classico di Gabriel Almond (ALMOND 1958)
rappresenta tuttora un opportuno tentativo di classificazione.

Ponendosi all’interno di un approccio sistemico alla politica, egli concepisce l’insieme dei gruppi di pressione
operanti in un dato regime democratico nei termini di un vero e proprio sotto-sistema sociale, del quale le autorità
politiche tengono conto essenzialmente nella fase di aggregazione degli interessi, grazie alla quale le richieste
avanzate dai gruppi entrano nel processo politico e contribuiscono ad influenzare il policy-making e perciò gli
output emessi nella società.

Almond abbozza quindi una tipologia dei rapporti che si dispiegano tra gruppi di pressione e sistemi partitici,
considerando principalmente due criteri: il grado di autonomia tra le organizzazioni politiche e di pressione; il
grado di ideologizzazione dei partiti. Dalla combinazione di questi aspetti scaturiscono conseguenze ben precise,
soprattutto in relazione all’ampiezza degli interessi rappresentati dal policy-making e al funzionamento delle
burocrazie. Restringendo lo sguardo alle poliarchie, la focalizzazione di queste dimensioni restituisce la tripartizione
esposta nella tabella che segue.

GRUPPI DI INTERESSE E SISTEMA POLITICO (ALMOND)

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SISTEMA POLITICO E PRESSIONE POLITICA

- Nel sistema di tipo anglo-americano le funzioni dei partiti politici e dei gruppi di interesse sono nettamente
differenziate. I secondi articolano le domande politiche nel campo sociale, tentando di irrobustirle con un largo
sostegno pubblico, al fine di arrivare alla trasformazione delle richieste avanzate in esiti decisionali (politiche
pubbliche), mediante l’influenza esercitata sui leader politici. D’altro canto, i partiti tendono ad essere svincolati
dall’ideologia e a mostrarsi «aggregativi», cioè ad ottenere consenso da un ampio spettro di gruppi di interesse,
offrendo, in termini di policy e di candidati ad occupare i ruoli politici, scelte a loro appetibili. Tanto il sistema
partitico, quanto il sottosistema dei gruppi di pressione appaiono differenziati, burocratizzati e autonomi. Essi
sono accomunati da una cultura politica omogenea «Questo insieme di relazioni tra il sistema dei partiti e il
sistema dei gruppi d’interesse permette quindi che la scelta tra indirizzi politici generali possa avvenire in sede
legislativa e assicura che la burocrazia tenderà a funzionare come uno strumento neutrale delle agenzie
politiche» (ALMOND 1958, p. 275).

- In Italia (I Repubblica, 1945-1992) e in Francia (IV Repubblica, 1945-1958) i partiti e i gruppi di interesse
appaiono solidamente organizzati e burocratizzati, ma non costituiscono entità autonome. Anzi, la loro
compenetrazione contribuisce a sovrapporre e a confondere, sul piano sistemico, le fasi di articolazione e di
aggregazione degli interessi. Esempi: alcuni partiti controllano determinati gruppi di interesse – come nell’Italia
degli anni Cinquanta, dove il PCI indirizza le decisioni del sindacato a maggioranza comunista, la CGIL; oppure, vi
sono gruppi di interesse o soggetti sociali assai importanti che detengono il controllo di altre organizzazioni - si
pensi alla Chiesa cattolica che, negli stessi anni, esibiva una influenza significativa sui movimenti sindacali
ispirati al cristianesimo sociale e al cattolicesimo democratico (CISL, ACLI), così come le grandi associazioni di
categoria degli imprenditori (si pensi alla Confindustria) esibiscono un collegamento privilegiato con i partiti laici,
come il Partito Liberale o il Partito Repubblicano. In un contesto politico profondamente segnato dalle ideologie,
allorché le forze politiche controllano i gruppi d’interesse, solitamente le prime limitano le facoltà dei secondi di
avanzare richieste specifiche e pragmatiche, pregiudicando l’efficacia della articolazione degli interessi. Ne viene
che il processo politico viene inondato da richieste di policy non elaborate, grezze, particolaristiche ovvero
accentuatamente ideologiche. Il rendimento politico di queste democrazie è perciò scarso: l’emanazione di
politiche pubbliche plasmate da interessi ristretti e da tendenze ideologiche, refrattarie al compromesso: in
assenza di una legislazione adeguata a licenziare decisioni politiche di rottura della routine e di ampia portata,
gli interessi particolari e le tendenze ideologiche fanno breccia anche nella burocrazia e ne minano il carattere
neutrale

- i sistemi partitici della Scandinavia (Norvegia, Svezia, Danimarca), del Belgio e dell’Olanda si discostano dai
precedenti per due ragioni. Primo: i partiti paiono adempiere egregiamente alla funzione di aggregazione degli
interessi, che vengono accolti in programmi sufficientemente generali, elaborati dalle principali forze politiche
(come i partiti socialisti scandinavi o i partiti confessionali belgi). Secondo: i rapporti tra organizzazioni di partito
e rappresentanza degli interessi sono improntati al consenso; ciò permette la formazione di coalizioni politiche e
sociali stabili, tanto di maggioranza quanto di opposizione. Così, sebbene i sistemi partitici non siano in grado di
aggregare gli interessi con la stessa efficacia riscontrata nei sistemi anglo-americani, il policy-making non risulta
limitato dalle rigidità ideologiche e/o dai particolarismi, alla stregua di quel che si ravvisa nei sistemi francese e
italiano. La cultura politica consensuale, superando le divisioni ideologiche, consente di realizzare compromessi
sociali che operano sia a livello della aggregazione degli interessi – dove i partiti funzionano da selettori e da
semplificatori delle richieste avanzate dai gruppi, condensandoli in programmi di azione politica complessiva –
sia nel policy-making parlamentare, dove il perseguimento di contenuti di policy favorevoli consente di costruire
coalizioni di interesse sulle singole issues, tra gruppi di pressione, partiti di maggioranza e partiti di opposizione.
Ciò si riverbera pure nel carattere neutrale dei corpi amministrativo-burocratici.

In sintesi, al di là dei casi storici, Almond asserisce che i rapporti tra partiti politici e gruppi di interesse possono
essere concettualizzati nei termini di un continuum, delimitato, da una parte, dalla situazione di reciproca
autonomia, nonché, dall’altra, dai casi di sovra- (o sub-) ordinazione. Il punto che vale la pena sottolineare,
comunque, è che, sul piano empirico, entro la cornice democratica tra queste due categorie di attori l’influenza
opera (sempre) grazie a flussi reciproci e bi-direzionali: a variare sono la direzione prevalente dei flussi e i modelli
stabili di influenza, solitamente determinati dalle specifiche questioni in gioco.

LEZIONE 23- IL RUOLO DEI MEDIA NELLE DEMOCRAZIE

MEDIA, COMUNICAZIONE E PRESSIONE POLITICA

Nella letteratura specialistica, vi sono sostanzialmente due schemi esplicativi che hanno tematizzato i mass media
in rapporto alla comunicazione politica nelle democrazie mature:

1. il modello «pubblicistico-dialogico»;
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2. il modello «mediatico».

Il primo poggia sulla nozione di «spazio pubblico mediatizzato», che, semplificando un poco, discende
intellettualmente dalla elaborazione di Jürgen Habermas (HABERMAS 1984), relativa al concetto di «sfera pubblica
borghese» e al ruolo giocato dell’opinione pubblica europea nella nascita e nello sviluppo dei regimi democratici. In
questo quadro, la comunicazione politica contemporanea viene concepita come il risultato delle interazioni che si
sviluppano tra istituzioni politiche, mass media e cittadini.

IL MODELLO PUBBLICISTICO -DIALOGICO DELL A COMUNICAZIONE POLITICA

Sistema dei Media

Spazio Spazio
comunicativo comunicativo
informatico

Com.Pol.
mediatizzata

Sistema Politico Spazio


condiviso
Cittadini

In pratica, gli attori che, insieme, formano il sistema politico – istituzioni, governo, partiti, leader o candidati alle
elezioni – interagiscono con i cittadini, generando una comunicazione politica immediata, in corrispondenza dello
spazio condiviso.

Dall’altra parte, le relazioni comunicative tra classe politica e sistema dei media si concentrano nell’area spazio
comunicativo, mentre i rapporti che si stabiliscono tra mezzi di comunicazione di massa e cittadini danno luogo alla
sovrapposizione spazio condiviso informatico.

Secondo questo schema, spazio condiviso, spazio comunicativo e spazio comunicativo di tipo informatico
costituiscono gli snodi della comunicazione politica, mentre comunicazione politica mediatizzata, che scaturisce
dalla loro intersezione, circoscrive la comunicazione politica mediatizzata – una interazione perciò trilaterale, che
vede la simultanea partecipazione degli attori politico-istituzionali, dei mezzi di comunicazione di massa e dei
cittadini.

Secondo Mazzoleni, tuttavia, la formalizzazione attribuisce ai media un ruolo contingente e accessorio: «La loro
centralità nella comunicazione politica è soltanto il frutto di un processo evolutivo che li ha visti affiancarsi agli altri
due attori, ma, da un punto di vista astratto, possono benissimo essere assenti, come lo erano appunto all’alba
della democrazia e come, in una improbabile proiezione verso un mondo digitale, potrebbero essere in futuro,
quando ai mass media si sostituiranno i cosiddetti personal media» (Mazzoleni 1998, p. 21).

Insomma, la critica fondamentale che egli rivolge al modello riguarda il fatto che il peso attribuito ai tre ambiti
(politica, media e cittadini) nel determinare gli andamenti della comunicazione politica non riflette le proprietà
della società democratica e mediatizzata di oggi: dove, a parere di questo autore, l’influenza giocata dai media
risulta assai più forte. In altre parole, «è incontestata l’attribuzione di un ruolo imprescindibile ai mass media
nell’arena politica» (Mazzoleni 1998, p. 22, corsivo nostro). Questa osservazione dà luogo alla formulazione di un
modello alternativo, quello mediatico.

In linea con la prospettiva della mediatizzazione della politica, il modello situa i comportamenti degli attori politici
entro lo spazio mediale o comunque li intende come dipendenti dall’azione dei mass media (grazie al
recepimento della media logic). Questi ultimi ricoprono essenzialmente il ruolo di canalizzare le relazioni
comunicative tra P e C, «fungono da ribalta dell’azione politica, e al tempo stesso sono interlocutori di entrambi gli

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attori, condizionano la natura dei loro rapporti, obbligano le istituzioni, i partiti, i leader, i cittadini ad adattarsi alle
logiche che governano la comunicazione di massa» (MAZZOLENI 1998, p. 23).

Il mutamento di ottica rispetto al modello pubblicistico-dialogico implica il fatto che il sistema dei media non viene
considerato come uno degli attori che danno forma allo spazio pubblico: bensì si identifica, nella sostanza, con
esso. In stretta aderenza a questa impostazione, come sappiamo, Mazzoleni definisce la comunicazione politica
come «lo scambio e il confronto dei contenuti di interesse pubblico-politico prodotti dal sistema politico, dal
sistema dei media e dal cittadino-elettore» (MAZZOLENI 1998, p. 29).

Orbene, quali sono il ruolo e la funzione che i due modelli attribuiscono ai mass media nel quadro del processo
politico democratico? Per rispondere al quesito, occorre procedere per gradi.

MEDIA “OBIETTIVI”?

Cominciamo col fissare l’attenzione sull’attività principale dei mezzi di comunicazione di massa (giornali, radio, TV,
Rete, social networks). Si tratta di un sistema che veicola informazioni: cioè, diffondono messaggi, che si
compongono di descrizioni e di rappresentazioni di fatti e/o di valori, ad un pubblico generale o specifico. Da
questa affermazione, che a prima vista può apparire del tutto banale, derivano una serie di conseguenze rilevanti,
sul piano teorico-analitico.

Prima di tutto, vi è il tema della obiettività delle informazioni veicolate dal sistema dei media, che si pone con
particolare rilievo per le notizie giornalistiche (le news). Quali sono le proprietà che, sul piano concettuale,
contraddistinguono le notizie obiettive? Boyer ne enumera sei (Boyer 1981):

1. «equilibrio e imparzialità nel presentare i diversi aspetti di un problema;


2. accuratezza e realismo;
3. presentazione di tutti i punti rilevanti;
4. separazione dei fatti dalle opinioni, senza trascurare queste ultime;
5. minimizzare l’influenza delle opinioni o del coinvolgimento dell’autore;
6. evitare forzature, rancori o partigianerie»

Il leit motiv dell’elenco risiede nella convinzione per cui è possibile sottrarre l’informazione dai condizionamenti e
dalle distorsioni provenienti dal canale (mass medium) attraverso cui il messaggio viene confezionato e propagato.
E tuttavia, decenni di cronaca politica, oltre che una messe di dati accumulati da un consistente numero di ricerche
scientifiche, dimostrano che, nelle società pluralistiche, l’idea di neutralizzare completamente le fonti di
distorsione dell’informazione rischia di rivelarsi una illusione, poiché «Non c'è dubbio […] che i giornalisti
possiedono in qualche grado l’autonomia e l’autorità per rappresentare il mondo in conformità alle loro idee. Non
‘trascrivono’ semplicemente una serie di eventi intellegibili».

«Le notizie non sono uno specchio della realtà. Si tratta di una rappresentazione del mondo, e tutte le
rappresentazioni sono selettive. Questo significa che alcuni esseri umani devono fare la selezione: alcune persone
prendono decisioni su cosa presentare e su come farlo». (Schudson 2003, p. 18 e p. 33.)

Tuttavia, gran parte delle deviazioni non sono di origine personale: non derivano cioè da un deliberato tentativo, da
parte degli operatori dei media, di manipolare l’informazione, bensì da condizionamenti esterni. A questo riguardo,
la selettività risponde ad un bisogno generale di semplificazione, nonché agli imperativi del mercato – poiché non
bisogna dimenticare che nelle poliarchie il sistema dei media è costituito principalmente da unità che di fatto sono
«imprese commerciali, non da istituzioni di servizio pubblico. Il loro funzionamento è perciò condizionato dalla loro
natura commerciale. Essi vendono pubblicità in una forma o nell’altra, e la attirano principalmente grazie ai
programmi di intrattenimento. Solo in modo discontinuo raccolgono e diffondono informazioni politiche» (Key 1961,
pp. 378-379). Il punto rimane che «Esistono, comunque, dei limiti al grado di obiettività realisticamente
conseguibile».

OBIETTIVITA’ DEI MEDIA VS. MERCATO MEDIATICO

Dunque, l’assoluta obiettività delle informazioni diffuse dai media individua un limite ideale a cui
tendere, più che una osservazione empiricamente verificata. Inoltre, l’oggettività e la descrizione neutrale dei fatti
e dei valori trasmessi con la comunicazione potrebbe rivelarsi incompatibile con altre caratteristiche necessarie ai
messaggi veicolanti le news, perché ne rafforzano l’attrattività presso il pubblico o i pubblici di riferimento –
proprietà assai rilevante in un’ottica di libero mercato.

Per esempio, la mobilitazione dei sentimenti di sdegno e di rabbia associati alla descrizione di certi fatti di cronaca
verso i quali l’opinione pubblica si rivela attenta – omicidi efferati, crimini commessi ai danni di soggetti deboli
come gli anziani o i bambini, episodi di malcostume di cui si rendono protagonisti i politici, solo per citare qualche
caso – ha fatto la fortuna, in termini di audience, di taluni contenitori televisivi (La vita in diretta sulle reti Rai o
Pomeriggio Cinque nel palinsesto Mediaset, per rimanere nel nostro Paese), non di rado però a scapito di una
informazione obiettiva, nel senso precisato – che cioè trascura la comunicazione di tutti gli aspetti rilevanti della
vicenda trattata, sottovalutando gli elementi che mettono in discussione la rappresentazione mediaticamente più
‘attraente’ dei fatti e degli attori coinvolti, additando più o meno esplicitamente i «colpevoli» alle folle mediatiche.

In questi casi, diventa particolarmente importante distinguere le componenti che si frappongono


all’obiettività della comunicazione: un conto sono le distorsioni che dipendono da fonti non accurate o dalla
fretta con la quale le informazioni sono state confezionate, tutt’altro conto sono gli aspetti manipolatori, derivanti
dalla deliberata intenzione di esercitare potere facendo leva su informazioni a vario titolo ‘contraffatte’, come
accade con le cosiddette fake news. A tale proposito, Peter Golding (GOLDING 1981) ha abbozzato una tipologia
delle pratiche giornalistiche che inibiscono l’obiettività delle notizie, basata essenzialmente su due criteri: il
carattere nascosto o palese delle distorsioni operate; il loro grado di intenzionalità.

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TIPI DI DISTORSIONE DELLE NEWS AD OPERA DEI MEDIA SECONDO GOLDING – IL COMPORTAMENTO
DEI NEWS MEDIA: AGENDA-SETTING, FRAMING, PRIMING

La tematica relativa al carattere non obiettivo delle informazioni veicolate dai mezzi di comunicazione di massa

acquista una salienza ancora più spiccata in relazione agli effetti che la scienza politica attribuisce alla loro azione
entro una cornice democratica, che si possono riassumere nei modelli centrati sui concetti di agenda-setting,
framing e priming. Vediamo, in via semplificata, di che si tratta.

Con la prima nozione, introdotta nella letteratura specialistica nei primi anni Settanta, ci si riferisce solitamente
all’idea che vi sia «una forte correlazione tra l’enfasi che i mass media pongono su alcuni temi (per esempio, in
base al posizionamento relativo o alla quantità di copertura) e l’importanza attribuita a questi temi dal pubblico di
massa» (SCHEUFELE – TEWKSBURY 2007, p. 11).

Cioè: nella misura in cui i media danno risalto a questioni ben precise (l’immigrazione, la sicurezza urbana, la
pressione fiscale, la qualità dell’assistenza sanitaria, e altro ancora), secondo varie modalità (facendone il tema di
apertura delle edizioni dei telegiornali, dedicandovi tempo e spazio, oppure assicurando un approfondimento
mirato all’informazione), detengono un potere di «fissare l’agenda», appunto, del dibattito pubblico: ciò sulla
base dell’assunto che quanto più le issues assumono rilevanza nella trattazione operata dai media,
tanto più catturano l’attenzione del pubblico e, di conseguenza, ne amplificano la rilevanza. Si dà così
per scontata l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa sulle dinamiche di azione collettiva: un aspetto che,
come vedremo, è invece piuttosto problematico. La questione appare legata anche all’accessibilità degli strumenti
mediatici: in tal senso, una domanda interessante riguarda quali temi acquistano la ribalta nella cronaca – e quindi
vanno a condizionare l’agenda pubblica – e quali ne rimangono invece esclusi. Ad esempio, uno studio condotto
negli Stati Uniti relativo alla copertura assicurata dai notiziari alle issues di interesse per un campione di 244
gruppi di pressione, nonché alla loro attività, ha dimostrato che solamente le organizzazioni che
dispongono di una ingente quantità di risorse economiche e che possono contare su una robusta
membership riescono ad assicurarsi una posizione di rilievo nelle news.

La problematicità dell’accesso ai media riguarda anche il priming, che viene spesso inteso come una articolazione
dell’agenda-setting: si verifica quando le news veicolate dai media «suggeriscono ai pubblici quali temi dovrebbero
utilizzare come parametri per valutare la performance dei leader e dei governi» (SCHEUFELE – TEWKSBURY 2007,
p. 11). La vicinanza semantica al potere di fissare l’agenda origina da due tratti che i concetti hanno in comune:
per un verso, entrambi gli effetti si fondano su modelli di elaborazione delle informazioni che
conferiscono centralità ai processi mnemonici dell’uditorio – i quali postulano che gli attori prendano
decisioni sulla base di atteggiamenti, la cui formazione è direttamente correlata alla facilità di ricordare
determinate informazioni (o associazioni tra informazioni), presenti nelle news; per l’altro, tra agenda-setting e
priming si può verificare una sorta di collegamento temporale, di modo che l’una funge da premessa
per l’altro: nella misura in cui l’effetto di agenda-setting contribuisce a rendere più vivide nella memoria del
pubblico certe questioni, i mass media plasmano le considerazioni di cui i cittadini tengono conto allorché devono
formulare valutazioni relative a candidati o a tematiche politiche (priming).

IL FRAMING

Con il framing, di cui abbiamo già discusso in relazione alla teoria comunicazionale del potere sostenuta da
Castells, nonché in rapporto alla comunicazione elettorale dei leader democratici, si sposta invece il fuoco sulle
modalità che caratterizzano l’inquadramento, appunto, di un certo oggetto nei notiziari e più in generale
nei media, che a sua volta può esercitare una influenza significativa sul ricevimento e sulla
comprensione del medesimo oggetto da parte del pubblico. I materiali di costruzione del concetto derivano
essenzialmente dalla sociologia e della psicologia sociale, specialmente per quel che riguarda la ricezione ed il
significato degli input comunicativi – che chiamano in causa i

«quadri primari» con cui gli individui classificano le informazioni e attribuiscono senso alla realtà (GOFFMAN 1974).

Infatti, i modelli esplicativi fondati sugli effetti di framing, insistono anche sulla loro operatività ad entrambi i livelli,
sia micro (l’individuo) che macro (la società). A questo proposito, il fenomeno «si riferisce alle modalità di
comunicazione che i giornalisti e gli altri operatori impiegano per presentare le informazioni in un modo che
riecheggia gli schemi sottostanti e già esistenti presso il pubblico» (SCHEUFELE – TEWKSBURY 2007, p. 12). Ciò non
vuol dire che i media inventino delle storie o che mirino ad ingannare i cittadini: anzi, per certi aspetti, il framing
costituisce un necessario strumento di riduzione della complessità degli eventi comunicati con le
news, a fronte dei vincoli di tempo e di spazio imposti dai mezzi di comunicazione di massa (in particolare dalla
televisione: GANS 2004). In altre parole, la comunicazione di questioni difficili da spiegare ad un pubblico di massa
(esempi: ricerca sulle cellule staminali, il processo di formazione di un governo in un sistema partitico multipolare
come quello italiano in assenza di un chiaro verdetto elettorale, oppure ancora l’innalzamento del costo del denaro
a livello globale) rende indispensabile la semplificazione, grazie ai costrutti cognitivi abitualmente impiegati dai
destinatari – per esempio, gli schemi binari che oppongono concetti quali religione e scienza, governabilità e
rappresentanza, domanda e offerta sui mercati.
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Alla luce di queste considerazioni, la nostra discussione intorno alla obiettività delle informazioni propagate dai
media non si presta a conclusioni generiche, lasciando all’indagine empirica la verifica della misura in cui le news
sono aderenti ai fatti e ai valori che le emittenti intendono portare alla conoscenza del pubblico.

L’INFLUENZA ESERCITATA DAI MEDIA

Vi è un secondo aspetto che occorre tenere presente al fine di valutare l’efficacia euristica del modello
pubblicistico- dialogico e di quello mediatico, che concerne direttamente il grado di influenza che si può
attribuire ai media rispetto al comportamento tenuto dagli attori coinvolti nella lotta per il potere (leader, gruppi
di pressione e cittadini).

In tal senso, è opinione assai diffusa che il potere attribuito ai media, relativo al plasmare le condotte del pubblico,
entro le arene democratiche sia sovente sovrastimato o esagerato. Perché ciò accade? Come ha efficacemente
sintetizzato Schudson, «Le persone tendono a sopravvalutare il potere dei media per la semplice ragione che sono
la punta visibile dell’iceberg delle influenze sociali sul comportamento umano. Li vediamo, li sentiamo, sono già
esistenti – in effetti, quasi inevitabili. Sono gli ingranaggi di compressione della vita sociale: forti, sgargianti e
insistenti» (SCHUDSON 2003, p. 19).

Queste percezioni relative al potere mediatico non di rado si sono rivelate scorrette o comunque imprecise. Ad
esempio, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, tra gli specialisti della comunicazione era piuttosto
diffusa l’opinione secondo cui il sistema televisivo statunitense ebbe un ruolo decisivo nel mutare le convinzioni
degli americani, favorendo la diffusione di un atteggiamento di massa perlopiù contrario alla continuazione della
guerra del Vietnam.

Invece, fu l’orientamento della pubblica opinione statunitense ad anticipare il ravvedimento dei media: già nel
1967, un sondaggio condotto su un campione rappresentativo di americani mostrava che oltre il 50% della
popolazione riteneva che il coinvolgimento nella guerra del Vietnam fosse un errore. Quindi, il nesso della relazione
era esattamente ribaltato rispetto alla convinzione diffusa: non fu la rappresentazione mediatica a cambiare
i convincimenti condivisi a livello di massa, bensì furono questi ultimi a determinare una discontinuità
nell’atteggiamento dei principali media verso la guerra (da favorevole a ostile).

UNA INFLUENZA SOVRASTIMATA?

Le ragioni che inducono a sopravvalutare il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa non si riducono alla loro
visibilità sociale.

Ci limitiamo a richiamarne (ancora) qualcuna. Lo stesso Schudson rileva che spesso non è facile distinguere il
«potere dei media» dal potere dei soggetti e/o degli eventi a cui essi garantiscono copertura: ovvero,
non è chiaro se le emittenti producono notizie grazie alle loro di doti di autonomia, di libertà e di capacità di filtro
rispetto a quel che accade; oppure se esse riportano al pubblico di massa ciò che attori veramente potenti – come
il Presidente degli Stati Uniti, le grandi corporations e gli sponsor che ne finanziano l’attività, oppure ancora i
maggiori partiti politici – esigono che trasmettano.

IN QUESTE ULTIME SITUAZIONI, LA FONTE DEL POTERE ANDREBBE PERCIÒ CORRETTAMENTE


INDIVIDUATA NON NEI MEDIA , BENSÌ NEGLI ATTORI CHE LI IMPIEGANO SEMPLICEMENTE COME
CANALE DI AMPLIFICAZIONE DEL PROPRIO MESSAGGIO (A SCOPI PERSUASIVI).

Key, interessandosi al ruolo delle comunicazioni di massa come «artefici dell’opinione pubblica» negli Stati Uniti,
punta l’attenzione su quel che limita la loro capacità di dare forma al comportamento collettivo: per esempio, egli
asserisce che l’ampiezza del pubblico raggiunto dallo stimolo comunicativo riveste, a questo riguardo,
un’importanza cruciale, poiché «i confini del pubblico determinano l’area della influenza diretta dei mass media;
un messaggio non udito è un messaggio inascoltato» (KEY 1961, p. 345). Il che risulta ancor più complicato dal
fatto che non esiste un’unica platea di destinatari, bensì differenti pubblici, raggiunti da circuiti mediatici alternativi
(attualmente, radio, TV, carta stampata, Internet e social networks), le cui frontiere non sono chiaramente
delineate – anzi, le variegate comunità di utenti mediatici si sovrappongono le une con le altre. Inoltre, un ulteriore
contenimento della (potenziale) influenza esercitata dai mass media viene dal fatto che i riceventi sono
naturalmente portati a selezionare i contenuti dei flussi comunicativi a cui decidono di esporsi e di
prestare attenzione – ciò appare particolarmente interessante in relazione alle dinamiche del processo politico
(«Le persone sembrano prestare attenzione agli stimoli con cui sono d’accordo, non a quelli che cercano di
convertirli»).

Cioè: la comunicazione persuasiva veicolata dai media nell’arena mediatica incontra un ostacolo
decisivo laddove si infrange contro il muro eretto dalle opinioni preesistenti dei cittadini – si noti la
concordanza con la teoria del framing: nella misura in cui gli intimi convincimenti degli individui contrastano in
modo stridente con il contenuto della comunicazione, è molto difficile che essi cambino i propri atteggiamenti o le
proprie idee. Questi dinamismi sono stati verificati, più recentemente, anche per il sistema politico italiano, dove si
registra «un fortissimo allineamento fra preferenze televisive e preferenze politiche. In sostanza, chi guarda più
spesso le reti Rai tende a votare per il centrosinistra, mentre chi guarda più spesso le reti Mediaset tende a votare
per il centrodestra» (LEGNANTE 2006, p. 442). Insomma, i soggetti inclinano a non esporsi ai media valutati come
appartenenti al campo avversario; inoltre, qualora gli input provenienti da queste fonti dovessero raggiungerli, non
riuscirebbero probabilmente a modificarne né il pensiero, né il comportamento, in quanto dissonanti rispetto agli
atteggiamenti già sedimentati nella loro personalità.

Una ulteriore articolazione di questa riflessione induce a considerare che, molto frequentemente, gli individui non
sono isolati, ma sono membri di gruppi sociali (famiglia, amici, colleghi di lavoro), di interesse (sindacato,
associazione di categoria, chiesa) o politici (partiti, movimenti) che, tra le altre cose, tendono a circoscrivere il
raggio dei messaggi – e quindi dei media – ai quali essi si espongono: il pubblico di massa è costituito da
soggetti che, nel contesto democratico, sono sottoposti ad una molteplicità di influenze, scaturenti da
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un’ampia gamma di gruppi di pressione – nel senso che le credenze, i punti di vista e i principi individuali sono
in parte il prodotto dell’interazione con questi attori, tanto formali quanto informali.

UNA VALUTAZIONE DEL MODELLO PUBBLICISTICO -DIALOGICO

Il tema dell’influenza induce a riportare l’attenzione sui due modelli introdotti in precedenza, al fine di accertare la
loro capacità di lumeggiare il ruolo dei media in democrazia.

Limitandoci a qualche osservazione sintetica, sul piano esplicativo-teorico il modello pubblicistico-dialogico


presta il fianco a più di una critica. Per quali motivi?

Primo: schematizzazione semplificata, in misura forse eccessiva: ad esempio, la comunicazione politica dei gruppi
di pressione non vi trova alcuno spazio autonomo, mentre il «sistema politico» indica un contenitore entro cui
agiscono attori diversi, dai leader ai partiti alle istituzioni ai partiti, che sul piano analitico conviene mantenere
distinti e qualificare in maniera specifica, anche a livello comunicativo.

Secondo: l’equiparazione dei mass media agli attori strictu sensu politici appare una imprecisione grave: perché,
come ha rilevato Mazzoleni, la salienza relativa dei tre attori non è la stessa. Ma anche per un’altra ragione. In che
cosa consiste la lotta per il potere politico in democrazia? È una competizione alla quale partecipano i leader ed i
partiti politici (la classe politica), che ricercano potere sotto forma di ruoli di autorità. Per prevalere nella contesa
(vincere le elezioni, conquistare, mantenere o allargare il proprio potere), gli attori politici offrono ai gruppi di
pressione e ai cittadini promesse di decisioni politiche (aggregate in programmi, che specificano gli orientamenti di
policy nelle varie aree di intervento: dall’economia alle misure di welfare, dal posizionamento nell’arena
internazionale alla definizione delle politiche di sviluppo a lungo termine), al fine di intercettarne il consenso –
giacché essi domandano alla politica la produzione di potere sotto forma di diritti. Dall’incontro-concatenazione di
queste condotte scaturisce lo scambio politico. Secondo questo schema teorico, i mass media possono allora
giocare un duplice ruolo:

1. nel processo politico, essi possono agire come gruppi di pressione: quindi, come attori non politici, che
non partecipano direttamente alla lotta per il potere, bensì si rivolgono alla classe politica per ottenere tutela dei
loro interessi specifici (esercitare in modo remunerativo la loro attività di comunicazione), assicurando in cambio
il loro sostegno selettivo (o minacciandone il ritiro e/o il riorientamento sugli avversari);
2. a livello della struttura politica, i mezzi di comunicazione di massa designano un elemento che
appartiene al contesto poliarchico, giacché una delle garanzie della poliarchia consiste nella
pluralità delle fonti di informazione: in altre parole, essi trasmettono notizie, cognizioni, dati e orientamenti
culturali che per definizione contribuiscono a configurare e a modificare il bagaglio delle conoscenze di fatto e
delle credenze di valore degli attori sociali; nella misura in cui il comportamento sociale scaturisce dagli
atteggiamenti mentali dei soggetti, senza sovrastimarne l’influenza, l’attività dei media identifica una causa, fra
le altre, del comportamento tenuto della classe politica, dei gruppi di pressione e dei cittadini (SCHUDSON
2003, pp. 24-27).

NEL MODELLO PUBBLICISTICO-DIALOGICO, NON VI È ALCUNA TRACCIA DI QUESTA ARTICOLAZIONE SU


DUE PIANI DI ANALISI: AL CONTRARIO, IL SISTEMA DEI MEDIA VIENE CONSIDERATO UNA DELLE FONTI
GENERATIVE DELLO SPAZIO PUBBLICO E, PERCIÒ, GLI SI ATTRIBUISCE UN RUOLO POLITICO,
ESATTAMENTE COME ACCADE PER I CITTADINI E PER IL SISTEMA POLITICO – IL CHE È FUORVIANTE, DAL
NOSTRO PUNTO DI VISTA. D’ALTRO CANTO, L’ACCOSTAMENTO DI MATRICE PUBBLICISTICO-DIALOGICA
NON TEMATIZZA NEPPURE IL RUOLO DEI MEDIA COME GRUPPI DI PRESSIONE, PRECLUDENDOSI COSÌ DI
COGLIERE IL SENSO DEI LORO COMPORTAMENTI COMUNICATIVI.

UNA VALUTAZIONE DEL MODELLO MEDIATICO

Per un verso, lo schema identifica correttamente il ruolo che i mass media esercitano sul piano strutturale, in
connessione alla comunicazione politica delle democrazie di massa. Grazie a questa mossa, il modello sfugge alle
obiezioni che colpiscono al cuore l’efficacia euristica di quello pubblicistico-dialogico, giacché non vi è alcuna
assimilazione agli attori politici. Per l’altro verso, tuttavia, neppure l’accostamento mediatico è immune a
qualche rilievo: in primo luogo, esso trascura, in misura considerevole, le implicazioni teoriche che
derivano dal considerare l’arena mediatica come un elemento (ovvero l’elemento più importante, sul piano
della comunicazione politica) del quadro democratico; in connessione, il modello mediatico considera i
mass media esclusivamente come elementi del contesto poliarchico, trascurando del tutto il fatto che
possono agire come un gruppo di pressione.

Quanto al primo aspetto, poiché i media sono canali di propagazione dei messaggi politici, rispetto alla loro attività
comunicativa possono darsi (almeno) due casi:

1. essi possono fungere da semplice strumento, utilizzato in modo più o meno efficace da attori politici e
sociali che, attraverso un sapiente adeguamento della loro condotta comunicativa ai parametri della media logic,
ottengono di amplificare il loro messaggio, nell’ambito di una strategia complessa, finalizzata all’allargamento
della ricerca del sostegno politico: secondo un autorevole osservatore, «l’amplificazione pubblica fornisce una
certificazione di importanza» (Schudson 2003, p. 30) alle issues e dunque rappresenta un potente fattore di
condizionamento del comportamento sociale – in questo senso, tuttavia, i soggetti attivi delle relazioni di potere
sono, appunto, gli attori che impiegano i media in chiave strumentale;
2. giacché, come abbiamo succintamente mostrato, non è realisticamente possibile parlare di una informazione
pienamente obiettiva, occorre accertare il grado in cui i contenuti di vario tipo diffusi in modo autonomo dai
media indirizzano in un senso o nell’altro le condotte degli attori che hanno rilevanza politica (leader, gruppi di
pressione, cittadini).

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Relativamente al secondo aspetto, il modello mediatico non riesce a superare l’impasse teorica che abbiamo già
rilevato nel modello pubblicistico-dialogico, poiché nemmeno entro questa cornice teorica viene considerato il caso
in cui i media articolano una comunicazione esplicitamente finalizzata ad ottenere, dalla classe politica,
l’emanazione di specifici diritti.

MEDIA E COMUNICAZIONE POLITICA IN DEMOCRAZIA: LE DIMENSIONI DI ANALISI

MEDIA E COMUNICAZIONE POLITICA IN DEMOCRAZIA: CONCLUSIONI

Un’analisi complessiva dei mass media in democrazia deve necessariamente articolarsi su più livelli.
La focalizzazione della dimensione strutturale riguarda essenzialmente il duplice ruolo dei mezzi di comunicazione
di massa come strumenti (media, appunto), per cui essi identificano sostanzialmente una risorsa a disposizione
degli attori sociali e politici per esercitare potere; ovvero come organizzazioni autonome, che garantiscono il
pluralismo dal versante delle fonti di informazione, e che diffondono messaggi che possono condizionare, in varia
misura, i comportamenti degli attori sociali, poiché concorrono a formare, mantenere o modificare le loro
conoscenze di fatto e le loro credenze di valore.

Allorché si sposta il fuoco sul processo politico, appare corretto studiare i media sub specie di gruppi di pressione,
che si muovono in vista dell’obiettivo di favorire l’ottenimento di determinate policy, appoggiando (o combattendo)
i leader politici che appaiono più (o meno) determinati a produrre i diritti di loro interesse. Nel nostro esame
ravvicinato, appare perciò corretto calcare l’accento su questa dimensione, poco o punto indagata da gran parte
della letteratura specialistica. Ne segue che le questioni dell’obiettività e del quantum di influenza che i media
esercitano, a cui abbiamo dedicato grande attenzione in questa sezione, vanno indagate in rapporto a ciascuna
articolazione dello schema.

Concludendo sul punto, possiamo affermare che la tabella è utile perché getta un poco di luce sui diversi significati
che l’attività dei media assume in rapporto ai sistemi democratici e ci fornisce perciò un prezioso supporto
per coglierne il posizionamento teorico: è superfluo specificare che solo un solido ancoraggio al terreno
empirico consentirà di accertare quale ruolo imputare alle comunicazioni di massa in relazione ai casi concreti,
anche in funzione degli scopi analitici dei ricercatori. È certamente un’operazione complicata: non sempre, infatti,
le risultanze empiriche si allineano placidamente alle categorie omogenee così chiaramente esplicitate in tabella. E
tuttavia, si tratta di confini che, sul piano analitico, conviene mantenere ben fermi: allo stesso modo in cui le
sfumature di luce e di ombra che si verificano nel passaggio dal dì alla sera e poi alle ore notturne non ci portano a
rivedere i concetti di «giorno» e di «notte», allo stesso modo non possiamo rinunciare a disporre di nozioni
altrettanto nitide per articolare il nostro ragionamento intorno alla comunicazione in rapporto ai media, alla
democrazia e ai gruppi di pressione.

LEZIONE 24- LA COMUNICAZIONE POLITICA DEI GRUPPI DI PRESSIONE

COMUNICAZIONE POLITICA E GRUPPI DI PRESSIONE: “MEMBRI” E “SFIDANTI” DEL REGIME

Una volta fissate le coordinate entro cui si articola il comportamento tipico delle organizzazioni di interesse,
nonché i caratteri essenziali che connotano i media in democrazia, volgiamo lo sguardo ai contributi che hanno
esplicitamente trattato il raccordo tra il ruolo che i gruppi di pressione svolgono nel processo politico, da
una parte; con i tratti distintivi della loro comunicazione politica, dall’altra. In altre parole, ci poniamo di
nuovo alla ricerca di un nesso esplicativo tra fattori politicamente significativi e variabili comunicative. A questo
riguardo, il tentativo di Mario Diani e Paolo Donati merita un approfondimento mirato (Diani – Donati 1996).

Il loro retroterra teorico riprende la nostra impostazione analitica, poiché lo studio ha per oggetto «quei soggetti
organizzati, che mirano ad influenzare la produzione delle politiche pubbliche, senza partecipare direttamente, o
comunque stabilmente, alla competizione elettorale» (Diani – Donati 1996, p. 1).

Tale campo di attori non costituisce un insieme indistinto al suo interno: al contrario, essi si differenziano in
rapporto a molteplici dimensioni, dalla quantità (e qualità) delle risorse di cui dispongono fino alla membership
sulla quale possono contare, per non parlare dei settori di attività nei quali operano. Ma a parere di questi studiosi
la frattura più rilevante, sul piano politico, è quella che separa gli attori membri del regime politico da quelli
che ne sono esclusi.

Mentre i primi detengono un accesso «routinizzato» e «a basso costo» alle risorse controllate dai governi
democratici – sono quindi pienamente integrati nel sistema della rappresentanza degli interessi – i secondi, che
vengono denominati sfidanti, non beneficiano di questi canali privilegiati: ciò li pone in una posizione di
svantaggio, giacché per presentare le proprie istanze ai leader politici e per condizionarne il comportamento
potranno contare esclusivamente sulle risorse mobilitabili in proprio, con evidenti ripercussioni sul grado di
efficacia della loro pressione. Per esempio, nel caso italiano, tra i gruppi membri del regime non avremo difficoltà
ad annoverare i grandi agglomerati industriali e commerciali (Fiat-Chrysler, Barilla, Ferrero, Mediaset, Coop, e via
dicendo) o le maggiori associazioni di categoria (Confindustria, Coldiretti) nonché le principali sigle sindacali (CGIL,
CISL, UIL) – tutte organizzazioni che godono di canali di accesso immediati alla classe politica; mentre tra i secondi
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si possono citare i movimenti collettivi di impronta ecologista (come i «No Tav») o «antagonista», di varia
estrazione programmatica ed ideologica (le organizzazioni per il commercio equo e solidale, l’arcipelago dei centri
sociali o ancora il movimento “naziskin”), fino alla galassia dei sindacati autonomi e perfino ai gruppi terroristici.

LE STRATEGIE DELLA PRESSIONE POLITICA

Una seconda linea di frattura rinvenibile nel sistema della rappresentanza degli interessi riguarda le strategie
adottate dagli attori per esercitare la pressione politica. Schematizzando, possiamo distinguere quelle fondate sulla
mobilitazione di risorse materiali (in primis il denaro e gli altri mezzi finanziari) da quelle che contano sulle risorse
di partecipazione (appellandosi fondamentalmente alla membership). Con una precisazione: le modalità prescelte
per attuare il proprio comportamento tipico, la pressione appunto, tendono ad essere esclusive e a imprimere una
certa struttura all’organizzazione, che rispecchia le necessità strategiche: «Le organizzazioni che si concentrano
sulla mobilitazione di risorse finanziarie finiscono per dotarsi di una struttura organizzativa centralizzata e
professionalizzata che le rende inadatte a mobilitare la partecipazione» (DIANI – DONATI 1996, p. 12) e viceversa.

Le due dimensioni analitiche (membri vs. sfidanti; mobilitazione di risorse materiali vs. partecipazione) riguardano
quindi i gruppi di pressione, situati nel processo politico democratico: incrociandole, è possibile approdare ad una
tipologia delle loro forme comunicative.

LE FORME DELL A COMUNICAZIONE POLITICA DEI GRUPPI DI PRESSIONE E DEI MOVIMENTI

IMPLICAZIONI

La tabella illustra la tesi di fondo degli autori: cioè che a determinati ruoli che i gruppi ricoprono nel sistema della
rappresentanza degli interessi (membri o sfidanti) e a seconda delle strategie prescelte per realizzare la pressione
politica (impiegando principalmente risorse materiali o mobilitando la membership, corrispondono diverse modalità
di comunicazione interna ai gruppi così come tra attori sociali e classe politica.

In particolare, è possibile individuare quali organizzazioni impiegano più frequentemente determinate forme
comunicative anziché altre, giacché queste sono il prodotto di specifiche condizioni che presiedono alla loro
strutturazione e al dispiegamento del loro comportamento tipico. Ecco, quindi, il raccordo tra fattori extra
comunicativi, da una parte, e tipi di comunicazione politica, dall’altra, che ci premeva evidenziare.

Il nesso appena identificato genera implicazioni di rilievo. Nello specifico, la comunicazione è una variabile
essenziale affinché la mobilitazione delle risorse – materiali o di partecipazione – da parte dei gruppi si riveli
efficace come arma di pressione finalizzata ad ottenere l’emanazione di determinate politiche pubbliche che
tutelano gli interessi dei gruppi medesimi da parte delle élites politiche (produzione di diritti).

Ne deriva l’importanza cruciale della decisione relativa a quale forma di comunicazione adottare al fine di trarre il
massimo vantaggio dalla mobilitazione delle risorse: prima di prendere in esame il contenuto del messaggio,
focalizziamo l’attenzione sulla scelta del canale. In tale prospettiva, le dimensioni che rilevano sono due:
rispettivamente, il carattere diretto o mediato della comunicazione, ovvero la sua connotazione privata o pubblica.

Per comunicazione diretta si intende quella che prevede una interazione face-to-face (in compresenza fisica) tra
emittente e destinatario, come accade per i dibattiti, gli incontri pubblici, le dimostrazioni, mentre la
comunicazione mediata richiede il ricorso a mezzi/strumenti specifici, adeguati a mettere in contatto gli attori – i
mass media, con relativi problemi di accesso, ma anche gli strumenti di comunicazione più ordinari, come il
telefono o la posta. Riguardo al secondo ordine di caratteristiche, la comunicazione pubblica si contraddistingue
per il fatto di essere accessibile anche ai terzi, non implicati nella relazione – per esempio, una dichiarazione dei
gruppi dirigenti di Confindustria pubblicata sui maggiori quotidiani italiani che si rivolge alla classe politica per
ottenere provvedimenti significativi per lo sviluppo economico e l’occupazione, che quindi deve in qualche modo
tenere conto delle eventuali reazioni da parte di altri attori o, anche, della propria base associativa. Al contrario, la
natura privata della comunicazione fa sì che l’intercorso comunicativo rimanga circoscritto ai canali
esclusivamente riservati agli interlocutori.

FORMA E CONTENUTO DELL A COMUNICAZIONE

- Da quanto detto, è possibile riconoscere le forme della comunicazione politica prevalentemente articolate dai
gruppi di pressione o movimenti, in relazione alle strategie prescelte e al grado di integrazione nel sistema della
rappresentanza degli interessi. Rispetto a questa dimensione (v. tabella precedente) i gruppi di pressione
istituzionalizzati e i movimenti conflittuali rappresentano i tipi polari, mentre quelli collocati nelle altre due
caselle identificano i casi intermedi.
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- Se invece prendiamo in considerazione il contenuto, vi è un tratto comune a tutte le forme comunicative esposte
in tabella: la decisività della comunicazione che accompagna la presentazione delle richieste politiche e le
strategie di azione ad esse associate. In altre parole, la retorica si rivela decisiva perché «un requisito
fondamentale di qualsiasi azione efficace a sostegno di interessi […] [sta] nella possibilità di rappresentarli come
espressione dell’interesse generale della collettività» (DIANI – DONATI 1996, p. 36, corsivo nostro). Nel quadro
democratico, cioè, una delle fondamentali risorse comunicative che i gruppi possono adottare al
fine di massimizzare l’incisività delle proprie richieste in termini di policy è di attribuire a queste
ultime un significato più ampio, argomentando che il loro accoglimento va nella direzione di
tutelare un interesse generale e non specifico.

ESEMPI E CONCLUSIONI (DIANI E DONATI 1996)

Per illustrare quanto appena detto, basta pensare all’esempio di una Casa automobilistica che preme per
l’introduzione di incentivi fiscali alla rottamazione del vecchio parco auto – una misura che certamente
aumenterebbe il suo fatturato (vantaggio particolaristico) – potrebbe inserire questa rivendicazione entro un frame
adeguato a porre in primo piano l’interesse generale dei cittadini a rinnovare i propri mezzi (magari orientando i
consumi verso le vetture meno inquinanti) e ad avere uno sgravio dalle imposte.

Sotto questo profilo, «La comunicazione di un gruppo di pressione dovrà dunque avere sempre come referente
ultimo la definizione dell’interesse generale della comunità di cui il gruppo fa parte, o chiede di far parte» (Diani –
Donati 1996, p. 37).

Ovviamente, il conseguimento di questo obiettivo risulterà più o meno difficoltoso a seconda della categoria di
gruppo alla quale ci si riferisce. È plausibile ritenere che il ricorso a codesta combinazione sia in certa
misura assicurato per i gruppi pienamente legittimati nel sistema. Al contrario, per i gruppi sfidanti,
l’efficacia dell’appello all’interesse generale designa una via più impervia, giacché si situa al crocevia
tra la necessità di aggregare consenso (e risorse) e quella di elaborare una identità di gruppo che
fornisca incentivi alla mobilitazione dei seguaci.

Da questo punto di vista, inoltre, gli ostacoli saranno presumibilmente maggiori per i movimenti
conflittuali che per quelli consensuali (v. tabella). Questo perché le grandi lobbies di tutela dei consumatori o
dell’ambiente hanno a cuore tematiche connesse con l’interesse generale della collettività e, al fine di allargare il
loro consenso per poter «contare» presso gli interlocutori politici, dirigono la loro comunicazione ad un
pubblico relativamente indeterminato, impiegando modalità prevalentemente connotate in senso
pubblico – malgrado debbano affrontare problemi importanti nel sollecitare direttamente l’attivismo
del medesimo pubblico. Viceversa, per gli attori che fanno affidamento sulla partecipazione diretta
della propria base al fine di esercitare pressione, la riformulazione delle richieste specifiche in termini
di interesse pubblico implica, almeno in parte, un assottigliamento dell’identità collettiva – cioè
indebolisce la principale risorsa identitaria che alimenta la partecipazione: «Il messaggio guadagnerà in
inclusività, ma a scapito della sua capacità di parlare alla base di riferimento primaria del gruppo di pressione, di
suscitare emozioni e di incentivare l’adesione personale» (Diani – Donati 1996, p. 38).

La trattazione di Diani e Donati è importante per almeno tre ragioni.

1. istituisce un raccordo esplicativo tra forme della comunicazione attraverso cui si articolano la ricerca di consenso
e l’esercizio della pressione politica da parte dei gruppi, da un lato, e il connubio tra il ruolo giocato dalle
organizzazioni di interesse rispetto al regime e le loro scelte strategiche, dall’altro, che arrivano così a
identificare le variabili politiche alle quali la comunicazione si aggancia.
2. individua un carattere della comunicazione che ne massimizza l’efficacia (il frame dell’interesse generale, che è
cruciale in democrazia), rinviando alla ricerca empirica la chiarificazione delle dinamiche che possono
accentuarne o contenerne la problematicità.
3. questa descrizione “comunicativa” del processo politico, stilata dall’angolo visuale dei gruppi di pressione,
fotografa una situazione stabilizzata, ossia routinizzata nei regimi democratici: in tutti, infatti, troveremo gruppi
membri e gruppi sfidanti, inclini ad intraprendere strategie di comunicazione pubblica o privata, mediata o
diretta – perciò il contributo cognitivo apportato da questo accostamento appare evidente.

GRUPPI DI PRESSIONE, COMUNICAZIONE POLITICA E SITUAZIONI: IL CASO CGIL

Abbiamo finora esaminato la comunicazione politica dei gruppi di pressione che si dispiega nella routine dei regimi
democratici.

Proviamo ora a spostare il fuoco sulle situazioni extra-ordinarie, collocate cioè al di fuori delle dinamiche
normalmente osservate.

Il motivo è semplice: al fine di completare, almeno per sommi capi, il nostro rendiconto, occorre verificare in quale
misura il variare delle condizioni politiche di fondo – che si manifesta, tipicamente, nelle circostanze di crisi –
imprime modificazioni nella comunicazione politica degli attori, concentrando l’attenzione sui contributi scientifici
che paiono attribuire importanza esplicativa a questo nesso.

A questo riguardo, la ricerca di Francesco Battegazzorre sul linguaggio politico parlato all’interno della CGIL, per un
verso, coglie i riflessi della marcia di legittimazione che ha condotto il principale sindacato italiano dalla posizione
di gruppo sfidante (DIANI – DONATI 1996) allo status di gruppo di pressione istituzionalizzato, pienamente integrato
nel regime; per l’altro verso, essa mostra come questo processo di lungo periodo subisca una brusca accelerazione
in corrispondenza della fase storica che vede il dilagare del terrorismo di matrice politica nel nostro Paese
(BATTEGAZZORRE 1982): una situazione particolarmente drammatica, che si contraddistingue per la sua
eccezionalità. Ma vediamo di comprendere meglio di che si tratta.

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L A METODOLOGIA DELLO STUDIO SUL LINGUAGGIO DELLA CGIL

Lo studio adotta una tecnica di content analysis molto simile a quella impiegata da Fedel per l’indagine sopra il
discorso parlamentare dei capi di governo e ha per oggetto l’analisi dei simboli politici presenti nei discorsi dei
leader della CGIL, nel periodo compreso dal secondo dopoguerra al 1977: più precisamente, l’indagine si concentra
sulle relazioni introduttive tenute dalla Segreteria confederale in cinque congressi: il secondo (1949), il quinto
(1960), il sesto (1965), l’ottavo (1973) e il nono (1977). Dopo aver dimostrato che i reperti protocollari
differenziano nettamente la comunicazione politica del sindacato rispetto a quella del partito politico di riferimento,
il PCI, perché i due attori rivestono un ruolo differenziato entro il processo politico (rispettivamente, gruppo
di pressione e partito impegnato direttamente nella lotta per il potere), la fase dell’indagine più intrigante per il
nostro punto di vista concerne l’evoluzione nell’invocazione simbolica della CGIL e mira a verificare l’ipotesi per
cui, tra il 1945 e i primi anni Ottanta del Novecento, i rapporti tra il sindacato «social-comunista» e «il sistema nel
suo complesso si modificano sostanzialmente.

La posizione della CGIL nei confronti del sistema subisce una lenta evoluzione che configura il passaggio
dall’antagonismo orientato ideologicamente all’integrazione nel sistema stesso» (Battegazzorre 1982, p. 724). A
questo scopo, la metodologia della ricerca prevede la classificazione dei simboli desunti dai discorsi proferiti dai
Segretari Generali dell’organizzazione in una griglia strutturata in categorie omogenee di significati, che,
nell’intelaiatura argomentativa, individuano i macro-indicatori del conflitto e dell’integrazione. Tralasciando le fasi
intermedie di rilevazione, vediamo risultati ottenuti su entrambe le dimensioni, rispettivamente, nel 1949 e nel
1977:

COMMENTI E CONCLUSIONI

 1947: Sul piano del conflitto, i dati rivelano che il linguaggio sindacale è pregno di simboli di taglio antagonistico
e difensivistico. In primo luogo, la prospettiva conflittuale appare particolarmente marcata nell’impianto
argomentativo che ha per oggetto il sistema internazionale: in un contesto ove la «cortina di ferro» separa le
democrazie occidentali dai regimi totalitari dell’Est, il sindacato a guida comunista articola una polemica contro
gli Stati Uniti, visti essenzialmente come potenza «imperialista», responsabili – secondo il punto di vista della
CGIL – di condurre il nostro Paese, in ossequio al potere economico della classe dominante, alla guerra contro
l’Unione Sovietica e i Paesi socialisti. In secondo luogo, sul versante domestico, l’antagonismo riguarda perlopiù
le altre organizzazioni sindacali (la CISL, che ha nella Democrazia Cristiana il suo partito di riferimento, e la UIL,
l’organizzazione sindacale socialista e democratica che aveva optato, seguendo Giuseppe Saragat e il suo
gruppo, per il rifiuto del collateralismo col PCI), a cui viene addebitata la fine dell’unità sindacale (rappresentata
negativamente perché divisiva della classe operaia), che finisce per agevolare lo sfruttamento capitalistico. Se
questa è, per linee sommarie, la struttura argomentativa dei discorsi, ne deriva che «la contrapposizione al
sistema si colloca nella prospettiva (ideologica) del conflitto di classe» (Battegazzorre 1982, p. 725). Pienamente
coerente con l’impostazione «difensivistica» è, perciò, l’esplicitazione degli obiettivi collegati all’azione
sindacale, che designa scopi minimi e di parte (la difesa dei diritti e degli interessi dei lavoratori). Inoltre, come
si evince indirizzando lo sguardo sul macro-indicatore dell’integrazione, la protezione degli interessi partigiani si
abbina alla chiusura totale opposta al sistema esistente. A tale questo riguardo, degna di nota è la pressoché
totale assenza di richiami a simboli che implichino una valutazione non del tutto negativa di qualche aspetto del
regime. Agli occhi della CGIL, la democrazia è un sistema politico al servizio delle classi capitalistiche – di qui
l’idea che ogni collaborazione con il sistema stesso non può che essere dannosa. Al contrario, l’obiettivo
generale che viene perseguito dal sindacato è la trasformazione degli assetti esistenti, che per definizione non
può che essere radicale.

 1977: si osserva tutt’altra mappa simbolica. Il dato caratterizzante appare, l’assenza della prospettiva
conflittuale: le cifre esposte in tabella autorizzano questa lettura, giacché non vi è alcuna articolazione del
conflitto nell’arena internazionale, così come la contestazione del sistema capitalistico appare fortemente
ridimensionata (4,8% contro 12,5% del 1949); infine, la stessa «contrapposizione» come modalità di azione
privilegiata dal sindacato subisce una visibile contrazione nell’articolazione simbolica dei leader. Il sostanziale
assottigliamento dell’antagonismo nel linguaggio della CGIL, che nel 1949 rappresentava invece uno dei pilastri
costitutivi dell’argomentazione, non a caso «si manifesta in un momento particolare della vita del paese: il
periodo della “solidarietà nazionale” è caratterizzato da un clima politico scarsamente conflittuale, dopo che
anche il PCI, sotto l’incalzare dei gravi problemi economici e dell’offensiva terroristica contro le istituzioni, ha
fatto il suo ingresso nella maggioranza di governo» (Battegazzorre 1982, p. 733). Permane una posizione
«difensivista» che, però, ha un contenuto diverso rispetto a quella osservata in precedenza: qui non si tratta di
tutelare gli operai in una prospettiva di lotta di classe, bensì di tutelare i «diritti» ottenuti durante gli anni
Cinquanta e Sessanta – ovvero, le policy scaturite dalla pressione articolata nel percorso di avvicinamento alle
istituzioni – nel momento in cui sembrano essere messi in discussione da parte dei datori di lavoro. Questa
interpretazione pare rafforzata allorché si volge lo sguardo alle categorie simboliche che circoscrivono l’area
dell’integrazione: soprattutto se si focalizza la posizione assunta dalla Confederazione circa il problema del
terrorismo politico (segnatamente, delle Brigate Rosse e degli altri movimenti armati di estrema sinistra, come
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Prima Linea e Proletari Armati per il Comunismo). Alla vigilia del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro,
dirigente della Democrazia Cristiana (marzo-maggio 1978), ad opera delle BR, nella prospettiva del sindacato, le
forze eversive – in quanto si propongono la distruzione del regime democratico – sono i principali nemici del
movimento operaio; e, come tali, vanno combattute con tutti i mezzi che l’ordinamento democratico consente di
utilizzare. Siamo quindi di fronte a un giudizio di valore complessivamente positivo sul sistema.
 Si tratta del punto di arrivo di un processo di de-ideologizzazione del linguaggio che investe il principale
sindacato italiano, che alla fine degli anni Settanta porta a compimento le spinte maturate nei decenni
precedenti e che sancisce la piena integrazione nel regime –ai giorni nostri, un dato ormai acquisito. E l’analisi di
Battegazzorre consente di porre in luce che è la situazione di crisi, determinata dall’attacco terroristico
brigatista, ad accelerare e a finalizzare questa traiettoria evolutiva, come si evince dalle mappe simboliche
esposte in tabella.

LEZIONE 25- PARTECIPAZIONE DI MASSA E COMUNICAZIONE POLITICA NELLE


DEMOCRAZIE CONTEMPORANEE

TEMA GENERALE: COMUNICAZIONE POLITICA DELL A CLASSE DIRETTA

In questo capitolo affrontiamo il tema della comunicazione politica formulata dalla classe diretta nel quadro del
processo politico democratico.

Entro una prospettiva teorico-esplicativa, sappiamo già che il comportamento politicamente rilevante a cui lo
studio di questo tipo di comunicazione va collegato è la partecipazione politica, che i cittadini tengono in
vista dell’ottenimento di determinati diritti – decisioni politiche vincolanti emesse dalla classe
politica. Nelle poliarchie, dal punto di vista dei cittadini i due esiti del processo politico normale tendono a
concatenarsi e ad andare insieme: cioè, la ricerca dei poteri garantiti sotto forma di diritti implica spesso
il comportamento di sostegno a quei leader politici che promettono, in caso di vittoria elettorale, di
produrre i diritti in gioco: su questa base si articola la partecipazione elettorale, che rimane uno dei
comportamenti partecipativi fondamentali in democrazia.

Allora, il senso pragmaticamente dominante che muove la condotta della classe diretta è assimilabile a
quello che contraddistingue i gruppi di pressione, giacché risiede nel tentativo di fare ‘pesare’ le proprie
risorse di partecipazione ed il proprio sostegno selettivo presso la classe politica, in vista di assicurarsi contenuti
delle policy in grado di garantire ai cittadini un «paniere» di diritti fondamentali, nonché l’allargamento di questa
sfera di base.

La storia delle democrazie mature si può leggere anche come la successione di tappe che, a seguito dell’irruzione
più o meno pacifica delle masse sul proscenio politico, dal XVII al XX secolo hanno portato al raggiungimento ed al
consolidamento di talune garanzie fondamentali (Dahl 1993). Si tratta delle principali libertà civili (di parola, di
espressione, di organizzazione, di stampa), nonché del suffragio universale (elettorato attivo e passivo), fino alla
introduzione e all’ampliamento dei provvedimenti caratterizzanti i moderni welfare states, che erogano ai cittadini
le prestazioni connesse all’istruzione di massa, alla protezione sanitaria, all’assistenza sociale e al sistema
previdenziale, solo per citare qualche esempio indicativo. Sotto questo profilo, il celeberrimo contributo di Thomas
Marshall, pubblicato nel 1950, collegava alla «cittadinanza» il pieno godimento di tre tipi di diritti: «chiamerò
queste tre parti o elementi il civile, il politico e il sociale. L’elemento civile è composto dai diritti necessari alla
libertà individuale [...]. Per elemento politico intendo il diritto a partecipare all’esercizio del potere politico [...]. Per
elemento sociale intendo tutta la gamma che va da un minimo di benessere e di sicurezza economica fino al diritto
di partecipare pienamente al retaggio sociale e a vivere la vita di persona civile, secondo i canoni vigenti nella
società» (Marshall 2002, pp. 12-13).

LA PROBLEMATICA DELLA PARTECIPAZIONE POLITICA DI MASSA

Sul piano analitico l’esame ravvicinato della partecipazione politica si rivela assai problematico.

In primo luogo, i cittadini generalmente non controllano, a livello qualitativo e quantitativo, le risorse
materiali (economiche, culturali, sociali, ecc.) che rientrano nelle disponibilità dei gruppi di interesse e che
costituiscono una delle leve fondamentali che qualificano, in termini di conferimento o di ritiro selettivo del
sostegno politico, le domande che gli attori sociali trasmettono agli interlocutori politici.

In secondo luogo, la classe diretta non può contare neppure sulla organizzazione della propria
partecipazione: il che depotenzia fortemente l’impatto della pressione esercitata presso i decisori politici. Come
notavano già i primi teorici delle élites, che fondarono la scienza politica in Italia, la mancanza di organizzazione
esibita dalle masse rende il loro comportamento collettivo facilmente plasmabile ad opera delle minoranze
organizzate, politiche e sociali, così come ne limita grandemente la capacità di imporre la propria volontà ai leader
politici (Mosca 1947; Michels 1966; Stoppino 2000).

In terzo luogo, non è sempre chiaro in quale misura la partecipazione organizzata – cioè attivata
nell’ambito di organizzazioni sociali o politiche (partiti, movimenti) per iniziativa delle rispettive
leadership – costituisce un comportamento ascrivibile propriamente ai cittadini oppure
semplicemente una risorsa nelle mani dei capi: in effetti, a tale riguardo diversi autori hanno osservato che
l’organizzazione favorisce la partecipazione, in quanto annulla le differenze socio-culturali dei partecipanti
(Pizzorno 1966). In tali ambiti, la condotta che, dal punto di vista individuale, consiste nella partecipazione che
mira ad ottenere talune decisioni o esiti politici (per esempio, occupare un luogo pubblico insieme ad altri
manifestanti, oppure boicottare una certa linea di prodotti, o ancora distribuire propaganda elettorale a favore di
un partito o di un candidato), sul piano collettivo si traduce nella pressione politica articolata dai relativi gruppi –
che, per ricorrere ad un lessico ormai familiare (Diani – Donati 1996), mobilitano le proprie risorse di partecipazione
proprio in vista di quel fine; oppure, dà luogo ad azioni politiche finalizzate alla competizione per il potere
(dimostrazioni di massa, partecipazione a manifestazioni organizzate, convention di partito), eterodirette dagli

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attori politici. Insomma, a livello micro, il comportamento politico tenuti dai singoli cittadini nel processo politico (la
partecipazione politica) può tradursi, a livello macro, in un mero strumento utilizzato dagli attori politici o sociali
nell’ambito delle proprie strategie finalizzate ad esercitare pressione politica o a contendere i ruoli di autorità ai
concorrenti, con il conseguente dilemma del raccordo tra i due livelli e del grado di autonomia analitica da
riconoscere a ciascuna delle condotte in campo.

Infine, la cosiddetta «rivoluzione digitale» ha allargato a dismisura le opportunità di partecipazione politica,


specialmente in relazione alla comunicazione: basti pensare a Internet e ai gradi di libertà consentiti dal web 2.0,
per non parlare dei social networks, spesso identificati con la triade Facebook, Twitter e Instagram – che designano
dei personal media che stanno sempre più sostituendo i mass media nel reperimento delle informazioni e nella
messa in campo delle azioni comunicative dei cittadini, poiché assicurano loro margini di libertà inediti rispetto ai
condizionamenti a lungo esercitati dagli attori politici e sociali organizzati

IL CONCETTO DI “PARTECIPAZIONE POLITICA”

Cotta (1979) distingue quattro dimensioni della partecipazione politica, distinte sulla base di altrettanti criteri
diversi:

LA PARTECIPAZIONE POLITICA SECONDO COTTA

Cominciando dalla prima dimensione, per «partecipazione indiretta» (o in senso lato) si intendono tutte le modalità
attraverso cui si realizza la «incorporazione attiva» dei cittadini entro l’ordinamento democratico: «quindi, dagli atti
elettorali a tutte le altre azioni tendenti a determinare vuoi la composizione in termine di personale vuoi gli
orientamenti potestativi degli organi politici del sistema» (Cotta 1979, p. 198), cioè finalizzate ad influenzare tanto
l’esito della lotta per il potere, quanto l’emissione di output decisionali. In senso più ristretto, la partecipazione
diretta designa il coinvolgimento immediato dei cittadini nelle varie istanze politiche, secondo un principio di co-
decisione che si concretizza nelle pratiche di democrazia, giustappunto, «diretta» e che, nel quadro dei regimi
democratici rappresentativi, appare per esempio connesso all’istituto del referendum popolare.

Passando al livello di integrazione dei comportamenti partecipativi in politica, si distingue la partecipazione


istituzionalizzata, che viene regolamentata e canalizzata negli argini istituzionali della poliarchia – l’esempio tipico
è la partecipazione elettorale, per cui lo Stato definisce sia gli aventi diritto a votare (e a candidarsi), sia le
procedure attraverso cui il singolo cittadino può esprimere il proprio voto; da quella di movimento, che, invece,
prescinde dalla routine e dalle regole, segnalandosi per il suo carattere spontaneo e generalmente alternativo e/o
sfidante rispetto alla prima: il caso tipico riguarda le manifestazioni di protesta nelle quali i partecipanti arrivano a
tenere condotte violente (distruzione di cose, attacchi fisici alle forze dell’ordine, interruzione di strade o altre vie
di comunicazione).

Questa bipartizione implica un differente grado di intensità degli atteggiamenti associati a ciascun tipo: mentre la
partecipazione istituzionalizzata è soggetta a limiti di contenuto e di forme espressive prefissati, dispiegandosi in
connessione a ruoli ben determinati, quella di movimento inclina «ad assumere valenze psicologiche di intensità
molto più spiccata e gli aspetti solidaristici vi giocano un ruolo importantissimo» (Cotta 1979, p. 200).

Volgendo lo sguardo al contenuto delle azioni partecipative, una distinzione che sul terreno analitico conviene
tenere ben ferma, ma che nella realtà tende a sfumare, differenzia la partecipazione orientata alla decisione da
quella orientata all’espressione. Le due modalità sono compresenti in molti comportamenti partecipativi: un
referendum designa, primariamente, un atto partecipativo che inclina ad influenzare una decisione, ma,
incidentalmente, implica anche taluni comportamenti espressivi (per esempio le iniziative pubbliche convocate per
propagandare il voto a favore o contro il quesito referendario). Dall’altra parte, una manifestazione di protesta
punta prima di tutto ad esprimere il dissenso collettivo verso determinati provvedimenti o leader politici «non
graditi», ma al contempo può influire su certe decisioni – non di rado, accade che i responsabili dell’ordine
pubblico, come le autorità locali o le questure, siano indotti a sospendere l’autorizzazione concessa per certe
iniziative, come un convegno particolarmente ‘delicato’ sul piano degli argomenti trattati (il neofascismo, l’aborto o
la contrarietà ai flussi migratori, solo per citare qualche ipotesi) per evitare disordini, a seguito delle annunciate
dimostrazioni pubbliche da parte di schiere di oppositori, determinati a impedire in tutti i modi lo svolgimento dei
lavori.

Infine, una ulteriore differenziazione riguarda la prospettiva secondo cui le condotte sono suscettibili di essere
esaminate: da una parte, il fuoco si concentra sui singoli individui partecipanti, privilegiando le variabili di ordine
sociologico e psicologico che favoriscono od ostacolano la partecipazione (micro-politica); oppure, si mira a
lumeggiare le condizioni della partecipazione «rivolgendo un’attenzione specifica alle strutture politiche (partiti,
meccanismi elettorali, organizzazioni subculturali, ecc.) che concorrono a delimitare potenzialità e limiti della
partecipazione nonché a determinarne gli esiti e il significato» (Cotta 1979, p. 202).

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COMPLESSITA’ E FORME DELLA COMUNICAZIONE POLITICA

Questa sommaria ricognizione suggerisce la complessità del concetto: che è in certa misura ineliminabile, giacché,
come lo stesso autore tende ad ammettere, le dimensioni inventariate possono essere riportate con facilità a due
significati generali:

1. partecipazione come prendere parte ad un determinato atto;


2. partecipazione come essere parte di una certa collettività o di un certo organo o istituzione.

Spesso, tali declinazioni si presentano simultaneamente nelle azioni partecipative, ma si riferiscono,


rispettivamente, alla dimensione processuale o a quella strutturale della politica. In questa sede, ci occuperemo di
entrambe, fissando l’attenzione sia sui rapporti tra arena mediatica e (le varie forme di) partecipazione politica
(struttura), sia sulla comunicazione che accompagna la partecipazione politica con specifico riferimento all’impiego
dei social networks (processo). Però, prima di intraprendere questa traiettoria di approfondimento, è necessario
chiarire almeno un poco le componenti del «repertorio» della partecipazione politica al quale i cittadini possono
attingere: ossia, quali sono le principali modalità attraverso cui, nelle poliarchie contemporanee, la classe diretta
interviene nella lotta per il potere.

IL REPERTORIO DELLA PARTECIPAZIONE POLITICA: ALCUNI CONTRIBUTI CLASSICI DELLA LETTERATURA

Il pioneristico contributo di Milbrath (1968) individua ben 14 forme di partecipazione politica:

1. esporsi a sollecitazioni politiche;


2. votare;
3. avviare una discussione politica;
4. cercare di convincere altri cittadini a votare in un certo modo;
5. portare un distintivo politico;
6. stabilire contatti con un funzionario o con un dirigente politico;
7. versare somme di denaro a favore di un partito o di un candidato;
8. partecipare ad un comizio o a un’assemblea politica;
9. impiegare il proprio tempo a favore di una campagna politica;
10. diventare iscritto attivo di un partito politico;
11. partecipare a riunioni nelle quali si prendono decisioni politiche;
12. sollecitare a terzi contributi in denaro per sostenere cause politiche;
13. diventare candidato ad una carica elettiva;
14. occupare cariche pubbliche o di partito.

Come si vede, molte riflettono la problematicità e la complessità del campo di analisi e si prestano ad essere
indagate da diversi punti di vista. In particolare, è interessante notare che la quasi totalità delle condotte che
compaiono nella lista di Milbrath – ad eccezione, forse, dei numeri 2, 7 e 10 – implica una connessione più o meno
diretta e stringente con la comunicazione. Un inventario più ristretto è quello individuato, ai fini di ricerca empirica,
da Sidney Verba e dai suoi collaboratori (Verba – Nie – Kim 1986) e comprende «quattro tipi di attività:

1. prendere parte alle campagne elettorali;


2. svolgere attività di collaborazione in gruppi;
3. votare;
4. prendere contatti con dirigenti politici e partitici (sia per problemi personali che per problemi sociali)

DISCUSSIONE DEI CONTRIBUTI

Se l’enumerazione di Milbrath risulta eccessivamente estesa, tanto da includere comportamenti che solo nel
sistema statunitense acquistano una valenza partecipativa in esplicito collegamento al campo politico, il secondo
elenco rischia facilmente di essere troppo circoscritto, poiché lascia fuori modalità di partecipazione largamente
utilizzate nelle democrazie contemporanee: basti citare, a titolo indicativo, l’occupazione di edifici o fabbriche, i sit-
in di protesta, il boicottaggio di determinate aziende (per esempio quelle accusate di non essere abbastanza
«green» o eco-sostenibili), oppure ancora gli scioperi «selvaggi» o di matrice fiscale.

È chiaro che non siamo in presenza di una ‘scala’, ordinata da un valore minimo ad uno massimo, delle modalità di
partecipazione, quanto piuttosto di una pluralità di possibili modi di partecipare, a ciascuno dei quali è associato,
per gli individui che desiderano adottarlo, un certo bilancio costi/benefici, in termini di risorse materiali ed
immateriali (Norris 2002, p. 190). Per esempio, un comportamento di sostegno limitato a versare una somma di
denaro per un certo candidato o partito impone una privazione finanziaria ma non richiede un grande investimento
di tempo; al contrario, prestare in prima persona una attività di organizzazione o di propaganda a favore di un
attore politico implica un esborso finanziario probabilmente minimo, ma è assai più gravoso in termini di quantità
di ore e di energie personali da trasferire alla causa che si intende perseguire (la vittoria alle elezioni, l’introduzione
di una legge particolarmente sentita, il raggiungimento di un certo quorum nel referendum popolare).

In generale, occorre poi aggiungere che il contenuto e l’ampiezza delle azioni partecipative variano in
connessione alle circostanze di tempo e di luogo. Le stesse forme di partecipazione politica che oggi
appaiono non solo ammesse o giustificate, ma garantite nelle poliarchie mature, erano vietate o venivano mal
tollerate dai governanti quando la dimensione di massa della democrazia non poteva ancora dirsi raggiunta: si

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pensi agli Stati Uniti all’inizio del Novecento, dove i diritti di partecipazione politica, nella prassi concreta,
restavano lettera morta sia per la popolazione di colore, sia per ampie fasce della popolazione di recente
immigrazione. Spostandoci di qualche decennio, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, in Italia molti
assembramenti pubblici di natura politica o sindacale venivano guardati con diffidenza dalle autorità, perché
sospettati di contiguità con il fenomeno del terrorismo politico, «rosso» o «nero»: perciò, le forze di polizia erano
chiamate a tenere alta la guardia verso le dimostrazioni di piazza, mal tollerando e cercando di impedire le
modalità più estreme di protesta. Al contrario, «la legittima attività di protesta [costituisce] oggi una forma
mainstream di espressione» (Norris 2002, p. 193). Se invece spostiamo l’attenzione sui regimi non democratici,
dove la classe diretta non gode delle fondamentali garanzie di libertà, come in Cina o negli autoritarismi dell’Africa
e dell’Asia, il «repertorio» della partecipazione politica risulta drasticamente ridotto, limitandosi alle condotte
consentite (e sollecitate) a sostegno del partito unico, in un quadro strutturale che mostra i tratti tipici di un’arena
politica burocratica. Insomma, le forme di partecipazione politica nelle democrazie contemporanee costituiscono il
risultato di un processo evolutivo che non può ancora dirsi definitivo e che non ha eguali negli altri regimi politici.

FORME “ORTODOSSE” VS FORME “NON CONVENZIONALI” DELL A PARTECIPAZIONE POLITICA”

Da questo punto di vista, la classificazione di Kaase e Marsh mostra chiaramente la varietà delle componenti in cui
può concretizzarsi la partecipazione politica, in connessione all’inquadramento storico, distinguendo le forme più
consolidate e «ortodosse» da quelle più recenti e «non convenzionali» (Kaase – Marsh 1979).

PARTECIPAZIONE E NUOVI MEDIA

Dall’inizio degli anni Duemila le modalità di partecipazione politica nelle società democratiche avanzate stanno
vivendo una fase di ulteriore sviluppo e diversificazione. In tal senso, le opportunità dischiuse dall’avvento dei
media digitali (principalmente, Internet e i social networks) si sommano a quelle passate finora in rassegna.

Basti pensare alle mobilitazioni online realizzate dai blog aventi per oggetto cause di impegno civile o politico (uno
dei più noti in Italia, il blog delle stelle, che ha poi condotto alla fondazione del Movimento Cinque Stelle, è stato
aperto da Beppe Grillo nel 2005: Chiapponi 2017), oppure alla condivisione dei contenuti di varia natura consentita
da Facebook, Twitter o Instagram, così come alla manifestazione di gradimento per certi item, attraverso
l’apposizione dei “likes”. Si potrebbe affermare che in questa fase storica, alle componenti civili, politiche e sociali
della cittadinanza (Marshall 2002), si aggiunge una nuova fattispecie di apertura alle spinte dal basso, che
definisce la «cittadinanza online» (Spalletta 2013; De Rosa 2014; Ceccarini 2015) – la quale, tuttavia, rappresenta
una fase di «ibridazione», ovvero un crocevia a cui dimensione pubblica-istituzionale e dimensione privata-
individuale della cittadinanza si intersecano, più che un vero e proprio quarto stadio di sviluppo dei diritti di
cittadinanza (Ceccarini 2015, pp. 30-31).

Adottando le categorie di Castells, lo spartiacque designa il passaggio dall’età dei mass media a quella dei
personal media. Dal nostro punto di vista, si tratta di una dinamica evolutiva particolarmente interessante, poiché i
cosiddetti

«nuovi media» innovano il repertorio classico della partecipazione politica, producendo un allargamento
del ruolo (anche teorico) giocato dalla comunicazione. Ciò istituisce, sul piano analitico, una nuova (e diversa)
bipartizione rispetto a quella identificata quarant’anni fa da Kaase e Marsh: da una parte, si colloca la
partecipazione politica offline, che abbraccia sia le modalità ortodosse sia quelle eterodosse esposte, a titolo
meramente illustrativo; dall’altra parte, si situa la partecipazione online, che si dispiega grazie ai nuovi
media digitali. Da questo angolo visuale, le domande più rilevanti a cui è necessario rispondere sono almeno due.
Primo: quali sono le modalità partecipative digitali e come si modifica, di conseguenza, l’inventario
della partecipazione politica? Secondo: quale trend è riscontrabile, nelle poliarchie avanzate, riguardo
il ricorso alla partecipazione online? Accertato che i mezzi digitali ispessiscono la gamma dei comportamenti
partecipativi, occorre cioè cogliere in quale rapporto la partecipazione online si pone rispetto a quella offline: si
tratta di sostituzione oppure di affiancamento? E in quale misura? Sono questi gli interrogativi ai quali, in via
preliminare, è necessario dare risposta, al fine di preparare il terreno per l’esame ravvicinato sia della
partecipazione politica connessa all’arena mediatica e digitale (a livello strutturale), sia dei nessi intercorrenti tra
social networks, partecipazione e comunicazione politica (a livello processuale).

COMUNICAZIONE POLITICA E NUOVI MEDIA

Le prime investigazioni condotte in questo ambito inclinavano a rappresentare Internet semplicemente come una
tecnologia comunicativa a basso costo e di facile accesso, particolarmente adatta a mobilitare i partecipanti dei
gruppi di pressione specializzati nella protesta politica (Diani – Donati 1996; Norris 2002, pp. 207-211). La
successiva diffusione del web, che è avanzata per tappe forzate, fino al raggiungimento dei livelli attuali – secondo
il Global Digital Report pubblicato nel 2019 gli utenti Internet nel mondo ammontano ormai a circa 4,4 miliardi,
mentre 3,26 miliardi utilizzano i social media su dispositivo telefonico mobile, rispettivamente pari al 57% e al 42%
della popolazione mondiale, con le punte più marcate di penetrazione in Nord America e in Europa – ha
determinato una percezione diversificata del fenomeno ad opera degli studiosi, nel senso che è cresciuta la
consapevolezza che i nuovi media modificano profondamente il quadro democratico, incentivando (ed
accompagnando) la transizione alla «democrazia del pubblico» (Manin 2010: vd. Capitolo 3). Per un verso,
ciò implica la crescente «privatizzazione» del rapporto governanti- governati, suggestivamente evocata
dall’attribuzione di una etichetta accattivante come «Facebook democracy» (Marichal 2012); per l’altro verso, così
come il volto «redentore» della democrazia classica si nutre del mito della sovranità popolare (Canovan 1999), la
contemporanea «democrazia elettronica» inclina a rilanciare l’immagine altrettanto mitica della «contro-
democrazia» (Rosanvallon 2006), che enfatizza i poteri negativi dei cittadini (non di sostegno, bensì di sanzione),
attribuendo loro un ruolo di «monitoraggio» del potere politico. Sotto questo profilo, all’icona del cittadino
partecipante tende a sovrapporsi quella del cittadino variamente denominato «vigile» (Campus 2008, pp. 14-17),
«critico» o «monitorante» (Ceccarini 2015, pp. 85-103), che grazie alla Rete e ai social media dispone
dell’adeguato armamentario per assolvere efficacemente queste funzioni (Dahlgren 2013). Al di là dello sfondo
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teorico nel quale gli sviluppi vengono inquadrati, quel che ci preme rilevare è che gli sforzi investigativi finalizzati a
cogliere il significato dei mutamenti osservati hanno indotto gli specialisti ad elaborare una lista delle «nuove»
opportunità di partecipazione politica.

A questo proposito, una classificazione piuttosto agile (citata in De Blasio – Hibberd – Higgins – Sorice 2012, pp.
145- 149), con specifico riferimento alla partecipazione elettorale nel nostro Paese, identifica tre tipi di
partecipanti:

1. leggeri: tentano di convincere ad andare a votare amici, parenti, colleghi;


2. militanti: hanno adottato comportamenti tipici della campagna elettorale tradizionale (hanno diffuso
propaganda elettorale, sono intervenuti a manifestazioni politiche e ad assemblee, hanno aderito a raccolte
fondi, e via elencando);
3. reticolari: hanno tenuto condotte partecipanti su Internet.

In linea teorica, non siamo in presenza di modalità reciprocamente esclusive, tuttavia i dati sembrano corroborare
due osservazioni. Da un lato, i cittadini italiani, in occasione delle consultazioni popolari tenutesi nel 2011 aventi
per oggetto una serie di quesiti referendari (oggetto di specifico approfondimento in DE BLASIO – HIBBERD –
HIGGINS – SORICE 2012) hanno adottato una di queste forme di partecipazione come quella principale. Dall’altro,
la componente dei reticolari risulta in crescita, specialmente nelle generazioni di «nuovi partecipanti», cioè nei
giovani.

AZIONI PARTECIPATIVE E SOCIAL MEDIA

Restringendo lo sguardo alle azioni partecipative che si dispiegano grazie ai social media, a sua volta Rosanna De
Rosa isola tre categorie di comportamenti, che si candidano a rappresentare il volto «non convenzionale» della
partecipazione online:

1. lo slackactivism: il neologismo viene dalla combinazione di slacker (fannullone, scansafatiche) e di activism


(attivismo) e designa «una modalità di ‘partecipazione a basso sforzo’, vale a dire un atto di partecipazione che
risulta dalla sola manifestazione di appoggio a una causa attraverso la sottoscrizione di una petizione online, la
condivisione di un post critico sull’operato di un governo o di un partito politico, l’espressione di
consenso/dissenso attraverso l’uso dei social network in vario modo (per esempio con l’alterazione del proprio
profilo, l’utilizzo di badge o like per manifestare l’adesione a una causa)» (DE ROSA 2014, p. 19, corsivo
nell’originale). Dal punto di vista dei singoli partecipanti, si tratta di una modalità fortemente attrattiva, vista
l’esiguità dell’impegno richiesto: parimenti, la sua capacità di influenzare gli esiti del processo politico appare
oggetto di dibattito;
2. il lurking indica un comportamento ancora più “passivo”: nella lingua inglese, qualifica in senso spregiativo
l’atteggiamento di chi si nasconde per osservare determinati eventi senza prendervi parte e senza essere visto
dai partecipanti – dislocato nel contesto prodotto dai social media, designa la condotta degli utenti che, per
esempio, leggono le email o i post di una discussione pubblicata in un blog, ma non vi intervengono in nessun
modo: le ricerche empiriche hanno dimostrato che la maggioranza dei cittadini adotta questo schema di
comportamento online, ponendosi in uno stato di latenza partecipativa e/o di semplice osservazione (DE ROSA
2014, pp. 19-20);
3. l’adbusting (contrazione di advertising, pubblicità, e busting, demolire) rappresenta una pratica del tutto
originale e figura tra le principali impiegate dal culture jamming (sabotaggio culturale); vi si ricorre per
contestare un leader, un partito o una policy attraverso la parodia di discorsi, manifesti, immagini o spot
pubblicitari, non di rado infrangendo i dettami del politically correct. In tal senso, nel nostro Paese una celebre
vittima di adbusting fu, in occasione della campagna elettorale del 2001, lo slogan «Meno tasse per tutti», che
campeggiava su manifesti elettorali di Forza Italia dalle enormi dimensioni dai quali il viso di Silvio Berlusconi
sorrideva rassicurante: subito la Rete venne invasa da una serie infinita di meme che riproducevano l’iconografia
della propaganda berlusconiana storpiandone le parole e, di conseguenza, stravolgendone il senso, con frasi
quali «meno tasse per Totti» (accompagnato dall’icona del popolare calciatore della Roma) o «meno tasse per
Titti» (con l’aggiunta del celebre pennuto dei cartoni animati di Hanna e Barbera, perennemente cacciato da
Gatto Silvestro). L’adbusting mira a «strappare una risata, ma anche a costringere i cittadini a riflettere sulla
fruizione passiva e acritica dei media e sui comportamenti di consumo» (DE ROSA 2014, p. 20).

IL CONTINUUM TRA MODALITA’ “VECCHIE” E “NUOVE” DI PARTECIPAZIONE POLITICA (DENNIS 2019)

DISCUSSIONE DEL CONTRIBUTO DI DENNIS


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Mentre la prima colonna della tabella delinea, in direzione crescente, la scala dei possibili posizionamenti sul
continuum, la seconda ne chiarisce il contenuto. In tal senso, il coinvolgimento online dei cittadini va dall’accesso,
che implica semplicemente il ricevimento degli input informativi attraverso un canale mediatizzato, fino all’azione,
che invece segnala il massimo coinvolgimento nelle pratiche partecipative, passando per le fasi dell’espressione
(grazie alla quale i cittadini intervengono nell’arena mediatica pubblicando proprie valutazioni in relazione a
determinati fatti e/o attori politici – attivando così un thread di partecipazione, come accade su Twitter o
Instagram) e della connessione, in cui il consenso o il dissenso relativo al tema oggetto di intervento viene
organizzato, creando reticoli o comunità online solitamente fondate sul principio di omofilia – gli utenti partecipanti
condividono cioè gusti, preferenze, sensibilità e, parimenti, si predispongono a reagire negativamente rispetto a
input dissonanti (Ceccarini 2015).

L’inventario stilato da Dennis si fonda essenzialmente sul criterio della prossimità o meno della comunicazione
online rispetto alla finalizzazione del comportamento tenuto dai cittadini (l’effettiva partecipazione). Ceccarini
muove invece da premesse differenti. Collegando i mutamenti che, nelle democrazie contemporanee,
caratterizzano le arene mediatiche all’ascesa e al consolidamento della «democrazia del pubblico» (Manin 2010),
questo autore riprende il nesso tra partecipazione politica e protesta, asserendo che «La Rete, infatti, è uno
strumento particolarmente efficiente per stimolare e organizzare un tipo di partecipazione non convenzionale.
Questa forma di coinvolgimento non pare essersi deteriorata nel tempo. Le azioni legate alla protesta politica si
sono estese nel corso degli anni» (Ceccarini 2015, p. 124).

E tuttavia, la contestazione in realtà non costituisce l’unico sbocco delle potenzialità partecipative via social media,
che si inscrivono in un campo concettuale più ampio, delimitato da due dimensioni:

1. l’intensità dell’impegno individuale che il cittadino investe nella partecipazione, che va da un coinvolgimento
leggero ad uno via via più sistematico, che implica una maggiore frequenza;
2. i diversi modelli di partecipazione.

LA MAPPA DELLO SPAZIO PARTECIPATIVO DISCHIUSO DAI SOCIAL MEDIA (CECCARINI 2015)

TIPI DI PARTECIPAZIONE E SPAZIO PARTECIPATIVO

Nella parte in basso a destra dello schema trovano collocazione le pratiche partecipative improntate ad un
coinvolgimento civico: un impegno che, nella maggioranza dei casi, ha per oggetto questioni legate alla comunità
locale (quartiere, città, territorio), organizzato da comitati o associazioni di volontariato, che attuano mobilitazioni a
carattere discontinuo e temporaneo. A sinistra si incontrano tutte le forme partecipative più “leggere”, che
identificano prassi come lo slackactivism o la firma di petizioni offline. Ma vi è un’altra area che risulta

particolarmente interessante per il discorso della cittadinanza ai tempi della Rete. Si trova nella parte superiore
destra ed è identificabile con l’area dell’impegno militante. Questo spazio, caratterizzato da un prendere parte più
frequente e critico, è possibile suddividerlo in due distinti ambiti: i) quello della partecipazione politica e ii) quello
della partecipazione subpolitica. La prima è segnata da un attivismo di tipo tradizionale ed esplicitamente politico.
Si tratta della protesta legata ai movimenti e alla partecipazione a manifestazioni di partito. L’altra, quella
subpolitica, combina invece forme di consumerismo politico – boycotting e buycotting – con l’attivismo online e
discorsivo, come la sottoscrizione di petizioni attraverso la Rete. […] Questo scenario mette in evidenza la
presenza di un’area di partecipazione politica «in diretta» da parte dei cittadini […] La Rete si configura a questo
proposito come una risorsa funzionale a tale modello di coinvolgimento […] Del resto, l’uso di Internet come canale
di informazione politica e la fiducia nella Rete come strumento di partecipazione vengono espressi con maggiore
forza da quei soggetti che fanno osservare un più alto grado di sfiducia verso i media tradizionali (Ceccarini 2015,
pp. 126-127)

Tiriamo un po’ le fila. Rispetto alle nuove opportunità di partecipazione politica rese disponibili dall’avvento dei
social media, dalla nostra ricognizione emergono con chiarezza due spunti. Primo: non vi è dubbio che
l’inventario partecipativo dal quale i cittadini possono attingere per esercitare la pressione sui
decisori politici, in forma più o meno organizzata, si è arricchito di una pluralità di pratiche del tutto
sconosciute alla partecipazione convenzionale e offline, con le ovvie ricadute sul piano dello sviluppo dei
comportamenti collegati. Secondo: gli specialisti hanno spesso rimarcato la dimensione negativa della
partecipazione via social media: le nuove forme di azione partecipativa mostrano una peculiare attitudine ad
essere impiegate in vista del contenimento, del controllo e della sanzione del potere politico, piuttosto
che l’approvazione o la promozione delle condotte dei governanti – usando un lessico a noi familiare, sembrano più
adeguate a conferire efficacia alla pressione attraverso la minaccia del ritiro selettivo del sostegno piuttosto che
fare leva sul conferimento positivo del medesimo. Si tratta di un carattere pienamente congruente con gli sviluppi
che prendono corpo nelle democrazie contemporanee: sia sul piano strutturale, che molti studiosi hanno connotato
nel senso della «democrazia del pubblico» o della «contro-democrazia», sia sul piano processuale, dove
comportamenti di massa quali il negative campaigning o il «voto di vendetta» (Revelli 2019) alimentano in
particolare il successo di leader e partiti populisti e «anti-politici» – che, non a caso, esibiscono una spiccata
capacità di impiegare efficacemente le tecnologie offerte dal web 2.0 (Chiapponi 2017; Diamanti – Pregliasco 2018)
e perciò richiamano un elettorato relativamente più predisposto all’utilizzo delle modalità partecipative proprie dei
social networks.

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PARTECIPAZIONE “CLASSICA” E “DIGITALE”: QUALCHE CONSIDERAZIONE CONCLUSIVA

Insomma, cogliere il senso dei cambiamenti in atto appare ancora più rilevante, specialmente rispetto al rapporto
tra partecipazione politica «digitale» e «tradizionale». Da questo punto di vista, i primi dati disponibili sembrano
certificare che, mentre diminuisce l’impegno dei cittadini nelle forme di partecipazione offline, cresce in quello
online (De Rosa 2014, pp. 18-19). In generale, il perché è presto detto: i cittadini delle moderne democrazie hanno
gradualmente intrapreso percorsi di distacco dalle formule tradizionali di impegno e partecipazione, come quelle
offerte dai partiti; perché ritenute poco espressive delle proprie individualità e troppo burocratiche. Ma anche
perché impegnative e costose in termini di tempo. I tratti di orizzontalità e flessibilità sono privilegiati nella logica
partecipativa rispetto ai caratteri di verticalità e rigidità. Di conseguenza la partecipazione nella sfera quotidiana e
personale tende ad allargare il repertorio di azione offerte da forme di coinvolgimento tradizionale e
istituzionalizzato. Va precisato che si tratta di oscillazioni tra i due poli e non di cesure nette. Ne scaturisce, quindi,
un effetto di ibridazione della cittadinanza e non di un passaggio netto (Ceccarini 2015, pp. 30-31).

Ne deriva che il bacino potenziale dei partecipanti «digitali» inclina a coincidere con quello, anch’esso in aumento,
dei cittadini che utilizzano i social media come vettori principali per tutte e tre le dimensioni individuate da Polat:
informazione, comunicazione, (sub)sfera pubblica virtuale. Allora, qualche stima quantitativa del «peso»
partecipativo connesso a questo segmento della cittadinanza si può ricavare, per inferenza, dalle proporzioni che
hanno raggiunto l’utilizzo sia di Internet che dei social networks. Per esempio, secondo il sondaggio
Eurobarometro, nel 2010 i relativi tassi di impiego in Europa ammontavano, rispettivamente, al 45% e al 18%, per
aumentare fino al 60% e al 32% nel 2014 (Ceccarini 2015, p. 169). Nello stesso anno, malgrado la TV continuasse
a rappresentare la principale fonte di informazione in relazione alle questioni politiche nazionali per la stragrande
maggioranza dei cittadini europei (82%), siti web e circuiti social apparivano una modalità di reperimento delle
notizie in crescita, attestandosi al 31% di utilizzo, mentre ben il 50% riteneva che i circuiti digitali (come Facebook,
Twitter e, oggi, Instagram) potessero rappresentare dei buoni strumenti per stimolare l’interesse nella politica a
livello di massa. In Italia, i trend apparivano allineati a quelli continentali, poiché l’81% dei cittadini asseriva di
ricorrere tutti i giorni alla TV per informarsi, mentre il 49% si affidava ad Internet (Ceccarini 2015, pp. 171-175).

Insomma, l’ambiente digitale designa delle modalità partecipative in (rapida) ascesa nelle abitudini di fruizione e di
consumo mediale dei cittadini. Modalità che non si sostituiscono, bensì si affiancano al repertorio classico della
partecipazione politica. Proprio alla luce di queste dinamiche, che hanno già determinato conseguenze rilevanti
negli assetti dei regimi democratici contemporanei, appare utile restringere l’analisi della comunicazione politica
collegata alla partecipazione politica di massa al campo dei nuovi media, distinguendone il livello strutturale da
quello processuale.

Mentre il primo ha per oggetto le relazioni relativamente stabili che possiamo individuare tra la configurazione
delle attuali arene mediatiche, da una parte, e le pratiche partecipative online, dall’altra, il secondo riguarda
specificamente gli esiti che, grazie alla partecipazione via social media, la classe diretta può ottenere nell’ambito
della lotta per il potere nelle democrazie.

LEZIONE 26- ARENA MEDIATICA, SOCIAL MEDIA E COMUNICAZIONE POLITICA

SOCIAL MEDIA E COMUNICAZIONE POLITICA: IL LIVELLO DELL A STRUTTURA POLITICA

In questa lezione ci occupiamo, sul piano strutturale, di capire come l’ambiente mediatico che si è ormai
consolidato nelle democrazie contemporanee esercita, o può esercitare, una qualche influenza sulla partecipazione
politica dei cittadini – con specifico riguardo ai social media (comunicazione digitale).

In particolare, conviene concentrare il fuoco su due aspetti:

1. le caratteristiche strutturali che questi media inclinano ad imprimere ai comportamenti partecipativi e


comunicativi della classe diretta che si dispiegano grazie al loro tramite;
2. le prassi ormai consolidate che, dal lato delle élites politiche, incentivano certe forme partecipative, e non altre,
da parte della classe diretta.

SOCIAL NETWORKS, PARTECIPAZIONE, COMUNICAZIONE

Cominciando dal primo ordine di questioni, indicazioni preziose vengono dagli studi che hanno inquadrato un social
diffuso come Facebook dal punto di vista delle proprietà che questo strumento trasferisce alle prassi partecipative
di massa. Marichal (2012) ammonisce circa l’idea per cui basterebbe adottare le prassi partecipative dischiuse da
Facebook per indirizzare lo sviluppo delle democrazie odierne verso la piena acquisizione della «e-democracy», che
appartiene più ad una visione ottimistica ed utopica del web, che rinvigorisce l’idea classica della democrazia
come «polity deliberante», senza tuttavia sottrarla al mondo delle idee per trasformarla in realtà. Più
modestamente, questo studioso asserisce che il contributo di Facebook rispetto alla partecipazione
online incide su due aspetti:

1. dando espressione ad una pluralità di voci, minimizza il rischio di marginalizzare certe opinioni e dunque
costituisce una potente cassa di risonanza dei messaggi politici, specie rispetto a quel che accade offline;

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2. incentiva forme di presentazione pubbliche del sé: trasferito sul terreno politico, ciò significa che
l’ambiente Facebook tende a favorire modalità di partecipazione politica fortemente personalizzate, che si
collocano perciò sotto il segno della disintermediazione.

Questi tratti combaciano appieno con altre modificazioni intervenute nelle sfere pubbliche delle poliarchie,
catturate dai modelli più volte nominati della «democrazia del pubblico».

EFFETTI DEI CONDIZIONAMENTI STRUTTURALI: QUALE PARTECIPAZIONE SUI SOCIAL? L’ESEMPIO DI


FACEBOOK E TWITTER

I tratti del pluralismo, della disintermediazione e della personalizzazione propri di Facebook tendono a tradursi in
scambi comunicativi sbilanciati verso il polo del disaccordo: allora, è facile notare che l’impiego di questo social
network incentiva forme di interazione di segno conflittuale (Marichal 2012). Questa osservazione può essere
generalizzata, giacché le medesime proprietà sono state rilevate anche in collegamento all’impiego di altri social
media.

Si pensi alla documentata analisi che Sara Bentivegna ha dedicato a Twitter, quale vettore della comunicazione
politica top-down e della conseguente attività di partecipazione da parte dei followers, che sembrano articolarsi
secondo cinque particolarità:

a) disintermediazione: ovvero, «la capacità […] di mettere in atto un’autorappresentazione pubblica senza ricorrere
all’intervento di soggetti esterni, in questo caso i media» (BENTIVEGNA 2015, p. 77) – ciò vale per tutti gli utenti,
ma naturalmente acquista una salienza particolare per i leader, con l’avvertenza più essi sono dotati di visibilità
pubblica, più i loro tweets acquisteranno rilevanza ed efficacia;
b) personalizzazione: in effetti, l’attitudine a personalizzare la narrazione e la retorica che fluisce attraverso i social
networks, quale mezzo per accorciare le distanze tra capi politici e seguaci, «ben si salda con le caratteristiche
della piattaforma, animata da user che dispongono di un account personale» (BENTIVEGNA 2015, p. 80);
c) velocizzazione: rispetto ai media tradizionali, Twitter impone una accelerazione del flusso comunicativo, che a
livello aggregato facilmente produce un effetto di ambiguità, con il concreto rischio di far percepire la semplice
discussione di argomenti di rilevanza pubblica come la loro effettiva risoluzione, creando così l’illusione di aver
annullato la distanza tra il ‘dire’ e il ‘fare’;
d) semplificazione: dal vincolo di contenere ogni messaggio in 280 (un tempo 140) caratteri, derivano conseguenze
facilmente prevedibili sulla complessità del ragionamento – anche se secondo la nostra autrice la funzione svolta
dai tweets è assai più quella di spotlighting che di tematizzazione, cioè di attivare l’attenzione degli utenti in
connessione a certe issues;
e) polarizzazione: nell’ambiente Twitter, prevalgono la discussione e la condivisione di contenuti «che si sviluppano
all’interno di cluster di individui costruiti in base al principio dell’omofilia» (BENTIVEGNA 2015, p. 86). In altre
parole, il criterio di strutturazione delle comunità online risiede nella identità di opinioni tra utenti – che,
affermandosi quale principio generalmente osservato da ciascuna nicchia di partecipanti, inclina a polarizzare le
interazioni e dunque a creare le premesse per una certa conflittualità dei flussi comunicativi.

COMUNICAZIONE DIGITALE E POPOLARIZZAZIONE DELLA POLITICA

Questi elementi sembrano delineare una sorta di affinità elettiva tra Twitter e partecipazione politica: una
delle più documentate ricerche condotte in materia ha mostrato che, mentre Facebook rappresenta il social
network più impiegato dai cittadini statunitensi nella loro routine quotidiana, ai tweets accordano invece la loro
preferenza per quel che concerne le relazioni a contenuto politico (PARMELEE – BICHARD 2012), soprattutto in virtù
della sua capacità di economizzare e di velocizzare la comunicazione. In tal senso, il rapporto leader-followers che
si instaura nell’arena mediatica è tutt’altro che debole o intermittente e pare influenzare le forme della
partecipazione (condivisione di post e contenuti).

Sotto questo profilo, l’adeguamento delle condotte comunicative dei leader alla media logic, che costituisce il
nucleo centrale del concetto di mediatizzazione, determina contraccolpi significativi anche sul lato della
domanda politica. Le dinamiche che si consolidano al livello delle élites politiche determinano importanti
conseguenze a livello di massa, in particolare per quel che riguarda l’intreccio social media-partecipazione politica.

Fra questi, va certamente citata la popolarizzazione della politica: ovvero «la caduta di ogni barriera tra il
pubblico e il privato […] Come da sempre accade agli attori e ai personaggi famosi dello sport, oggi si riscontra che
anche i politici sono diventati degli ‘intimi sconosciuti’, nel senso che, pur non avendoli mai incontrati, i cittadini
sanno tutto della loro vita privata» (Campus 2009, pp. 466-467). Il punto è che l’abbattimento di queste barriere
scaturisce dalla mediatizzazione della politica e in particolare dell’adattamento del profilo comunicativo, del ricorso
ai media e del contenuto dei discorsi politici proferiti dalle élites ai dettami della media logic (Mazzoleni – Schulz
1999).

Il nesso è noto da tempo: l’emersione di questa nuova forma di intimità non è più il «prodotto di reciprocità e di
conoscenza diretta bensì effetto dei fenomeni della mediatizzazione della politica» (De Blasio – Hibberd – Higgins –
Sorice 2012, p. 81). In questo senso, la privatizzazione del legame governanti-governati assume una
connotazione ancor più intima: «Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, a seguito dei crescenti processi di
divulgazione e di esposizione del sé, gli attori politici […] sono passati dall’essere gli altri, riconoscibili ma distanti,
all’essere intimi sconosciuti, le cui vite personali il pubblico conosce molto bene» (Stanyer 2007, p. 81, corsivo
nostro). È chiaro che i social media, ancor più della televisione, assolvono egregiamente alle funzioni di
personalizzazione e di auto proiezione del sé che secondo Stanyer stanno alla base della popolarizzazione.
Attraverso Facebook, Twitter e, da ultimo, Instagram, i followers percepiscono i capi politici come facenti parte
della propria cerchia intima, perché attraverso i social giungono a conoscenza di una pluralità di informazioni
strettamente private che li riguardano: sanno che Salvini ama la Nutella e che ha 2 figli in tenera età; conoscono la
passione di Renzi per il footing mattutino così come sono perfettamente al corrente che il cagnolino di Berlusconi si
chiama Dudù, solo per citare qualche esempio. Dando una particolare interpretazione della popolarizzazione,
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proprio Silvio Berlusconi è stato il primo uomo politico italiano a trarre vantaggio dalle opportunità proprie della
celebrity politics, un «meccanismo che omologa la leadership politica allo star system» (Campus 2009, p. 467), con
l’invio dell’opuscolo Una storia italiana a tutti gli elettori in occasione della campagna elettorale del 2001.

TIPI DI CELEBRITY POLITICS

esiste una classificazione a cinque voci delle ‘celebrità’ in politica:

1. Political newsworthies: si tratta di attori politici e altri soggetti connessi alle istituzioni politiche, in grado di
innescare circuiti virtuosi di comunicazione e di svolgere attività di self-promotion; figure comuni negli Stati Uniti,
cominciano a colonizzare la sfera politica anche in Europa – si pensi per esempio all’exploit, non solo elettorale
ma anche comunicativo e social, di Emmanuel Macron che, alla guida del neonato movimento En Marche! ha
trionfato nelle presidenziali francesi del 2017;
2. Legacies: in questo caso la celebrità viene dall’essere parenti (coniugi, figli) di politici famosi; vi ricadono inoltre
le «dinastie» politiche, un fenomeno largamente diffuso negli Stati Uniti (si pensi ai Kennedy, ai Bush, ai
Rockefeller, e via dicendo) ma che non rimane ignoto neppure nel nostro sistema politico (i D’Alema padre e
figlio, i Letta zio e nipote, i De Mita, eccetera);
3. Celebrità mediali: non svolgono attività inerenti alla sfera politica, ma si presentano candidati a cariche
pubbliche elettive, cercando di sfruttare la notorietà acquisita dalle loro attività precedenti – in Italia vi è una
robusta tradizione di impegno politico delle celebrità: dal calciatore Gianni Rivera, più volte deputato dal 1987 al
2001, all’attore Enrico Montesano che conquistò il seggio al Parlamento Europeo nel 1994, fino ai casi più
recenti, come l’ex magistrato Antonio Di Pietro, il comico Beppe Grillo, fino al giornalista ex direttore di Sky Tg24
Emilio Carelli (2018) e alla «Iena» TV Dino Giarrusso (2019), questi ultimi eletti rispettivamente alla Camera e
all’Europarlamento di Strasburgo nelle fila del Movimento Cinque Stelle;
4. Celebrità lobbisti: attori solitamente dotati di un ampio seguito mediatico, che prendono posizione pubblica a
favore di cause, partiti o candidati, il cui ruolo, a seguito del loro endorsement, spesso prestato in veste di veri e
propri testimonial, viene accostato al lobbying – gli esempi nostrani riguardano le dichiarazioni di voto formulate
da attori, cantanti, personaggi dello spettacolo, atleti, specie in prossimità degli appuntamenti elettorali: restano
celebri quelle di Mike Bongiorno, di Raimondo Vianello e di Arrigo Sacchi nel 1994 a favore di Silvio Berlusconi,
così come quelle di Fiorella Mannoia, di Fedez e di Orietta Berti che nel 2018 si espressero apertamente a
sostegno del Movimento Cinque Stelle;
5. Event celebrities: è il caso di persone «comuni», che hanno però acquisito la notorietà grazie a fatti di cronaca,
rimasti scolpiti nella memoria dell’opinione pubblica perché spesso collegati ad eventi spiacevoli (vittime di
ingiustizie, superstiti di attentati terroristici, autori di gesti esemplari o eroici): in Italia l’operaio Antonio
Boccuzzi, unico sopravvissuto dell’incidente sul lavoro presso lo stabilimento siderurgico ThyssenKrupp che, nel
dicembre 2007, costò la vita a sette suoi colleghi, dal 2008 al 2018 ha ricoperto la carica di Deputato per il
Partito Democratico – un caso a cavallo tra questa categoria e quella delle legacies è invece rappresentato da
Olga D’Antona (Di Serio da nubile), eletta alla Camera nel 2001 e nel 2006, vedova del giuslavorista Massimo
D’Antona, ucciso dalle (nuove) Brigate Rosse il 20 maggio 1999.

POPOL ARIZZAZIONE DELL A POLITICA, POP POLITICS E PARTECIPAZIONE POLITICA

Alla luce di quanto sostenuto finora, quale tipo di rapporto si può stabilire tra popolarizzazione e partecipazione
politica di massa? In particolare, è possibile affermare che la prima rappresenta uno stimolo per la partecipazione
politica della classe diretta oppure no? E, in caso affermativo, quale tipo di comportamenti partecipativi determina?

La comunità scientifica non ha risposto in maniera univoca. Semplificando un poco, diciamo che, da un lato, la
maggioranza degli studiosi ritiene che, per quanto non sia priva di aspetti ambigui, la popolarizzazione e gli
sviluppi mediatici ad essa collegati abbiano allargato le opportunità di partecipazione a disposizione dei cittadini;
dall’altro lato si schierano coloro che inclinano invece ad attribuire un ruolo problematico ai media, specialmente
sotto il profilo della qualità della partecipazione indotta dall’esposizione mediatica. Esaminiamo dunque le posizioni
di entrambi i filoni per poi tirare le fila del ragionamento fin qui affrontato.

Nel primo indirizzo di studi rientra appieno il contributo di Liesbet Van Zoonen: il suo esame ravvicinato della
comunicazione politica riguarda specificamente la connessione che è possibile stabilire, nelle
contemporanee arene mediatiche, tra «intrattenimento» e «cittadinanza politica» (VAN ZOONEN 2005,
p. 9). Adottando questo punto di vista, l’autrice mira a chiarire se la popolarizzazione generi ricadute sul piano del
coinvolgimento politico della classe diretta. La risposta alla quale perviene è positiva: nel senso che, in assenza
degli sviluppi connessi alla popolarizzazione, il distacco tra governanti e governati, tra politica e cittadini sarebbe
destinato ad acuirsi. Al contrario, la cultura “pop” rappresenta un utile strumento per ripristinare e irrobustire la
rappresentanza democratica, gettando così le basi per una sorta di nuovo civismo: in vista di questa finalità, tutto
il repertorio delle arti, dalla cinematografia alla letteratura e finanche alle fiction TV che parlano di politica (si pensi
alla celeberrima serie televisiva House of Cards) possono rivelarsi molto utili, quali leve per solleticare l’interesse e
la partecipazione politica dei cittadini. In questo approccio, perfino l’estrema personalizzazione della politica può
fungere da stimolo positivo: è allora evidente che, per analogia, l’argomento si presta ad acquisire uno spessore
ancora maggiore nel caso dei social media e dei contenuti di intrattenimento (pop) veicolati da questi ultimi.

Questi elementi sono presenti anche in altri lavori che hanno lumeggiato i tratti definitori della pop politics: in tal
senso, il riferimento al lavoro di Mazzoleni e Sfardini appare ineludibile (Mazzoleni – Sfardini 2009). Si tratta di uno
studio che sarebbe riduttivo, oltre che erroneo, considerare limitato all’analisi dei dinamismi riscontrati in rapporto
al mezzo televisivo. Esattamente come Van Zoonen, riservando specifica attenzione al caso italiano, gli autori sono
interessati a tematizzare la progressiva convergenza tra politica e cultura popolare. Un binomio che nel nostro
Paese sembra piuttosto solido: «Le logiche mediali hanno davvero cambiato il modo di fare politica e di comunicare
la politica: leader, partiti, candidati si sono adattati alle grammatiche tipiche dei media e soprattutto della
televisione, accettando che spettacolo, immagine, seduzione e divertimento siano aspetti centrali nei processi di
produzione di messaggi e contenuti. E anche il pubblico degli spettatori-cittadini sembra aver preso gusto per
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questa trasformazione del discorso politico verso forme più accessibili e anche divertenti» (Mazzoleni – Sfardini
2009, p. 133). Il vettore che esprime al massimo grado questo connubio viene identificato nell’infotainment –
l’esempio forse più emblematico è Porta a porta, il programma condotto da Bruno Vespa – che in ambito domestico
ha messo solide radici soprattutto a causa di tre fattori interconnessi: «l’influenza che i media hanno avuto nel
plasmare il modello culturale diffuso e, quindi, i valori e i modelli di comportamento dominanti; una ragione
economica legata all’assetto del mercato televisivo; infine, le peculiari caratteristiche sociologiche del pubblico
italiano» (Campus 2009, p. 468). La tesi centrale è che, proprio grazie alle trasmissioni di infotainment, la
popolarizzazione assurga a proprietà centrale del legame cittadini-media-politica in Italia: e che, per quella via,
eserciti un impatto civico, coinvolgendo fasce di popolazione altrimenti collocate ai margini della politica, le quali si
dimostrano pronte a raccogliere gli input caratterizzati nel senso della spettacolarizzazione dei contenuti. In linea
con queste osservazioni, non sorprende che l’entertainment venga citato tra le principali motivazioni per cui un
campione rappresentativo di cittadini statunitensi afferma di seguire i leader politici su Twitter (Parmelee – Bichard
2012, p. 66).

SOCIAL MEDIA E “SORVEGLIANZA DEMOCRATICA”

Ritroviamo così un nesso familiare, quello tra il monitoraggio esercitato dal cittadino «vigile» o «critico» e l’utilizzo
dei circuiti social. Zaller si pone sulla stessa lunghezza d’onda, asserendo che sono le soft news ad accendere la
miccia dell’interesse e della partecipazione politica dei cittadini, specialmente laddove veicolano delle storie
esemplari che facilmente riguardano veri e propri casi mediatici (Zaller 2003): «quando la politica si intreccia a
situazioni reali che riguardano direttamente gli individui diventa molto più facile far convergere l’attenzione su
questioni importanti […]. Ad esempio, il racconto di una persona licenziata ridotta in miseria colpisce più di
un’accurata analisi dell’impatto globale della crisi economica. La storia, e soprattutto le immagini, di un bambino
gravemente ferito suscitano più orrore della semplice conta dei morti e dei feriti in un’azione di guerra» (Campus
2009, p. 470). Una drammatica illustrazione dell’impatto di cui parla Zaller viene dalla foto che nel 2015, a partire
da Twitter, invase i media di tutto il mondo e che ritraeva il corpo senza vita del piccolo Aylan, un bimbo siriano
annegato insieme ad altri migranti, che il mare aveva restituito alla spiaggia di Bodrum (Turchia). Il potenziale
partecipativo di Internet e dei social media, quali strumenti efficaci per rendere operativo il monitoraggio dei
cittadini, è esplicitamente sostenuto da Peter Dahlgren (Dahlgren 2009), secondo cui, malgrado gli aspetti
controversi della Rete, è innegabile che i media digitali abbiano arricchito il repertorio delle forme «alternative»
della partecipazione politica. Queste modalità, che vanno dall’intervento in forum online ai blog fino al citizen
journalism e al ruolo giocato dai social networks nel promuovere movimenti di opinione, sembrano godere di un
crescente credito da parte della classe diretta, soprattutto in virtù della loro facilità di accesso e di impiego, che si
accompagnano a costi assai contenuti e ad «una struttura paritaria e orizzontale di relazioni sociali» (Campus
2009, p. 472).

UN ALTRO ACCOSTAMENTO: I SOCIAL COME VETTORI DEL MALAISE DEMOCRATICO

Accanto agli approcci che colgono il ruolo attivamente giocato dai social in vista della partecipazione politica degli
utenti, si colloca un filone di studi relativamente prolifico, che invece non condivide né la valutazione positiva
dell’influenza esercitata dai media sulle pratiche partecipative, né il sostanziale ottimismo riguardante la qualità
dei comportamenti partecipativi che si dispiegano grazie al supporto dei mezzi digitali. A ben vedere, si tratta per
molti versi dell’estensione di un argomento già rivolto contro i media tradizionali, specialmente la televisione, che
la letteratura specialistica denomina video malaise, un concetto elaborato per la prima volta da Michael Robinson
negli anni Settanta (Robinson 1976). La tesi centrale di questo studioso è che l’esposizione alla TV non stimoli la
partecipazione, bensì tenda a rafforzare il senso di inefficacia nei confronti della politica e perciò alimenti il
malessere democratico, costituito da sentimenti quali sfiducia, apatia, cinismo che sempre più caratterizzano i
cittadini. Secondo la sua ricerca, questi atteggiamenti sono correlati direttamente all’intensità del consumo
televisivo. La spiegazione di questa connessione è duplice:

1. il video malaise dipende dal medium stesso: sulla scia di McLuhan (McLuhan 1967), Robinson sostiene che
«l’informazione televisiva tende a caratterizzarsi per un’enfasi prettamente negativa sugli avvenimenti di cui
rende conto, in cui gli aspetti attinenti alla violenza e alla conflittualità vengono rimarcati in modo particolare, o
comunque preferiti a risvolti di altro tipo» (Caniglia – Mazzoni 2011, p. 63);
2. conta anche la particolare audience che si espone alle trasmissioni televisive: in quanto media
mainstream, la TV si dimostra particolarmente adeguata a raggiungere i segmenti del pubblico che l’autore
definisce inadvertent, cioè che non si sintonizza sui canali televisivi per ottenere informazioni sul dibattito
pubblico o sulla politica in generale – «Questa intuizione presenta elementi di evidente interesse dato che […] la
politica pop trova proprio negli inadvertent il proprio ‘zoccolo duro’» (Caniglia – Mazzoni 2011, p. 63, corsivo
nell’originale).

Insomma, mentre i sostenitori della popolarizzazione come variabile incentivante la partecipazione politica dei
cittadini ritengono che la convergenza tra cultura pop e politica giochi un ruolo positivo, i proponenti dell’approccio
incentrato sul video malaise vi intravedono invece un elemento che deprime le prassi partecipative. Una
successiva articolazione del modello, nella quale non è difficile riconoscere tanto gli accenti edelmaniani che
biasimano lo «spettacolo politico», quanto le stimmate dell’analisi sartoriana relativa alla videopolitica (Sartori
1997), attribuisce ai media e specialmente alla TV un irreversibile effetto di dumbing down, espressione talvolta
tradotta con «istupidimento», con la quale però si intende, più precisamente, il fatto che gli attori mediatici
tendono sempre più a descrivere le vicende politiche secondo i canoni della cultura popolare di massa – in altre
parole, una sorta di assimilazione della politica al gossip. Così facendo, ai mezzi di comunicazione di massa si
attribuisce sostanzialmente un ruolo «nefasto» (De Blasio – Hibberd – Higgins – Sorice 2012, p. 83). Sulla stessa
lunghezza d’onda si collocano quegli autori che istituiscono un nesso di tipo causale tra la fruizione del mezzo
televisivo a scopi di intrattenimento e il declino delle spinte partecipative nei regimi democratici, dovuto al
crescente disincanto dei cittadini verso i riti ed i valori della democrazia, che Robert Putnam ha efficacemente
sintetizzato nel suo ormai classico volume Bowling Alone (Putnam 2000).

UN RUOLO NEGATIVO PER I SOCIAL MEDIA?


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In questo senso, gli argomenti del video malaise e del dumbing down, con l’enfasi negativa sull’impiego dei codici
spettacolarizzanti e personalizzanti da parte degli attori mediatici per narrare la politica e per diffonderne i relativi
frames, si trasferiscono nel mondo social, dove queste dinamiche si manifestano con evidenza ancora maggiore.
Essi forniscono la base argomentativa per rendere conto della montante disaffezione dei cittadini nei confronti
della politica nelle democrazie mature, ormai largamente documentata da un’impressionante messe di studi – che
spesso si presenta in associazione alla «crescente emozionalizzazione delle vicende pubbliche» (De Blasio –
Hibberd – Higgins – Sorice 2012, p. 84).

A quali cause possono essere ricondotte tali fenomeni? Se il diffuso discredito colpisce soprattutto la classe
politica, i principali contributi dedicati al tema non hanno mancato di imputare precise responsabilità anche ai
soggetti che popolano l’arena mediatica: a questo riguardo, alcuni autori (Nye – Zelikow – King 1997) hanno
sostenuto che, con specifico riferimento agli Stati Uniti, i politici non sono oggi più corrotti o meno onesti che in
passato, bensì – sulla scorta di quanto già osservato da Robinson – è la maggiore insistenza dei media su questi
aspetti a condizionare e a plasmare la formazione degli atteggiamenti di cinismo e di apatia predominanti nel
pubblico americano.

IL RUOLO DEI SOCIAL SULLA PARTECIPAZIONE POLITICA: UN BILANCIO

Si possono invece fissare alcuni snodi che, sul piano strutturale, emergono dalla nostra ricognizione e paiono
caratterizzare il rapporto tra social media e partecipazione politica, di cui bisogna tenere conto ai fini dell’esame
ravvicinato della comunicazione politica della classe diretta. Sintetizzando, si tratta dei seguenti:

1. nell’ambito delle democrazie contemporanee, si registrano sviluppi compatibili con i caratteri distintivi della
2. «democrazia del pubblico» (Manin 2010);
3. in questo modello, come diversi studi hanno mostrato ad abundantiam, si impone un nuovo tipo di cittadino
partecipante, quello variamente denominato «vigile», «monitorante» o «critico»;
4. la partecipazione politica di questi cittadini-elettori – la cui consistenza relativa appare in aumento nelle
poliarchie odierne – appare sbilanciata verso la contestazione delle policy approvate dal governo e/o verso il
controllo negativo delle stesse élites politiche;
5. i social media, alla luce delle loro proprietà (basse soglie di accesso, costi contenuti, costruzione di comunità
online fondate sul principio di omofilia, effetti di polarizzazione delle opinioni, disintermediazione), sembrano
particolarmente adeguati a veicolare la comunicazione politica che accompagna queste modalità negative di
partecipazione e a rinsaldare il controllo dei governanti ad opera dei governati – insomma, il paradigma
interpretativo del cittadino critico risulta irrobustito dal modus operandi dei media digitali.

Alla luce di queste osservazioni, è allora necessario spostare il fuoco sul processo politico delle democrazie, al fine
di accertare in quale grado le opportunità partecipative rese disponibili da Internet e dai social network si
traducono in comportamenti concreti.

SOCIAL MEDIA, PARTECIPAZIONE POLITICA E PROCESSO POLITICO

Passando al livello processuale delle democrazie contemporanee, i dinamismi politici che vi si dispiegano paiono
offrirci una pluralità di conferme relative all’incremento delle modalità di intervento di matrice negativa nel
processo politico da parte dei cittadini. Per esempio, la mobilitazione online attivata dal blog di Beppe Grillo,
che ha poi condotto alla fondazione del Movimento Cinque Stelle – a giudizio di Rosanna De Rosa, un emblematico
caso di «organizzazione tecnologica della sfiducia» (De Rosa 2014) –, pur non essendo privo di ambiguità
(Biancalana 2014), costituisce soltanto un esempio, fra i tanti, delle nuove possibilità di partecipazione dischiuse
dai media digitali.

Da ciò deriva la necessità, dal punto di vista della scienza politica di taglio empirico, di orientare l’investigazione
della comunicazione politica emessa dalla classe diretta in rapporto alle pratiche partecipative garantite dai social.
Va detto che questo tipo di accostamento è oggi poco o punto presente nella letteratura specialistica, il cui apporto
cognitivo raramente si distacca dalla pura descrizione dei fenomeni sottoposti ad indagine. Perciò, limiteremo la
nostra rassegna a quei contributi che invece acquistano una valenza esplicativa, nel senso che, più o meno
esplicitamente, ancorano i tratti peculiari della comunicazione digitale alle condizioni politiche che presiedono al
comportamento politico tipico della classe diretta.

In questo senso, l’itinerario che ci accingiamo a percorrere riprende il legame teorico ormai familiare tra variabili
comunicative e fattori extra comunicativi (genuinamente politici), in chiave esplicativa, già esplorato per la classe
politica e per i gruppi di pressione. Tuttavia, nel caso della classe diretta, l’esame della materia sarà, di necessità,
meno sistematico e meno articolato.

Fra i temi sui quali si è più frequentemente fissata l’attenzione degli studiosi e che si prestano ad essere vagliati
secondo la nostra impostazione analitica figurano:

a) il ricorso ai media digitali nell’ambito della mobilitazione della partecipazione di base perseguita dai movimenti
collettivi, avente non di rado una connotazione di protesta;
b) l’adozione di un certo tipo di registro comunicativo da parte dei cittadini, impiegando i circuiti social, in
occasione della campagna elettorale.

COMUNICAZIONE DIGITALE E MOVIMENTI COLLETTIVI

Cominciando dal primo aspetto, quanto più l’arena mediatica delle democrazie si è aperta alla colonizzazione ad
opera delle nuove tecnologie, tanto più si è osservato il loro impiego crescente, che non di rado è andato oltre la
semplice efficacia strumentale, poiché ha determinato un mutamento delle fondamenta sulle quali

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poggiano sia i legami partecipativi sia, di conseguenza, le pratiche comunicative dei cittadini che
intervengono nel processo politico.

A tale proposito, le proprietà dei social networks, in particolare la personalizzazione tendono a ridefinire i fattori
che guidano la mobilitazione della partecipazione politica. Nello stesso modo in cui alcuni autori rilevano una sorta
di privatizzazione del rapporto governanti-governati (Ceccarini 2015), vi sono studiosi che hanno riscontrato una
più accentuata personalizzazione dell’azione collettiva, specialmente ad opera di movimenti di protesta,
favorita dal ricorso ai social (Bennett – Segerberg 2011). Nello specifico, in una situazione di crisi economica,
Bennett e Segerberg hanno sottoposto ad esame le conseguenze generate dall’adozione di una comunicazione
personalizzata - ovvero che si rivolge ai singoli individui con contenuti tagliati su misura rispetto alle loro
preferenze e alla loro scala di valori - connessa all’utilizzo dei mezzi digitali, sulla organizzazione delle
contestazioni contro il meeting G20 tenutosi a Londra nel 2009, da parte di tre gruppi di protesta «reticolari»: Put
People First (PPF), un cartello formato da oltre 160 ONG, associazioni ambientaliste e sindacati britannici; Meltdown
(MD), un’organizzazione-ombrello che raccoglieva formazioni più militanti, connotate in senso anti-capitalista;
infine, Climate Camp (CC), una rete di gruppi adusa a mobilitare in chiave individuale i partecipanti, facendo leva
sulla loro dedizione alle cause ambientaliste.

Nell’ambito di questo disegno di ricerca in prospettiva comparata, la comunicazione di tipo «personalizzato» viene
definita sulla base di due aspetti:

1. la presenza di stimoli e opportunità di personalizzazione dell’impegno partecipativo in rapporto tanto ai


contenuti quanto alle azioni implicate dalla partecipazione;
2. la relativa assenza di stimoli che contraddistinguono la definitiva unanimità ideologica del gruppo.

COMUNICAZIONE PERSONALIZZATA VS. ORGANIZZAZIONE COLLETTIVA

L’interesse verso queste fattezze della comunicazione pubblica viene dal fatto che, solitamente, la letteratura li
intende quali ostacoli all’unità e alla disciplina interne, a loro volta convenzionalmente collegate ad un’azione
collettiva efficace. Alla luce di queste premesse, diventa allora intrigante indagare se e in che misura la
mobilitazione di un pubblico individualizzato possa andare a detrimento dell’efficacia della pressione esercitata
dalle reti di azione collettiva che ne scaturiscono. Bennett e Segerberg spostano perciò il fuoco su come i tre
movimenti analizzati hanno impiegato i media digitali per ottenere il coinvolgimento di una pluralità di individui, al
fine di comprendere se i soggetti organizzati che offrono ai cittadini affiliazioni più flessibili mostrano anche un
ridimensionamento del loro impegno, dell’attenzione di cui godono presso l’arena mediatica o della solidarietà di
gruppo. Viene sottoposta a scrutinio anche l’ipotesi alternativa, ovvero se i reticoli che presentano un framing più
rigido della protesta, nonché una minore propensione all’impiego dei social media, mostrino un apprezzabile
vantaggio in termini di sistematicità, di controllo e di stabilità della rete medesima.

I RISULTATI DELL’ANALISI DI BENNETT E SEGERBERG

L’offerta di opportunità di interazione personalizzata attraverso circuiti social nel periodo di svolgimento del G20
londinese raggiunge l’apice nel sito Internet di Put People First, si attesta ad un livello significativo per Climate
Camp ed è invece minima per Meltdown. Semplificando un poco l’articolata disamina dei risultati condotta dai
nostri autori, queste cifre paiono suggerire una interpretazione piuttosto nitida del nesso tra comunicazione e
partecipazione politica:

la scoperta più interessante […] riguarda la chiara evidenza per cui la coalizione che ha adottato strategie di
comunicazione più personalizzate ha mantenuto la rete più forte. Il PPF appariva aperto ad affiliazioni altamente
personalizzate, ma in questo investimento non sembrava aver sacrificato parte significativa del controllo
organizzativo o della propria capacità politica: la coalizione guidata dal PPF non solo ha dominato lo spazio della
protesta immediata, ma ha anche fornito ai cittadini nitidi canali di accesso alle azioni future (come le successive
proteste sul clima). Mentre il sito di Meltdown è presto scomparso, PPF ha lasciato sedimentare diverse strutture,
come il sito web della coalizione, a guisa di ricordi viventi delle azioni condotte durante il G20, con i messaggi e le
gallerie fotografiche create dai partecipanti stessi. Così, la personalizzazione della partecipazione ha invitato i
cittadini in ambienti condivisi dove hanno creato contenuti importanti e stabilito relazioni interpersonali sia online
che offline (Bennett – Segerberg 2011, p. 794).

Detto altrimenti, la «customizzazione» della comunicazione, consentita dai social media, attira la partecipazione
individuale dei cittadini: nel quadro della organizzazione di eventi di protesta, perciò, la personalizzazione della
comunicazione si rivela una risorsa adeguata ad attirare e ad allargare l’impatto partecipativo dei messaggi,
rafforzando, a parità di condizioni, la pressione esercitata sulle élites politiche: in questo caso, il coinvolgimento dei
londinesi nelle manifestazioni ha certamente amplificato la risonanza delle domande politiche rivolte ai capi di
Stato e di governo riuniti al G20. Quindi, lo studio di Bennett e Segerberg conferma che l’efficacia della
partecipazione politica di base, sotto il segno (negativo) della protesta, non pare affatto scalfita dal ricorso ai
media digitali: anzi, sembra uscirne rinvigorita.

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LEZIONE 27- PROCESSO POLITICO, COMUNICAZIONE E MOVIMENTI COLLETTIVI

SOCIAL MEDIA E COMUNICAZIONE POLITICA: IL LIVELLO DELL A STRUTTURA POLITICA

Continuiamo ad esaminare il ruolo della comunicazione politica digitale in rapporto alla partecipazione politica di
massa in connessione ai movimenti collettivi.

Questa volta spostiamo il fuoco sul sistema politico italiano: Vergani (2011) pone sotto osservazione due eventi di
grande richiamo, il primo V-Day organizzato da Beppe Grillo il l’8 settembre 2007 e il No-B (cioè, No Berlusconi)
Day del 9 dicembre 2009, una manifestazione spontanea scaturita dall’appello su Facebook lanciato da un gruppo
di blogger a seguito della dichiarazione di incostituzionalità – da parte della Corte Costituzionale – della legge
124/2008, meglio nota come «Lodo Alfano», che prevedeva la sospensione dai processi penali dei titolari delle
principali cariche dello Stato (Presidenti della Repubblica, del Senato, della Camera e del Consiglio dei Ministri) per
tutta la durata dei rispettivi mandati – ma che una parte dell’opinione pubblica aveva inteso quale provvedimento
ad personam a favore dell’allora premier, Silvio Berlusconi (Vergani 2011). I due appuntamenti sono accomunati
sia dall’impiego dei social media per scopi di mobilitazione politica, sia dall’atteggiamento fortemente critico verso
il Governo.

IPOTESI, METODOLOGIA E SCELTA DEI CASI NELL A RICERCA DI VERGANI (2011)

La ricerca mira sostanzialmente a rispondere a due quesiti:

1. i media digitali incentivano (ed accelerano) il processo di «disintermediazione», sottraendo quote di potere
politico ai mediatori tradizionali della partecipazione politica (in primis i partiti e i mass media tradizionali) e
rendendo più agevole l’accesso diretto dei partecipanti al potere decisionale?
2. i medesimi media consentono di spezzare quella «asimmetria della visibilità», per cui il rapporto governanti-
governati nelle poliarchie contemporanee appare caratterizzato da una certa opacità a vantaggio dei primi,
promuovendo invece la trasparenza?

La metodologia adottata per l’analisi consiste essenzialmente nell’analisi del contenuto di documenti raccolti in
Rete. Se le prime indagini delle mobilitazioni promosse grazie ai digital media avevano sottolineato il carattere
strumentale delle nuove tecnologie, pochi anni dopo, nel V-Day e nel No-B Day è facile intravedere esempi
qualificanti di mobilitazioni nate online, in cui cioè Internet non rappresenta semplicemente il canale
attraverso cui gli eventi vengono comunicati, bensì costituisce l’ambiente (virtuale) nel quale le
occasioni di partecipazione politica vengono decise e prendono forma, per trasferirsi solo in un secondo
momento offline.

Sul piano empirico le manifestazioni oggetto di studio paiono organizzarsi secondo uno schema comune: entrambe
prevedono infatti un luogo di partecipazione principale (Bologna per il V-Day, Roma per il No-B Day), con la
contemporanea convocazione di mobilitazioni minori nelle piazze delle maggiori città italiane e in talune straniere,
contando sull’attivismo di un congruo numero di connazionali residenti all’estero. Inoltre, in tutti e due i casi la
strategia preparatoria delle manifestazioni si è avvalsa di strumenti propri della popolarizzazione, soprattutto in
chiave di celebrity politics, facendo leva sul sostegno di figure note nel campo del giornalismo, dello spettacolo,
della cultura, del cinema, della musica che hanno dichiarato pubblicamente la loro adesione alle iniziative (si
ricordano Fiorella Mannoia, Luciano Ligabue, Biagio Antonacci, Milena Gabanelli per il V-Day; Mario Monicelli, Dacia
Maraini, Daniele Silvestri, Roberto Vecchioni per il No-B Day: Vergani 2011, p. 209). Comune è anche, sul piano dei
contenuti, la connotazione di protesta, unita alla fiducia riposta appunto nei mezzi digitali, considerati adeguati ad
aprire una nuova fase di partecipazione democratica dal basso, nella prospettiva della disintermediazione.

Queste modalità partecipative paiono inoltre coerenti con l’autonomia (che gli organizzatori intendono prima di
tutto come presa di distanze) dalle formazioni politiche presenti in Parlamento: ambedue gli appuntamenti mettono
fuorigioco i partiti, poiché i promotori scelgono di autoconvocarsi quali cittadini, al di fuori delle appartenenze
politiche e/o ideologiche – tanto che respingeranno con fermezza ogni tentativo, da parte della politica tradizionale,
di appropriarsi delle iniziative o di accreditarsi presso i partecipanti come ‘fiancheggiatori’ o sostenitori delle
manifestazioni (si pensi, in questo senso, ai tentativi portati avanti da Italia dei Valori o dai partiti della sinistra
radicale).

I RISULTATI DELLA RICERCA (VERGANI 2011)

Le divergenze tra i due eventi partecipativi riguardano direttamente i quesiti di ricerca, ovvero la stipulazione di
nessi significativi con l’arena mediatica. Nello specifico, è possibile individuare due matrici principali di
discordanza, connesse agli atteggiamenti tenuti dagli organizzatori e dai partecipanti verso, rispettivamente, i
partiti ed i media mainstream – riassunti in tabella:

Dunque, l’impulso protestatario consente di assimilare gli eventi partecipativi esaminati: tuttavia, la definizione dei
bersagli che li contraddistingue appare assai diversificata.

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In linea con la mentalità populista che poi emergerà appieno con la fondazione del M5S (Chiapponi 2017), Grillo
imposta il V-Day esprimendo «una critica feroce e generalizzata verso l’intera classe politica italiana, sia di destra
che di sinistra» (Vergani 2011, p. 211).

Al contrario, l’appuntamento del No-B Day reca esplicitamente, nella sua medesima denominazione, la
dichiarazione dell’avversario contro il quale la mobilitazione viene promossa: Silvio Berlusconi e, di riflesso, la sua
parte politica. È allora plausibile affermare che lo spettro della protesta articolata dal V-Day è più ampio
di quello imputabile al No B- Day. Passando alla seconda dimensione di divergenza, accanto all’abile (e
comune) utilizzo dei media digitali, le due mobilitazioni intrattengono una relazione differenziata con i media
tradizionali. Il V-day nei giorni precedenti all’evento è stato pressoché ignorato dai media tradizionali, mentre ha
ottenuto una forte risonanza nella blogosfera; Invece, nel caso del No B-Day il processo è stato differente: dopo
l’adesione, il 27 ottobre, di Idv e Prc al No B-Day, il caso è stato ampiamente trattato dai media mainstream. In
questo caso, la copertura e la benevola attenzione assicurata all’evento da parte di alcuni media tradizionali, per
esempio quelli vicini alla sinistra (il gruppo editoriale Repubblica-L’Espresso), hanno amplificato il messaggio e,
perciò, hanno funzionato da volano anche online, moltiplicando le adesioni all’appello e alla
manifestazione. In questo senso, la protesta anti-Berlusconi è stata in grado di generare una specie di ‘circolo
virtuoso’ che invece non era neppure nelle intenzioni degli organizzatori del V-Day, verso i quali l’ostracismo dei
mezzi di comunicazione tradizionali si è rivelato pressoché granitico.

LE CONSEGUENZE SULLA COMUNICAZIONE POLITICA

Le differenze osservate non rimangono senza conseguenze sul piano della comunicazione politica. In particolare,
proclamando la propria estraneità tanto alla politica quanto all’arena mediatica mainstream, Grillo e i
partecipanti al V- Day riescono ad interpretare credibilmente il ruolo di imprenditori politici della
protesta a 360 gradi: ne deriva «un linguaggio aggressivo e poco ortodosso rispetto a quello dell’arena politica
istituzionale: Grillo ad esempio, esprimendosi sulla politica italiana, parla della metaforica ‘necessità di aprire il
tombino e fare uscire la puzza’» (Vergani 2011, p. 212), non esita a designare gli avversari con espressioni irridenti
(«psiconano» per Berlusconi, «Gargamella» per Bersani, «rigor Montis» per Monti), né trascura il ricorso al
turpiloquio e ai calembour tipici della satira (Cosenza 2013).

La focalizzazione della dimensione comunicativa ci porta inoltre a tracciare qualche conclusione sul ruolo dei
social media nell’attivare la partecipazione politica dei cittadini a questi eventi. In sintesi, è chiaro che
qui gli strumenti resi disponibili dal web 2.0 e dalla digitalizzazione della comunicazione non sono (ancora) in grado
di soppiantare il ruolo dei partiti quali mediatori tradizionali del rapporto governanti-governati, se non in
connessione ad azioni specifiche e ben delimitate nel tempo e nello spazio. Da questo angolo visuale, la
«disintermediazione» è da intendersi come scavalcamento dei partiti sul piano comunicativo, ma
certamente non designa, né prelude a un accesso diretto dei cittadini al potere politico. Quanto al
secondo interrogativo, cioè se i social media abbiano risolto il paradosso dell’asimmetria della visibilità, insito nei
media tradizionali, dalle risultanze empiriche è plausibile trarre qualche inferenza interessante. In tal senso, la
Rete è stato l’unico strumento che, solo, è riuscito a rompere l’asimmetria. La rete, piuttosto, è stata il
trampolino di lancio: entrambi gli eventi hanno avuto una copertura notevole dopo l’evento stesso, ed in entrambi i
casi gli organizzatori si sono avvalsi dell’appoggio di celebrità che devono la loro notorietà anche (e in molti casi
soprattutto) alla mediazione dei media mainstream tradizionali. Inoltre questo processo di rottura della
asimmetria della visibilità non è necessario né sufficiente, e comunque non succede mai nello stesso
modo: entrambi gli eventi studiati hanno avuto una grande visibilità in rete, ma solamente il No B-Day ha saputo
accendere un circolo virtuoso di visibilità tra media digitali e media tradizionali prima dell’evento stesso.

Se è vero che i mediatori politici tradizionali come i partiti sono in grado di emergere con più forza nei media
mainstream, i movimenti che nascono nella rete e che sono organizzati e costituiti secondo le logiche della rete
sono più capaci di sfruttare internet per conquistare consensi e stimolare partecipazione sia online sia offline.

QUALCHE OSSERVAZIONE CONCLUSIVA…

Dalla nostra rapida analisi di alcune investigazioni empiriche aventi per oggetto il rapporto tra partecipazione
politica della classe diretta, media digitali e comunicazione, sembra dunque emergere un quadro che rispecchia
per molti aspetti le nostre aspettative: in particolare, il nesso già osservato, sul piano strutturale, tra social
media e condotte partecipative di segno negativo – improntate cioè alla contestazione delle policy e/o della
classe politica – in capo alla classe diretta sembra tenere.

Anche a livello processuale, emerge dunque una sorta di «affinità elettiva» tra digital media e articolazione della
protesta politica, tanto in una situazione di crisi economica contro il meeting del G20 (Bennett – Segerberg 2011),
quanto in una situazione più ordinaria e «di routine» entro il sistema politico italiano, dove si sviluppano i
movimenti di Beppe Grillo che chiama a raccolta i followers in occasione del V-Day e dei blogger impegnati
nell’organizzazione del No- B Day. Diventa perciò interessante verificare se questa associazione mantiene la sua
validità in rapporto alle circostanze forse più peculiari di un’arena politica democratica, quelle che
contraddistinguono le campagne elettorali.

SOCIAL MEDIA E COMUNICAZIONE POLITICA IN CAMPAGNA ELETTORALE: “IL CLIMA D’OPINIONE”

Nel caso delle contese elettorali, il cosiddetto clima d’opinione rappresenta una variabile che produce
conseguenze rilevanti sui comportamenti partecipativi dell’elettorato.

Paolo Grossi ritiene che il concetto sia utile a spiegare le dinamiche del sistema politico italiano contemporaneo,
con specifico riguardo alle dinamiche elettorali e alla comunicazione politica ascrivibile all’opinione pubblica
(Grossi 2006). Attribuendo al nostro Paese i tratti distintivi della «democrazia del pubblico» (Manin 2010), questo
autore ritiene che la categoria analitica del «clima d’opinione» sia intimamente connessa ai cambiamenti che
questo modello interpretativo denota.

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In altre parole, specialmente in Italia, dove gli sviluppi connessi alla mediatizzazione, alla personalizzazione e alla
spettacolarizzazione della politica si sono presentati in epoca successiva rispetto ad altre democrazie europee, ma
in maniera simultanea ed in forma particolarmente accelerata, il clima d’opinione funge da «framing generale
dell’agire politico in un dato contesto, e si riferisce alla centralità delle dinamiche cognitive e comunicative nello
spazio pubblico per tutti i tipi di elettori, e per la stessa costruzione dei vissuti politici e delle opzioni valoriali»
(Grossi 2006, p. 51). In altre parole, riflettendo sugli aspetti psicologici e valoriali che si collocano a monte della
partecipazione elettorale – e, perciò, la orientano – questo studioso ci rammenta che, nel momento in cui il singolo
cittadino deve decidere se recarsi alle urne, nonché quale candidato o partito votare, la sua opinione inclina ad
assumere come punto di riferimento il clima d’opinione collettivo – che non di rado è costruito dai media o è
comunque percepibile perlopiù per il tramite dell’arena mediatica. Come si traduce questa catena di ragionamenti
sul piano dei fatti politici? Diciamo che l’influenza esercitata sulle condotte partecipative dal clima
d’opinione dominante, in un certo momento e in un dato contesto politico, non si presta ad una
interpretazione univoca: questa variabile può spingere gli indecisi verso quello che sembra essere il probabile
vincitore delle elezioni, oppure rappresentare un richiamo per i votanti «fedeli» ad una formazione politica,
mobilitandoli (per andare a votare) o smobilitandoli (inducendoli all’astensione) – per esempio, in occasione delle
elezioni politiche italiane del 2001 e del 2008 in Italia, che consegnarono il successo ed una solida maggioranza
parlamentare a Silvio Berlusconi e al centrodestra, gli esperti convengono nell’affermare che in entrambi i casi si
trattò di una «vittoria annunciata», per cui il clima d’opinione era fortemente connotato in questo senso – ovvero,
l’aspettativa che la competizione era da tempo decisa a favore del Cavaliere, fondata sui dati di sondaggio diffusi
prima della campagna elettorale, per un verso galvanizzò i sostenitori dell’area moderata, motivandoli
ulteriormente al voto e probabilmente convinse una parte di indecisi a schierarsi con Berlusconi, per l’altro verso
demotivò gli avversari, incentivandoli ad astenersi dal partecipare ad un confronto che appariva ormai segnato in
negativo. In effetti, in ambedue i casi il successo di Berlusconi fu nettissimo: nel 2001 il centrodestra prevalse con
18.398.246 voti contro i 13.169.239 della coalizione dell’Ulivo, mentre nel 2008 riportò il voto di 17.403.135 italiani
contro i 14.099.747 del Partito Democratico e dei suoi alleati. A volte il clima di opinione indirizza le scelte
partecipative agendo più sotto forma di «clima sociale», amplificando la risonanza di certe issues, come
l’«emergenza criminalità» o l’«SOS clandestini», fornendo appoggio a scelte politiche, decisioni, atteggiamenti
conseguenti.

DIGITAL MEDIA, COINVOLGIMENTO ATTIVO DEI CITTADINI, COMUNICAZIONE POLITICA

Fissato il ruolo del «clima d’opinione», Cristian Vaccari ha cercato di identificare i tratti che qualificano la relazione
trilaterale tra digital media, partecipazione elettorale e comunicazione politica: assumendo il punto di vista del
pubblico online, egli ha tentato di lumeggiare le proprietà della Rete quale ambiente partecipativo a disposizione
dei cittadini, in occasione della campagna presidenziale del 2008 negli Stati Uniti (Vaccari 2013), mettendo
esplicitamente in discussione la tesi, assai diffusa nella letteratura specialistica, per cui i media
digitali (Internet e i principali social networks) si rivelano efficaci laddove lo scopo consiste nello
stimolare la partecipazione degli elettori già persuasi di sostenere un determinato candidato o partito –
ovvero, il contesto digitale appare idoneo a rafforzare le opinioni politiche già condivise dai cittadini, mentre
sarebbe poco utile al fine di innescare un mutamento negli atteggiamenti, nei valori o nelle idee politiche del
pubblico virtuale (Bimber – Davis 2003; Bennett – Iyengar 2008).

Questa lettura, fondata sull’ipotesi dell’allineamento tra media, fruizione selettiva alla comunicazione e scelta di
voto, conta una pluralità di riscontri empirici e, come sappiamo, non è affatto nuova nel campo degli studi che
indagano il rapporto tra mass media e partecipazione politica (Key 1961). Tuttavia, in collegamento ai media
digitali, viene argomentata sostenendo che la comunicazione online, selezionata dagli utenti – che si espongono ai
flussi comunicativi virtuali solo se decidono di farlo – e articolata secondo il principio di omofilia, si ridurrebbe ad
una gigantesca camera dell’eco (echo chamber), limitandosi a rinsaldare le convinzioni dei partecipanti,
preesistenti alla campagna. Secondo questo approccio, vivremmo in un’epoca in cui la comunicazione politica,
specialmente quella online, produce effetti minimi sugli atteggiamenti e sui comportamenti politici dei cittadini
(Bennett – Iyengar 2008).

Vaccari si colloca in una posizione di netta rottura con questa impostazione. Prima di tutto, sul piano
teorico, egli adotta il cosiddetto modello RAS (receive-accept-sample), secondo cui è possibile, attraverso la
comunicazione, attivare dei cambiamenti nelle convinzioni dell’audience, a patto che il messaggio sia ricevuto e
solo in un secondo momento accettato. In tal senso, la semplice esposizione al flusso comunicativo non è
sufficiente: al contrario, la comunicazione deve essere elaborata dal ricevente, che, a seguito di questo processo,
deve accogliere lo stimolo così ricevuto nel suo orizzonte fattuale e valoriale. A queste condizioni, la
comunicazione digitale può veicolare contenuti idonei a innescare cambiamenti nei principi condivisi dalla classe
diretta e, di conseguenza, orientare diversamente la loro partecipazione elettorale.

VARIABILI INTERVENIENTI NEL RAPPORTO TRA DIGITAL MEDIA, COMUNICAZIONE, PARTECIPAZIONE

L’influenza dei digital media sulla partecipazione deve fare i conti con due variabili intervenienti:

 il grado di «consapevolezza politica» degli utenti a cui il messaggio si dirige;


 l’intensità del messaggio persuasivo, che veicola un contenuto più o meno incompatibile con le convinzioni già
possedute dai cittadini.

Il primo fattore riguarda il livello al quale i cittadini si interessano alla politica e ne comprendono i meccanismi. Si
tratta di un elemento cruciale che, per certi aspetti, è fonte di un paradosso: da un lato, l’esposizione alle
comunicazioni di e- campaigning (campagna elettorale digitale) è positivamente correlata alla consapevolezza
politica dei cittadini – a parità di condizioni, cittadini più «consapevoli» tenderanno perciò ad essere
consumatori più voraci dei messaggi propagandistici diffusi online; dall’altra parte, le medesime fasce
di utenti saranno però anche le meno influenzabili, giacché, proprio in virtù della loro elevata expertise
politica, si mostreranno più pronti ad opporre resistenza alle comunicazioni non corrispondenti alle loro credenze.

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Il secondo fattore designa «una proprietà che appartiene tanto al messaggio quanto al pubblico interessato ad
esso» (Vaccari 2011, p. 111) e ha a che vedere con il numero di persone raggiunte dalla comunicazione: a tale
proposito, data una determinata intensità del messaggio, è possibile individuare quale tipo di pubblico, in termini
di consapevolezza politica, appare il più influenzabile (v. tabella nella slide successiva) – ad esempio, ad un’elevata
intensità del messaggio il pubblico formato dai meno consapevoli sarà il più permeabile all’influenza della
comunicazione, mentre in caso di intensità minima, solo i destinatari più consapevoli tenderanno a cambiare
opinione.

LE IPOTESI DELLA RICERCA

Rimaneggiato in questi termini l’inquadramento teorico della relazione tra social media, comunicazione online e
pubblico di massa, è facile osservare che il rafforzamento delle attitudini preesistenti identifica solo uno dei
possibili esiti dell’esposizione alla comunicazione e non indica affatto una specifica proprietà del medium
impiegato.

Se poi caliamo il modello RAS nella realtà dei sistemi politici democratici, ne deriva che «la e-campaigning
potrebbe favorire messaggi almeno di media intensità, capaci di raggiungere elettori mediamente consapevoli,
specialmente negli Stati Uniti» (Vaccari 2011, p. 112), tenendo conto del fatto che il massiccio impiego degli
strumenti dischiusi dai social media può inoltre aumentare le possibilità di una reciproca e scambievole
identificazione tra governanti (o candidati a governare) e governati che, secondo i più autorevoli studiosi di
retorica, rappresenta un prerequisito della comunicazione persuasiva.

Perciò, le ipotesi di ricerca che Vaccari intende verificare scaturiscono direttamente da questi ragionamenti: la
prima riguarda la definizione della misura in cui i messaggi diffusi in Internet possono raggiungere
livelli di intensità tali da convincere gli elettori; la seconda riguarda l’identificazione delle condizioni
necessarie a raggiungere tale intensità.

LAMETODOLOGIA E I PRINCIPALI RISULTATI DELLA RICERCA

La metodologia utilizzata per corroborare queste congetture consiste in interviste in profondità, somministrate da
novembre 2008 ad aprile 2009 a 31 professionisti (consulenti e impiegati) impegnati nella campagna elettorale per
le elezioni presidenziali americane (poi vinte da Barack Obama) a favore di diversi candidati (Repubblicani,
Democratici, Indipendenti). I risultati più rilevanti possono essere sintetizzati come segue:

 gli esperti intervistati sono concordi nell’asserire che «le principali funzioni della campagna condotta su Internet
stanno nel rafforzamento delle opinioni e nella mobilitazione dei sostenitori» (Vaccari 2011, p. 115), ciò in
ragione anche della configurazione dell’arena mediatica americana: in effetti, gran parte del pubblico online è
formato da supporters dell’uno o dell’altro candidato, mentre è valutazione comune che lo strumento più adatto
a perseguire scopi persuasivi sia la TV;
 tuttavia, diversi intervistati sostengono che la salienza relativa e l’ampiezza tanto della
mobilitazione, quanto della persuasione dispiegate in Rete possono variare, in ragione delle
differenti fasi della campagna – per esempio, il fine persuasivo deve necessariamente avere predominanza
nelle prime battute della campagna, per avere poi realistiche chances, man mano che la data dell’elezione del
Presidente si avvicina, di mobilitare online gli elettori già convinti;
 inoltre, gli intervistati affermano che la campagna digitale si rivela comunque efficace a determinare
un cambiamento di opinione nei cittadini, poiché mira a coinvolgere utenti in grado sia di ricevere, sia di
accettare, previa elaborazione, i messaggi di propaganda – dunque, un tipo di pubblico che si allinea a quanto
previsto dal modello RAS.

Rispetto a quest’ultimo aspetto, «diversi fattori possono agevolare la persuasione: hanno a che fare con il
comportamento online degli utenti, il bersagliamento di elettori considerati persuadibili con contenuti rilevanti, la
crescita delle proporzioni della diffusione […] nonché la persuasione indiretta attraverso la comunicazione
interpersonale» (Vaccari 2011, p. 116).

Fra questi fattori, le attività degli elettori online acquistano un’importanza particolare: comportamenti quali il
reperimento di informazioni riguardanti i candidati e le elezioni in genere rientrano tra le condotte più
comunemente seguite dai cittadini che partecipano ad una e-campaign. Nello specifico, tuttavia, i professionisti
interpellati da Vaccari conferiscono un significato particolare a questi rilievi, giacché ritengono che l’evidente
aumento di accessi ai siti ufficiali dei candidati, specialmente alle loro pagine biografiche/personali e a quelle che
specificano il loro posizionamento rispetto alle principali issues, che solitamente si impenna nell’immediatezza
della scadenza elettorale, certifica che il pubblico online include una quota cospicua di elettori disposti a cambiare
orientamento di voto. Se a ciò sommiamo il crescente allargamento delle audiences digitali, ne viene che negli

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Stati Uniti i professionisti della comunicazione inclinano sempre più a considerare e a trattare gli utenti coinvolti
online in maniera diversificata rispetto ai supporters.

UN COMMENTO

Queste risultanze empiriche sono molto interessanti: perché ci dicono che è ipotizzabile un collegamento
esplicativo tra una determinata comunicazione online (in questo caso, messaggi propagandistici in
campagna elettorale), da una parte, e l’intensità della partecipazione elettorale, dall’altra. A tale riguardo, i
dati raccolti da Vaccari confermano che, sebbene la maggioranza relativa degli utenti che hanno visitato il sito
ufficiale di McCain (candidato Repubblicano) e, rispettivamente, di Obama (candidato Democratico) durante la
campagna presidenziale 2008, fossero elettori fidelizzati ai due candidati (quindi, già convinti di votarli), in
ambedue i casi significative minoranze di visitatori erano costituite da utenti indipendenti o addirittura della parte
avversa – per esempio, si calcola che un terzo di coloro che si collegarono al sito di Obama appartenessero agli
Indipendenti e addirittura un quinto ai Repubblicani. Allora, sul piano del comportamento di voto ascrivibile ai
cittadini, è plausibile sostenere che l’e-campaigning del 2008 si rivelò particolarmente intensa, nei termini del
modello RAS.

Al di là delle conclusioni generali a cui approda Vaccari, che avvalorano la capacità euristica dello schema teorico
receive-accept-sample, a noi preme rilevare che il medesimo contributo certifica empiricamente che, nel contesto
statunitense, i mezzi digitali incentivano un tipo di comunicazione politica idonea ad aprire ai cittadini modalità di
partecipazione elettorale:

 che non sono in linea con le loro esperienze precedenti e, anzi, scaturiscono dalla persuasione veicolata
da input comunicativi tendenzialmente contrari o comunque avversi a quelli già ospitati nel loro orizzonte
fattuale e valoriale;
 che non si inscrivono in una prospettiva protestataria, bensì di sostegno positivo ad un candidato o ad
una parte politica.

I RISULTATI DI VACCARI IN RAPPORTO ALLA LETTERATURA SPECIALISTICA

I risultati appena illustrati contrastano con le (numerose) risultanze empiriche secondo cui il carattere critico, di
protesta o negativo associato ai comportamenti comunicativi e partecipativi tenuti dalla cittadinanza
nell’ecosistema digitale costituisce un elemento non esclusivo ma certamente predominante anche sul piano
processuale. Questo tratto è stato più volte confermato dalla letteratura: da ultimo, uno dei contributi più solidi, sul
piano teorico, dedicato al confronto tra visione «ottimistica» delle possibilità di partecipazione dischiuse da
Internet e visione «disincantata» delle medesime, identifica sei modelli interpretativi della relazione tra tecnologie
online e comportamenti partecipativi di massa. Attraverso una dettagliata rassegna delle opzioni in campo, questo
studio certifica che difficilmente l’andamento del rapporto governanti-governati nelle democrazie contemporanee
favorirà la concretizzazione dei tre modelli di matrice «rivoluzionaria» – che postulano, rispettivamente, il
rafforzamento della sfera pubblica, la sostituzione delle organizzazioni politiche tradizionali con gruppi auto-
organizzati online e la democrazia diretta in forma digitale –, mentre sarà più probabile il verificarsi di uno dei
modelli alternativi, fondati sul «patrocinio della verità», oppure sulla

«mobilitazione dei votanti» o ancora sopra il «monitoraggio sociale» attraverso gli appelli online (crowdsourcing),
tutti e tre accomunati dalla centralità attribuita all’idealtipo di cittadino critico (Fung – Russon Gilman – Shkabatur
2013).

Proprio il registro negativo che emerge quale denominatore prevalente delle relazioni stabilite online offre il destro
per un collegamento con una articolazione saliente del dibattito contemporaneo intorno alla partecipazione politica
online (specialmente elettorale): quella che riguarda concetti quali fake news, post-verità, echo chamber. Per
esempio, è stato sostenuto che questi fenomeni sono strettamente connessi all’impiego dei social networks, che,
nel quadro delle democrazie contemporanee, avrebbero segnato l’avvento di una società segnata dalla

«disintermediazione» e dalla «disinformazione» (Quattrociocchi – Vicini 2016); o, ancora, che il risultato di certe
elezioni, in particolare le presidenziali americane del 2016, è stato determinato in misura decisiva – certuni
asseriscono addirittura «falsato» – dal sapiente sfruttamento, da parte di Donald Trump, delle fake news o della
post-verità (Cosentino 2017; Block 2019). Si apre così uno spazio di riflessione assai impegnativo, avente per
oggetto l’effettiva sussistenza delle garanzie democratiche, specie per quel che riguarda la pluralità e l’oggettività
delle fonti di informazione (Dahl 1993). Non è certamente questa la sede per affrontare un interrogativo così
gravoso. Al di fuori di ogni pregiudizio di valore, tuttavia, occorre perlomeno accennare a questi aspetti, cercando
di chiarirne le componenti essenziali nonché di comprendere le ragioni per cui la letteratura inclina ad associarne
l’origine ed il consolidamento ai social media in quanto tali.

PARTECIPAZIONE POLITICA, COMUNICAZIONE, FAKE NEWS, POSTVERITA’

Anche nella letteratura scientifica, non è ormai raro imbattersi in argomentazioni che inclinano ad ipostatizzare il
contenuto dei messaggi diffusi via social media, nel senso delle fake news, cioè di notizie false, manipolate o,
prendendo a prestito dal gergo giornalistico, «bufale» - leggiamo, a questo riguardo, il passo seguente:

«essere sempre online – il 58% degli italiani afferma di esserlo quotidianamente attraverso gli smartphone -
ricevere notifiche sul proprio cellulare, avere profili social in diverse piattaforme (Facebook, Twitter, Instagram,
ecc.), aumenta la probabilità di essere raggiunti da notifiche e informazioni attraverso questi specifici canali. [...] I
dati rilevati attraverso l’indagine Demos-Coop fanno osservare come nel 2015 il 28% degli italiani affermasse di
utilizzare i social per informarsi. Due anni dopo, nel 2017, quella componente era già salita al 45%. Ciò testimonia
non solo la rilevanza della rete su questo fronte, quello dell’informazione, ma anche il fatto che un segmento,
sempre più ampio di cittadini, può diventare un potenziale destinatario di fake news»(Ceccarini – Di Pierdomenico
2018, p. 337, corsivo mio).
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Il ragionamento pare dare per scontato che le fake news siano veicolate solo attraverso i social networks, giacché
il rischio di esporsi a questi contenuti viene esplicitamente associato alla quota di utenti raggiunti dai social –
suggerendo implicitamente che coloro che non frequentano i mezzi digitali si pongono al riparo dal pericolo di
manipolazione dell’informazione. Il che è smentito dai fatti: nel senso che la storia dell’umanità pullula di
tentativi (anche riusciti) di manipolare l’informazione. Vi sono esempi di notizie che oggi sarebbero definite
fake durante la Rivoluzione Francese (come la voce secondo cui la corte di Luigi XVI fosse prossima alla bancarotta
finanziaria); i giornali delle colonie inglesi d’Oltreoceano, desiderosi di conquistare l’indipendenza dal Regno Unito,
nel corso della Rivoluzione Americana scrissero di pellerossa sanguinari assoldati da Re Giorgio per combattere
accanto alle truppe regolari inglesi (McInytre 2018, p.98)

Oppure, si pensi ai «fatti del Golfo del Tonchino» del 4 agosto 1964, che fornirono al Presidente americano Lyndon
Johnson l’argomento per ottenere dal Congresso, il 5 agosto 1964, l’avallo all’invio di truppe americane nel
Vietnam del Sud, dando così inizio ad una onerosa guerra per gli Stati Uniti, conclusa solo 10 anni dopo, con la loro
sconfitta. Gli eventi in questione riguardavano il presunto attacco di unità navali del Vietnam del Nord al
cacciatorpediniere statunitense Maddox, mentre si trovava in acque internazionali: come documentato da Robert
Hanyok, uno storico facente parte dello staff della National Security Agency degli USA, i funzionari della stessa
agenzia alterarono deliberatamente le prove, rese poi pubbliche, a sostegno di questa tesi. Insomma, l’attacco al
Maddox non si era mai verificato e la notizia era un fake: anche se all’epoca non esistevano i social media, la sua
diffusione convinse Johnson ad impegnarsi massicciamente nel conflitto, che costò agli Stati Uniti decine di migliaia
di morti (Hanyok 1998).

SOCIAL MEDIA E COMUNICAZIONE POLITICA: IL LIVELLO DELL A STRUTTURA POLITICA

L’episodio ci consente di porre in rilievo un punto, sottolineato anche dalla letteratura recente: le fake news non
designano semplicemente la creazione e diffusione di informazioni non corrispondenti al vero. Piuttosto, si tratta di
notizie deliberatamente false, dove l’avverbio segnala l’esistenza di una strategia sottostante: in altre parole, il
carattere distintivo delle fake news consiste nel fatto che esse si inseriscono sempre in un orizzonte
strategico, per cui la loro creazione è sempre mirata allo scopo che i loro creatori vogliono ottenere
(McIntyre 2018, p. 105).

Non si tratta, appunto, di un fenomeno nuovo. Come già osservato, nella nostra prospettiva le fake news rientrano
appieno nel campo di applicazione del concetto di manipolazione dell’informazione. Il loro grado di efficacia,
rispetto al fine che si propongono, può quindi variare. Detto altrimenti: nella misura in cui l’obiettivo strategico dei
funzionari della National Security Agency consisteva nel determinare il conflitto aperto tra Stati Uniti e Vietnam del
Nord, le fake news circa i presunti incidenti del Golfo del Tonchino si sono rivelate efficaci. In questo senso, l’utilizzo
politico delle fake news è del tutto peculiare e si discosta dal tipo di impiego che le stesse notizie rivestono in altri
ambiti sociali.

A questo proposito, vi sono autori che hanno identificato nella satira il terreno di origine e di coltura di questo
genere di notizie (McIntyre 2018; Block 2019). Tuttavia, è bene non fare confusione tra i due ambiti: sebbene, in
entrambi, i produttori ed i diffusori siano perfettamente consapevoli che stanno maneggiando notizie false, a
divergere sono i fini – mentre nel caso della satira l’obiettivo è suscitare il riso, spesso veicolando contenuti del
tutto inverosimili, come molti profili presenti nei social media non cessano di documentare (in Italia, uno dei più
noti è l’account Lercio.it); in politica gli obiettivi perseguiti attraverso la manipolazione – che è, lo ricordiamo, una
forma di potere – sono di natura, appunto, politica, avendo a che fare con l’andamento e gli esiti della lotta per il
potere.

POST-TRUTH POLITICS

Sulla base di queste considerazioni, le fake news si potrebbero descrivere pure come le unità costitutive della post-
truth politics, un concetto che ha guadagnato le luci della ribalta mediatica – e accademica – nel 2016, in
corrispondenza della vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti (Pitruzzella – Pollicino –
Quintarelli 2017, p. 70): una recente indagine ha sostenuto che, malgrado una quota consistente degli
stessi sostenitori del tycoon candidato Repubblicano sapesse che il loro beniamino, nei suoi discorsi
di campagna elettorale, fosse solito fare ampio ricorso alle fake news, ciò non ha costituito un freno
al sostenerlo, perché nella loro prospettiva si è fatto portatore di una retorica dell’autenticità – una nozione
diversa dalla verità (Montgomery 2017).

Sulla stessa scia, l’Oxford English Dictionary ha decretato «post-truth» la «parola dell’anno» 2016, chiarendo che
essa si

«riferisce o denota circostanze nelle quali i fatti oggettivi sono meno influenti, nel plasmare la pubblica opinione,
degli appelli all’emotività e alle credenze individuali» (citato in Block 2019, p. 2, corsivo nostro). La carica emotiva
e la connessione con un sistema di credenze scollegato con la realtà empirica ricorre in numerose definizioni
accademiche del concetto. A questo proposito McIntyre ha argomentato che il prefisso «post» «è mirato ad
indicare non tanto l’idea che la verità è ‘passata’ in senso cronologico (come in ‘dopoguerra’), bensì nel senso che
la verità si è eclissata – cioè che è irrilevante» (McIntyre 2018, p. 5). Alla stessa maniera, in vista della costruzione
di una «teoria politica della post- verità», Ignas Kalpokas asserisce che nell’ambito della post-truth politics «le
narrazioni politiche (e non solo) esistono semplicemente senza avere una stretta relazione con una realtà di fondo
– o, piuttosto, costituiscono semplicemente una realtà parallela di per sé» (Kalpokas 2019, p. 13). Questi tratti
distintivi hanno ripercussioni sul contenuto e sull’andamento del dibattito intorno alla «politica della post-verità»:
tra le più rilevanti, spicca quella per cui le contro argomentazioni di chi si oppone alle fake news, per avere la
meglio sulla retorica connotata come post-truth, non possono fondarsi esclusivamente sul fact-checking, sulla
«verità» o sulla «realtà» degli eventi quali armi risolutive del confronto verbale o comunicativo. Il perché è presto
detto: se i fatti sono irrilevanti, ne viene che anche il loro svolgimento concreto non è importante. In tal senso,
come è giustamente stato osservato, il concetto di verità perde il suo ancoraggio empirico (McIntyre 2018, pp.
167-168).

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Naturalmente, nella misura in cui il processo elettorale viene invaso da fake news e dal massiccio impiego della
post- truth politics, ci si può legittimamente porre questioni che riguardano le implicazioni per la correttezza e la
libertà della partecipazione politica tenuta dai cittadini, nonché gli esiti che ne derivano. Si tratta di questioni molto
serie, che si collocano saldamente sul piano normativo, ma che non è possibile affrontare in questa sede.

INTERNET, FAKE NEWS E POST-TRUTH POLITICS: QUALE RAPPORTO?

Perché, tanto nel linguaggio ordinario e giornalistico, quanto in una pluralità di contributi scientifici, si tende a
identificare sia le fake news, sia la politica della post-verità (che ne costituisce un aggregato più raffinato ed
articolato) come contenuti tipicamente veicolati da Internet e dai social media. Perché? In sintesi, vi è una risposta
ben precisa a questa domanda: perché questi strumenti si dimostrano particolarmente adeguati alla loro
produzione e diffusione. Nel dettaglio, si possono elencare almeno sei ragioni che spiegano questa proprietà
(Pitruzzella – Pollicino – Quintarelli 2017, pp. 71-72):

1. nella Rete, ossia in un sistema di informazione decentralizzato, le possibilità di creare e mettere online le fake
news aumentano esponenzialmente rispetto al mondo offline: fattori facilitanti sono per esempio l’assenza di
dispositivi di controllo e di responsabilità previsti per gli editori oppure la virtuale assenza di barriere all’accesso;
2. le possibilità di condivisione virtualmente illimitate dei social networks (attraverso likes, share, retweets)
assicurano a tutti i contenuti – e perciò anche alle «bufale» – una rapida propagazione nel web;
3. in un ecosistema virtuale dove esistono pochi gatekeepers dell’informazione, è chiaro che una menzogna o una
notizia verosimile ma falsa, per la logica dell’algoritmo in cui sono inserite, viene rilanciata e postata in
evidenza, essa e così può essere recapitata a milioni di destinatari ed ottenere la parvenza di fatto non oggetto
di controversia;
4. il fenomeno delle echo chamber, in cui il singolo utente spesso si trova immerso, lo porta ad accogliere come
«vere» le informazioni che gli provengono dalla sua cerchia social, semplicemente perché corrispondono ai suoi
gusti, alle sue preferenze o in generale ai suoi standard;
5. anche la perdita di fiducia nei media tradizionali, a vantaggio dei social media, nonché la crescita esponenziale
degli utenti online, come abbiamo visto, rappresentano sviluppi che non vanno guardati solo con ottimismo,
poiché in qualche misura riducono le opportunità di confronto critico tra fonti dell’informazione, alcune delle
quali soggette a codici etici che in Rete sono assenti – si può così approdare ad una omogeneizzazione dei
contenuti che, nel caso della diffusione di fake news, può rivelarsi molto problematica;
6. infine, la polarizzazione e la frammentazione dei pubblici digitali agevolano la germinazione di «gruppi chiusi
animati da sentimenti negativi nei confronti di tutti coloro che non appartengono al gruppo e a credere a tutte
quelle notizie che gettano discredito sugli altri» (Pitruzzella – Pollicino – Quintarelli 2017, p. 72).

NON SOLO FAKE NEWS…

Pur non entrando nel merito delle distorsioni generate dalla diffusione della post-truth politics e dalle fake news,
accanto all’avvertenza che la loro reale consistenza nelle poliarchie contemporanee non può essere oggetto di
generalizzazioni impressionistiche ma deve, al contrario, sempre esibire un solido ancoraggio al terreno empirico,
occorre ribadire che, sul piano strutturale, i regimi democratici maturi paiono (ancora) possedere tutte le risorse
affinché l’opinione pubblica possa distinguere tra manipolazione e libera manifestazione delle opinioni. A questo
riguardo, inoltre, come altri hanno correttamente notato, dalla definizione generalmente accettata di fake news –
che postula la deliberata intenzione di creare e diffondere notizie false, il che equivale, lo ripetiamo, alla
manipolazione dell’informazione – discende che tutte le notizie false che tuttavia non presentano l’attributo della
intenzionalità non dovrebbero essere considerate, a rigore, veri e propri fake. Ad esempio, rimarrebbero al di fuori
del campo di applicazione del concetto (Pitruzzella – Pollicino – Quintarelli 2017, pp. 73-74):

1. gli errori non intenzionali – come la notizia per cui il Presidente Trump avrebbe rimosso un busto di Marin Luther
King Jr. dalla stanza ovale della Casa Bianca;
2. i rumours della Rete che non scaturiscono da un contributo o da un articolo ben preciso;
3. le teorie cospiratorie;
4. la satira, che per definizione ingigantisce o rimpicciolisce dati fattuali con finalità comiche;
5. le affermazioni dei politici nell’esercizio della loro funzione di libera manifestazione del pensiero;
6. i report che possono indurre in inganno, ma che non sono chiaramente falsi.

NOTE SULL A COMUNICAZIONE POLITICA NEI REGIMI TOTALITARI E AUTORITARI

LOTTA POLITICA E REGIMI TOTALITARI

Analizzare la comunicazione politica nel quadro dei totalitarismi significa, prima di tutto, collegare il
comportamento comunicativo degli attori ai tratti strutturali di un’arena politica burocratica, ove la lotta per il
potere assume le caratteristiche che già abbiamo esplicitato e che riprendiamo:

1. la competizione che ha per oggetto il potere politico è chiusa: il tratto strutturale tipico del regime, cioè
l’assenza di pluralismo, acquista qui la massima evidenza, giacché i leader titolari di cariche politiche
appartengono in toto al partito unico, cioè la sola organizzazione ammessa a partecipare alle elezioni – nel caso
in cui il sistema le preveda ai fini della mera legittimazione formale della classe politica burocratica;
2. la regola del gioco politico, che decide chi vince e chi perde nella lotta per il potere, non è infatti quella
elettorale, bensì consiste nel gradimento dei burocrati dirigenti – tanto per entrare (tramite cooptazione)
nei ranghi del partito unico, quanto per ascenderne la gerarchia, coloro che vogliono fare carriera politica devono
guadagnarsi il favore e la protezione del vertice;
3. quanto alle relazioni stabilite con l’ambiente, il partito unico è solitamente organizzato in maniera
articolata, prevedendo sottosezioni distinte per unità funzionali, specializzate nei differenti ambiti di attività
(per la scuola, per l’agricoltura, per le forze armate, per lo sport, per l’industria, e via dicendo), grazie a cui
instaura un minimo grado di apertura verso il contesto sociale circostante;

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4. le procedure di avanzamento interne al partito paiono particolarmente lente e complicate, ma producono esiti
relativamente stabili e prevedibili, almeno finché la competizione riguarda i ruoli politici di base o
posizionati al livello intermedio della piramide del potere – mentre le posizioni politiche più elevate, a
cominciare da quella suprema, tendono a diventare permanenti. A questo livello la competizione si
dispiega in un clima di forte incertezza.

UNA CELEBRE DEFINIZIONE DEI REGIMI TOTALITARI (FRIEDRICH-BRZEZINSKI 1956)

La definizione forse più nota delle proprietà dei regimi totalitari è quella avanzata da Carl Friedrich e Zbigniew
Brzezinski (Friedrich – Brzezinski 1956). Avendo presente in particolare le dittature comuniste (l’Unione Sovietica
sotto Stalin) e fasciste (in primis, la Germania nazista), i due scienziati politici hanno isolato sei elementi comuni a
tutti i totalitarismi, ovvero:

1. un’ideologia ufficiale, costituita da un corpus di principi dottrinari che copre tutti gli aspetti vitali dell'esistenza
umana, a cui si presume che aderiscano tutti coloro che vivono in quella società, almeno passivamente;
l’ideologia indica ai leader del partito unico gli obiettivi politici da realizzare, che di solito coincidono con il
raggiungimento di una sorta di “età dell’oro” per l’umanità – contiene cioè un’istanza «chiliastica», basata sul
rifiuto della società concretamente esistente e mirata all’edificazione di un «nuovo mondo» plasmato
dall’ideologia;
2. un partito unico di massa, «tipicamente guidato da un uomo, il ‘dittatore’, formato da una percentuale
relativamente ridotta della popolazione della popolazione (fino al 10 per cento) […] il cui nucleo duro si dedica
appassionatamente e senza mezzi termini all’ideologia», al fine di ottenerne con qualsiasi mezzo l’accettazione
generale – il partito è organizzato per linee gerarchiche, presenta un assetto oligarchico e, a seconda dei casi
concreti, esercita la sua autorità sulla burocrazia oppure mostra tipicamente interrelazioni o sovrapposizioni con i
ranghi burocratici del governo;
3. un sistema di «terrorismo poliziesco» che sostiene ma allo stesso tempo controlla il partito unico, che
colpisce non solo i bersagli plausibili del regime (come i cosiddetti “dissidenti”, che cioè si rendono responsabili
di azioni dirette a rovesciarne la classe politica, quali attentati, dimostrazioni pubbliche, richieste di intervento
indirizzate ad attori esterni), ma anche la popolazione civile, in modo arbitrario;
4. il controllo tendenzialmente monopolistico, fondato sulla piena padronanza delle relative tecnologie,
esercitato dal partito unico su tutti i mezzi di comunicazione di massa, incluso il cinema;
5. il controllo pressoché monopolistico di tutti gli apparati deputati alla lotta armata (uomini in armi,
mezzi di combattimento, tecniche di impiego degli uni e degli altri), tanto verso l’esterno quanto in chiave
domestica;
6. infine, la direzione centralizzata dell’economia, grazie al coordinamento burocratico di unità produttive
prima indipendenti

TEORIA E REALTA’ NEI REGIMI TOTALITARI

La «traduzione empirica» del concetto così definito non è omogenea: per esempio, nei totalitarismi di matrice
comunista il partito unico, quale organizzazione che orienta la legittimazione della classe politica, acquisisce
solitamente una salienza relativa maggiore di quanto accade in quelli di ispirazione fascista – dove invece
l’accentuazione del leader quale rappresentante esemplare del substrato etico valorizzato dalla ideologia di
riferimento, come la «nazione» o la

«razza», assume di norma un rilievo più spiccato. Tuttavia, asseriscono gli autori, i tratti così precisati sono presenti
in tutti i totalitarismi e, aggiungiamo noi, sono del tutto rispondenti all’andamento tipico della lotta per il potere
entro un’arena burocratica.

Al di là della problematicità della sua applicazione ai casi concreti, infatti, per i nostri scopi la teoria classica del
totalitarismo rappresenta un riferimento efficace al fine di orientare l’analisi della comunicazione politica,
soprattutto perché la loro proposta si rivela particolarmente idonea a fare emergere la natura specifica del
regime totalitario, ossia

«la penetrazione e la mobilitazione totale del corpo sociale, con la distruzione di ogni linea stabile di distinzione tra
l’apparato politico e la società. È importante sottolineare il legame tra il grado estremo della penetrazione e il
grado estremo della mobilitazione, poiché l’azione totalitaria penetra la società anche nelle sue cellule più riposte
proprio in quanto la coinvolge interamente in un movimento politico permanente» (Stoppino 2004, p. 997).

È l’ideologia a rappresentare il vettore principale che orienta e guida la «mobilitazione permanente»


della società verso il fine ultimo del regime (si pensi alla realizzazione della società comunista o alla definitiva
supremazia della razza eletta). A sua volta, l’obiettivo finale a cui mira l’azione del partito unico giustifica, nel
quadro totalitario, il movimento continuo verso quello scopo, nonché la distruzione o la strumentalizzazione
dell’ordinamento giuridico democratico e di qualsiasi istituzione vi si frapponga. Per quanto sommarie, queste
precisazioni sono importanti, perché utili a circoscrivere i casi maggiormente illustrativi delle dinamiche totalitarie
pure: che coincidono con le «fasi dello sviluppo più intenso del dominio staliniano in Russia e di quello hitleriano in
Germania» (Stoppino 2004, p. 998). Ne derivano due considerazioni di rilievo.

Primo: il concetto classico di totalitarismo, inteso in senso rigoroso, non può trovare applicazione per tutti i
regimi comunisti, né per tutti i sistemi fascisti. Il che ha conseguenze rimarchevoli sul piano dell’analisi:
l’applicazione della nozione all’Unione Sovietica sotto Stalin (1924-1953) e alla Germania del Terzo Reich sotto
Hitler (1933-1945) esclude dal campo dei totalitarismi l’Italia fascista con a capo Mussolini (1922-1945) – che
invece, secondo l’impostazione di Friedrich e Brzezinski identifica un esempio altrettanto indicativo dei postulati
propri di questa specie di regime. Il punto rimane controverso, giacché tanto gli approcci storiografici quanto i
modelli politologici non hanno (ancora) pronunciato parole definitive sull’argomento. Tuttavia, a noi appare
opportuno mantenere un’accezione restrittiva del concetto, lasciando fuori dal novero dei sistemi (davvero)
totalitari sia le dittature comuniste diverse dall’URSS staliniana, sia, soprattutto, il fascismo italiano (soprattutto in
virtù della sua ridotta capacità di mobilitazione della società).
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Secondo: una volta identificato il tratto dominante dei sistemi totalitari, ovvero la penetrazione-mobilitazione della
società di riferimento, è immediato indirizzare lo sguardo sulla forma comunicativa che più di altre mira
all’ottenimento degli scopi inscritti nella natura del regime: la comunicazione verticale che i leader del partito
unico indirizzano alle masse. Si tratta, in altre parole, della propaganda politica, plasmata dalla ideologia, che
nei totalitarismi si avvale del controllo monopolistico dei mass media e si appoggia a raffinate tecniche
psicologiche, raggiungendo così punte particolarmente avanzate di intensità e di efficacia, come accade con
l’indottrinamento. Certo, i messaggi propagandistici non esauriscono le forme di comunicazione politicamente
rilevanti che è possibile osservare entro questi sistemi: basti citare, a questo riguardo, la comunicazione
orizzontale tra i dirigenti che siedono a capo delle differenti articolazioni gerarchiche del partito unico – i segretari
dei partiti comunisti delle diverse repubbliche socialiste che formavano l’Unione Sovietica (quello russo, quello
ucraino, quello georgiano, e via elencando) oppure i comandanti delle diverse sezioni specializzate del Partito
Nazionalsocialista (Hermann Göring, vice di Hitler, Joseph Goebbels addetto alla propaganda, Eric Röhm capo delle
SA, le squadre armate di difesa, il gruppo paramilitare del partito, solo per citarne qualcuno). In effetti, dire che la
principale istituzione politica del totalitarismo coincide con il «partito unico» non equivale ad
affermarne la piena e permanente unanimità interna: al contrario, la storia della Russia staliniana o della
Germania hitleriana offrono abbondanti (e drammatiche) illustrazioni di come la lotta per il controllo assoluto
dell’arena burocratica e contro le «deviazioni» dall’ideologia ufficiale abbiano spesso travalicato i confini del
dibattito per approdare alla eliminazione fisica degli avversari del dittatore – come accadde nella «notte dei lunghi
coltelli» (30 giugno 1934) quando Röhm e i suoi fedelissimi, sospettati di tramare contro Hitler, vennero trucidati,
le SA vennero sciolte e sostituite dalle SS, con a capo Heinrich Himmler; o come dimostrano gli assassinii, gli
arresti, i processi-farsa (spesso conclusi con l’esecuzione della pena capitale o con la deportazione degli imputati)
che specialmente tra il 1936 e il 1938 colpirono i quadri dirigenti del Partito Comunista dell’URSS accusati di
costituire una minaccia per la leadership di Stalin: le cosiddette «purghe» portarono alla decimazione della vecchia
guardia bolscevica, tra cui spiccavano illustri compagni di lotta di Lenin, come Kamenev e Zinov’ev.

L A PROPAGANDA COME FORMA TIPICA DI COMUNICAZIONE POLITICA NEI TOTALITARISMI

In ogni caso, la rilevanza di queste annotazioni non è tale da porre in dubbio l’assoluta preminenza della
comunicazione politica diretta a conquistare l’adesione ideologica al regime da parte dei subordinati, quale mossa
imprescindibile per la loro mobilitazione e per l’efficace esercizio del controllo totalitario sulla società.

Appare dunque corretto seguire le implicazioni di questo ragionamento e limitare la nostra indagine della
comunicazione nei sistemi totalitari alla propaganda. Peraltro, non si tratta dell’unico limite imputabile al
nostro esame ravvicinato del fenomeno. Come sappiamo, in linea di principio è infatti possibile collegare
l’investigazione della propaganda (variabile comunicativa) a specifici ruoli e a certe situazioni (fattori politici): per
esempio, un conto è la comunicazione che l’élite comunista indirizza alle masse, poniamo, nel 1924-1925,
all’indomani della morte di Lenin, nel momento genetico del regime, quando il ruolo di Stalin è ancora, in sostanza,
di primus inter pares nell’élite dirigente del partito unico; tutt’altra cosa è studiare la propaganda in connessione a
situazioni ordinarie, nel regime ormai consolidato ovvero in corrispondenza di una crisi bellica (si pensi agli eventi
della seconda guerra mondiale). E tuttavia, nelle pagine seguenti non terremo conto sistematicamente di queste
(possibili) articolazioni.

Questo orientamento poggia essenzialmente su due motivazioni: per un verso, la semplificazione del quadro
analitico è necessaria in vista di focalizzare in via prioritaria i dinamismi propri della propaganda; per
l’altro, anche alla luce della limitata durata temporale dei totalitarismi (soprattutto se comparata al
consolidamento delle poliarchie), preferiamo concentrarci sulla esposizione dei contributi che hanno
messo in luce i tratti della comunicazione delle élites politiche totalitarie collegandole a specifici
elementi di natura politica, senza fornirne uno schizzo ad ampio spettro come nel caso dei leader democratici.
In questo senso, una volta riconosciuti i tratti strutturali del regime nell’assenza di pluralismo e negli obiettivi di
penetrazione-mobilitazione della società, appare opportuno soffermarsi sulla caratterizzazione generale della
propaganda, quale strumento che i dirigenti del partito unico impugnano per perseguire ed ottenere gli scopi
inscritti nella natura del regime. L’auspicio associato a questa scelta è che il vantaggio ottenuto in termini di
approfondimento delle istanze comunicative indagate compensi (e superi) il sacrificio della minore sistematicità
dell’analisi.

UN ESEMPIO DI STUDIO DELL A PROPAGANDA: LASSWELL E GLI SLOGAN DEL 1° MAGGIO IN URSS

Harold Lasswell è uno dei più eminenti studiosi della comunicazione politica. Entro il suo approccio assume
centralità il concetto di «propaganda», che «consiste nell’uso intenzionale di simboli politici per influenzare
l’opinione pubblica» (Lasswell – Kaplan 1997, p. 157). Essa ha per oggetto «questioni controverse», che sono cioè
oggetto di dibattito, con il corollario che «la propaganda conforme alle predisposizioni le rafforza; la propaganda in
contrasto con le predisposizioni le indebolisce solo se è sostenuta da fattori diversi dalla propaganda stessa […]. La
propaganda non può alterare la struttura di potere, se non in direzioni verso le quali i partecipanti al processo del
potere sono già predisposti» (Lasswell– Kaplan 1997, pp. 159-160).

Queste considerazioni acquistano un particolare interesse in vista dello studio dei messaggi
propagandistici nel quadro dei totalitarismi. Perché? Da una parte, in questi sistemi l’efficacia della
propaganda nel condizionare il comportamento dei sottoposti poggia certamente anche su «altri fattori», al fine di
piegarne l’ipotetica resistenza, come per esempio il controllo poliziesco e la violenza terroristica; dall’altra parte,
l’assoluta assenza di pluralismo nel campo delle fonti di informazione costituisce un elemento in grado di
massimizzare l’incisività della propaganda.

A questo riguardo, non appare casuale l’interesse di Lasswell per il ruolo giocato dalla propaganda in Unione
Sovietica: egli focalizza l’attenzione sopra gli slogan licenziati dall’élite del partito unico per accompagnare i
festeggiamenti del Primo Maggio, durante un periodo relativamente lungo, dalla prima celebrazione della
ricorrenza nell’ambito del nuovo regime instaurato con la Rivoluzione d’ottobre (1918) – mentre è ancora in corso
la guerra civile tra «rossi» e «bianchi» – fino alla primavera del 1943, quando la festa del Lavoro si svolge nel pieno
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della contro-offensiva intrapresa dall’Armata Rossa per contrastare le truppe dell’Asse, nei mesi immediatamente
successivi alla vittoriosa rottura dell’assedio di Stalingrado (2 febbraio) (Yacobson – Lasswell 1965). Gli slogan
vengono concepiti quali insiemi di parole, frasi o enunciati sintetici, che la classe politica indirizza alle
masse, allo scopo di dirigerne l’azione (Chiapponi 2012, p. 45).

Allora, è immediato osservare che i messaggi stilizzati svolgono una funzione significativa nella comunicazione
propagandistica, giacché individuano uno strumento parsimonioso per esercitare potere attraverso la
manipolazione dei simboli.

LE RAGIONI SPECIFICHE DELLO STUDIO DEGLI SLOGAN DELL A PROPAGANDA SOVIETICA

Lasswell, infatti, asserisce che il tema della propaganda veicolata dagli slogan acquista una valenza peculiare in
rapporto alla leadership del movimento comunista internazionale, che si propone di organizzare le masse al fine di
innescare la rivoluzione proletaria mondiale: perciò, gli slogan costituiscono le unità elementari che
contraddistinguono la propaganda comunista, che deve rispondere ai requisiti di chiarezza, concisione,
autorevolezza presso i destinatari – vi è, da questo punto di vista, una connessione specifica tra comunismo e
impiego degli slogan: in tutti i partiti e movimenti di ispirazione comunista, la linea politica viene
«deliberatamente» e «quasi universalmente» sintetizzata in slogan (Lasswell – Blumenstock 1939, p. 108).

Inoltre, in URSS questi flussi comunicativi rappresentano degli “indicatori pubblici”, per dir così, destinati ai membri
della comunità politica, miranti alla interpretazione univoca delle posizioni promosse e difese dal partito unico:
sono dotati di autorità perché licenziati dall’élite, vengono perciò prodotti e diffusi in quantità cospicua e
presentano una elevata densità di «simboli chiave» – che, nell’accostamento lasswelliano, designano le
componenti fondamentali del mito politico, lo evocano selettivamente e, da ultimo, «economizzano la
comunicazione, offrendo un’esperienza unificante agli individui esposti, quali che siano le differenze di classe, di
personalità, di collocazione spaziale, ecc.» (Fedel 1991, p. 258). Sotto questo profilo, gli slogan rappresentano un
prezioso collante simbolico tra «i teorici del partito, i decision- makers e i militanti nell’ambito del partito e della
comunità» (Yacobson – Lasswell 1965, p. 233).

Pure la scelta del Primo Maggio quale occasione per una esplorazione empirica degli slogan politici non appare
casuale, sull’onda di motivazioni storiche che ne fanno un materiale comunicativo rivelatore delle dinamiche
politiche nel contesto russo e, poi, sovietico. Per un verso, già nell’Impero degli zar (alla fine dell’Ottocento), la
ricorrenza veniva ricordata con manifestazioni pubbliche e scioperi operai (contro cui si scatenava la repressione
poliziesca). A partire dal 1895, le iniziative presero a condensare le richieste politiche in frasi succinte: «il Primo
Maggio divenne una giornata di lotta ‘contro il capitalismo e lo zarismo’, allorché il proletariato russo pretendeva
libertà economica e politica» (Yacobson

Lasswell 1965, p. 234). Per l’altro, durante la Prima guerra mondiale gli slogan del Primo Maggio rappresentarono
la forma espressiva primaria della propaganda bolscevica, diretta a mobilitare le masse operaie al fine del
rovesciamento per via rivoluzionaria dell’ordine autocratico, prospettando la trasformazione della «guerra
imperiale» in «guerra civile» per l’edificazione del comunismo.

IPOTESI E METODOLOGIA DELL A RICERCA DI LASSWELL

Lasswell tiene conto di tutti gli slogan licenziati dal Comitato Centrale del Partito Comunista per celebrare il Primo
Maggio, dal 1918 al 1943 (nessuno slogan fu però ufficialmente deciso nel 1921 e nel 1923): un corpus che
ammonta a 7307 simboli. L’ipotesi principale «nell’esaminare i simboli e gli slogan del Primo Maggio, dal 1918 in
avanti, è di rilevare la forza relativa delle tendenze che portano a ripetere o a modificare l’elenco di slogan
originario» (Jacobson – Lasswell 1965, p. 235). In altre parole, Lasswell intende lumeggiare i fattori
politicamente rilevanti che plasmano la continuità ovvero i mutamenti rilevati nelle mappe simboliche
formate dagli slogan diffusi in occasione della Festa dei Lavoratori. Vi sono poi due quesiti di ricerca
secondari: il primo attiene ai cambiamenti intervenuti nel lessico rivoluzionario lungo la dimensione del tempo, con
specifico riguardo all’invocazione di fattori «personali» rispetto a quelle che si riferiscono a fattori «impersonali» o
«materiali», quali vettori dello sviluppo sociale. Giacché il marxismo attribuisce priorità ai secondi, la ricerca mira
ad estrapolare indicatori che confermino, ovvero smentiscano, un simile orientamento nella propaganda del
regime. Il secondo appare invece connesso all’obiettivo dottrinario supremo che ispira il movimento bolscevico,
cioè la realizzazione di una società «senza classi»: l’instaurazione ed il successivo consolidamento del nuovo
assetto di potere sovietico si rispecchiano, a livello della propaganda, nel graduale abbandono della terminologia
«di classe», a vantaggio di un vocabolario differente, in particolare per designare i diversi gruppi sociali che
agiscono entro i confini dell’URSS? Detto altrimenti: si ravvisa un trend per cui, nell’arco di tempo osservato,
termini quali «proletari»,

«capitalismo», «borghesia», e via dicendo, vengono progressivamente soppiantati da altri, svincolati dal lessico
dottrinario oppure no? La verifica di questa ipotesi è di sicuro interesse, giacché, nel momento in cui la società di
eguali indicata dal marxismo venisse davvero realizzata, non vi sarebbe alcuna esigenza di continuare ad
impiegare il codice ideologico adottato nella lotta contro il capitalismo borghese.

Per vagliare i messaggi così selezionati, Lasswell adotta una tecnica di content analysis. Egli procede anzitutto alla
rilevazione dei simboli chiave contenuti negli slogan. La metodologia prevede quindi la classificazione dei reperti
così ottenuti in una griglia composta da 11 categorie, costruite induttivamente, sintetizzata nella tabella 1 (slide
seguente): nella prima colonna compaiono le denominazioni di ciascuna classe simbolica, nella seconda viene
chiarito il significato imputato alle unità collocate in ogni categoria, mentre la terza le illustra con qualche
esemplificazione dei significanti impiegati (vocaboli, segni linguistici), enucleati dagli slogan.

L A GRIGLIA PER L’ANALISI DEI SIMBOLI NELLA PROPAGANDA SOVIETICA (1918-1943)

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ALCUNE IMPLICAZIONI DELLA CLASSIFICAZIONE

Come in ogni classificazione, ciascuna delle 11 voci deve contenere insiemi mutuamente esclusivi, cioè un singolo
simbolo deve essere archiviato in una ed in una sola categoria. A questo proposito, occorre avanzare un paio di
precisazioni. Da un lato, per esempio, allorché gli slogan menzionano vocaboli come “Internazionale” o
“internazionalismo”, il relativo simbolo chiave può riferirsi al lessico rivoluzionario, così come ad un aspetto relativo
all’universalismo, prestandosi perciò ad essere classificato nella prima ovvero nella quarta categoria simbolica. In
questa occasione, e in altre analoghe, per dissipare l’ambiguità occorre una valutazione ponderata del significato
assunto dai termini nello specifico contesto dello slogan. Dall’altro lato, la composizione della decima classe
(simboli morali) deriva direttamente dalla nona, giacché l’ammontare dei simboli qui contenuti si ottiene
sottraendo al totale dei simboli

vetero-liberali quelli che esibiscono una sfumatura politica (si pensi a parole come «cittadino» o «progressista»):

«Lasswell giustifica questa ‘quasi-duplicazione’ della classe argomentando che i simboli morali hanno un contenuto
generico e perciò appaiono più frequentemente negli slogan rispetto a quelli vetero-liberali, indipendentemente
dalla connessione con un determinato sistema dottrinario» (Chiapponi 2012, p. 49).

LO STUDIO DELLO STILE DEGLI SLOGAN

La specificazione dei simboli chiave non esaurisce lo studio lasswelliano della propaganda sovietica, poiché vi è
un’altra variabile che è necessario porre sotto osservazione, ossia lo stile degli slogan, che ha per oggetto il
modo attraverso cui vengono assemblati i vocaboli che compongono gli slogan del Primo Maggio. Le
unità di analisi sono perciò rappresentate dalle frasi, piuttosto che dai singoli termini. Analogamente a quanto
osservato per l’indagine sopra i simboli chiave, è d’uopo l’approntamento di una griglia classificatoria nella quale
ordinare i reperti protocollari, che si compone di sei classi:

1. frasi di aspettativa: incorporano asserzioni di fatto, collocate nel passato, nel presente o nel futuro – si tratta
perciò di pure descrizioni (per esempio: «Il Primo Maggio è la festa del Lavoro»);
2. frasi di sostegno: richiedono espressamente ai destinatari dello slogan di manifestare il proprio appoggio alla
classe politica: «Lunga vita al Partito Comunista Russo» ne è una illustrazione emblematica;
3. frasi di denuncia: veicolano la riprovazione pubblica dei nemici: «Abbasso le armate dell’imperialismo»;
4. frasi di avvertimento: si appellano ai riceventi il messaggio, ammonendoli circa un pericolo o una minaccia
incombenti, del tipo: «Fate attenzione ai complotti dei nostri nemici»;
5. frasi di indirizzo: denominano le collettività o i gruppi a cui lo slogan è specificamente diretto – «lavoratori»,
«contadini», «soldati dell’Armata Rossa»;
6. infine, le frasi di auto-identificazione dichiarano la fonte stessa dei messaggi, ovvero il partito comunista
dell’Unione Sovietica («Partito Comunista Russo», «il Partito della classe operaia», il «Partito di Lenin»).

I RISULTATI DELL’INDAGINE DI L ASSWELL: CONTENUTO DEGLI SLOGAN

ILLUSTRAZIONE DEI RISULTATI

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La tendenza più evidente consiste nella progressiva riduzione che si osserva nell’incidenza relativa dei simboli
rivoluzionari e universalistici, che subisce una brusca accelerazione dalla metà degli anni Trenta, in corrispondenza
al consolidamento della leadership di Stalin e la fase più acuta delle «purghe».

In questo senso, pare che la frattura prodotta nella comunità dalla Rivoluzione perda vigore man mano che ci si
allontana dai primi anni dell’URSS, ancora segnati dalle contrapposizioni della guerra civile – pure il drastico
ridimensionamento dei simboli anti-rivoluzionari pare autorizzare tale lettura d’insieme. Allo stesso modo, è facile
notare una tendenza di sviluppo esattamente speculare nella produzione dei simboli nazionalisti (in grigio scuro in
tabella), che passano dal 3,2% nella fase della guerra civile al 9,3% nell’ultimo sotto-periodo, quello della reazione
sovietica all’aggressione nazista, lanciata nel 1941 con la cosiddetta «operazione Barbarossa».

Insomma, le cifre sembrano certificare un graduale ripiegamento in senso nazionalista dei simboli
rinvenibili negli slogan deputati a celebrare il Primo Maggio: un andamento confermato anche dalla
costante crescita di attenzione che ricevono i simboli riferiti alla politica domestica. Le altre categorie simboliche
non paiono invece disporsi secondo un trend lineare – il che non significa che non sia possibile tentarne una
interpretazione, istituendo collegamenti significativi con il contesto politico entro il quale si dispiega la
comunicazione propagandistica prodotta dalla classe politica burocratica e indirizzata alle masse: per esempio, vi
sono pochi dubbi che le cicliche impennate nei simboli di azione si registrino in corrispondenza di fasi particolari,
caratterizzate dalla necessità, per le élites, di fare appello all’attivismo e alla collaborazione dei destinatari, come
accade nella II (ricostruzione), nella IV (collettivizzazione forzata dell’agricoltura) e nella VI (sforzo bellico per
reagire all’invasione nazista).

I RISULTATI DELL’INDAGINE DI LASSWELL: LO STILE DEGLI SLOGAN

La dinamica che si evidenzia con maggiore nitore risiede nel crescente utilizzo dei simboli di indirizzo, che
palesano le collettività a cui il messaggio di propaganda è destinato: le frequenze osservate balzano, infatti, dallo
0,7% del 1920 a oltre l’8% negli ultimi due anni di rilevazione.

Gli enunciati che incorporano i simboli di avvertimento rivelano un profilo evolutivo non troppo dissimile, giacché
ammontano all’1% nel 1918 per stabilizzarsi attorno al 7% alle fine del periodo (colonne in grigio chiaro). Le frasi di
sostegno, per converso, non sembrano allinearsi ad un trend connotato in un senso o nell’altro, ma è
interessante notare che raggiungono un picco tra il 1937 e il 1940, quando probabilmente l’élite del
partito avvertì in modo impellente la necessità di reclamare pubblicamente l’approvazione della
propria linea politica, tanto domestica – drammaticamente segnata dalla fase apicale delle «purghe» –
quanto internazionale, con l’avvicinamento alla Germania hitleriana (il patto di non aggressione tra i Ministri
degli Esteri del Reich, Von Ribbentrop, e dell’URSS, Molotov, fu siglato nell’agosto del 1939).

L’invocazione delle simbolizzazioni di denuncia e di aspettativa rimane complessivamente limitata ed esibisce una
curva evolutiva di segno perlopiù negativo. Un discorso a parte meritano i simboli di auto-identificazione: il ricorso
agli enunciati di questo genere aumenta grosso modo fino al 1926, per poi diminuire rapidamente. Sondando più in
profondità i vocaboli effettivamente impiegati negli slogan, Lasswell scopri che questo andamento maschera una
sorta di avvicendamento nei simboli di identificazione rinvenibili nella propaganda: prima del 1926, il simbolo
«Partito Comunista (dell’Unione Sovietica)» veniva impiegato con una certa regolarità, mentre successivamente si
assiste alla sua sostanziale scomparsa. Al contrario, il simbolo «Potere Sovietico» svela una tendenza di sviluppo
esattamente ribaltata – quasi assente prima del 1926, sistematicamente presente dopo.

UN’ INTERPRETAZIONE COMPLESSIVA DELLA PROPAGANDA SOVIETICA

Ragionando sopra queste risultanze empiriche, Lasswell ne trae una interpretazione complessiva della propaganda
sovietica, imperniata sulla nozione di «localizzazione»: come scriverà in Potere e società, «I simboli politici sono
globali o locali, in rapporto all’ampiezza territoriale del loro significato […] Parliamo di espansione o di contrazione
del simbolo, quando, rispetto ad una delle dimensioni indicate, si verificano mutamenti nell’una o nell’altra
direzione» (Lasswell – Kaplan 1997, pp. 150-151).

Nel caso in esame, i trends osservati, con specifico riferimento ai simboli chiave contenuti negli slogan, inducono a
rilevare una «contrazione dall’interno» della mappa simbolica originaria. Quindi, rispetto alla prima ipotesi di
ricerca, Lasswell conclude che il formato della propaganda diffusa durante le fasi precoci del regime,
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fondata essenzialmente sui simboli rivoluzionari, anti-rivoluzionari e universalistici, è stato oggetto di revisioni
non secondarie nel corso del tempo, lasciando gradatamente spazio ad una costruzione simbolica ove
campeggiano, in posizione di supremazia, simboli più locali, che presentano l’Unione Sovietica quale
comunità avente confini ben precisi, ove la leadership appare interessata a consolidare il regime e a stabilizzarne i
pilastri costitutivi nonché i rapporti interni, piuttosto che a marciare alla testa del movimento comunista
internazionale. Il revival degli slogan di matrice nazionalista e relativi esplicitamente alla politica domestica risulta
perciò facilmente comprensibile. Aggregando i risultati per i sei sottoperiodi individuati e ricorrendo ad alcuni
semplici strumenti di statistica descrittiva, come il calcolo degli indici di correlazione, è possibile inoltre
identificare dove si collocano le discontinuità simboliche: una informazione necessaria al fine di gettare luce
sui fattori politici che orientano la produzione della propaganda.

A questo riguardo, i risultati a cui perviene Lasswell mostrano che gli slogan vengono sostanzialmente riproposti,
con lievi variazioni, dal 1918 al 1934. Addirittura, dal 1930 al 1934 si riscontra la quasi identica formulazione
dei messaggi articolati più di 10 anni prima (dal 1918 al 1920) La limitata variabilità riscontrata in questo
arco di tempo è da imputare alla graduale ascesa dei simboli collegati alla politica domestica e alla contrazione più
decisa della simbolizzazione antirivoluzionaria. A ciò va aggiunto che, fino al 1934, i termini che primeggiano nei
messaggi propagandistici richiamano più frequentemente i gruppi sociali nonché i simboli rivoluzionari (vd. tabella
slide 12). La vera e propria discontinuità si situa tuttavia dopo il 1934 ed è dovuta in massima parte
all’innalzamento delle frequenze dei simboli vetero-liberali e nazionalistici (che costituiscono anche i maggiori
vettori attraverso cui si attua la localizzazione dei simboli). I mutamenti documentati si mantengono poi anche nel
pieno del periodo bellico (1939-1943).

LE RAGIONI POLITICHE DEGLI ANDAMENTI OSSERVATI

A parere di Lasswell, la causa primaria di queste dinamiche va ricercata nel brusco riorientamento delle aspettative
riguardanti l’imminenza della rivoluzione mondiale: un fattore che, a sua volta, produce un sensibile mutamento
nel ruolo ricoperto dall’élite bolscevica nel quadro della lotta per il potere che si dispiega a livello interstatale. Il
punto è importante. Secondo Lasswell, finché rimaneva accesa la fede nell’inesorabile approssimarsi della
rivoluzione mondiale, l’élite comunista al potere in Unione Sovietica poteva proteggere le proprie conquiste
appellandosi, attraverso la propaganda, direttamente alle masse operaie dei Paesi occidentali («proletari di tutto il
mondo, unitevi!»), scavalcando, per dir così, i rispettivi governi nazionali. Man mano che le probabilità del successo
planetario del comunismo tendevano ad assottigliarsi, la stabilizzazione del regime sovietico dipendeva sempre più
dal “gioco” della politica mondiale, ovvero dalle relazioni di collaborazione/competizione che, dopo la Rivoluzione,
la classe politica burocratica si trovò necessariamente a dover instaurare con gli altri Stati. Ne deriva che «al fine di
ottenere la cooperazione di una élite straniera, le differenze dottrinarie devono essere attenuate. Allo stesso
tempo, la coesione interna può essere accentuata, conferendo maggiore enfasi ai simboli distintivi sul piano
territoriale, come quelli connessi alla terra, al paese, alla nazione, agli avanzamenti economici e alla storia locale»
(Yacobson – Lasswell 1965, pp. 245-249). Non si tratta, come i grafici certificano, di una evoluzione lineare: ma la
direzione, nel senso della contrazione simbolica, è piuttosto chiara.

Quanto alla interpretazione delle dinamiche registrate in relazione allo stile degli slogan, Lasswell afferma che
all’indomani della Rivoluzione bolscevica, gli enunciati di indirizzo (vd. tabella 4) paiono incentrati sopra un numero
ristretto di gruppi sociali: egli collega questa esiguità al timore della classe politica rivoluzionaria verso le
organizzazioni che, entro i confini della neonata Unione Sovietica, si oppongono al nuovo regime. Perciò, solo una
limitata quantità di gruppi sociali viene apertamente richiamata negli slogan, per lo più simbolizzati nei termini di
“classe”. Nel corso del tempo, si assiste alla diminuzione dell’invocazione della frattura che oppone i proletari ai
capitalisti, che viene soppiantata dai simboli riferiti alla pluralità dei gruppi scaturiti dal processo di
modernizzazione e di differenziazione sociale, portato avanti con determinazione dell’élite comunista (ad esempio:
«contadini», «città», «stacanovisti»,

«sindacati», «donne lavoratrici», «polizia segreta», e via dicendo). Sotto questo profilo, la seconda ipotesi di ricerca
– che postula il graduale abbandono della «classe» quale principale simbolo di identificazione collettiva – risulta
verificata.

In conclusione, allora, si può asserire che sono le necessità poste dalla instaurazione e dal consolidamento del
regime sovietico che danno luogo a situazioni ben precise (fattori politici), a orientare la costruzione delle mappe
simboliche, tanto a livello di contenuto, quanto a livello di stile. Sul piano generale, questi dinamismi si possono
interpretare nel senso della progressiva contrazione dei simboli di propaganda diffusi in occasione del Primo
Maggio (variabile comunicativa) – ossia: abbandono del corredo simbolico imperniato sull’internazionalismo
rivoluzionario e crescente impiego di una simbologia nazionalista. Quel che è certo è che Lasswell dipinge un
affresco illustrativo della comunicazione diretta alle masse nel totalitarismo staliniano, ribadendone l’assoluta
strategicità.

GLI AUTORITARISMI: UNA CARATTERIZZAZIONE SOMMARIA

Nella storia moderna e contemporanea, le traiettorie di sviluppo politico che conducono a soluzioni non
democratiche sul piano del regime, ad un certo punto si bipartiscono, perseguendo scopi differenti.

La principale difformità riguarda infatti l’amplificazione – o, al contrario, il drastico ridimensionamento – del


contenuto e/o della portata dei comportamenti di partecipazione politica a livello di massa. Da una parte, la via
della penetrazione nelle maglie della società e della «mobilitazione totale» sotto l’egida dell’ideologia
contraddistingue, appunto, i totalitarismi (vd. capitolo 7). Dall’altra parte, la prospettiva della “de-politicizzazione”
inclina a caratterizzare gli autoritarismi, specie quelli di matrice militare: mentre il totalitarismo intende
trasformare ogni uomo in un fervente sostenitore del regime e in un fedele esecutore delle sue direttive, i sistemi
autoritari, in genere, mirano ad un obiettivo più limitato e per certi aspetti contrario, cioè a
smobilitare le masse, incentivando condotte collettive che tengano la popolazione lontana
dall’attivismo politico, nella convinzione che questo non sia né necessario, né auspicabile – la Spagna guidata

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dal generale Francisco Franco (1939-1975) rappresenta, a questo riguardo, un esempio indicativo. Insomma, «La
maggior parte dei regimi autoritari non persegue gli scopi utopistici del totalitarismo» (Linz 2006, p. 156).

Una volta fermato questo attributo comune, che si manifesta attraverso la costruzione di differenti morfologie
istituzionali e ricorrendo ad una variegata gamma di modalità operative – in corrispondenza delle mutevoli
circostanze di tempo e di luogo – bisogna riconoscere, con altrettanta chiarezza, che esso non basta, da solo, a
catturare l’essenza degli autoritarismi.

IL CONCETTO DI AUTORITARISMO IN SENSO SPECIFICO

 In linea con la prospettiva della «de-politicizzazione» delle masse, il loro tratto distintivo risiede nel livello
assolutamente limitato della penetrazione-mobilitazione sociale perseguita dalle élites politiche – tanto che la
separazione tra Stato e società negli autoritarismi risulta piuttosto netta. Da questo carattere generale ne
discendono altri, che si prestano ad essere connotati come altrettante dimensioni di differenziazione rispetto alle
peculiarità del totalitarismo, nella formulazione classica di Friedrich e Brzezinski.
 Così, se non vi è pluralismo partitico, «molti dei più importanti gruppi di pressione mantengono gran parte della
loro autonomia, e di conseguenza il governo svolge almeno in parte una funzione di arbitro nei loro confronti e
trova in essi un limite al proprio potere. Anche il controllo dell’educazione e dei mezzi di comunicazione non va al
di là di certi confini; e spesso viene tollerata anche l’opposizione, se questa non viene espressa in modo aperto e
pubblicamente. Per raggiungere i loro scopi i governi autoritari possono perciò ricorrere ai soli strumenti
tradizionali del potere politico: esercito, polizia, magistratura, burocrazia. Anche quando esiste un partito unico,
questo non assume il ruolo cruciale, sia riguardo all’esercizio del potere sia riguardo alla guida ideologica, che gli
è proprio nei regimi ‘totalitari’.» (Stoppino 2004, p. 70).

 Proprio l’assenza di un’ideologia totalizzante (una «religione politica») rappresenta l’aspetto-chiave che
impedisce di assimilare i sistemi autoritari ai totalitarismi: dire questo non significa però affermare i primi siano
privi di un substrato di principi etici e/o dottrinari che imprime un indirizzo più o meno riconoscibile alle azioni
intraprese dalla classe politica e che funge da base di legittimazione simbolica. Da questo punto di vista, Juan
Linz, forse il maggiore esperto di autoritarismo, preferisce designare le «visioni del mondo» che orientano i
governi autoritari con il termine di «mentalità», anziché di «ideologia», intendendo un sistema di idee che
non possiede il medesimo grado di raffinatezza, di integrazione e di elaborazione che è proprio dei
costrutti ideologici. A ciò si sommano altre caratteristiche.

L’AUTORITARISMO: LA DEFINIZIONE DI JUAN LINZ

Uno dei più eminenti esperti di autoritarismo, lo studioso di origine spagnola Juan Linz, elenca quattro tratti
costitutivi dei regimi autoritari che è bene mettere a fuoco (Stoppino 2004, pp. 70-71):

1. il pluralismo limitato e non responsabile: significa che la pluralità delle formazioni politiche che possono
operare entro il regime appare ridotta, rispetto a quanto accade in democrazia, di diritto o di fatto: «le
organizzazioni autorizzate a mantenere e a esercitare potere politico sono poche; vengono legittimate dal
leader; hanno sfere riconosciute di autonomia alquanto circoscritte; non entrano in nessun modo in
competizione fra loro» (Pasquino 1997, p. 221); insomma, il pluralismo viene tollerato più che riconosciuto (e
garantito) – mentre il carattere non responsabile si riferisce al fatto che il reclutamento nei ruoli politici degli
individui provenienti dalle diverse forze sociali non avviene in base al principio di rappresentanza dal basso,
bensì in conformità alla scelta o alla cooptazione dall’alto;
2. la presenza di «mentalità caratteristiche» allude al tenue grado di organizzazione e di elaborazione
concettuale delle teorie che giustificano il potere dei regimi autoritari, nonché alla loro modesta dinamica
propulsiva – in altri termini, vengono così denominati gli «insiemi di credenze meno codificate, meno rigide, con
margini di ambiguità interpretativa, senza vestali investite di un ruolo specifico. La mentalità autoritaria più
diffusa fa leva su una tradizionalissima triade – Dio, patria, famiglia – che si può ritrovare a fondamento di una
molteplicità di esperienze autoritarie» (Pasquino 1997, p. 222);
3. la mancanza di una significativa mobilitazione mette l’accento sul grado tendenzialmente contenuto della
partecipazione della popolazione agli organismi politici e alle organizzazioni collaterali alla politica, che
contraddistingue i regimi autoritari stabilizzati, anche se in certi stadi del loro sviluppo (di solito, quelli iniziali) la
mobilitazione può essere (molto) maggiore;
4. infine, l’ultimo carattere – l’esercizio del potere entro «ambiti mal definiti» ma prevedibili – si riferisce al
fatto che il potere dei governanti si esplica entro limiti abbastanza riconoscibili, sebbene non stabiliti
formalmente, che evidentemente si collegano agli aspetti precedenti (pluralismo moderato, assenza di
un’ideologia di orientamento e di un efficiente partito di massa, mobilitazione contenuta).

AUTORITARISMI E COMUNICAZIONE POLITICA

Orbene, fissati i caratteri che definiscono i regimi autoritari, dobbiamo pensare a questi regimi come ad una
categoria generale, dotata di una grande varietà e complessità interna.

Senza addentrarci nelle classificazioni dei regimi autoritari, occorre ora chiederci: in che misura quanto appena
descritto

ci aiuta ad analizzarne la comunicazione politica? Due paiono essere le indicazioni delle quali conviene
tenere conto. Primo: in questi regimi, a differenza di quanto accade nei totalitarismi, il perseguimento della
penetrazione- mobilitazione della società non orienta, o orienta solo in parte (in certe fasi o in
presenza di circostanze specifiche), l’azione politica delle élites. Di conseguenza, sul piano analitico il

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ruolo esercitato dalla propaganda appare ridimensionato rispetto a quanto accade nell’ambito dei
sistemi totalitari, giacché la comunicazione strategicamente emessa dalla classe politica per forzare l’adesione
alle idee del regime e per allargare la presa del proprio controllo sociale non raggiunge i livelli apicali toccati nel
sistema hitleriano o in quello staliniano. Secondo (e in connessione): uno degli aspetti cruciali per cogliere le
dinamiche politiche nel quadro degli autoritarismi risiede nella focalizzazione della leadership (militari
o burocrati, leader di partiti unici o “sultani”, capi di movimenti di indipendenza o élites tradizionali, e via
elencando). Non a caso, è questo uno dei criteri impiegati da Linz per classificare e denominare i tipi di
autoritarismo.

Allora, appare corretto orientare lo studio della comunicazione politica secondo tali indicazioni. In altri termini,
appare opportuno, in primo luogo, indirizzare lo sguardo su un caso «classico» di autoritarismo, l’Italia fascista
(1922-1943): sebbene rientri appieno nella classe degli autoritarismi, ne mostra una declinazione originale e
interessante sul piano del ruolo attribuito alla dottrina e al partito unico, specie in alcune fasi temporali (come nella
strutturazione iniziale del regime o negli anni immediatamente precedenti la Seconda guerra mondiale). Questi
caratteri appaiono adeguati a conferire alla comunicazione politica una salienza sconosciuta in altri
autoritarismi, specie in quelli di matrice militare. Seguendo il filo di questa argomentazione, appare allora
opportuno spostare il fuoco sopra una specie di comportamento comunicativo che occupa uno spazio analitico di
grande importanza nel regime fascista: l’oratoria di Benito Mussolini.

LO STUDIO POLITOLOGICO DEL LINGUAGGIO DI MUSSOLINI

Al fine di cogliere il significato del discorso mussoliniano dal punto di vista della scienza politica, tuttavia, occorre
enuclearne lo stile e lumeggiarne i nessi, di taglio esplicativo, che intrattiene con i fattori extra-
linguistici, che si collocano saldamente entro la sfera politica.

L’investigazione di questo materiale secondo questo schema contempla una ipotesi-guida: «che lo stile, ossia la
forma o il modo di funzionamento del linguaggio, possa essere identificato attraverso una gamma di elementi
linguistici specifici; e che tali elementi siano influenzati dai contenuti dell’ideologia di riferimento, che è così
pensabile come il contesto (prelinguistico) in cui il fenomeno linguistico è prodotto.» (Fedel 1999, pp. 113-114,
corsivo nell’originale). In altre parole, la relazione che ci interessa identificare collega, nel segno della
congruenza, l’ideologia fascista (fattore politico) ai comportamenti linguistici tenuti dal leader
(elemento comunicativo). La congettura che stipula un legame tra questi aspetti suggerisce anche il disegno
della ricerca: si dovrà infatti procedere ad isolare gli aspetti peculiari del discorso mussoliniano, caratterizzandoli
tanto sul piano formale, quanto al livello delle funzioni che svolgono nell’architettura generale della retorica di
Mussolini. Anzi, proprio l’interpretazione in prospettiva funzionale dei costrutti linguistici osservati fornirà
l’ancoraggio della connessione, di taglio esplicativo, tra questi ultimi e i fattori contestuali, di matrice politico-
ideologica.

GLI ELEMENTI COSTITUTIVI DEL LINGUAGGIO MUSSOLINIANO (1999)

Per svolgere il programma di ricerca descritto, Fedel suddivide gli elementi del linguaggio mussoliniano, come
emergono dalla letteratura specialistica, in tre gruppi:

1. grammatico-sintattici: individuano la specie delle proposizioni adottate, i collegamenti tra le frasi che danno
forma al periodo, insomma, la sintassi nel suo insieme;
2. fonico-ritmici: riguardano i rapporti, le correlazioni delle unità sintattiche dal punto di vista del ritmo, del loro
effetto che risulta nella formazione di assonanze, cadenze, figure di suono;
3. retorici: indicano sia certe forme della comunicazione in funzione persuasiva, sia le strutture linguistiche che
sono tipiche della tradizione retorica classica.

Con l’avvertenza che la tripartizione è chiaramente delineata a livello astratto, ma, sul piano empirico, le sue
componenti si presentano compenetrate nella struttura discorsiva, cerchiamo di esplorare il contenuto di ciascuna
categoria.

ELEMENTI GRAMMATICO-SINTATTICI: LA PARATASSI

Un aspetto sintattico riconosciuto dalla maggioranza degli studiosi risiede nell’andamento paratattico del
discorso mussoliniano. Ovvero, nella costruzione del periodo prevale una modalità che privilegia il coordinamento
delle frasi (paratassi) anziché la subordinazione (ipotassi). In pratica, gli elementi discorsivi non vengono ordinati
secondo una gerarchia (principali e subordinate), ma inclinano a presentarsi sul medesimo piano, risultando privi di
connessioni circostanziate. Questo criterio di disposizione delle parti del discorso genera, come effetto, una sorta di
indeterminatezza, per cui le stringhe di parole tendono a sfumare l’una nell’altra, senza confini precisi: «Avevo
detto: si riaprirà la camera e funzionerà. E la camera si è riaperta e funziona» (citato in Fedel 1999, p. 117). Il
punto da fermare è che il largo utilizzo della paratassi produce un discorso che non è mai troppo intricato sul piano
del ragionamento, né è ricco di sviluppi argomentativi articolati o complessi. L’oratoria mussoliniana è, allora,
lapidaria, vistosamente sbilanciata verso l’impiego di enunciati coordinati, quando non meramente giustapposti,
che spesso sfociano nell’asindeto (un semplice elenco di termini senza alcun legame tra loro).

Tuttavia, la mancanza di collegamenti formali tra le frasi che compongono il discorso non pare
pregiudicare affatto l’efficacia persuasiva della comunicazione. Per certi versi, infatti, il contenuto veicolato
dalla paratassi sembra reso cogente e inconfutabile proprio in forza del fatto che i nessi chiarificatori sono del tutto
superflui allorché si raggiunge l’evidenza.

Per cogliere il significato che la costruzione paratattica riveste nella comunicazione politica mussoliniana,
dobbiamo allora richiamare le funzioni generali imputabili al discorso politico.

IDEOLOGIA FASCISTA E DISCORSO POLITICO

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I simboli politici che operano a livello del linguaggio obbediscono anzitutto ad un uso pratico: cioè mirato a
suscitare o a guidare l’adesione dell’uditorio a quanto l’oratore afferma e a far sì che questa adesione indirizzi i
destinatari a compiere le azioni desiderate (o ad abbracciare la predisposizione ad eseguirle). Possiamo perciò
convenire che la prima funzione del discorso politico risiede nello stimolo all’azione. Tuttavia, vi è una seconda
funzione generale del linguaggio in politica, relativa alla creazione del noi del gruppo politico di riferimento –
che, per meglio dire, riguarda la produzione dell’identità collettiva (Kertzer 1989). Si tratta di un aspetto cruciale in
tutti i movimenti politici, poiché «Per mezzo di simboli di identificazione l’individuo, per il quale quei simboli hanno
significato, si sente membro, parte di qualche entità collettiva che lo trascende. In altre parole, il discorso politico
mira a anche a esprimere o confermare l’appartenenza al partito, al gruppo, alla comunità politica» (Fedel 1999, p.
121).

Allora, se vogliamo gettare luce sulle forme linguistiche attraverso cui il discorso politico di Mussolini si collega a
queste due funzioni, è necessario avere chiaro come esse si configurano nella «visione del mondo» articolata dal
fascismo.

Semplificando un poco, si può asserire che la dottrina fascista incorpora un significato che riflette il «primato
dell’azione». Si tratta cioè di un’ideologia di matrice antintellettualistica e attivistica: in piena coerenza con tali
premesse, il duce si fa portatore di un discorso agitatorio, che si colloca cioè in una posizione molto prossima
all’azione, per effetto di determinati moduli linguistici. Nel repertorio delle possibili modalità retoriche, esso è
infatti il più vicino all’atto concreto, tanto quanto il discorso teorico se ne discosta: nel primo, il rapporto con
l’azione è immediato, ossia privo di mediazioni intellettuali, che formano invece il «nocciolo duro» del secondo, che
propende all’analisi, alla dimostrazione razionale, alla giustificazione, in vista della individuazione di linee di
condotta generale. Viceversa, il discorso agitatorio inclina alla massimizzazione dei richiami emotivi e in definitiva
all’impartire ordini o comandi, determinando direttamente l’azione (richiesta o pretesa). Questo tipo di eloquio si
rivolge perciò alle masse e non alle élites: nell’ideologia fascista, il rapporto tra capo e la moltitudine dei seguaci è
infatti immediato. Più esattamente, il duce è «l’organo vivente, la personificazione della comunità politica e, come
tale, i suoi discorsi si rivolgono sempre a tutti quelli che ne sono membri» (Fedel 1999, p. 123).

Che dire della seconda funzione, ovvero la creazione di identità collettive? Su questo piano, il fascismo invoca un
gruppo di appartenenza che si contraddistingue per alcune proprietà. Come è noto, questo non poggia sopra una
base razionalistica, che fa appello agli interessi – come accade per il marxismo, che trova agglutinamento attorno
al concetto di classe; però, non si fonda neppure sulla nozione liberale e democratica del popolo, come insieme di
individui astratti che si uniscono sotto l’egida del progresso, dei principi utilitaristici e della sovranità condivisa. Al
contrario, il substrato etico del fascismo si collega ad una entità collettiva (nazione, Stato) che preesiste al singolo:
dunque, l’appartenenza a questa comunità si presenta come ascrittiva, necessaria, non elettiva. Per
l’individuo fare parte della nazione o dello Stato non è materia di scelta, la collettività lo assorbe in maniera
globale, generando emozioni scaturenti da una appartenenza naturale, perciò irrinunciabile.

FASCISMO E PARATASSI

Fermati gli aspetti funzionali dell’ideologia fascista (lo stimolo all’azione e l’espressione di una appartenenza
ascrittiva), resta da capire come si connettono alla paratassi. Per farlo, occorre prendere in considerazione l’effetto
generato, nei destinatari, dall’andamento paratattico del discorso mussoliniano: che allude ad una dimensione di
perentorietà – la coordinazione delle frasi sembra cioè rivelare una verità a priori, indiscutibile, di per sé
evidente. Spingendo lo sguardo un poco in profondità, non è difficile osservare che la perentorietà deriva da
due caratteri della paratassi.

Per un verso, questa costruzione del periodo implica la sottrazione al dialogo, ovvero il sacrificio di tutti
quegli elementi discorsivi la cui attivazione permette, almeno in linea di principio, lo scambio di informazioni e,
dunque, l’intersoggettività della comunicazione. Nella retorica di Mussolini non vi è traccia della esplicitazione dei
rapporti causali, modali, temporali che riguardano gli oggetti via via nominati, al fine di fornire all’uditorio un
quadro cognitivo chiaro, per il quale richiedere poi l’approvazione. Da questo punto di vista, la costruzione
sintattica per antonomasia che permette questa articolazione è senza dubbio l’ipotassi – che è stata qualificata
come «la costruzione argomentativa per eccellenza» (Perelman – Olbrechts-Tyteca 1966, p. 166). Viceversa, la
paratassi, isolando le parti del discorso e ponendole sullo stesso piano, oppugna la subordinazione, la connessione
precisa tra contenuti, l’inserimento in uno schema di ragionamento intellegibile – dunque le relazioni tra le parti del
discorso sono, per così dire, implicite e si collocano a monte delle allocuzioni. Tale sottrazione al dialogo ha un
significato che va oltre la mancata esplicitazione dei dati che motivano una determinata presa di posizione o tesi
formulata: Mussolini rifugge l’intersoggettività della comunicazione perché «è lui, e lui solamente, il portatore dei
fatti e dei valori. Le sue tecniche linguistiche, grazie alla paratassi che nega il l’analisi, non valutano gli elementi di
somiglianza e dissomiglianza che molto spesso l’esperienza esprime».

Da questo punto di vista, vi è una affinità elettiva tra struttura paratattica e stimolo all’azione: la certezza
che consegue al periodare per coordinazione dissipa ogni perplessità dell’uditorio, ne amplifica l’adesione al
discorso e perciò massimizza le probabilità che il comportamento richiesto venga prontamente eseguito o
preparato.

Per l’altro verso, la giustapposizione di enunciati uno dietro l’altro appare idonea a trasmettere un
contenuto che assume il valore di una rivelazione. Per cogliere questo aspetto, l’elemento pertinente
nell’ideologia fascista è l’identificazione con la nazione. Il perché è presto detto. Mussolini, «capo della rivoluzione
fascista», si presenta ai seguaci come la personificazione della nazione, l’essere umano che incarna in modo
esemplare le qualità imputate alla comunità nazionale. Allora, su questo piano la paratassi del discorso
mussoliniano è finalizzata a rivelare quel che è il sentimento di ogni fascista, è tale perché avvertito da tutti coloro
che si riconoscono nell’identità collettiva promossa dal fascismo – la nazione, appunto – la cui appartenenza è
ascrittiva. Insomma, la paratassi promuove il riconoscimento, da parte del duce, dell’identità dell’uomo fascista:
riconoscimento che è carico di emotività perché connaturato all’uditorio e, contemporaneamente, viene appunto
rivelato dalla parola del capo – il far parte della comunità nazionale non si spiega, non si argomenta, non si
ragiona, bensì si sente, per effetto del discorso mussoliniano.
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GLI ELEMENTI FONICO -RITMICI

Si tratta forse degli aspetti sui quali la letteratura specialistica ha insistito maggiormente, rilevando, nel
complesso, che la distribuzione dei suoni insieme all’adozione di accorgimenti finalizzati a farne scansioni
cadenzate nel discorso mussoliniano obbediscono ad una strategia deliberata, che forma un tratto distintivo della
retorica di Mussolini. Al fine di semplificarne il vaglio, Fedel li raggruppa perciò in tre sottoinsiemi:

1. le strutture sintattico-ritmiche generali;


2. i procedimenti linguistici più specifici, che conferiscono ritmicità alle parole;
3. gli accorgimenti di taglio propriamente fonico.

UNA SPECIFICAZIONE DEI TRE ORDINI DI ELEMENTI FONICO -RITMICI

Quanto alle prime, una emerge su tutte, il cosiddetto ritmo ternario: gli oggetti grammaticali (soggetti, predicati,
verbi, avverbi, e via discorrendo), così come le proposizioni o i periodi, vengono sistematicamente invocati
aggregandoli per gruppi di tre. Siamo in presenza di un pilastro portante del discorso mussoliniano, come è
evidente negli esempi: «l’Italia aveva dato il contributo supremo di 670.000 morti, 400.000 mutilati e un milione di
feriti […] Venti milioni di uomini: un cuore solo, una volontà sola, una decisione sola» (citati entrambi in Fedel
1999, p. 129). Preme rilevare che siffatta disposizione del testo non obbedisce a necessità imposte dal contenuto
della retorica di Mussolini, quanto piuttosto scaturisce dalle esigenze di matrice ritmico-musicale che lo sviluppo
del discorso pare assicurare.

Il secondo insieme riguarda procedimenti retorici aventi una precisa funzione ritmica. È il caso della correctio,
ovvero nell’artifizio stilistico per cui viene aggiunta una specificazione che varia o chiarisce il senso di quanto già
affermato, come nelle frasi seguenti – in cui le parole sottolineate precisano il significato di quelle immediatamente
precedenti: «Io intendo, energicamente intendo, continuare la mia fatica»; «è necessario, altamente necessario, ai
fini della pace e della civiltà europea». Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca il ricorso alla sospensione o
aposiopesi, una figura che determina l’improvvisa interruzione del discorso, come se l’oratore non potesse o non
volesse proseguire, finalizzata a suscitare un effetto emotivo presso l’uditorio, in attesa della conclusione della
frase che è per certi versi intuibile: «Solo uomini di poca o di mala fede possono dubitare della purezza, che io
vorrei chiamare immacolata, della nostra fede»;

«Non mi ha sorpreso il vostro tumulto, il vostro entusiasmo, la vostra – oserei dire – travolgente passione di patria»
(citati, come i passi precedenti e quelli seguenti, in Fedel 1999, pp. 130-131). Nel campo degli accorgimenti
finalizzati a produrre un effetto ritmico-musicale, secondo Fedel figurano anche: la prolessi, una figura sintattica di
anticipazione, che consiste nell’anteposizione di una parte della frase o del periodo che secondo l’uso
grammaticale – nella strutturazione ordinaria del discorso – dovrebbe collocarsi dopo, allo scopo di focalizzare un
elemento discorsivo che all’oratore interessa particolarmente evidenziare (si noti l’uso prolettico del pronome
dimostrativo nella frase: «Un’altra cosa voglio aggiungere, questa: ho la volontà di risolverli e li risolverò»); il
polisindeto, che si riscontra allorché una pluralità di parole o di proposizioni vengono collegate grazie alla
ripetizione di congiunzioni («se i nemici, o isolati o in blocco…»); la ripresa apposizionale o anadiplosi che consiste
nella reiterazione della stessa parola, rispettivamente alla fine e all’inizio di due segmenti discorsivi contigui, di
modo che il primo termina con il vocabolo o l’espressione che si ripete all’inizio del secondo: «Mi sono considerato
e mi considero come un soldato che ha la consegna: la consegna severa che egli deve osservare a qualunque
costo».

Il terzo gruppo designa aspetti sovente utilizzati nel linguaggio poetico, che puntano a configurare un
andamento discorsivo all’insegna della musicalità, ove la dimensione ritmica acquista ancora più consistenza. In
questo insieme ricade anzitutto l’anafora, ossia la ripetizione, al principio della frase, di una o più parole, le
medesime con cui ha inizio il verso o la proposizione precedente, come accade con le parole che accolgono Dante
dinnanzi alla porta che dischiude la sua discesa agli inferi, nella Divina Commedia: Per me si va ne l’eterno dolore,
Per me si va tra la perduta gente: o come, nel nostro caso, si evince dalla rievocazione della marcia su Roma da
parte di Mussolini: «Sono io che l’ho voluta, questa marcia, io che l’ho imposta, io che ho tagliato corto a tutti gli
indugi». Appartengono inoltre al linguaggio poetico figure quali l’allitterazione – il ricorso strategico a vocaboli,
posti in successione, dove si presentano sistematicamente consonanti o sillabe; la paronomasia, detta anche
annominazione, che consiste nell’accostare due parole simili nella sonorità ma assai distanti nel significato, allo
scopo di creare una tensione semantica fra le voci coinvolte; la rima e l’impiego di avverbi in mente –
rispettivamente:

 (allitterazione in r): «O popolo di Catania marinara! Dobbiamo tornare ad amare il mare, a sentire la
ebbrezza del mare!»

 «avere un’arma, ‘amore armato’: questa è ancora una grande e profonda verità»

 «Popolo palermitano sei veramente degno della tua gloria e della tua storia»

 «marcia marzialmente, quotidianamente, romanamente» (esempi citati in Fedel 1999, pp. 131-132).

LE FUNZIONI DEL RITMO NEL DISCORSO MUSSOLINIANO

Ciascun insieme di elementi contribuisce a definire la ritmicità e la musicalità nella retorica di Mussolini.

Lo scienziato politico che si accosta al discorso mussoliniano sine ira et studio è indotto a riconoscere che, come
accade per il linguaggio adottato da altri protagonisti della politica, di ieri e di oggi, «non dobbiamo aspettarci che
esso resista alla critica razionale più di quanto ce lo aspettiamo dal linguaggio della poesia e della preghiera»
(Lasswell – Kaplan 1997, p. 136). Insomma, al comportamento comunicativo di Mussolini dobbiamo applicare lo
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stesso trattamento che abbiamo adottato per l’esame ravvicinato della comunicazione politica dei leader
democratici: ovvero, è necessario muovere dal riconoscimento che il suo registro comunicativo esibisce caratteri
propri. Sotto questo profilo, per interpretarlo adeguatamente bisogna tener presente che quei tratti si differenziano
in modo netto da quelli imputabili ad un discorso politico pragmatico (che guarda alla chiarezza analitica, al
rispetto dei requisiti di logicità, alla esplicitazione dei ragionamenti, e via dicendo), altrimenti la possibilità di
cogliere il senso di certe sue dimensioni (per esempio, l’andamento ritmico) appare irrimediabilmente preclusa. È
quindi necessario, asserisce Fedel, inquadrare lo sforzo esplicativo entro un determinato contesto (la retorica
mussoliniana come il prodotto linguistico dell’ideologia fascista), che equivale ad affermare che occorre «analizzare
il discorso mussoliniano in base a funzioni diverse da quella della trasmissione di informazioni» (Fedel 1999, p.
137).

In effetti, esso può essere utilmente interpretato alla luce delle funzioni che svolge, in esplicito collegamento con la
dottrina del fascismo. Su questo piano, è facile dimostrare che anche la ritmicità, quale attributo specifico
dell’oratoria mussoliniana, appare intimamente collegata tanto allo stimolo all’azione, quanto al
sentimento di appartenenza alla comunità politica.

Quanto al primo aspetto, il discorso agitatorio punta all’azione: perciò, predilige l’invocazione di moduli linguistici
idonei ad esercitare una influenza emotiva sulle masse, affinché il comportamento richiesto venga preparato o si
attui prontamente. Il ritmo, che sembra avviluppare in maniera peculiare la retorica mussoliniana, appare come il
principale fattore di richiamo emotivo – in tal senso, il ritmo attiva e ordina i sentimenti della massa, propedeutici
all’azione.

Inoltre, la cadenza ritmica non solo stimola il «sentire», bensì agevola il «sentire insieme», ossia
promuove o amplifica il senso di comunione e di adesione ad una entità collettiva. A questo proposito, il
«sentire insieme» prepara il terreno per l’«agire insieme», di modo che la condivisione del sentimento di
appartenenza alla nazione rafforza l’efficacia dell’appello ad agire che connota il discorso
mussoliniano. In tale direzione, la retorica di Mussolini non mira a far «capire» che la nazione esiste, sulla base
dell’articolazione di qualche tipo di ragionamento: piuttosto, punta a farla percepire, sentire, appunto, «attraverso
il movimento ritmico delle parole le cui caratteristiche percepibili possono evocare, per dir così, persino i battiti del
cuore di questo ente supremo» (Fedel 1999, p. 139). L’effetto generato dalla combinazione di questi tratti
rimanda, di nuovo, ad una dimensione di perentorietà: il che è in linea con un discorso che, per un verso,
frena l’elaborazione dei concetti astratti e, per l’altro, dispiega una formidabile pulsione emotiva, determinando la
simultanea adesione dell’uditorio al sentimento della nazione, che rende operante la presenza della comunità.

GLI ELEMENTI RETORICI

Anche gli aspetti che alludono alla connotazione retorica del linguaggio mussoliniano possono essere raggruppati
attorno ad alcuni nuclei di contenuto.

Il primo è quello che Fedel denomina, traendo l’etichetta dagli studi di Ellwanger, «anamnesi eroico-
monumentale»: si tratta di uno schema narrativo per cui l’invocazione della nazione si accompagna a simboli che
ne comunicano l’eternità. Da una parte, il duce invoca la «patria immortale», trasmettendo l’idea per cui esiste un
rapporto di stringente continuità tra passato e presente, poiché il primo opera nel secondo – specialmente in
conseguenza del culto riservato alle generazioni precedenti, come per i caduti nella prima guerra mondiale e ai
«martiri del fascismo». Dall’altra parte, nelle sue orazioni pubbliche egli proietta caratteri concreti, per esempio
riferiti al paesaggio italiano o all’ambiente naturale (designanti entrambi aspetti durevoli lungo la dimensione del
tempo), in uno sfondo quasi mistico, che prelude l’attivazione della coscienza nazionale; o ancora, disloca questa
immagine mitica dell’Italia nel futuro: «Io vedo quest’Italia nella sua singolare, divina espressione geografica; la
vedo costellata delle sue città meravigliose, la vedo recinta del suo quadruplice mare, la vedo popolata di un
popolo sempre più numeroso, laborioso e gagliardo che cerca le strade della sua espansione nel mondo».

Un secondo insieme di costrutti simbolici si riferisce alla gamma di auto-definizioni, relative a come Mussolini
presenta il suo ruolo di «locutore», che punteggiano l’oratoria mussoliniana. Questo aspetto consente di porre in
luce la molteplicità di identità con cui il capo del fascismo si propone all’uditorio: come capo del governo, certo, ma
anche come «camerata, trincerista, aviatore, giornalista, eccetera» (Desideri 1984, p. 51), a seconda del tipo di
uditorio. Molto impiegata è anche la forma «mista», che pesca da entrambi i repertori semantici – questa strategia
discorsiva è finalizzata a massimizzare l’efficacia persuasiva delle parole, come si evince dall’esempio: «Ho
l’orgoglio di essere il vostro amico, il vostro fratello e il vostro capo. Spero di condurvi a più grandi e luminose
vittorie».

IL DIALOGO RETORICO

Vi è tuttavia un terzo aspetto che appare dominante, sul piano retorico, nel discorso di Mussolini: il dialogo con
l’uditorio, un espediente comunicativo grazie al quale si attua la drammatizzazione del linguaggio, che consiste in
una rappresentazione scenica o teatrale dell’azione politica. Il che è da ricondurre ai dispositivi simbolici,
iconografici e liturgici propri del fascismo, che trovavano espressione immediata e perfino ridondante nelle
adunate di massa – le quali, a loro volta, fornivano la cornice prediletta da Mussolini per i suoi discorsi pubblici
(Gentile 2009). Perciò, il dialogo attivato dal discorso mussoliniano va inquadrato tenendo conto di questo stile
politico, che è indotto, seppure nella cornice non democratica del regime, dall’irruzione delle masse sulla scena
politica e dal contatto diretto tra capo e seguaci.

Diciamo subito che l’andamento dialogico, così inteso, non conduce affatto alla «intersoggettività» della
comunicazione, in conformità con l’assertività e la perentorietà già rilevate. Piuttosto, questa forma colloquiale
viene frequentemente avviata da una o più interrogazioni retoriche, alle quali l’uditorio reagisce con formule di rito,
quali «a noi», «sì» o «no», a seconda del contenuto delle domande (del tipo: «A chi l’Italia? A chi Roma? A chi le
vittorie?»). In altre occasioni, gli interrogativi vengono tratteggiati in modo più complesso: «Ebbene, o popolo
palermitano, se l’Italia ti chiede ed esige da te la disciplina necessaria, il lavoro concorde, la devozione alla patria,
che cosa rispondi tu, o popolo palermitano? [Tutto il popolo prorompe in un formidabile ‘Sì’] E se domani è
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necessario che la valanga dei tuoi petti salga ancora, se è necessario ripulire tutto quanto non ha ragione di
esistere, sei tu pronto a marciare? [La folla prorompe in un nuovo e poderoso ‘Sì’]» (Leso 1977, p. 33, il corsivo è
nell’originale).

Si tratta di domande retoriche, che racchiudono già la risposta: perciò, il dialogo così inscenato non è un
dialogo, poiché non si assiste ad uno scambio comunicativo di informazioni tra due emittenti. Piuttosto,
il significato della reazione delle moltitudini che ascoltano Mussolini va ricercato nell’affermazione «dell’assenso
assoluto cristallizzato nel rito di massa, l’espressione della volontà del collettivo sovrano (la nazione) davanti al
capo del fascismo (che – ricordiamo – ne è la personificazione)» (Fedel 1999, p. 144). In altre parole, questo
espediente denota le occasioni verbali nelle quali l’avvicinamento tra il duce e le masse si esprime fisicamente,
alimentandosi delle chiassose manifestazioni di lealtà sgorganti dalla folla (acclamazioni, urla, monosillabi
pronunciati all’unisono). A tale proposito, queste sequenze domande-risposte rappresentano null’altro che i simboli
dell’appartenenza alla comunità fascista (la nazione) guidata dal duce.

IL RICORSO AI TROPI

Al di là di questi aspetti, Fedel osserva che la letteratura specialistica ha messo in luce il ricorso, da parte di
Mussolini, ad una pluralità di apparati retorici, che rafforzano (di nuovo) la perentorietà dell’eloquio, poiché
ricoprono la funzione di escludere l’esistenza di qualsiasi alternativa differente da quelle enunciate. La
raffigurazione del quadro linguistico guadagna così una colorazione di esaustività.

Fra queste, merita una particolare menzione l’abbondante utilizzo delle figure antitetiche o doppie, che si rivelano
adatte allo scopo, giacché i termini della diade esauriscono il campo del possibile. Il dato è importante, perché,
appoggiandosi su queste basi retoriche, Mussolini espelle dal suo discorso qualsiasi riferimento all’elemento
parziale, incompleto, non totalizzante. Sotto questo profilo, non solo le strutture binarie paiono adeguate ad
esprimere la totalità, bensì instillano nei destinatari una percezione di cogenza che vanifica ogni posizionamento
intermedio. In altri termini: il dilemma semplifica la raffigurazione della realtà nel discorso, forzando la
scelta tra le alternative esplicitamente previste, in chiave totalizzante. Uno schieramento differente, così
come una rappresentazione più complessa del reale, vengono così del tutto inibiti. Da questo punto di vista,
l’incisività di frasi quali «i risultati si vedono e più ancora si vedranno» (Leso 1977, p. 39) scaturisce proprio nel
fatto che l’enunciato non ammette l’opposizione del presente e del futuro, bensì li vede entrambi determinati dalla
volontà assoluta del capo del fascismo. Ciò rafforza la disposizione all’azione, nella misura in cui accresce
l’adesione dei destinatari della comunicazione agli oggetti discorsivi che sono appunto connotati come certi,
irrecusabili, la cui evidenza non può cioè essere negata.

L’ultimo aggregato di elementi retorici su cui Fedel dirige l’attenzione è l’impiego dei tropi, ovvero di quelle che la
linguistica cataloga come figure di significato, per cui una espressione viene «diretta» o «deviata» dal suo
contenuto originario, allo scopo di designare un contenuto differente. Fra queste ricordiamo le metafore, che
istituiscono una similarità fra oggetti linguistici, fondata sopra un’analogia intuitivamente e implicitamente assunta
(ad esempio: le lancette dell’orologio per il tempo che scorre, Pinocchio per un individuo bugiardo), per cui i
vocaboli prescelti si staccano dal loro referente empirico (e dall’uso puramente descrittivo) per associarsi ad un
nuovo contenuto, evocando un oggetto lontano dalla referenzialità convenzionale (perciò non mirano alla
descrizione, ma alla connotazione: non puntano a far comprendere, ma a trasmettere una significazione
emotiva). In tal senso, il ricorso ad una verbalizzazione accentuatamente metaforica è tipica dei discorsi
agitatori: ciò perché rappresenta uno degli strumenti linguistici più idonei a suscitare emozioni e, per quella via, a
spingere all’azione.

FUNZIONI RETORICHE DEI TROPI

Secondo Fedel, il ricorso ai tropi (oltre alla metafora, si tratta della metonimia e della sineddoche, specificate sul
testo) si collega alla certezza e alla perentorietà della retorica mussoliniana, giacché pare finalizzato a «portare gli
oggetti del discorso (cui le figure si riferiscono) sul piano del concreto» (Fedel 1999, p. 151, corsivo nell’originale).
Questa concretizzazione, per dir così, si articola in tre dimensioni:

1. l’unicità: dire «cappelli piumati» o «camicie nere» vuol dire indicare un tratto più concreto, in quanto
immediatamente percepito, rispetto ai termini generici «bersaglieri» o «fascisti» – cioè, significa condensare in
un unico attributo, visibile e tangibile (il cappello o la camicia sono dati concreti, che si possono indossare) una
identità e un’appartenenza collettive – di modo che l’identificazione percettiva del gruppo ne mette in evidenza
l’unicità, appunto; il riconoscimento dell’unicità equivale alla valorizzazione dell’oggetto, nel senso che il gruppo
non è più considerato come una mera molteplicità di individui, ma assurge a valore concreto;
2. l’organicità: il carattere unitario evocato dai tropi è da intendersi pure in senso organistico – ovvero, quando
Mussolini invoca l’«Italia in grigioverde» o il «popolo del lavoro», egli vuole affermare qualcosa di più della
semplice sommatoria di individui –come asserisce Fedel, attraverso queste locuzioni il duce si riferisce a «entità
ontologiche sovra-individuali», a collettività che sono cioè vive ed animate e che, in quanto tali, incorporano i
singoli ed incarnano un peculiare modo di essere, irriducibile all’esistenza di questi ultimi; ne viene che «l’unico»
non è un costrutto astratto, bensì un dato naturale;
3. l’essenza richiama il fatto che dall’organicità derivano due implicazioni rilevanti: per un verso, se l’individuo
non è che una parte del tutto organico che lo include, allora, sul piano etico, rappresenta un valore secondario
rispetto all’insieme; per l’altro, non solo il singolo è posto ad un livello eticamente inferiore rispetto al gruppo,
ma egli diviene significativo solo in quanto gli è consentito di esprimere, appunto, la propria essenza, che «è
percepibile in modo immediato, non è conoscibile, è un’unità appercettiva. La focalizzazione introdotta da
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queste figure retoriche […] delimita il contesto d’azione (il combattimento o il rituale di massa con il capo) in cui
i gruppi […] sono portati ad agire validamente come organismi […]; ed è in queste circostanze tipiche che
l’essenza dell’uomo fascista si dispiega pienamente» (Fedel 1999, p. 153).

Giunto al termine della sua densa ricognizione, Fedel ne tira le fila, mirando ad accertare l’ipotesi principale della
ricerca: ovvero, se dal complesso degli aspetti linguistici osservati si possa desumere la presenza di uno stile di
linguaggio politico (variabile comunicativa), derivante dall’influenza esercitata dall’ideologia fascista,
che ne fornisce il contesto (fattore politicamente rilevante). A tale proposito, vale la pena riportare gli
snodi fondamentali del ragionamento che egli articola per formulare una risposta all’interrogativo.

L A RETORICA DI MUSSOLINI: NOTE CONCLUSIVE, LO STILE ESPERESSIVO -CATETTICO

Dall’esame degli elementi grammatico-sintattici, ritmici e retorici che compongono la retorica di Mussolini,
sappiamo che i dati via via emersi compongono mappe simboliche orientate a due obiettivi funzionali: lo stimolo
all’azione e l’evocazione di un’entità collettiva organica ed ascrittiva (la nazione), entrambi inscritti nell’ideologia
fascista.

Orbene, uno stile del discorso politico affiora laddove i tratti linguistici soggiacciono ad un unico principio
organizzatore, che, perciò, li rende uniformi. In quale modo questa considerazione si raccorda con quanto rilevato
rispetto agli scopi funzionali del discorso politico mussoliniano? Per rispondere, basta constatare che le funzioni
non si collocano sullo stesso piano: come abbiamo notato seguendo Fedel nel suo itinerario di indagine, lo
stimolo all’azione pare subordinato all’evocazione di un’entità collettiva. Il perché è presto detto. Nel
discorso agitatorio, il soggetto a cui si indirizza l’appello ad agire è, per definizione, un attore collettivo, formato da
una pluralità di individui, che può dunque essere simboleggiato esclusivamente attraverso il riferimento ad un
«noi», ad una identità comune. Non è troppo complicato rilevare che il «noi» è, ad un tempo, fondamento
e presupposto dell’azione, sicché la funzione agitatoria non può essere separata da quella,
essenziale, dell’evocazione dell’entità collettiva, che designa il soggetto deputato ad agire. Dire
questo, vuol dire asserire che «è a quest’ultima funzione che dobbiamo guardare per far emergere i nuclei stilistici
del linguaggio del capo del fascismo […]. L’insieme variegato degli aspetti sintattici, ritmici, retorici ricevono infatti
compattezza – e quindi l’uniformità di uno stile – se riferiti a un principio che mette in collegamento la funzione
detta e la situazione comunicativa in cui il discorso ha luogo e che include la compresenza del mittente e del
destinatario delle parole» (Fedel 1999, p. 155, corsivo nostro).

In altre parole: è il nesso con la situazione discorsiva – uno dei fattori politicamente rilevanti su cui
abbiamo più volte insistito – che, coniugandosi con l’influsso esercitato dall’ideologia fascista,
fornisce una esplicazione dei tratti linguistici tipici del discorso politico di Mussolini. Tali elementi
convergono nell’individuare il principio organizzatore della retorica mussoliniana nella espressione di una
«identificazione sentimentalizzata» tra oratore e uditorio, tra capo e popolo. Perciò, nell’oratoria del duce
la sentimentalizzazione prevale sistematicamente sull’argomentazione. E infatti, il principio di identificazione
sentimentalizzato ha per oggetto la nazione, un tutto organico che non può essere

«spiegato» o «ragionato», ma che viene «sentito». Da questo substrato etico scaturiscono tutte le principali
fattezze del discorso politico testé vagliato. Basti qui richiamarne qualcuna: la paratassi, che rivela all’uomo
fascista il suo sentimento di appartenenza alla comunità; la ritmicità degli enunciati lo scandisce, rendendo
possibile il «sentire insieme»; il «noi» che unisce Mussolini all’Italia fascista acquista plastica evidenza nel dialogo
retorico con la folla, mentre il ricorso alle figure retoriche di focalizzazione ipostatizza l’identità collettiva (fascista)
grazie alla concretizzazione di dettagli visivi e tangibili, che ancora una volta legano il capo alla nazione.

Fedel definisce questo stile come espressivo-catettico: la denominazione ne sintetizza le peculiarità retoriche,
che esprimono e stimolano il senso di identificazione tra Mussolini, guida della comunità nazionale, e l’uditorio, che
della nazione fa parte, dove il simbolo dell’identità collettiva (l’Italia) è oggetto di un investimento affettivo
incondizionato. Il linguaggio si trasforma allora in uno strumento di catalizzazione emotiva, che mira a suscitare
uno stato d’animo, una passione, una emozione, appunto, nei destinatari – i quali, con le loro reazioni, certificano
l’esistenza del nesso di comunione tra oratore e uditorio: «Ed è all’interno di questo circolo, per così dire, che si
muove e si consuma l’eloquio mussoliniano» (Fedel 1999, p. 156). Ecco la ragione fondamentale per cui il discorso
del duce oppugna l’argomentazione

in questo senso, è plausibile concludere lo stile espressivo-catettico plasma la retorica in una direzione che attenua
il confronto (pragmatico) con la realtà.

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