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SOCIOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE

27/02/2023

La sociologia della comunicazione: che cos’è?

Studiare l’effetto dei media sulla politica è stato l’obiettivo della comunicazione. Quindi la comunicazione
nasce perché le istituzioni dell’epoca temevano che i nuovi media potessero rappresentare un pericolo per
la democrazia. Quando i mass media dell’epoca (radio e poi TV) nascono, nascono studi per capire quali
effetti tali mezzi avessero sulla popolazione, ad esempio capire se potessero orientare il voto. Se n’è
riparlato anche nel 2016 dopo la campagna pubblicitaria di Trump (soprattutto circa Facebook).

In realtà i media ci influenzano sempre e hanno un potere. Il problema dei primi 50 anni della
comunicazione è stato capire QUANTO POTERE potessero avere. Questa è la nascita della disciplina.

Obiettivo era solo capire il potere dei media e gli spettatori venivano considerati come masse indistinte.
Alla base degli studi americani fino agli anni 50 si considerano le masse come inermi di fronte al potere dei
media.

Nick Couldry in un articolo del 2004 fa una sintesi delle tradizioni scientifiche che hanno contribuito alla
definizione della sociologia della comunicazione:

1. US Communication research  applicano soprattutto metodi quantitativi e statistici allo studio dei
media

2. Scuola di Francoforte (teoria critica)

3. Studi semiotici  iniziano ad evidenziare il fatto che qualsiasi messaggio mediale è potenzialmente
aperto a diverse interpretazioni

4. Cultural studies  anni 60-70 nel Regno Unito e diventano poi globali ma hanno sempre

5. Ricerca antropologica  metodi di ricerca qualitativi rispetto a quelli quantitativi

Queste 5 tradizioni hanno costruito la sociologia della comunicazione. Se notiamo bene non ci sono solo
sociologia, ma anche antropologi, scienziati politici, semiotici… esistono delle sociologie della
comunicazione, non è univoca

Paddy Scannell invece fa una ricostruzione cronologica dell’evoluzione della comunicazione di massa

- Comunicazione di massa (Lazarsfeld ’30-’40) anche se oggi il concetto di “massa” non si usa più

- Cultura di massa (Frankfurt School ’30-’40)

- La fine delle masse (Merton, Lazarsfeld ’40-’50)

- Cultura e comunicazione (Hoggart, Williams ’30-’50)  studi culturali britannici

- Comunicazione e tecnologia (Innis, McLuhan, ’50-’60)

- Comunicazione come interazione (Goffman, ’50-’70)

- Comunicazione e linguaggio (Austin, ’50-’70)

- Comunicazione e ideologia (Hall, ’60-’70)

- Comunicazione e opinione pubblica (Habermas, ’50-’90)


È come se Paddy Scannell ricostruisse i temi affrontati dagli studi sulla comunicazione. Appunto, rapporto
tra comunicazione e ideologie, tra comunicazione e politica, tra comunicazione e opinione pubblica.

US Communication Research

Primi studi sulla comunicazione americana partono da Harnold Lasswell, quando pubblica nel 1927
“Propaganda Techniques in the World War” studiando la funzione dei media durante la Prima guerra
mondiale con un approccio funzionalista e comportamentista (da behaviour, comportamento
comunicazione come processo stimolo-risposta). Comportamentista perché sarebbe possibili indirizzare il
comportamento degli individui attraverso un determinato input (deriva dalla psicologia e si vede anche nel
nagging, che è una tecnica del marketing). Oggi sappiamo che non basta uno stimolo per indurre le persone
a comportarsi in un determinato modo.

 Obv va capito che la persuasione per quanto se ne possa parlare, nel 99% dei casi non ha effetti o
ha effetti limitati. Parleremo degli effetti limitati dei media poiché è estremamente difficile
cambiare e orientare il pensiero delle persone. Può funzionare in alcuni casi ma bisogna sempre
tenere presti le questioni etiche.

Comunque il modello US Communication Research è basato sul modello stimolo-risposta (ad esempio la th
ipodermica) per la quale non si può resistere a uno stimolo. Negli anni successivi si capisce però che non è
così e che è difficile che quel messaggio arrivi a buon fine esattamente come lo si era programmato.

Per Lasswell il processo di comunicazione svolge 3 funzioni sociale:

1. La vigilanza dell’ambiente

2. La mediazione tra le componenti sociali

3. La trasmissione dell’eredità sociale

Comunicazione come processo “funzionale” alle esigenze di equilibrio e controllo sociale

Merton e Lazarsfeld aggiungono anche la funzione di intrattenimento.

Mendelsohn (1966) aggiunge la funzione di mobilitazione, riguardante l’uso della comunicazione a fini di
propaganda politica o commerciale (capacità di mobilitare le masse, di persuadere a compiere un’azione).

i processi comunicativi in questo approccio sono:

- esclusivamente asimmetrici, con un emittente attivo che produce lo stimolo e una massa passiva di
destinatari che reagisce una volta colpita dallo stimolo
- la comunicazione è intenzionale, rivolta a uno scopo, a ottenere un certo effetto, misurabile in
quanto comportamento indotto dallo scopo della comunicazione

Vediamo uno studio paradigmatico che rappresenta uno studio della tradizione americana molto
importante: The Perople’s choice- crisi del modello funzionalista

How the Voter makes up his mind in a presidential campaign (Lazarsfeld, Berelson, Gaudet, 1944-48)

Quali sono gli effetti della radio e della stampa sulle decisioni di voto dei componenti di una comunità
dell’Ohio

Scoperte: Il 53% del campione, sottoposto per mesi alla propaganda elettorale aveva semplicemente
rafforzato le proprie opinioni precedenti  EFFETTO DI RAFFORZAMENTO (media rafforzano le opinioni
preesistenti)
Nel 26% dei casi si era avuto un passaggio dell’indecisione alla scelta di un partito o dalla scelta di un partito
all’indecisione  EFFETTO DI ATTIVAZIONE

Nel 16 % dei casi la valutazione era indecifrabile

Solo nel 5% dei casi si era potuta individuare chiaramente una “conversione”, un cambiamento di
opinione EFFETTO DI CONVERSIONE

La grande maggioranza degli elettori già orientati a votare repubblicano “si esponeva” a messaggi
prevalentemente repubblicani. La polarizzazione era già presente prima dell’arrivo di internet non sono i
media che causano polarizzazione

Lazarsfeld è costretto a mettere in crisi il modello funzionalista dello stimolo-risposta. Ovviamente non
viene totalmente messo in discussione, i media hanno davvero un potere ma approfondendo i dati ci si
rende conto che le persone che hanno cambiato idea non lo hanno fatto per essere stati esposti ai messaggi
ma perché in contatto con un LEADER D’OPINIONE.

Lazarsfeld e Katz (1955) creano il Two step flow of communication (verso l’abbandono del modello
funzionalista)

Scoprono l’importanza dell’influenza personale Personal influence. The played by the people in the flow
of mass communication. In ogni campo si tende a fidarsi dell’opinione delle persone che riteniamo più
competenti. Quelli riconosciuti come leader d’opinione erano le persone con un consumo mediale più alto=
persone che erano più informate. Quindi il potere funzione in due fasi. Nella realtà oggi parliamo di multi-
step flow of communication

28/02

Poter utilizzare chat gpt, su indicazione possono produrre del testo. Se vengono utilizzati occorre
dichiararlo e devono essere usate almeno 5 dichiarazioni che devono essere dettagliate (descrivendo i
diversi articoli letti).

Scuola di Francoforte: Teoria Critica

Connessione con i cultural studies britannici: Entrambi gli approcci condividono l’idea che i media si fanno
portatori di un’ideologia dominante ma i cultural studies sviluppano una teoria più complessa, in cui le
audience non reagiscono passivamente ai media, ma negoziano i significati che provengono da essi.

La teoria critica rappresenta il contrattare di molta Communication Research e della ricerca cosiddetta
amministrativa (svolta su committenza). Si identifica storicamente nel gruppo di studiosi che ha fatto capo
all’istituto per gli studi sociali di Francoforte, fondato nel 1923, acquista una sua identità con la nomina del
filosofo Max Horkheimer a direttore. All’avvento del nazismo, l’istituto è costretto a chiudere e i suoi
maggiori esponenti costretti ad emigrare negli Stati Uniti, molti dei suoi membri vivono a NY e lavorano alla
Columbia University. Dal 1950 l’istituto riapre in Germania e Adorno ne diviene direttore nel 1958.

Perché si chiama teoria critica? La critica è rivolta nei confronti della società, delle strutture sociali e dei
sistemi di potere.

CRITICA verso tutti i fattori economici e sociali che impediscono una piena realizzazione dell’uomo.

Critica VERSO la teoria scientifica positivista o neo-positivista, che descrive il mondo come una serie di fatti
osservabili e calcolabili in maniera «oggettiva».

L’atteggiamento critico mira innanzitutto a illuminare il rapporto tra «soggetto» (l’essenza dell’uomo) e
«oggetto» (lavoro, valore, produttività), tentando di ricucire una lacerazione tra questi due termini,
occultata dal capitalismo. Il soggetto tende a smarrire la propria identità/natura («alienazione» del
soggetto) o a confonderla con i piani oggettuali che lo circondano (scienza, tecnologia, razionalità
strumentale, economia).

Ha una matrice filosofica fortemente marxista, la società è determinata dalle sovrastrutture economiche, a
secondo di come è organizzata a livello economico svilupperà un tipo di cultura.

Sono critici nei confronti del paradigma scientifico egemonico, quello positivista, che descrive il mondo
come una serie di fatti osservabili e calcolabili in maniera oggettiva.

Horkheimer e Adorno ci interessano per il pensiero in merito ai mezzi di massa:

“Per esempio, i mezzi di comunicazione pubblica (radio, stampa e cinema), professano costantemente la
loro adesione al valore ultimo dell’individuo e alla sua inalienabile libertà, ma operano in un modo tale che
tendono a oscurare questi valori incatenando l’individuo ad atteggiamenti, pensieri, abitudini di consumo
prescritti” (Horkheimer, 1941).

Fuggiti dalla Germania arrivano negli Stati Uniti dove la radio era il nuovo mezzo di comunicazione, già da
10 anni, la società dei consumi di massa la attribuiscono alle capacità del messaggio pubblicitario di
convincere lo spettatore. Sostengono che c’è un paradosso:

- esaltano l’individuo, la libertà di scelta;


- ma prescrivono un certo tipo di consumo (con la musica, ecc), l’individuo non è libero, si conforma
all’individuo meno.

Coniano il termine “industria culturale” nel 1942-47 nel testo “La dialettica dell’illuminismo” con una
accezione negativa, sostituendo il concetto di cultura di massa per evitare l’ambiguità di una cultura che
nasce dalle masse, di una forma contemporanea di arte popolare. Riguarda film, radio, settimanali, giornali
che costituiscono un sistema che produce “prodotti” culturali in forma di merci, di beni di consumo,
secondo procedure di produzione standardizzate che avrebbero contribuito a rendere i gusti del pubblico
omogenei, stereotipati e di bassa qualità. L’industria culturale produce una cultura “massificata”.

Il dominio dell’industria culturale si manifesta attraverso la ripresentazione in forme sempre diverse di un


qualcosa di sempre eguale (il nuovo e sempre uguale). Gli studiosi della scuola di Francoforte “criticano”
(da qui teoria critica) la trasformazione della cultura in una merce prodotta secondo standard industriali
(mercificazione). La cultura è stata rinchiusa nel formato della merce, una azione simbolica degli umani
(non nasce come merce), cultura industrializzata sottoposta ai cicli di produzione. La radio è uno strumento
che massifica la cultura, registrando quella forma d’arte e divulgandola nelle case delle persone la
trasforma in una merce, senza coglierne il valore culturale.
Sostengono che il rapporto fra struttura e individuo: gli attori (ovvero le istituzioni) della struttura (stato,
famiglia, chiesa) esercitano un’influenza manipolatoria nella libertà dell’individuo, il quale ha pochissimo
spazio di autonomia, di manovra per sfuggire a questo potere persuasivo. Costruiti per un consumo
distratto, non impegnativo, questi prodotti riflettono il modello del meccanismo economico che li ha
generati. Sono prodotti pensati per moltiplicare il profitto delle industrie culturali.

Le industrie culturali vengono ritenute responsabili della seduzione di massa. La loro funzione sarebbe
quella di fornire ideologie e sogni tendenti ad allontanare le masse dalla lotta per la costruzione di una
società più paritaria. I media sarebbero dei “narcotici”, o come diceva Marx riferendosi alla religione,
“oppio dei popoli”.

L’audience è considerata come una sorta di corpo sociale senza potere, facilmente soggiogabile dalle forme
di seduzione di massa della propaganda politica e pubblicitaria.

I media elettronici sono responsabili della seduzione di massa, hanno un debole.

“Lo spettatore non deve lavorare di testa proprio; il prodotto gli prescrive ogni reazione” (Horkheimer-
Adorno, 1944-45)

I media hanno il potere di influenzare le scelte di consumo, scelte politiche. Non siamo liberi come
pensiamo.

Nelle prime stesure si parlava di cultura di massa. Sostituimmo [Adorno ed Horkheimer n.d.r], questa
espressione con quella di «industria culturale» per escludere subito l’interpretazione gradita ai suoi
difensori: che si trattasse di una cultura che scaturisce spontaneamente dalle masse, della forma che
assumerebbe oggi l’arte popolare. L’industria culturale si differenzia nel modo più estremo da un’arte di
questo tipo. Essa combina la consuetudine con una nuova qualità. In ogni suo settore vengono confezionati
in modo più o meno pianificato dei prodotti fatti apposta per il consumo di massa, e che tale consumo
determinano a loro volta in larga misura. (Adorno T.W, 1963, p.224)

Altra parola chiave oltre quella di industria culturale, è falsa coscienza. I soggetti che vengono manipolati e
condizionati dai media, partecipano volontariamente alla propria oppressione. Il desiderio di fumare è
imposto dalla pubblicità, un desiderio costruito senza esserne consapevoli. Non c’è autonomia per gli
individui. Il consumatore non è sovrano. Nell’era dell’industria culturale l’individuo non decide più
autonomamente.

“Quella che un tempo i filosofi chiamavano vita si è ridotta alla sfera del privato e poi del puro e semplice
consumo, che non è più se non un’appendice del processo materiale di produzione, senza autonomia né
sostanza propria” (Adorno 1951).

Il consumatore non è sovrano, come l’industria culturale vorrebbe far credere, non è il soggetto ma il suo
oggetto. L’uomo è in balia dei media, che lo manipolano a piacere.

L’individualità è sostituita dalla pseudo-individualità, da una falsa coscienza.

Lo spettatore, attraverso i media che consuma, è continuamente messo, a sua insaputa, nella condizione di
assorbire ordini, prescrizioni, norme sociali.

“Quando la musica leggera è ripetuta con tale intensità da non apparire più come un mezzo ma piuttosto
come un elemento intrinseco al mondo naturale, la resistenza assume un aspetto diverso perché l’unità
dell’individuo comincia a schiantarsi” (Adorno 1941, 44)

Torches of Freedom: Campagna di pubblicità per promuovere il fumo tra le donne organizzata
dall’American Tobacco Company
Il 31 marzo del 1929, all’altezza di Easter Parade, a New York, un gruppo di giovani modelle partecipò alla
NY City parade. Durante la parata, una di queste modelle, Bertha Hunt, creò scandalo accendendosi in
pubblico una sigaretta della Lucky Strike. La stampa era stata avvertita e provvide subito a fotografare
l’evento e a darne risalto. Il NYT titolò: “Le donne fumano una sigaretta come gesto di libertà”. Era la prima
di una lunga serie di campagne volte a convertire le donne al fumo e al consumo di sigarette, rompendo un
tabù e rendendo il fumare in pubblico un atto socialmente accettabile. Queste campagne facevano leva sul
fumo come forma di liberazione ed emancipazione delle donne, un modo per esprimere la propria libertà e
la propria autonomia rispetto agli uomini. Una forma d’espressione che si manifestava attraverso il
consumo di un nuovo bene commerciale.

Questo accade prima della seconda guerra mondiale.

Prima generazione degli esponenti. Successivamente negli anni 60 e 70 la scuola divenne molto famosa,
Marcuse esponente della seconda generazione, scrive “L’uomo a una dimensione” (1964) in cui critica
l’ideologia della società avanzata, parla di una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà
che prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico, per persuadere la gente di vivere
nel suo opposto. Fare crede di essere liberi.

la libertà nelle società attuali, viene trasformata in una non-libertà attraverso meccanismi tesi a persuadere
la gente di vivere nell'esatto contrario, ovvero in società che rispecchino abbastanza fedelmente il concetto
di libertà

Critica alla neutralità della tecnologia. La tecnologia contiene i germi del dominio dell’uomo sull’uomo. La
comunicazione di massa, l’industria culturale, produce un uomo “a una dimensione”. Linguaggio della
politica simile a quello pubblicitario. È uno dei testi fondativi dei movimenti studenteschi del 1968

Parla di un uomo che ha perso lo spirito critico, ha poco autonomia rispetto all’avanzamento della società.
Siamo nel dopo guerra, periodo in cui la guerra aveva prodotto la bomba atomica.

Marcuse se la prende con la società capitalistica che ha innescato meccanismi di riproduzione sociale
reprimono le istanze erotiche, trasformando l’autonomia degli individui. La dimensione erotica (intesa qui
in maniera molto estesa, come capacità di autentica espressione della propria natura e creatività) viene
strumentalmente e sistematicamente sublimata, «operazionalizzata» dalla ragione tecnico-scientifica che
domina le transazioni sociali della modernità. I bisogni autentici dell’uomo sono sublimati dalla ragione
strumentale/produttiva (»falsa coscienza»).Le società capitalistiche avanzate, attraverso il paradosso della
«tolleranza repressiva» controllano e reprimono la vera natura degli individui. La struttura sociale reprime
l’agency, l’autonomia degli individui, passivi di fronte alla razionalità tecnica del capitalismo avanzato, che si
impone come unica logica/unico modo di esistenza

Sottolinea alcuni aspetti del progresso e della tecnica, restituisce un’immagine della società dualistica:
strutture e individuo passivo, con poco spazio di autonomia. Le grandi strutture (scuola, famiglie, industrie)
ci modellano ad immagine e somiglianza. La teoria critica finisce col favorire l’approccio speculativo sul
metodo empirico. I suoi studi sono saggi di analisi del sistema sociale, che non si fondano su ricerche
empiriche e raccolta di dati ma ipotizzano le cause del fenomeno sociale della cultura di massa.

I media, per gli studiosi di questa scuola, non fanno che riprodurre intatti i rapporti di forza dell’apparato
economico e sociale. “La comunicazione radiofonica oggi in America è fatta per vendere merci” (Adorno,
1941)

Nella teoria critica tutti gli accenni riguardanti la comunicazione di massa la descrivono in termini molto
affini a quelli della teoria ipodermica, una visione semplificatoria, che attribuisce ai media un ampio potere
manipolatorio.
Edgar Morin: “la cultura di massa contribuisce a indebolire tutti gli istituti sociali intermediari – dalla
famiglia all’appartenenza di classe – per costituire un agglomerato di individui – la massa – al servizio della
super macchina sociale” (1962, 178)

Per la Communication Research americana lo scopo era creare un potere che incanalasse la società negli
stessi obiettivi.

La scuola di Francoforte rimane centrale la critica all’industria culturale.

Eco pubblica un libro “Apocalittici e integrati” (1964) che sintetizza queste due posizioni (communication
research e scuola di Francoforte):

- gli apocalittici sono i critici estremi: media come strumenti distopici (La scuola di Francoforte). E.
Morozov (controllo, censura), Nicholas Carr (internet ci rende stupidi), C. Fuchs (i social media
sfruttano il nostro lavoro), La serie tv “Black Mirror”, Sherry Turkle ?
- gli integrati sono gli entusiasti dell’avanzamento tecnologico, guardano ai mezzi di comunicazione
come strumenti di democratizzazione della società. La ricerca amministrativa: ricerca volta a
migliorare gli effetti della comunicazione. Media come strumenti “intrinsecamente” democratici.
Visione utopica della tecnologia. Tecno-determinismo.
L’ideologia californiana, Tecno-liberismo (la diffusione di internet= maggiore diffusione di
conoscenza e minori disuguaglianze sociali), Tecno-solutionism (una app salverà il mondo), Silicon
Valley, Mark Zuckerberg, Wired, Le conferenze TED, Chris Anderson

Si tratta di 2 posizioni antitetiche che potremmo tutt’ora trovare, entrambe queste posizioni hanno enormi
debolezze (fallacie), esprimono una posizione di determinismo tecnologico (il più gran peccato di un
sociologo): attribuire alla tecnologia le cause del cambiamento sociale. Questa analisi è riduttiva,
individuando il declino partendo dalla tecnologia. Un sociologo direbbe essere il frutto di una serie di
fattori. Quindi lascia intendere che è la società stessa a modellare la tecnologia.

Molto spesso il pensiero della scuola di Francoforte è avvicinabile al determinismo tecnologico.

Studi semiotici: modello semiotico- informazionale (Eco, Fabbri, 1965)

I cultural studies britannici

Mass communication research americana vs. media studies europei. I cultural studies inglesi rappresentano
la fondazione dei media studies europei.

Esponenti:

- Richard Hoggart, 1958: The Use of Literacy: analisi delle trasformazioni della vita quotidiana della
classe operaia inglese e dei suoi consumi culturali.
- Raymond Williams, 1958, Culture & Society.
- 1964: Richard Hoggart fonda il Centre for Contemporary Cultural studies (CCCS) a Birmingham
- Stuart Hall diventa direttore del CCCS 1968-1979
- David Morley, Nationwide, Family Television. Primi studi etnografici del pubblico dei media.

Influenze: la ricerca storica di impianto culturale, il new criticism letterario britannico, la semiotica Echiana,
il marxismo critico, la filosofia di Althusser e le proposte di Gramsci, l’antropologia culturale, la psicanalisi
lacaniana, l’approccio filosofico di Foucault: è a tutti gli effetti una corrente delle scienze sociali. Pone
l’attenzione sulle pratiche culturali degli individui che appartengono a una società. Analisi dei prodotti della
cultura popolare, di cui fanno parte anche i testi mediali (mentre la scuola di Francoforte aveva snobbato la
cultura popolare)

Che caratteristiche hanno e che contributo hanno dato? Da cosa si differenziano?

I cultural studies sono fratelli minori della scuola di Francoforte, condividono la matrice marxista. È una
riflessione su come è fatta la società. Riconoscono il potere che i media hanno di esercitare una relazione di
potere.

Studiano le pratiche culturali e i rituali della vita quotidiana associati alla gente comune, o a gruppi e
popolazioni che non appartenevano alle classi sociali potenti o alle élite politiche.

La stampa britannica, tranne alcune eccezioni, è estremamente conservatrice. Come anche tutta la
televisione, tranne la BBC che è più neutrale.

Si distinguono nel modo in cui considerano i rapporti tra individui e società, non lo considerano un rapporto
fisso, ma come in continua evoluzione/negoziazione. Televisione, stampa non sono così influenti come si
pensava, i media hanno potere perché mostrano la società utilizzando

I padri fondatori si rendono conto che i media rappresentano la società ma attraverso degli stereotipi
razziali, di classe. La differenza sta che in questo messaggio arriva alle audience in maniera molto
contraddittoria. Non è detto che arriverà così com’è, passivamente introiettato da chi lo ascolta.

Come nascono? Si tratta di una quasi disciplina (studiosi, scrittori, studi elettoral, mettono insieme studi
sociali e studi umanistici), si occupavano di pratiche culturali e rituali, che prima non erano mai state prese
in considerazione. Considerano cultura anche quella espressa dalle classi sociali meno ambienti e istruite.

THE USE OF LITERACY: Hoggart era uno studioso di testi letterari, un professore di inglese. Il libro è una
memoria personale delle abitudini, dei rituali e della vita quotidiana delle persone che vivevano nel
quartiere operaio in cui è cresciuto tra le due guerre e il secondo dopo guerra. Con questo libro apre una
tradizione di studi volti a riguardare la classe lavoratrice. Sottolinea come anche la classe popolare avesse
una sua cultura, anche ben specifica che venivano messi in crisi dalla massificazione della società.

Analisi delle trasformazioni della vita quotidiana della classe operaia inglese e dei suoi consumi culturali.
Analisi dei cambiamenti culturali causati dalla “massificazione” della cultura. Studia i romanzi pulp, le
riviste, la stampa popolare e il cinema e sostiene che questi prodotti culturali abbiano contribuito alla
trasformazione della società inglese, avviandola verso una società massificata, dove si stanno perdendo i
legami comunitari, si rompono le distinzioni tradizionali di classe.

L’immaginario portato dal cinema di Hollywood, dalla pubblicità e in generale dalla cultura di massa
imposta dalle industrie culturali ha colonizzato le comunità locali rimpiazzando la cultura popolare con la
cultura di massa.

CULTURE SOCIETY (Raymond Williams, 1958): ricostruisce l'evoluzione dell'atteggiamento degli intellettuali
inglesi nei confronti della civiltà industriale, a partire dalla fine del diciottesimo secolo fino alla metà del
ventesimo. In particolare, Williams si sofferma sul concetto di "cultura", che proprio durante l'Ottocento
prese a significare “un intero sistema di vita materiale, intellettuale e spirituale" Secondo l'autore, però, le
riflessioni di questi intellettuali sono accomunate da un limite, legato al rapporto con quella parte della
popolazione, il proletariato, che subiva le peggiori conseguenze delle trasformazioni avvenute a partire dal
Settecento. Concepito come "massa", il proletariato viene considerato come "perpetua minaccia della
cultura" , credula e mediocre nei gusti e nei costumi: un atteggiamento di distanza che si è mantenuto nel
tempo e che "ha servito, paradossalmente, a immobilizzare e indebolire le coscienze”. Nella conclusione,
Williams denuncia il limite del concetto di "massa", definendolo un pregiudizio intellettuale, "ideologia di
coloro che cercarono di controllare il nuovo sistema e trarne profitto [...] rafforzando quindi lo status quo”.
Analizza il rapporto tra cultura e società, è importante perché per la prima volta sostiene un’idea di cultura.
Si riconoscono espressioni come frutto di cultura appartenente ad una sottocultura (come i punk, la trap).
Dice che “tutto è cultura” non solo la letteratura, i grandi musei, esiste una cultura del proletariato,
femminista, delle classi subalterne.

Che cos’è la cultua? Da un lato c’è uno scontro tra gli studiosi di letteratura inglese (Leavis, gli autori di
“cultura e civilizzazione”) fino a metà del 900 l’idea di una cultura alta “quanto di meglio fosse stato
pensato e detto” e che questa dovesse essere difesa dalle forme di cultura di massa in ascesa. C’è stata e
ancora c’è in alcuni strati sociali una divisione netta fra cultura colta e cultura popolare.

Successivamente con i cultural studies: Stuart Hall e Williams abbattono questi valori, la cultura è ordinale,
tutto è culturale. La cultura popolare è il miscuglio delle tradizioni popolari e la cultura di massa. Non solo
musei, libri ma anche fumetti, trap aspetti culturali di alcune sottoculture che raccontano la loro vita.

“La cultura popolare è importante studiarla perché il luogo in cui le lotte quotidiane tra gruppi dominanti e
subordinati vengono combattute, vinte o perse» (Hall 1981)”.

Il «popolare» (popular) è un concetto di classe. Cos’è «cultura popolare»? (televisione, andare allo stadio,
leggere fumetti, vestirsi da Cosplayer, frequentare i centri commerciali…i tabloid, il cinema, le sottoculture
musicali?). Per Hall il «popolare» non può mai essere ridotto a una opposizione binaria. Non si deve
marcare questa separazione, ma «decostruire il popolare»

"La cultura è qualcosa di ordinario: è da lì che dobbiamo partire. Crescere in quella terra significava vedere
la forma di una cultura e i suoi cambiamenti. Potevo salire sulla montagna e guardare a nord, verso le
fattorie e la cattedrale, o a sud, per vedere il fumo e i bagliori di una fornace esplosa che creava un secondo
tramonto. Crescere in quella famiglia significava vedere le mentalità che si formavano: l'apprendimento di
nuove abilità, la trasformazione delle relazioni, l'emergere di un linguaggio e di idee diverse. Mio nonno, un
rozzo bracciante, pianse alla riunione di quartiere quando raccontò con eleganza e veemenza la sua
emancipazione dallo sfruttamento agrario. Non molto tempo prima di morire, mio padre ricordava con
calma e allegria come aveva organizzato un ramo del sindacato e un raggruppamento del Partito Laburista
nel villaggio (...). Oggi parlo una lingua diversa, ma penso a queste stesse cose // La cultura è una cosa
ordinaria: questo è il primo fatto. Tutte le società hanno la loro forma, i loro scopi, i loro significati. Tutte le
società le esprimono nelle istituzioni, nelle arti e nella conoscenza» (Williams, Culture & Society 1958)

Cultura intesa come stile di vita e pratica sociale.

Popular culture (diversa dalla nostra idea di “cultura popolare, cioè cultura prodotta dalla gente)

In Keywords, Raymond Williams ricostruisce la genesi del significato di questa parola:

1. Letteratura popolare, stampa popolare: lavori di qualità inferiore e deliberatamente orientati a


raggiungere un vasto apprezzamento (intrattenimento popolare, giornalismo populista); in senso
dispregiativo: cultura di massa, commerciale, fruita in maniera passiva dal pubblico, opposta a una
cultura “popolare” (creata dal popolo, folkloristica) che sarebbe più autentica. (Ma J. Fiske ci
ricorda che l’80% della produzione culturale di massa non ha successo, quindi il pubblico ha un
ruolo nella scelta, non è passivo, il consumo culturale non è un’attività automaticamente passiva).

2. Senso più neutrale: Apprezzata da una vasta maggioranza di persone (film, romanzi, album
musicali, serie tv di grande successo popolare e/o planetario)

I cultural studies analizzano tutte le forme di produzione culturale, aprendo allo studio della cultura
popolare, non solo della cultura prodotta dalle elite intellettuali del tempo. I CS intendono la cultura
popolare come frutto di mediazioni, di scambi comunicativi tra fenomeni di resistenza e processi di
assimilazione della cultura dominante:

I cultural studies mutano l’idea di egemonia di Gramsci: La cultura non è solo ordinaria, ma è una campo di
battaglia, luogo dove si scontrano diverse visioni del mondo, diverse idee su cosa è legittimo e cosa no. I
cambiamenti sociali accadono (es: dall’essere a sfavore dell’aborto, si passa ad esserne a favore). Luogo
dove convivono due diverse forze: la resistenza dei gruppi subordinati e l’incorporazione della cultura
dominante. In questo senso la cultura popolare non è una cultura di massa imposta semplicemente
dall’alto, né è una cultura che emerge dal basso, spontaneamente prodotta dalle persone, è un terreno di
negoziazione, dove si alternano e convivono sia pratiche di resistenza culturale che pratiche di
incorporazione e dominio culturale.

Differenza con la Scuola di Francoforte e con l’idea Althusseriana di Ideologia: le cosiddette industrie
culturali (stampa, televisioni, radio, case editrici commerciali) non strutturano in maniera unidirezionale le
audience. I significati attribuiti ai prodotti dell’industria culturale – ciò che rappresenta la cultura popolare -
sono negoziati e oscillano tra resistenza e incorporazione.

Anche Raymond Williams si appropria del concetto di egemonia di Gramsci per spiegare il funzionamento
dei cambiamenti culturali. Le istituzioni educative (scuola, famiglia, mass media) sono gli agenti più efficaci
nella trasmissione di una cultura dominante, ma questa cultura, come sosteneva sia Gramsci, che Stuart
Hall, non è l’unica. In ogni dato momento storico esistono, in equilibrio dialettico tra loro, culture residuali,
dominanti ed emergenti.

Le culture residuali, come ad esempio potrebbe essere quella rurale patriarcale, basata sulla famiglia
allargata e sull’autorità del patriarca, sono culture in declino rispetto a quelle dominanti (in questo caso la
famiglia mono-nucleare), che tendono ad essere via via incorporate da quelle dominanti, ma conservano
ancora una certa distanza da esse.

Le culture emergenti, cioè nuove forme di stili di vita e pratiche quotidiane, per esempio la cultura della
sharing economy, o dell’accesso vs. la cultura della proprietà individuale dei beni, sono quelle culture non
ancora diffuse nella maggioranza della società, ma in ascesa.

Sia quelle residuali che quelle emergenti, possono essere culture “alternative” o addirittura ”oppositive” a
quella dominante. Alternativi sono quegli stili di vita che non si propongono di cambiare gli stili di vita
dominanti ma solo di ritagliarsi uno spazio vitale dove vivere secondo i propri valori. Oppositive sono quelle
culture che invece si propongono di rivoluzionare la cultura dominante in una data epoca.

La cultura è un testo, ma anche una pratica (Williams qui si sta avvicinando all’idea di cultura che hanno gli
antropologi). Ci sarà sempre una correlazione tra classe sociale di provenienza e idea.

Non sono i media a convincerci di consumare una determinata cosa, lo consumiamo alla fine perché
risuona come un habitus (qualcosa di immateriale, una tendenza che si acquisisce nel tempo, assorbendo
quei valori presenti nel nostro contesto: es i valori di una famiglia, saranno aggiornati perché la società
cambia ma i valori potranno rimanere di base quelli).
I cultural studies britannici analizzano tutte le forme di produzione culturale, aprendo allo studio della
cultura popolare, non solo.

Fondamenti teorici del CCCS: l’ideologia

Prima definizione: un corpo sistematico di idee articolato da un gruppo specifico di persone. L’ideologia
del partito dei lavoratori. L’ideologia femminista. L’ideologia capitalista. l’ideologia razzista. L’ideologia
patriarcale.

Una seconda definizione ha a che fare con il concetto di “falsa coscienza”: in questo caso l’ideologia è una
visione distorta della realtà che favorisce i gruppi sociali dominanti. L’ideologia dominante nasconde alle
classi subordinate la loro condizione di oppressi e sfruttati. Per esempio secondo il pensiero femminista,
l’ideologia patriarcale e maschilista nasconde e distorce le reali relazioni di potere tra uomini e donne.

Terza definizione: ha a che fare con le “forme ideologiche” contenute in un testo. Ogni testo (romanzi,
serie tv, fiction radiofoniche, canzoni pop, film…) contiene una specifica rappresentazione del mondo, è
portatrice di una visione del mondo, appunto, di un’ideologia: es. la serie Black Mirror,o la serie Downtown
Abbey

Quarta definizione: Roland Barthes (mito) Barthes sostiene che l’ideologia (che lui chiama Mito) opera a
livello delle connotazioni – cioè quei significati secondari, spesso inconsci – inscritte in un testo. Per
esempio, un messaggio pubblicitario inglese del partito conservatore del 1990 finiva con la parola
“socialismo” trasposta in sbarre rosse di una prigione. Il messaggio suggeriva che il socialismo del Labour è
sinonimo di prigionia economica e politica.

Quinta definizione: Luis Althusser (influente negli anni 70-80): L’ideologia non è semplicemente un corpo
di idee ma si incarna in una pratica materiale, quotidiana. L’ideologia risiede nelle pratiche quotidiane,
guida il nostro comportamento. Riproduciamo, senza accorgercene, l’ordine sociale e i suoi valori.
L’ideologia riproduce le condizioni sociali e le relazioni sociali necessarie alla riproduzione dell’ordine
economico (il capitalismo) dominante.

“L’ideologia è l’espressione del rapporto degli uomini con il loro mondo, ossia l’unità (sopra-determinata)
del loro rapporto reale e del loro rapporto immaginario con le loro reali condizioni di esistenza (Althusser
1967, p. 209)”

I media, secondo Luis Althusser, non solo influenzano la conoscenza della società, ma ne riproducono
l’ideologia dominante. L’ideologia sarebbe FUNZIONALE alla perpetuazione delle strutture sociali. Gli
individui sarebbero “costruiti” dall’ideologia, intesa anche come SENSO COMUNE, cioè l’insieme dei discorsi
che costituiscono la conoscenza diffusa dei soggetti sociali.

Es di ideologia:

- Spot Parmigiano Reggiano


- Gli spot di Uber
- Il messaggio di Deliveroo di Natale e quello ribaltato dai suo critici.

Lettura di Althusser da parte di Stuart Hall (1983):

Qual è la funzione dell’ideologia? Quella di riprodurre le relazioni sociali di produzione dominanti. Althusser
sostiene che il lavoro, cioè la capacità di essere un buon lavoratore, non si apprende all’interno dei luoghi di
lavoro, ma è il prodotto di “sovrastrutture”, cioè istituzioni come: la scuola, la chiesa, la famiglia, i media, i
partiti politici, i sindacati, che ci “coltivano”, ci insegnano ad accettare le gerarchie, la disciplina, la cultura e
la logica della moderna economia capitalista.

Per es. la scuola disciplinerebbe lo studente alla vita lavorativa fin da piccolo, e riprodurrebbe le differenze
sociali. Problema della definizione di Althusser secondo Stuart Hall: Althusser semplifica troppo e non dà
conto del cambiamento sociale. La sua idea di ideologia prevede che esista un’unica ideologia, quella delle
classi dominanti, che opera efficacemente per la riproduzione dell’ordine sociale attuale, senza frizioni e
senza resistenza, e tutti sono “costruiti” allo stesso modo dall’ideologia. L’ideologia, che opera anche
attraverso i media (Althusser li chiama “apparati ideologici”), eserciterebbe un’influenza unidirezionale sui
soggetti sociali.

Stuart Hall: Da direttore della scuola di Birmingham (1968) prosegue lo studio della vita quotidiana delle
classi popolari. Questo voleva dire includere nei progetti di ricerca le persone di colore e le minoranze
etniche, i giovani e le sottoculture giovanili e le donne della classe operaia che amavano guardare le "soap
opera" in TV.

Stuart Hall mette in discussione il concetto di ideologia di Althusser, che secondo lui non è capace di
spiegare come avvenga il cambiamento sociale, e gli preferisce il concetto di EGEMONIA, sviluppato da
Antonio Gramsci. Gli studi culturali inglesi devono molto al pensiero di Gramsci.

Hall studia Gramsci partendo dal concetto di egemonia (gruppi sociali che si consultano l’uno con l’altro).
Per Gramsci la cultura è un gruppo di battaglia dove ci sono diversi gruppi e dove le classi più agiate
possono imporsi.

Secondo Gramsci, i soggetti sociali non sono semplicemente determinati dalle “sovrastrutture”, cioè dalle
istituzioni (o apparati ideologici), ma i due poli – soggetti e istituzioni, stato e società civile – sono
dialetticamente opposti in relazioni di forza. L’egemonia, secondo Gramsci, si riferisce all’insieme di
pratiche adottate da un gruppo dominante in una società con l’obiettivo di ottenere il consenso di una vasta
maggioranza dei gruppi sociali subordinati attraverso l’esercizio di una leadership morale e intellettuale. Ma
non c’è mai una singola ideologia che permea la società, esiste invece un pensiero “egemonico”, in
equilibrio instabile con altri pensieri, altri sistemi di valori, che resistono, o che si oppongono e che in futuro
potrebbero diventare egemonici. La cultura è un “campo di battaglia”, dove si confrontano differenti
ideologie. Es. la ripartizione dei 3 canali Rai.

Esercitare un’egemonia culturale significa avere il controllo finale su ciò che viene prodotto. ”dominio
culturale” e “resistenza culturale” vanno pensati come processi in rapporto dialettico.

“L’egemonia non è mai per sempre” (Stuart Hall, 1997).

La questione del potere è centrale nei cultural studies, ma cos’è il potere? La capacità strutturale di un
attore sociale di imporre la propria su altri attori sociali. Il potere si può imporre tramite la coercizione,
oppure tramite la persuasione e la costruzione del consenso.

Gramsci ha coniato anche il termine nazional-popolare, l’idea di produrre una cultura del genere che
esprimesse le visioni del popolo.

“l’egemonia implica che il dominio di un particolare gruppo sociale è assicurato non da forme di costrizione
ideologica, ma dalla leadership culturale. Il concetto di egemonia circoscrive, individua, tutte quelle
pratiche attraverso le quali una classe dominante o un gruppo sociale al comando, è capace di estendere la
propria influenza al resto della società, trasformandone gli stili di vita, la cultura, i valori in funzione degli
interessi e dell’estensione del dominio di quel particolare gruppo sociale”(Stuart Hall, 1982, p. 85).
“There is struggle over meaning”: il contenuto dei media è POLISEMICO, può essere interpretato in modi
differenti

Stuart Hall rompe con la tradizione marxista della Scuola di Francoforte, per la quale le audience potevano
SOLO aderire alla visione del mondo (falsa coscienza) trasmessa dalle classi dominanti attraverso i media.

Egemonia significa dominio attraverso il consenso, e non attraverso la coercizione. Dominio (o esercizio del
potere) attraverso un discorso ideologico. La classe egemonica esercita il potere sulla società attraverso il
«potere simbolico»

Secondo i filosofi Marxisti la visione del mondo è un insieme di valori che le classi dominanti proiettano
attraverso i media, ma le persone possono riceverle in maniera diverse… diverse classi sociali si
confrontano. Si può resistere alla cultura dominante

La cultura patriarcale da dominante iniziò a diventare residuale.

Stuart Hall fa un’analisi del potere dei media nel costruire rappresentazioni di concetti come razza, classe,
genere, ethnicity.

Per subcultura si intende: un gruppo di persone o un determinato segmento sociale che si differenzia da
una più larga cultura di cui fa parte per stili di vita, credenze e/o visione del mondo. Una subcultura può
accomunare un insieme di persone con caratteristiche simili. Ogni subcultura è espressione di particolari
conoscenze, pratiche o preferenze (estetiche, religiose, politiche, sessuali, ecc.).

Stuart Hall: “Resistance through Rituals” (1976) studia le relazioni tra culture giovanili e appartenenza di
classe. L’appartenenza a una subcultura giovanile (Mods. Vs. Rockers) sarebbe un indicatore
dell’appartenenza a una classe sociale, un modo per articolare la propria identità sociale. Mods: classe
operaia che aspira a diventare ceto medio. Rockers: classe operaia che rifiuta lo stile di vita del ceto medio.

Subculture intese come forme di resistenza simbolica alla cultura dominante. Le subculture, attraverso
l'elaborazione di uno stile distintivo, con un'operazione di risignificazione e di bricolage, usano le merci
dell'industria culturale per comunicare ed esprimere il proprio conflitto. L'industria culturale ha tuttavia il
potere spesso di riassorbire le componenti di tale stile e di trasformarle nuovamente in merci, all'interno di
un processo circolare che rende i due poli reciprocamente dipendenti. Allo stesso modo i mass media,
mentre partecipano alla costruzione delle subculture diffondendone l'immagine, allo stesso tempo le
indeboliscono, privandole della loro carica sovversiva o fornendone un'immagine stigmatizzata. (es. dei
punk o dei raver)

I cultural studies (anni ’60-’70) successivamente si suddividono in gender studies e audience studies (anni
’80-’90).

Distinzione tra sesso e gender (genere maschile o femminile). Il sesso è definito dalle differenze biologiche
mentre il genere è definito dalle differenze socio-culturali, dai concetti di mascolinità e femminilità
socialmente costruiti. Le persone nascono con un sesso femminile o maschile, ma in termini culturali
acquisiscono un’identità maschile o femminile attraverso i processi di socializzazione. Il genere non è
qualcosa di stabile, di fisso.

Come una bambina o un bambino diventano donne e uomini? E’ la società, secondo i CS, che struttura la
loro percezione di cosa è femminile e di cosa è maschile. All’interno dei CS si sviluppano i “gender studies”,
gli studi di genere, e ultimamente i “queer studies”, lo studio delle identità queer. "Queer" è un termine
della lingua inglese che tradizionalmente significava "eccentrico", "insolito". Il termine sembra essere
connesso col tedesco "quer" che significa "di traverso, diagonalmente". L'uso del termine nel corso del XX
secolo ha subìto diversi e profondi cambiamenti e il suo uso è tuttora controverso, assumendo diversi
significati all'interno di diverse comunità. In italiano si usa per indicare quelle persone il cui orientamento
sessuale e/o identità di genere differisce da quello strettamente eterosessuale o transgender: un termine-
ombrello, si potrebbe dire, per persone omosessuali, bisessuali, asessuali, transessuali, transgender e/o
intersessuati.

I CS studiano come i media rappresentino i generi, come contribuiscono a diffondere stereotipi di genere,
rappresentazioni stereotipate.

Janice Radway sostiene che la lettura di romanzi rosa serva a sfuggire, temporaneamente, alla cultura
patriarcale alla quale le lettrici erano soggette e funziona come forma di resistenza/opposizione a quella
cultura. È anche un modo per prendersi del tempo per sé, invece che per la famiglia.

Stuart Hall trasla l’idea di società dinamica, in cui le culture egemoniche non sono mai per sempre, e lo
applica allo studio della televisione. Attua il modello “encoding e decoding nei discorsi televisivi”. Rompe
con quegli studi che ritenevano i processi di produzione e ricezione come entità distinte e separate. Hall
analizza i significati “encoded”, codificati, all’interno dei testi televisivi e li intende come un processo
attraverso il quale vengono posti determinati limiti all’interpretazione del testo mediale da parte delle
audience. L’attività di decodifica del testo non è illimitata, non esistono illimitate possibilità di
interpretazione di un messaggio mediale.

Hall intende il processo comunicativo come una relazione tra due momenti: la codifica e la decodifica del
messaggio, ma questi due momenti non sono disgiunti (il pubblico non solo riceve, ma produce anche nuovi
messaggi). Individui “socialmente situati”: danno letture diverse in base all’appartenenza sociale.

Stuart Hall teorizza una mancanza di equivalenza


tra i due versanti dello scambio comunicativo: codifica e decodifica. Da un lato: «i significati non co-esistono
»equamente» in un messaggio: ci sono significati privilegiati incorporati nel messaggio. La semiosi non è
illimitata. Dall’altro lato: i significati non sono stabili né fissi

Attribuisce alla fase di recezione del messaggio un potere di decodifica. Quando ascoltiamo la televisione,
nel momento in cui per esempio il tg riporta una notizia che ha attuato una decodifica, non sono mai
neutrali, c’è sempre un messaggio che viene decodificato dai media. Ma anche gli spettatori possono
decodificare il messaggio, attraverso 3 possibili letture (categorie idealtipiche di codifica):

- Decodifica preferita: il destinatario decodifica il messaggio nei termini esatti in cui è stato
codificato. Il messaggio non viene messo in discussione. . Il processo di decodifica avviene secondo
un codice egemonico, ovvero il punto di vista delle elite dominanti. L’ordine di questo discorso
viene percepito come ”naturale”, ”scontato”, “inevitabile” corrisponde all’idea Althusseriana di
Ideologia).
- Negoziata: Quando il destinatario accetta il codice dominante ma elabora proprie definizioni e
tenta di fornire interpretazioni parzialmente autonome. C’è un’asimmetria dei soggetti attivi nel
circuito comunicativo mass mediatico. Il destinatario mette parzialmente in discussione.
- Oppositiva: quando il destinatario comprende la lettura preferita ma ridefinisce completamente il
messaggio in un contesto alternativo. Un’audience critica e attiva, che scardina l’ideologia
contenuta nel codice egemonico, come nel caso della “guerriglia semiologica” di Umberto Eco.

Punti di forza del modello: focus sul processo di trasmissione e ricezione e complessità/ambiguità della
ricezione.
Esempio del messaggio di Deliveroo: messaggio di gratitudine, riconoscimento. Esempio del video risposta:
decodifica oppositiva.

Si confrontano due punti di vista differenti, non esiste una realtà dei fatti (alcuni rider non si ritengono dei
schiavi). Ci sono alcuni che effettuano una decodifica egemonica, condividendone l’egemonia; ed altri che si
oppongono.

Studi antropologici: i CS e la svolta etnografica (e la nascita degli audience studies)

I CS hanno avuto il merito di rivalutare gli studi sul pubblico dei media. Si sono dedicati allo studio dei testi
della produzione mediale e le relazioni tra questi testi e la loro fruizione. Hanno evitato di occuparsi degli
effetti della trasmissione e della misurazione delle audience, Preferendo studiare come le persone usano i
media e cosa fanno delle trasmissioni che hanno visto. Accento sulle “dinamiche di fruizione”
(interpretazione dei testi + uso di questi testi)

Paul Willis, altro esponente della cultural studies, fa degli studi sui figli adolescenti delle classi operaie. “le
teorie strutturaliste della riproduzione presentano l’ideologia dominante come impenetrabile. Tutto si
incasella troppo nettamente. Non ci sono crepe nel processo di riproduzione dell’ideologia dominante (…)
Gli attori sociali non sono ricettori passivi di un’ideologia, ma soggetti attivi che riproducono le strutture
esistenti solo attraverso la lotta, la contestazione e una parziale penetrazione di queste strutture.”

Stuart Hall dice anche che c’è sempre una battaglia intorno al significato (come abbiamo visto nell’esempio
di Deliveroo).

I cultural studies riconoscono l’esistenza di un’egemonia culturale raccontata attraverso i media, ma questa
visione è sempre messa in discussione da qualcuno. Il mettere in questione dipende …

Davide Morley studiando un programma inglese, riconosce la presenza di letture negoziate od oppositive.
Obiettivo: studiare le forme discorsive del programma Nationwide (come l’«ideologia» di «nazione» venisse
mobilitata nella fase di codifica) e individuare quali gruppi adottavano decodifiche egemoniche e quali
oppositive. 29 gruppi sociali diversi appartenenti a quattro macro-gruppi sociali: dirigenti, studenti,
apprendisti e sindacalisti, ai quali venne somministrata la visione di due puntate registrate dello show
Nationwide. Al termine della visione veniva attivata una discussione di 45 minuti, registrata e poi trascritta.

Interpreta delle interviste fatte a dei gruppi sociali che guardavano quel programma. Emerge che gli
spettatori interpretavano il testo televisivo attingendo a risorse simboliche differenti. Dice che non esistono
solo 3 tipi di decodifica, ma un continuum di audience con un polo della lettura egemonica e un altro polo
della cultura oppositiva e in questo continuum si inseriscono le diverse classi sociali. Si va da un ‘audience
quasi completamente schiacciata sulla lettura egemonica a un’audience attiva, critica, capace di letture
completamente oppositive. Il testo audiovisivo è poli-semico, tra i due poli sono presenti molte sfumature.

Gruppi intervistati che condividevano la stessa provenienza di classe sociale (shop stewarsd, black students,
apprentice e trade union officials) operavano decodifiche molto differenti. I fattori che incidono non sono
solo fattori sociali, ma anche fattori razziali.

“Dobbiamo sviluppare una teoria che attribuisce lo stesso peso sia al testo ma anche alle audience”
(Morley). Non è solo il testo a determinare il significato, ma anche le audience. Il significato è costruito
socialmente.

Cosa significa fare oggi studi culturali? Avere come riferimento le persone comuni, la vita quotidiana,
tenere conto delle questioni relative all’identità, alla produzione di significato o alle strutture di potere.

I cultural studies si domandano cosa pensano le persone dei media e ciò dipende dal potere.
Nick Couldry parla di Media as practice (2004) si chiede cosa fanno le persone con i media e come
attribuiscono valore ad essi. Studiano la pratica.

Cosa fanno le persone con i media all’interno dei diversi contesti sociali?

Una prospettiva teorica che cerca di comprendere i media non più come testi, o come strutture produttive,
ma come insieme di pratiche (di produzione e di consumo), dove l’attività delle audience (audiencing) non è
più un’attività discreta, isolata dalle altre pratiche quotidiane, ma inscritta in un continuum di pratiche
quotidiane. In un mondo dove la realtà è sempre più mediata, un mondo sempre più saturo di media, la
domanda di ricerca da porci, sostiene Couldry, è: cosa fanno le persone CON i media?

What, quite simply, are people doing in relation to media across a whole range of situations and contexts?
(2004: p. 119)

Ien Ang aveva già posto questa domanda nel 1996:

What it means, or what it is like, to live in a media-saturated world” (1996, 72) si chiedeva com’è vivere in
un modo saturato dai media?

Es. la lettura di una rivista di gossip e celebrità, che significato ha per chi la legge?

- Serve solo a passare il tempo


- Il lettore la legge perché la trova una fonte di comicità (lettura ironica)
- Il lettore la legge perché seriamente interessato a raccogliere più informazioni sulla vita delle
celebrità
Solo una ricerca orientata a capire la pratica, con approccio empirico, può fornirci una risposta.

Dorothy Hobson studia le riviste di gossip che leggevano le casalinghe e specialmente di una soap opera
Crossroads (un programma di bassissima qualità che andava in onda la mattina su un canale commerciale
britannico). È stata la prima ad avere un approccio etnografico: a differenza di Morley, invece di portare
l’audience dentro il contesto dell’accademica, entrò nelle case per studiare le persone che guardano la
televisione, come si comportano e poi le ha intervistate. Quindi si tratta di osservazione e conversazioni
informali con i suoi partecipanti. È emerso che le casalinghe provano un piacere non represso (fuga dalla
realtà), attraverso quelle storie leggono nella storia attraverso una storia che racconta anche di loro (donne
costrette a stare a casa, in una situazione asimmetrica di potere), si identificano. Quindi dice, attraverso una
conclusione simile a Morley, che anche le audience lavorano il testo televisivo e ne traggono significati
diversi.

I CS e la svolta etnografica

Etnografia: insieme di pratiche e metodi di ricerca qualitativa (osservazione partecipante, interviste in


profondità, diari…) nati nel contesto dell’antropologia e transitati poi nei media studies europei attraverso i
cultural studies inglesi.

Fasi della ricerca etnografica:

- Campionamento
- scelta delle tecniche di osservazione
- Raccolta dati
- Organizzazione e presentazione dei risultati

Etnografie della produzione (studi sulle professioni comunicative)


Etnografie dei testi mediali (studi sull’impatto sociale degli eventi mediali, analisi della conversazione)
Etnografie del consumo mediale (ricerche sulla fruizione e l’uso dei media)
Fare cultural studies oggi vuol dire focalizzarsi nelle persone ordinarie e nella vita di tutti i giorni tenendo
conto delle questioni relative all’identità, alla produzione di significato e alle strutture di potere.

03/03

Economia politica dei media

Importanti questi appunti.

Che cos’è l’economia politica? Studia:

- Come viene prodotto, distribuito scambiato e consumato il valore economico. A noi interessa la
catena del valore di un prodotto mediale. Questi studi mettono in correlazione la catena del valore
e gli effetti che queste merci hanno sulla società.
- Le conseguenze politiche degli assetti economici. La sfera economica ha ricadute politiche, sociali e
culturali
- Come gli assetti proprietari in un settore economico hanno effetti sulla società
- Determinismo economico: la struttura economica di un settore produttivo determina la struttura
sociale. Questo è il rischio della teoria.

Studia l’economia per capire la società.

Questioni di assetti proprietari. L’economia politica dei media si chiede:

1) Chi detiene la proprietà dei contenuti che vediamo e delle infrastrutture comunicative che li veicolano?
2) Chi guadagna e come lo fa, dalla vendita di questi contenuti?
3) Come viene monetizzata l’audience?

Disciplina centrale per comprendere la natura dei media commerciali: industrie che vendono una merce

Definizione di economia politica dei media: “lo studio dei rapporti di potere tra i soggetti coinvolti nella
produzione, distribuzione e consumo dei media” (Vincent Mosco, 1996).

Ci sono 2 visioni differenti:

- Economia politica neoliberale: vede il mercato dei media come un sistema che favorisce la libertà
individuale, l’indipendenza dei media e il pluralismo delle opinioni. Gli studiosi che appartengono a
questa tradizione si concentrano sullo studio del pluralismo dei media (quanto il mercato mondiale
è competitivo?).
- Economia politica radicale, o critica: vede il mercato dei media come un sistema di controllo
culturale (eredità della scuola di Francoforte), come un sistema che orienta i gusti degli individui,
trattandoli da consumatori. Enfasi sulla disuguaglianza nella distribuzione del potere di comunicare:
non tutti hanno lo stesso potere di comunicare. Enfasi sulla disuguaglianza nella distribuzione del
potere (concentrazione del potere nelle mani di poche aziende commerciali multinazionali).

Da questa tradizione impariamo ad includere ogni tentativo di comprendere i prodotti dei media deve
includere la comprensione del modo in cui vengono prodotti, alle relazioni di potere interne ai mezzi di
produzione (es.: una redazione di soli uomini bianchi che hanno frequentato certe università; rapporti di
potere interni alle redazioni, alle aziende dove si producono i media).

Approccio critico allo studio dell’economia politica dei media (critical political economy).
La CPE studia i modi in cui l’organizzazione politica ed economica delle industrie dei media (a chi
appartengono, le leggi che vengono emanate) condiziona la produzione dei contenuti e la loro circolazione.
L’approccio parte dalla considerazione che i diversi sistemi di finanziamento della produzione mediale
influenzino le scelte editoriali e le modalità di fruizione e pone una grande enfasi sul potere dei media, sulla
diseguale distribuzione di questo potere e sui motivi che portano alla riproduzione di queste
disuguaglianze. I diversi sistemi di finanziamento influenzano i modi in cui viene prodotta la notizia/il
contenuto mediale.

Quanto le questioni economiche hanno un impatto sulla creazione dei contenuti?

Il potere dei media (media power) è definito da Couldry, uno degli studiosi più noti, come: «la
concentrazione del potere simbolico di costruire e dare forma alla realtà all’interno delle industrie mediali».
Si parla di potere simbolico poiché produce dei simboli. Il potere del professore è coercitivo; mentre quello
dei media emerge attraverso simboli culturali, prodotti culturali che rappresentano il grande potere dei
media.

Il potere dei media, come sosteneva J. B. Thompson, è di tipo simbolico, perché influenza la produzione, la
trasmissione e la ricezione di forme simboliche, quali per esempio i prodotti culturali (film, videogiochi,
brani musicali, telegiornali, romanzi, trasmissioni radiofoniche).

Gli inizi dell’economia politica dei media:

1940: Industrie culturali– critica alla commercializzazione della cultura americana. La produzione e il
consumo della cultura sono industrializzate e standardizzate.

1960: primo corso di Political Economy of Communication alla Illinois University, tenuto da Dallas Smythe e
poi da Herbert Schiller, i fondatori della CPE americana, poi anche McChesney e Janet Wasko. Questi
studiosi si concentrano:

- Enfasi sulla critica della concentrazione ai conglomerati mediali


- Critica del mercato pubblicitario
- Enfasi sull’uso strategico del potere

Herbert Schiller (1969; 1976; 1992) Mass Communications and American Empire, teorico della tesi
dell’imperialismo culturale. Teoria dell’imperialismo culturale degli Stati Uniti. Predominio economico e
culturale degli Stati Uniti attraverso la forza delle proprie industrie culturali (cinema, tv, musica).

Dopo la seconda guerra mondiale: crescente dominio degli Usa nel campo economico e in quello delle
comunicazioni e un parallelo declino delle potenze coloniali dell’800: Gran Bretagna, Francia, Olanda,
Spagna, Portogallo e da un altro l’ascesa dell’impero americano attraverso la colonializzazione.

In questo contesto, si domandano “come circola la cultura”? secondo Schiller sono gli Stati Uniti i maggiori
produttori mediali, attraverso i loro simboli, le loro industrie (cinema, tv, musica) che esportano cultura e
l’american way of life. I mercati mondiali vengono invasi da film, musica americana.

CRITICA (anni 70,80)

l’economia globale è multipolare;


I flussi culturali si sono moltiplicati e non sono più MONO-DIREZIONALI
gli Usa non hanno più una posizione egemone nella produzione culturale. Hanno delle industrie culturali
forti, ancora oggi, ma non sono le uniche.
La tesi di Schiller ignora il processo ermeneutico, interpretativo della ricezione (Cultural Studies): i
pubblici/spettatori che ricevono questi flussi culturali non li ricevano in maniera completamente passiva,
possono avere diverse decodifiche (es: negoziata, oppositiva).
La tesi dell’economia politica è si discutibile, ma contestualizzata al periodo storico si capisce perché è stata
realizzata. Ma adesso stanno nascendo degli hub, che creano cultura per i diversi paesi.

RISPOSTA di Schiller (1991): l’egemonia della cultura statunitense e dei prodotti mediali americani non si
sarebbe ridotta in modo apprezzabile

Il superamento del marxismo- approccio europeo alla CPE e cultural studies britannici

Studiosi come Murdock, Golding, Garnham e Curran, insieme all’influenza successiva degli studi culturali,
hanno contribuito al superamento delle posizioni ideologiche della Scuola di Francoforte, rendendo più
complesso e meno binario il rapporto tra il potere dei media e la società. Murdock e Golding vedono infatti
come riduzionista l’approccio marxista della Scuola di Francoforte. Nel loro saggio del 1973 For a Political
Economy of Mass Communications, propongono un’analisi sistematica dei processi di consolidamento dei
gruppi mediali commerciali e le implicazioni di questo consolidamento sulla società, ma insistono con il
sostenere che «descrivere e spiegare gli interessi di questi gruppi mediali non significa suggerire una
relazione determinista tra questi interessi e i prodotti culturali, ma mappare i limiti all’interno dei quali la
produzione culturale mediata può avvenire».

L’assetto economico e l’economia rappresentano un fattore importante, ma non l’unico. La francia ha


adottato un approccio protezionista alla cultura francese (cinema, musica, ecc) ciò ha portato a delle leggi
che obbligano a trasmettere canzoni francesi. Ma allo stesso tempo c’è stato un impatto positivo che ha
portato alla crescita della cinematografia rancese. Come l’unione europea ha obbligato a mettere nel
catalogo multimediale il 20% dei prodotti europei.

Murdock e Golding più semplicemente sono consapevoli che le strutture capitaliste e orientate al profitto
dei media commerciali non sono le uniche variabili in gioco nella produzione di forme simboliche culturali.
Gli studi sulla CPE che emergono a partire dagli anni Settanta ruotano attorno al riconoscimento dei media
come industrie che producono e distribuiscono merci, ma tentano di inserire queste industrie in un
contesto analitico più ampio. La preoccupazione per l’omogeneizzazione dei prodotti culturali si sposta da
un piano nazionale a uno internazionale. Si cominciano a studiare i rapporti di potere globali e gli assetti
economici internazionali che sottendono le grandi corporation mediali. Allo stesso tempo, studiosi come
Smythe, Meehan, Jhally, Ang e Curran iniziano ad applicare uno sguardo critico anche ai modi di produzione
delle audience, non più solo alle strutture economiche e politiche delle istituzioni

Negli anni 80 sono emersi degli studi europei di economia politica critica dei media: Bernard Miege in The
Capitalization of cultural production (1989) respinge il pessimismo della scuola di Francoforte e le tesi
dell’imperialismo culturale. Focus sulla micro-analisi delle forme di commercializzazione della cultura.
Sostiene che l’estensione del capitalismo nella produzione culturale è ancora limitata e incompleta. Natura
ambivalente della commercializzazione delle industrie culturali non è solo negativo: può portare
competizione, generare conseguenze non per forza negative, ma più positive/negative a seconda
dell’ambito legislativo.

Bisogna parlare di industrie culturali, ognuna di queste ha delle caratteristiche specifiche.

Sostiene che c’è un’industrializzazione dell’industria culturale nascente, ma che l’estensione del capitalismo
nella produzione culturale è ancora limitata e incompleta.

Oggi non è così, ma nell’89 vi erano delle industrie (Rai, BBC) che avevano il monopolio.

L’impero mediale di Rupert Murdoch (padrone di Sky). Il fatto che esistano delle aziende con interessi
economici su larga scala, che peso politico hanno?
Dalla tesi sull’imperialismo culturale alla globalizzazione dei flussi culturali

La globalizzazione è un processo di lunghissimo periodo

Un lungo percorso che i media accellerano.

1.RELAZIONI ASIMMETRICHE TRA STATI NAZIONALI

FOCUS PRIMARIO: STATI NAZIONALI

TEORIE, IPOTESI, CONCETTI: Americanizzazione della cultura, occidentalizzazione, imperialismo mediale;


omogeneizzazione della cultura globale; dinamiche centro-periferia. Scontro di civiltà

Il sistema economico globale è dominato da un gruppo ristretto di stati, mentre i paesi del terzo mondo
rimangono alla periferia dello sviluppo. I paesi più avanzati, in particolare gli Stati Uniti, esercitano un
imperialismo culturale, i loro valori sono pervasivi e portano all’omogeneizzazione della cultura globale,
attraverso i media occidentali.

Un piccolo numero di conglomerati mediali (aziende che possiedono più media, come Disney) hanno esteso
il proprio controllo sulle industrie del cinema, della musica, della televisione e dell’editoria: AUMENTO della
CONCENTRAZIONE MEDIALE e questo è un pericolo per la sopravvivenza di industrie culturali nazionali.
L’occidente eserciterebbe una EGEMONIA CULTURALE sul resto del mondo.

Ci sono dei paesi che elaborano culture, le esportano in altri paesi. L'occidente eserciterebbe un'egemonia
culturale sul resto del mondo.

CRITICHE: Guardando le mappe geopolitiche dei paesi che sostengono l'Ucraina, vediamo che molti paesi
indiani sostengono la cina e la Russia, non in linea con le idee di questa teoria

Derné, istituto francese, 2005 fa l'esempio degli indiani consumatori di media occidentali, in cui c'è un
grande mercato; Delanty 2003 studia come in Giappone la cultura pop americana è stata rimpiazzata dalla
cultura pop giapponese, non appena questa si è sviluppata. se prima c'era stato un processo di
americanizzazione in Giappone, circa 50 anni dopo accanto alla cultura pop americana si inserisce la cultura
pop giapponese. Altri studiosi hanno dimostrato che se in una prima fase i paesi che hanno privatizzato la
televisione, importanto prodotti americani, poi iniziarono a produrre prodotti locali. questa diffusione di
flussi culturali globali ma a velocità differenti.

Glocalizzazione: beni di consumo e media prodotti da multinazionali occidentali vengono adattati ai mercati
locali:

Ascesa delle città globali (Saskia Sassen 1991): centri finanziari al centro della rete economica globale,
esercitano influenza sull’economia globale. GLOBAL MEDIA CITIES: città al centro della produzione mediale
internazionale, influenzano i flussi culturali globali. La produzione culturale nel mondo è concentrata in un
numero relativamente piccolo di città, quasi tutte in Europa e Stati Uniti

Alcune grandi città esercitano egemonia culturale sul resto del mondo.

2. GLOBALIZZAZIONE COME FLUSSI CULTURALI CHE TRASCENDONO GLI STATI NAZIONALI

FOCUS PRIMARIO: networks - RETI

TEORIE, IPOTESI, CONCETTI: Villaggio globale, ibridazione, comunità trans-nazionali

NETWORK SOCIETY - Castells (1996)


siamo nel periodo della caduta del muro di Berlino, diffusione di internet e di tutte le possibilità che questo
comporta/ha comportato

I flussi culturali si muovono non da uno stato nazionale all’altro, ma dentro reti digitali sovra-nazionali. Non
c’è un centro che trasmette la propria cultura verso la periferia, non c’è un’unica egemonia culturale, i flussi
non sono uni-direzionali.

In questo modello, la globalizzazione della cultura corrisponde a una rete senza un centro e una periferia
ben definiti. I nodi di questa rete si influenzano a vicenda (tesi dell’IBRIDAZIONE CULTURALE, Appadurai
1990) Appadurai riconosce che la globalizzazione di capitali, merci, persone, ideologie, media, etnie genera
una TENSIONE tra processi di omogeneizzazione culturale e processi di ibridazione culturale. Appadurai
riconosce che i flussi sono anche flussi di persone, etnie. Esistono entrambi.

gli spazi de flussi: sono spazi geografici connessi tra di loro

gli spazi dei luoghi: sono quegli spazi geografici

Tomlinson: deterritorializzazione della cultura

CRITICA: le reti non sono democratiche, ci sono nodi della rete che attraggono più potere e risorse. non
sono tutti uguali.

3. GLOBALIZZAZIONE COME SOCIETà GLOBALE E COME GOVERNANCE GLOBALE

FOCUS PRIMARIO: networks – SOCIETà GLOBALE

TEORIE, IPOTESI, CONCETTI:

A globalizzarsi non sono soltanto le merci, ma anche le persone, i movimenti.

Società civile globale; movimenti sociali trans-nazionali; ONG internazionali; istituzioni internazionali;
democrazia globale; globalizzazione «from below», dal basso

Globalizzazione dei movimenti di protesta avviene nel 68 ma aumenta negli ultimi venti anni(no-global
2001, Occupy/Indignados/Primavera Araba 2011; Climate change 2019) tutti supportati da media globali, in
grado di connettere persone al di là dei confini nazionali.

Globalizzazione economica «dal basso», prodotti cinesi a basso costo, per le classi popolari del Sud Globale.
Avviene dalla società civile. Una globalizzazione che non circola soltanto dai paesi più ricchi a quelli poveri
ma segue anche la direzione opposta.

Cosa studia la CPE dei media:

1)COMMERCIALIZZAZIONE DEI MEDIA (MARKETIZATION)

La trasformazione delle istituzioni culturali in industrie culturali che seguono le regole e l’organizzazione
delle corporation. Tutto si corporativizza

2)PRIVATIZZAZIONE

La vendita di asset mediali pubblici a privati. Es. la discussione sulla privatizzazione di un canale della Rai, o
la privatizzazione di Rai Way (le infrastrutture di trasmissione)

3) LIBERALIZZAZIONE

L’apertura di mercati precedentemente sotto monopolio alla competizione e all’accesso di nuovi attori. è
successo in Europa negli anni 80-90.
4) DEREGOLAMENTAZIONE (DEREGULATION)

Una regolamentazione del sistema dei media in favore dei privati. Alleggerimento delle regole anti-
concentrazione. Si studiano i vari sistemi legislativi che regolamentano i sistemi dei media (in Italia c’è stata
una regolamentazione che ha sempre favorito Mediaset, presentando un ostacolo allo sviluppo di altri)

5) CORPORATIVIZZAZIONE (CORPORATIZATION)

la pressione nei confronti delle aziende di servizio pubblico dei media a emulare le aziende commerciali,
sottoponendosi allo stesso funzionamento delle corporations dei media. Obiettivo principale: valorizzazione
economica dei propri prodotti

Studiare gli assetti proprietari è importante perché i proprietari di un’azienda mediale possono prendere
decisioni che influenzano il comportamento dell’azienda.

Murdock (1982) distingue tra 2 tipi di influenza: strumentale o strutturale.

1) STRUMENTALE: quando la proprietà interviene direttamente nelle scelte editoriali. Es. Rupert
Murdoch, ha ammesso di aver sempre esercitato un controllo editoriale sui tabloid inglesi di sua
proprietà. Questa è la storia del giornalismo, che è sempre stato utilizzato in maniera politica. Non
è mai stato un mondo completamente oggettivo. Ma anche casi di controllo meno diretto, quando
direttori e giornalisti conoscono la politica del proprietario e si auto-allineano.

2) STRUTTURALE: quando la proprietà interviene nella scelta dei dirigenti,


nell’organizzazione/razionalizzazione delle risorse, nella politica aziendale, ma non nella scelta
editoriale. Non dicono cosa scrivere, ma chi sarà al comando, quale budget dare ai vari tipi di
giornalismo, esercitando un’influenza sul tipo di prodotto che farà quel giornale.
3) Ci sono casi di influenza che avviene dai proprietari attraverso la censura.

Vincoli che possono frenare il controllo dall’alto:

- l’indipendenza del lavoro giornalistico all’interno delle redazioni e i loro meccanismi di


funzionamento democratici (vedi gli studi di Tuchman 1978 e Gans 1979)
- Il mercato stesso: la dipendenza dalla pubblicità a volte spinge l’azienda mediale a seguire i bisogni
del mercato, che possono spingere ad adottare politiche editoriali diverse da quelle della proprietà.
I talk show dei canali di Berlusconi hanno dato molto rilevanza alla presenza di Salvini, poiché
questa presenza aveva aumentato l’audience, andando però a discapito del partito di Berlusconi.

Ogni giornale ha la sua autonomia all’interno dei vari vincoli.

Conseguenze degli assetti economici sulla produzione dei contenuti- case history #1

Uno studio di Curran (2006) ha analizzato la presenza di notizie di cronaca nera (crime) nelle tv locali
americane degli anni ‘90 e ha dimostrato come la presenza di queste notizie sia aumentata costantemente
per tutti gli anni ‘90. Il numero di omicidi non era aumentato, quindi non era questa la causa. Curran dà una
risposta economica: La produzione di queste notizie è estremamente economica e riscuote molto
successo di audience e Curran spiega questo aumento con la pressione da parte dei proprietari dei media
commerciali americani ad aumentare gli ascolti e aumentare i profitti in un mercato televisivo che, in
conseguenza della deregulation reaganiana (liberalizzazione del mercato), si andava frammentando, con
sempre più attori in gioco. Alla metà degli anni ‘90, le notizie di crimini violenti rappresentavano i 2/3 delle
edizioni locali di notizie televisive in 56 città americane, anche se in media, nel paese, la violenza stava
diminuendo. Diminuisce nella realtà la violenza, ma aumenta nella televisione.
Se l’unico fine dell’informazione è fare profitto e vendere pubblicità, questo avrà delle ricadute sulle scelte
editoriali.

Todd Gitlin, Inside Prime Time (1983): Interviste con dirigenti televisivi e ricostruzione della storia delle
organizzazioni televisive. Sostiene che gli imperativi commerciali dei network inducessero il
conservatorismo nei testi prodotti. Siccome bisogna fare audience, non si sperimenta nel produrre elementi
di qualità poichè potrebbero far crollare lo share.

Conseguenze degli assetti economici sulla produzione dei contenuti- case history #2
CONCENTRAZIONE DI MERCATO
Uno studio di Noam (2009) ha analizzato la concentrazione proprietaria nel mercato USA dell’informazione
e ha scoperto che le quote di mercato delle 5 aziende mediali più grandi sono passate dal 13% al 29% (sono
proprietarie di molte più aziende di comunicazione) nel periodo 1984-2004. L’aumento della
concentrazione è stato più pronunciato dopo il 1996, quando è stato approvato dal Congresso americano il
Telecommunications Act, che ha contribuito a deregolamentare maggiormente il mercato.

Mercato radiofonico USA dopo 1996: Clear Channel proprietario di 1225 stazioni ma è diminuita la varietà
di musica trasmessa tra di loro.
Mercato TV via cavo USA: 6 aziende controllano l’80% del mercato
Mercato giornali in UK: i 3 maggiori editori di giornali detengono il 68% del mercato
Mercato musica online: Apple iTunes ha il 70% del mercato del download musicale
Mercato dell’online video: YouTube detiene il 73%
Mercato dei social network: Facebook detiene il 53% del traffico verso social network
Mercato della ricerca online: Google detiene il 70% della ricerca
Mercato pubblicitario online: Facebook + Google attraggono il 63% degli investimenti pubblicitari online
Concentrazione => potere sulle scelte editoriali, minore pluralità di voci

La concentrazione di mercato è solo uno degli indicatori dell’abilità di un’azienda di esercitare un potere sul
mercato, ma spesso determina una diminuzione di pluralità di voci.

L’universo Disney: La Disney è un enorme commemorato mediale, proprietà di diversi marchi.

Facebook esercita egemonia non in maniera totalmente globale.

Molto meno spazio alla creazione di etichette indipendenti.

06/03

Le industrie culturali: cinema, giornalismo, televisione, arti visive, radio, musei e gallerie, design, moda,
pubblicità, università: producono elementi culturali. Hanno tutti in comune la creatività, attraverso questa
producono contenuti (mostra, libro) che rappresentano simboli culturali. Producono cultura attraverso la
loro creatività, lo fanno regolati da relazioni di potere, economiche, ecc.

È un termine ideato da Adorno e Horkheimer e lo usano a posto di cultura di massa. Sottolinearono un


passaggio per nulla scontato, in atto da diversi anni ma con l’ascesa dei mezzi di comunicazione si stava
velocizzando: la cultura a disposizione del mercato. Come termine negativo, di critica.

Per Adorno e Horkheimer (1944) Cultura e industria sono concepite come opposte, divisione netta, non
dovrebbero contaminarsi. Cultura come forma d’arte speciale, eccezionale, di creatività umana, che forniva
una visione utopica di come sarebbe possibile una vita migliore (pensate al testo di Imagine dei Beatles, ma
per Adorno i Beatles erano industria culturale), serve a migliorare l’uomo (visione romantica dell’arte).
La cultura però, nella società americana dell’epoca, ha perduto la sua capacità di agire come critica utopica,
perché è stata trasformata in prodotto, merce: è nata l’Industria Culturale. Negli anni ‘60, cultura, società e
imprese multinazionali si andarono intersecando. Nascevano le prime multinazionali dell’informazione e
dell’intrattenimento.
Capitalismo come un Sistema che implica una continua, benché irregolare, espansione della
mercificazione (e dei suoi processi). In quel momento storico si sono concentrati sulla mercificazione della
cultura.

Critici francesi (Edgar Morin, Bernard Miege): usano il termine al plurale, industries culturelles, per dare
conto della diversità dei vari settori (broadcasting e giornali, ad esempio) che hanno diverse tematiche e
all’interno di queste il rapporto tra capitale e lavoro è molto diverso.

Hanno una concezione più ambivalente, rispetto al pessimismo di Adorno e Horkheimer: le industrie
culturali sono un’area di conflitto permanente

Diversi studiosi si interrogano sulle industrie culturali:

Hesmondhalgh (2006) COSA INTENDIAMO PER INDUSTRIE CULTURALI? Propone due prospettive per poi
arrivare ad una sintesi:

1)cultura come “modo di vivere globale” (Insieme di stili di vita, norme, valori) di un popolo distinto o di un
altro gruppo sociale: allora tutte le industrie sono industrie culturali, in quanto implicate nella produzione e
consumo di cultura. Gli abiti, il mobilio, le auto, i bus e i treni, il cibo e le bevande, sono prodotti della
nostra cultura.

Es: il parmigiano Reggiano rappresenta un modo di trattare il latte che si è diffuso in una determinata zona
d’Italia, questa rappresenta un’industria culturale.

2) Uso più frequente e «ristretto» di cultura come «sistema significante attraverso il quale un sistema
sociale viene trasmesso, riprodotto e percepito» (realizza questa definizione partendo da quella di
Raymond Williams, 1983)

Per poi coniare questa definizione: Le industrie culturali sono quelle istituzioni (usa il termine istituzione
per intendere 3 tipi: imprese basate sul profitto, istituzioni pubbliche e organizzazioni no-profit) che sono
implicate nella produzione di significati socialmente condivisi, cioè nella creazione e circolazione
INDUSTRIALE di testi. Applicano una logica industriale di produzione per la creazione di testi simbolici (libro,
mostra, programma televisivo).

Le industrie culturali si occupano essenzialmente dell’organizzazione e della vendita di un particolare tipo di


lavoro: il lavoro creativo. In particolare, le industrie culturali hanno a che fare con la creatività simbolica.
Commerciano in simboli. Chi lavora in queste industrie contribuisce alla creazione di testi.
Il modo in cui esse organizzano e fanno circolare la creatività simbolica rispecchia le acutissime
diseguaglianze e ingiustizie visibili nelle società capitalistiche contemporanee. Esistono profonde disparità
di accesso alle industrie culturali che persistono tutt’oggi. Inoltre, alcuni testi, sono più disponibili di altri.

Le industrie culturali rispecchiano le disuguaglianze presenti nella società: per diventare scrittori, fotografi,
pubblicitari servono le reti sociali ma soprattutto il capitale economico che permetta la formazione (e tutto
quello che comporta: spese universitarie, affitto, ecc). Questa composizione delle industrie culturali ha una
ricaduta sui prodotti di queste.

Tratti distintivi delle industrie culturali (David Hesmondhalgh, Le industrie culturali, 2006)

Problemi:
 Attività rischiosa (chi investe nella produzione creativa non può prevedere il successo di questi
contenuti)
 Creatività vs. commercio: non è detto che quel nuovo prodotto (molto creativo) piaccia, abbia
successo;
 Alti costi di produzione, bassi costi di riproduzione: costa tantissimo produrre un libro. È
un’industria che riesce ad assorbire gli investimenti se si vendono tante copie.
 Beni semi-pubblici: il bisogno di creare (artificialmente) la scarsità (per conferire valore ai beni),
devo vendere gli oggetti che produco.
La creatività sfugge per sua natura.
Risposte:
 Compensazione di mancati successi mediante creazione di un repertorio. Qualsiasi editore riesce a
stare sul mercato se produce più titoli (almeno uno riuscirà ad avere successo)
 Concentrazione, integrazione e aggregazione della pubblicità
 Scarsità indotta artificialmente
 ricorso al format: serializzazione
 Controllo debole sui creatori di prodotti culturali, controllo forte su distribuzione e marketing

Es. di rischio: Nel 1998 sono usciti negli Stati Uniti 30.000 album, ma meno del 2% ha venduto più di 50.000
copie. Nel 2020 su Spotify il 90% degli streaming arrivava da 43.000 artisti (1,43% del catalogo di Spotify),
ad avere un introito è soltanto 1,43% di tutti gli artisti presenti su Spotify.

Periodizzazione storica del lavoro culturale (Hesmondhalgh 2006 da Williams 1981)

Fanno risalire l’inizio al Medioevo e distinguono 3 grandi periodi:

1. Epoca del mecenatismo e artigianale – medioevo – XIX secolo


2. Epoca professionale di mercato - XIX secolo
3. Epoca professionale complessa – XX secolo in poi

Epoca del mecenatismo e artigianale: è la più lunga in quanto copre un arco cronologico che parte dal
Medioevo – Rinascimento e arriva fino al XIX secolo. Williams identifica ben quattro tipi di «mecenatismo»:

1) è collocata nella fase transitoria che ha portato gli artisti dalle istituzioni al vero e proprio
mecenatismo privato (nelle prime istanze con rapporti di dipendenza occasionali). Dal 500 in poi gli
artisti non lavorano più solo per la Chiesa o lo Stato, nascono i laboratori artigianali attorno alla
figura dell’artista (è il brand, ha la sua reputazione, i suo valori e le sue caratteristiche specifiche).
Le grande famiglie private commissionano la realizzazione dei quadri e fungono anche da “sponsor”
nei confronti di questi artisti.
2) probabilmente la più nota, è quella esercitata all’interno di una corte o da una potente famiglia
nella quale un artista, in cambio di una remunerazione e di un «riconoscimento ufficiale» (Williams,
1981, p.48) diveniva un vero e proprio lavoratore professionista individuale. Le corti avevano i loro
artisti (forme proto-industriali dei lavoratori delle industrie culturali)

3) tipica dell’Inghilterra elisabettiana, prevedeva, più che delle vere e proprie forme di assunzione e
commissioni, una sorta di protezione e riconoscimento sociale. Gli artisti erano protetti dalla
corona, non erano però sovvenzionati direttamente dalla corona).

4) si muoveva in un contesto (indicativamente il XIX secolo) nel quale la produzione di lavori artistici a
fini produttivi era ormai divenuta la normalità. La sua funzione era quella di offrire, sotto forma di
sponsorizzazione, l’assistenza iniziale agli artisti che volevano inserirsi all’interno del mercato.
Molte famiglie private sponsorizzavano questi artisti.
Elemento che esemplifica tutto ciò: Illusioni perdute di Balzac, troviamo molte assonanze con l’attuale
produzione culturale. Nel 1930 scrittori, poeti, giornalisti vivevano grazie alle relazioni con famiglie
importanti che permettevano l’accesso ai salotti letterali, in cui trovavano grandi personaggi che
finanziavano il prodotto culturale. Si creava una legame..

La fase artigianale, nella quale il lavoratore offriva semplicemente il proprio prodotto alla vendita diretta, si
evolse nella cosiddetta fase post-artigianale. In quest’ultima, il produttore non vendeva più direttamente il
suo prodotto ma lo affidava ad un intermediario, questo intermediario, in un secondo momento, diventerà
l’intermediario della produzione: si iniziano così a stabilire dei rapporti sociali di natura capitalistica.

Epoca professionale di mercato: a partire dal XIX secolo, la creatività simbolica inizia ad essere organizzata
come mercato. Inizia ad emergere la figura dell’intermediario della produzione, anche a causa della
crescente quantità di opere disponibili alla messa in vendita. La professionalizzazione di numerose figure
fece sì che la divisione del lavoro divenisse ancora più capillare. Come afferma Williams, i due indicatori
significativi di queste nuove (complesse) relazioni furono il copyright e il diritto d’autore. I produttori,
nonostante detenessero ancora la proprietà generale dei lavori, dovettero fare i conti con la sempre più
crescente «indipendenza professionale» che, soprattutto, i creatori di testi iniziavano ad ottenere.

Epoca professionale complessa (900, secondo dopoguerra): nascono delle vere e proprie aziende che si
occupano della produzione di cultura in maniera capitalistica, seguendo la logica dei contratti e delle
assunzioni. Il sistema della commissione lavorativa emerse come una prassi oramai consolidata dalla
presenza di un mercato fortemente organizzato e di matrice ormai totalmente capitalistico. A variare sono
anche le relazioni fra lavoratore ed azienda: la pratica delle assunzioni e dei contratti in serie si fece strada,
trasformando il creatore di testi in un «professionista impiegato e salariato». (Williams, 1981, p.61) I nuovi
media, come il cinema, la radio e la televisione, favorirono certamente questa ascesa: la produzione veniva
infatti organizzata dalle aziende fin dalle prime battute, offrendo un impiego salariato, o su contratto, ai
soggetti coinvolti. La forte dipendenza dal capitale coinvolto e dai mezzi di produzione sempre più
complessi, ha fatto sì che l’accesso a questi nuovi media fosse profondamente diverso da quello delle
epoche precedenti.

Un’altra forma di produzione culturale che inizia ad affermarsi in questi anni è quella pubblicitaria. Con
l’epoca professionale complessa, difatti, essa passa dall’essere ai margini di altre istituzioni al diventare una
forma specifica di produzione culturale con tutte le implicazioni economiche, politiche e sociali del caso.

Si può quindi affermare come la nascita delle industrie culturali si collochi in una fase intermedia tra l’epoca
professionale di mercato e quella professionale complessa; Hesmondhalgh, inoltre, precisa come
quest’ultima espressione, oltre a descrivere tutte le forme di produzione culturale dal 1950 in poi, raccolga
al suo interno una serie di elementi provenienti dalle tre fasi appena viste.

Aumenta il lavoro dedicato ai servizi, che ha bisogno di competenze e non di forza bruta.

Perché le industrie culturali sono importanti?


1. La loro capacità di mettere in circolazione prodotti (testi) che influenzano la nostra conoscenza,
comprensione, esperienza del mondo.
Che tipo di influenza? Complessa, negoziata, indiretta, non omogenea su:
Senso di identità, rappresentazioni del mondo, opinioni sul mondo.
2. Il loro ruolo come sistemi per la gestione della creatività e della conoscenza
3. I loro effetti come fattori di cambiamento economico, sociale e culturale
Studiare le industrie culturali ci può aiutare a capire come i testi assumano la forma che hanno, e come
essi sono giunti a occupare un ruolo così centrale nelle società contemporanee

Le tradizioni di studi che si occupano dello studio delle industrie culturali (punto di vista sociologico):
Scuola di Francoforte (Adorno e Horkheimer)
Scuola culturologica francese (Edgar Morin)
Sociologia della cultura francese (Bourdieu) e americana (Becker)
Economia politica critica nordamericana (Schiller, McChesney, Mosco)
Economia Politica critica europea (Miege, Garnham, Murdock)
Studi culturali (britannici, americani, australiani, post-coloniali)
Gli studi culturali ripensano la cultura considerando il suo rapporto con il potere. Rispetto agli approcci di
tipo CPE (Critical political economy) si pongono il problema del significato (ambivalenza, polisemia della
ricezione/decodifica/interpretazione del testo)
Studi sulla produzione dei media (Caldwell et al. 2009) derivano dai Cultural Studies e la loro recente svolta
verso lo studio della produzione invece che della ricezione dei media.
(lavoro below the line e above the line)

David Hesmondhalgh ha riconosciuto che tra tutti questi studi, forse quello più importante è quello de Le
industrie culturali (2006)

Gli studi culturali hanno dimostrato che la cultura comune, quotidiana, va presa sul serio (messa in
questione del modo gerarchico di intendere la cultura) Rischio: celebrazione acritica della cultura popolare

Gli studi culturali hanno fornito un notevole affinamento del termine “cultura”. Contro concezioni
“essenzialiste” di cultura, che vedevano la cultura di un determinato luogo o popolazione come “cultura
unica e condivisa”, come qualcosa di limitato e di stabile nel tempo, piuttosto che come un campo
complesso dove si confrontano diverse forze

Gli studi culturali hanno affrontato i temi della testualità, della soggettività, dell’identità, del discorso e
del piacere in relazione alla cultura. Gusto come prodotto del retroterra sociale. Forme di cultura più
svalutate rimangono ancora quelle consumate da gruppi sociali privi di potere (es. della Trap: studio fatto
su queste persone, dimostravano il non voler accettare il messaggio dello Stato per cui lo dovevano
confermarsi, lavorare per guadagnare poco e vivere nelle case popolari. Usavano la musica per esporre il
loro pensiero). Interesse per la comprensione delle esperienze e delle interpretazioni dei membri delle
audience.

Dalle industrie culturali alle “industrie creative”: Il termine «industrie creative» viene adottato per la prima
volta dal partito laburista britannico nel 1997. I responsabili della politica culturale del nuovo governo Blair
(UK Department of Culture, Media, and Sport DCMS) usano questo termine nei loro documenti di politica
culturale per connettere al settore delle industrie culturali anche i settori delle arti performative (es. teatro,
danza), delle arti visive, della moda e del design. A partire dal 1998 il governo laburista inaugura una serie
di politiche volte a sostenere questo settore «unificato» per dare un impulso all’economia britannica
puntando sulla valorizzazione dei lavori «creativi», come risposta alla transizione post-industriale e alla
conseguente disoccupazione crescente nel settore industriale.

Fino agli anni 70 quando si parlava di industrie culturali non si faceva riferimento alla moda e al design.

Il governo inglese è il primo a riconoscere il settore creativo come la chiave dello sviluppo economico del
futuro.

Dal 2002 in poi dentro la terminologia “industrie creative” rientrano: musei, librerie e archivi, arti visive,
moda, beni culturali e produzione di supporti, letteratura

“quelle industrie che hanno origine nella creatività, abilità e talento individuali e che hanno un potenziale
per la ricchezza e la creazione di posti di lavoro attraverso la generazione e lo sfruttamento della proprietà
intellettuale" (Hesmondhalgh, 2002)

Il valore economico generato da queste industrie creative era il 4,3% ma sta crescendo sempre di più. E
Londra rappresenta un hub di industria creativa. À

Situazione italiana nel 2020:

C’è una conseguenza sociale dell’ascesa dei lavori creativi:

“The rise or the creative class” di Richard Florida, sviluppa i concetti di classe e città creative, che ha
orientato e influenzato molto le politiche culturali di molte città negli ultimi 15 anni. Parla di ascesa della
creatività umana come fattore chiave per l’economia. Gentryfication: imborghesimento delle zone
periferiche delle città. Le conseguenze sono che i quartieri diventano invivibili. Se questo processo non è
regolamentato rischia di avere processi cattivi nella società.

I ruoli professionali delle industrie creative

Proprietari e dirigenti
Manager del settore creativo
Personale del marketing
Creativi principali (autori, scrittori, artisti)
Tecnici e operai specializzati (cameramen dell’industria cinematografica)
Lavoratori non qualificati (operai addetti all’assemblaggio di componenti elettroniche, che lavorano in
outsourcing nelle «maquilladoras»)

Le caratteristiche del lavoro culturale (Hesmondhalgh):

Siamo in una sorta di quarta fase, dove ci sono settori in cui si elimina personale. Quei settori in cui si cerca
personale sono aziende di marketing, design. Quindi le classi industrie culturali sono in declino.

Una tendenza ad avere più lavori;


Una prevalenza di lavoratori autonomi o freelance;
Irregolarità del lavoro, contratti di breve durata, scarsa protezione sociale
Prospettive di carriera incerte
Distribuzione dei guadagni altamente simmetrica (diseguale)
Età media dei lavoratori delle industrie culturali: più bassa rispetto alle altre professioni
Eccesso di offerta di forza lavoro artistica = lavoro sotto-pagato.

Per una sociologia del lavoro creativo:

Evoluzione del lavoro creativo

Managerizzazione del lavoro creativo (artisti e lavoratori culturali come manager – artisti e lavoratori
culturali come imprenditori di se stessi)
«Passion trap» e self-exploitation
Precarizzazione del lavoro creativo
Le conseguenze negative della «classe creativa» (gentrification)
Il problema della diversità e delle diseguaglianze nella «classe creativa».

Hesmondhalgh e le culture della produzione


Molti autori, tra cui David Hesmondhalgh, sostengono che tra la tendenze dei media studies internazionali
c’è uno spostamento dell’attenzione dalla ricezione alla produzione dei media, in pratica dallo studio delle
audience allo studio di chi lavora nelle industrie creative. L’oggetto di indagine diventa lo spazio della
produzione, con le dinamiche affettive, gerarchiche, manageriali e relazionali che vi sono inscritte.
«Produrre significa», dice Hesmondhalgh, «far esistere qualcosa. Così lo studio della produzione dei media
esamina le persone (i producer) e i processi (la produzione) che danno ai media la forma che hanno. In
questo processo ha un ruolo cruciale la questione del potere».

É giusto quindi chiedersi chi sono e come lavorano le persone che stanno dietro la produzione del
patrimonio di segni (testi, immagini, suoni) che quotidianamente riceviamo mediati da radio, tv, Internet. É
quindi comprensibile che gli studi sui media, dopo tanta attenzione dedicata a cogliere le ideologie inscritte
nei testi mediali attraverso la semiotica e la sociologia della cultura e a capire come veniva ricevuto un
messaggio (testi, immagini, suoni) da parte del pubblico e quali potevano essere gli usi sociali dei media
attraverso gli studi culturali e la sociologia dei media, iniziasse a concentrarsi anche su chi produce quel
messaggio

07/03
Economia politica delle piattaforme digitali

Che cosa sono le piattaforme? A utilizzare per primo il termine “piattaforma” sembra sia stato il
matematico italiano Nicolò Tartaglia nel 1546, per indicare una superficie piana di varia estensione
(Belpoliti e Niessen 2012). Dunque, un primo significato del termine è quello di tipo architettonico e indica
una struttura fisica piatta, sia naturale che costruita dall’uomo, sulla quale si può stare in piedi. Nel tempo
però, ha preso sempre più piede un’interpretazione metaforica di questo termine, producendo una
declinazione in diversi ambiti, dalla politica all’economia, fino alle innovazioni tecnologiche.

Tarleton Gillespie (The politics of platform, 2010), come sinonimo di programma politico o di rete di politici
che condividono un programma comune. Questo significato richiama la sua prima connotazione
architettonica, quando il termine piattaforma era utilizzato per indicare la struttura che ospitava il
personaggio politico che si apprestava a parlare agli elettori da un palco rialzato. Quindi, l’uso della parola
piattaforma in ambito tecnologico rappresenterebbe soltanto l’ultima tappa del processo di trasformazione
semantica di questo termine nella nostra società.

A partire da un suo uso metaforico, Gillespie mostra come le aziende tecnologiche, da Google a Microsoft,
siano state tra le prime a utilizzare la definizione di piattaforma per indicare i propri servizi. Nel 2006,
quando Google acquistò YouTube, la descrizione di questo servizio diffusa nei comunicati stampa
dell’azienda segnò un importante trasformazione semantica: You Tube non si era più descritta soltanto
come un “sito web”, un’azienda” o una “comunità”, ma come una “piattaforma di distribuzione per i
creatori di contenuti originali e grandi e piccoli inserzionisti pubblicitari” (Gillespie, 2010, p. 348). Pone
enfasi sulla distribuzione. A partire da quel momento, le aziende tecnologiche si appropriarono di questo
termine per descrivere il proprio servizio come uno spazio “aperto” e “neutrale”, riprendendo il significato
originale di piattaforma, uno spazio aperto e piatto, su cui chiunque può salire, senza differenze o
discriminazioni. Ancora secondo Gillespie, le aziende tecnologiche usano questo termine come parte di una
più vasta strategia retorica per presentare pubblicamente i propri servizi come dei puri intermediari, degli
aggregatori neutrali che connettono produttori e consumatori di contenuti, senza però interferire o
modificare i processi di produzione e consumo culturale: senza insomma alcuna responsabilità sui contenuti
in circolazione.

Utilizzando per la prima volta questo termine mostra come tutti i contenuti che vengono caricati non sono
prodotti da Google, appartengono agli utenti e questi ultimi ne sono responsabili e inoltre che tutti hanno la
possibilità di pubblicare i contenuti (tutti possono diventare editori). È una piattaforma, in quanto è
neutrale: da spazio a tutti e tutti sono nello stesso livello.

Nei primi anni queste aziende hanno nascosto al pubblico la presenza di persone che svolgevano attività di
moderazione.

Non si tratta di industria culturale, bensì di industria tecnologica.

Se gli studiosi di economia definiscono le piattaforme come aggregatori di diversi attori economici, gli
studiosi che provengono dal campo dei software studies definiscono invece le piattaforme come sistemi
software (ri)programmabili che raccolgono i dati degli utenti e li elaborano sistematicamente (Helmond,
2015; Langlois e Elmer, 2013). Secondo questo approccio, le piattaforme strutturano il modo in cui gli utenti
finali possono interagire tra di loro tramite la progettazione di interfacce utente (graphic user interfaces),
indirizzandoli verso uno specifico uso della piattaforma, ad esempio progettando pulsanti che permettono
di fare alcune azioni e non altre, come i like di Facebook (Bucher e Helmond, 2018).

I punti di vista degli economisti e degli studiosi di software sono entrambi necessari per comprendere cosa
sono le piattaforme: esse rappresentano sia delle nuove forme di mercato, sia delle infrastrutture di tipo
computazionale. Ecco perché Airbnb e Spotify si somigliano così tanto, anche se si occupano di due servizi
così diversi: sono entrambi infrastrutture di tipo computazionale che si presentano come intermediari tra
più attori economici.
L’economia politica delle piattaforme digitali - Il capitalismo di piattaforma (Platform Capitalism, Nick
Srnicek, 2017)

Il termine viene sempre più utilizzato nel quotidiano. Nick Srnicek, nel suo libro Platform Capitalism (Polity
2017), analizza nel dettaglio le caratteristiche del capitalismo contemporaneo e individua l’emergere del
capitalismo di piattaforma, una forma di capitalismo avanzato che si fonda sull’estrazione, l’aggregazione e
l’analisi di dati, dai quali emerge un nuovo tipo di impresa commerciale: la piattaforma. Le piattaforme,
secondo Srnicek, sono infrastrutture digitali che permettono a due o più gruppi sociali di interagire tra
loro. Si posizionano quindi come intermediari frapposti tra utenti differenti: clienti, investitori pubblicitari,
fornitori di servizi, produttori di contenuti, distributori.

Google è la piattaforma per la ricerca online


Uber la piattaforma per la domanda/offerta di taxi
Facebook per le relazioni interpersonali
Airbnb per l’offerta/domanda di affitti temporanei
Spotify per la ricerca/scoperta di contenuti musicali

Queste aziende commerciali hanno tutte in comune l’uso di piattaforme digitali per mediare tra utenti e
fornitori di servizi/contenuti e possono essere viste quindi come dei veri e propri mezzi di comunicazione,
delle vere e proprie piattaforme mediali. Estendere il concetto di media più comune oltre i confini dei mezzi
di comunicazione di massa tradizionali, ci permette di applicare gli studi di economia politica dei media non
solo a piattaforme mediali come Facebook e Spotify ma anche ad altre come Airbnb e Uber.

Le piattaforme sono apparati di estrazione di dati. Detengono software e hardware

Modello economico: creazione di valore a partire dalla raccolta di dati digitali.

Srnicek distingue poi tra 5 diversi tipi di piattaforme:

1) advertising platforms (Google, Facebook)

Queste piattaforme estraggono informazioni dagli utenti, elaborano queste informazioni e le usano per
vendere spazi pubblicitari.
All’inizio della sua storia Google raccoglieva dati degli utenti per migliorare il proprio servizio di ricerca. Con
l’esplosione della bolla delle dot.com del 2001 ha dovuto trovare una fonte di finanziamento alternativa ai
venture capitalist (finanziatori). Nel 2000 ha lanciato AdWords e ha iniziato la sua trasformazione verso una
società che genera ricavi dalla vendita dei dati dei propri utenti.
Nel 2016 l’89% delle entrate di Google e il 96,6% delle entrate di Facebook provenivano dalla pubblicità.
Le piattaforme fondate sulla pubblicità monitorano e registrano l’attività online dei propri utenti e la
trasformano in dati. Il profitto di queste aziende però non viene dalla semplice attività di raccolta dei dati,
ma dall’analisi dei dati (servono data scientists).
Quello che viene venduto agli investitori pubblicitari non sono i dati stessi, ma la promessa che il software
di Google sarà capace di posizionare i giusti utenti di fronte a un messaggio pubblicitario.
Gli investitori di Spotiy continuano ad investire perché queste aziende presentano delle promesse per il
futuro. Un modello economico basato sul rischio.
Facebook e Google fanno soldi con la pubblicità.
I ricavi e incassi di Apple derivano dalle vendite degli iphone (62,8%), il 14% dai servizi
I ricavi e incassi di Amazon: il 52,8% dallo store online; il 6,1% da Amazon prime, il 7,4% dai negozi fisici (che
sta sempre di più nascendo)
Il 98% degli introiti di Fb dipende dalla pubblicità.

Quali sono le più grandi aziende per valori di mercato (valore calcolato in base agli asset, luoghi, aziendali)
«il peccato originale di Internet» Articolo del 2014 di Ethan Zuckerman
(direttore del Civic Media Center del MIT di Boston)
Il peccato originale del web: avere scelto il modello fondato sulla pubblicità a metà degli anni ‘90, quando
altri modelli (abbonamento) erano meno affidabili. Averlo fatto per poter mostrare agli investitori che la
start up stava in piedi e aveva un «revenue stream», un’entrata.
Risultato: il web è oggi, secondo Zuckerman, un grande sistema di sorveglianza degli utenti.
Asimmetria di potere: le piattaforme sanno molte cose su di noi (molte di più di quante ne sapessero le
aziende televisive) e noi non sappiamo niente di come funzionano questi algoritmi

2) cloud platforms (AWS, Salesforce)

3) industrial platforms (GE, Siemens)

4) product platforms (Spotify, Netflix)

Queste piattaforme derivano i propri guadagni dal modello dell’abbonamento a un servizio: l’utente, invece
di avere un bene di sua proprietà (un CD musicale, un DVD, un software, una macchina, un trattore, una
bici), affitta quel bene pagando un abbonamento mensile o annuale.
Es. del CD: una volta spesi i 18 euro per acquistarlo, il CD può essere riprodotto 1 0 1000 volte e non
generare alcun valore per chi lo ha prodotto. Un file mp3 «affittato» tramite Spotify continua invece a
produrre valore per tutta la sua vita (ogni click/play su un file di Spotify ha un valore, di cui una piccola
porzione, va all’artista)
Es. della bici: invece di vendere una bici o un trattore, le product platforms affittano questo bene e
forniscono servizi connessi al bene. Quello che vendono non è più il bene in sé, ma l’accesso al bene.
(Jeremy Rifkin, L’era dell’accesso, 2000).
La raccolta di dati è centrale anche in questo modello, ma i dati non vengono venduti ai pubblicitari (tranne
caso Spotify, che ha doppio modello). Servono per far funzionare il prodotto e migliorarlo, dando un
vantaggio competitivo all’azienda (l’algoritmo Discover Weekly di Spotify).
Netflix ha un guadagno che deriva anche dalle pubblicità.

5) lean platforms (Uber, Airbnb)

Mentre i modelli di piattaforme digitali basate su pubblicità e sull’accesso a un prodotto generano profitti, il
modello delle cosiddette «lean platforms» (letteralmente «magre») si affida totalmente agli investimenti
dei finanziatori (venture capitalist VC) e punta a crescere prima di fare profitti: per poter fare profitti deve
prima raccogliere milioni di utenti.
Perché «magre»? Perché sono leggere, non hanno cioè beni di proprietà, se non il software che hanno
sviluppato. Uber non ha taxi suoi, Airbnb non ha beni immobiliari. Potremmo chiamarle «società senza
asset» o aziende virtuali.
Il centro del loro modello è il software che fa girare la piattaforma e i dati che raccolgono e che servono per
esercitare un monopolio sul servizio offerto.
Le entrate derivano dalla percentuale che questi servizi ricavano dall’uso della piattaforma e dei suoi dati
da parte degli utenti. Sono come dei «guardiani di passo» (gatekeepers: guardiani che stanno fra noi)
Sono intermediari tra chi cerca un taxi, una bici o una casa e chi offre questi servizi. Entrambi, domanda e
offerta, hanno bisogno della piattaforma per incontrarsi.
Tutti i costi di una normale azienda capitalista sono esternalizzati: i dipendenti sono trasformati in «liberi
professionisti»
Just eat prende una percentuale dal ristoratore.

Capitalismo in piattaforma: aziende diventano importanti per la loro capacità di estrarre dati.

10/03

The platform society (libro da fare):

Cos’è la «platform society»? «Una società in cui gli scambi a livello sociale, economico e interpersonale
sono in gran parte regolati (intermediati) da un ecosistema di piattaforme online globale a stragrande
maggioranza aziendale, guidato da algoritmi e alimentato dai dati» (Platform society – José Van Dijk, 2018).

Algoritmi e dati vanno a braccetto. Senza di questi non si può parlare di piattaforme.
Distingue tra 2 tipi di piattaforme:
- Infrastruttura: google, twitter; forniscono un servizio ad altre piattaforme. Delivero, Just eat usano
anche Googlemaps
- Piattaforme prodotto/tematiche: usufruiscono delle piattaforme infrastruttura ma si dedicano ad
una sola tematica (es: vintes).
Gli autori descrivono come funzionano queste piattaforma e i meccanismi che permettono di generare
capitale economico. Individuano 3 meccanismi delle piattaforme:
- Datafication:
a) Raccolta dati
b) Circolazione
- Commodification (commercializzazione)
a) Attenzione
b) Servizi
c) Data
d) Beni/merci
- Selezione/curatela
a) Personalizzazione
b) Moderazione contenuti
c) Reputazione
Questi meccanismi sono comuni a tutte le piattaforme. Facebook trasforma in merce la nostra attenzione;
Airbnb trasforma in merce una stanza che qualcuno ha libera. Entrambi hanno a loro interno sviluppato dei
meccanismi di personalizzazione dei contenuti (i contenuti sono diversificati a seconda delle persone e dei
loro consumi e preferenze). Netflix è in parte una piattaforma perché ha gli algoritmi. La nostra biografia di
consumatori struttura le piattaforme.

Datafication (dataficazione): L’abilità delle piattaforme online di trasformare in dati molti aspetti del
mondo fisico che non erano mai stati «misurati».

La cattura dei dati è costante ed è molto sofisticata (preleva i gusti non soltanto dati sociometrici).
Produciamo continuamente dati.

Datafication, secondo Mayer Schoenberger e Cukier (2013) è la trasformazione dell'azione sociale in dati
quantificati (prima non avveniva), consentendo così il monitoraggio in tempo reale e l'analisi predittiva

Con l'avvento del Web 2.0 e dei siti di social network, molti aspetti della vita sociale che non erano mai stati
quantificati prima si convertono in «quantità»: amicizie, interessi, conversazioni, ricerche di informazioni,
espressioni di gusti, risposte emotive e così via. Se posso dare un valore numerico ad una cosa allora possa
darle anche un valore economico.

Facebook (ha acquisito Whatsapp per poter avere una serie di informazioni da analizzare, per cercare di
prevedere il comportamento del consumo in modo tale da impedire l’incertezza) ha trasformato le attività
sociali come "friending" e "simpatia" in relazioni algoritmiche (Bucher 2012, Helmond e Gerlitz 2013);

Twitter ha reso popolari le persone online e le idee promosse creando "follower" e "retweet”» (Kwak et al.,
2010);

Mastodont, piattaforma di microblogging molto simile a Twitter, ha fatto una scelta di omettere il tasto
“retweet” per mostrare la differenza rispetto a Twitter ma anche per una scelta politica.

La trasformazione digitale della socialità ha generato un settore che costruisce la sua ricchezza sul valore
dei dati.

È una novità ma è diventato comune a tutte le piattaforme.

La raccolta dei dati di consumatori e cittadini non è una pratica nuova. Istituzioni pubbliche e aziende
dipendono storicamente dalla raccolta di dati statistici sui propri cittadini e utenti. La diffusione delle
piattaforme online ha intensificato questa raccolta, ne ha esteso i confini e la trasformata in una raccolta in
«tempo reale». Forme apparentemente leggere di interazione sociale (like, retweet, commenti, recensioni
di ristoranti e alberghi, seguire o non seguire un determinato profilo) rappresentano per le piattaforme dei
«data signals» (segnali di dati) e nascondono complesse infrastrutture informatiche per la raccolta continua
dei dati e l’accoppiamento di utenti a servizi o messaggi pubblicitari. Le piattaforme non misurano
semplicemente sentimenti, pensieri, opinioni e performance ma le innescano e le modellano attraverso il
design delle proprie interfacce utente. Soltanto adesso possiamo parlare di raccolta di dati in tempo reale.
Con la radio erano iniziato il monitoraggio da parte delle agenzie, e poi anche con la televisione ma con i
social media diventa più comune.
Commodification (commercializzazione), secondo step: le piattaforme online trasformano oggetti digitali,
attività, emozioni e idee in merci dotate di valore. In particolare, il processo di commercializzazione delle
piattaforme produce 4 tipi di merci che acquistano un valore di scambio:

- Attenzione («audience commodification»)

- Dati (valorizzazione commerciale dei dati degli utenti)

- Servizi (vendita di servizi, come le fee di abbonamento o i costi di intermediazione (le fees di Uber e
Airbnb)

- Beni

Per Spotify tutto quello che facciamo nella piattaforma ha valore economico.

La commercializzazione dei dati, già fatta ai tempi della radio e tv, oggi viene fatta in maniera più raffinata,
non sono venduti a terzi ma Facebook si serve di questi dati per vendere gli utenti (misura la nostra
attenzione, trasformandola in dati e trasformando questi in modelli di clienti e da questi si sviluppano dei
servizi: come gli abbonamenti di Spotify.

Economia basata su piattaforme: queste aziende e infrastrutture diventano intermediari (gatekeeper) si


inseriscono tra noi e i giornali, ospedali, ecc.

Grazie alla raccolta costante di dati e alle infrastrutture tecnologiche avanzate, le piattaforme online sono
più efficienti delle istituzioni pubbliche tradizionali nell’accoppiare utenti e servizi. Ma se poche piattaforme
commerciali controllano i dati di milioni di utenti nella loro ricerca di servizi, queste piattaforme
accumulano un potere enorme e sono in grado di esercitare un monopolio nel decidere come deve
funzionare un mercato.

Quali sono le conseguenze di questa piattaformizzazione della società? È un problema di tipo economico e
politico. Se Apple ha i dati sullo stato di saluto di milioni di utenti accumula una conoscenza e un potere
superiore rispetto ai servizi ASL, oppure rispetto ai giornali (conosce i consumi), così come anche Google. Le
varie piattaforme competono per riuscire ad includere più persone possibili dentro il loro ecosistema,
altrimenti perderebbero dati.

Selezione: CHI decide COSA è rilevante per gli utenti (news, musica, libri, film, alberghi, ristoranti) e
COME lo fa?

Le piattaforme online sostituiscono la selezione/cura dei contenuti basata su esperti con la selezione basata
su algoritmi e commenti degli utenti. Dal punto di vista degli utenti la selezione basata sul comportamento
degli utenti appare più democratica, ma nasconde una serie di regole di funzionamento invisibili.
Gillespie (2014): «oggi ci fidiamo degli algoritmi come un tempo ci affidavamo a degli esperti, anche se non
sappiamo nulla dei meccanismi che governano il loro funzionamento». Non sappiamo perché gli algoritmi
privilegiano certe immagini e altre no, mentre prima sapevamo perché alcuni esperti facevano delle scelte.

Come funziona la selezione delle notizie online (anche sulle testate online). Le testate usano algoritmi per
decidere quale notizie inserire online e quindi darne rilievo e quali no. È un processo di selezione delle
notizie che è cambiato moltissimo rispetto alla selezione che veniva fatta prima.

Gans ha studiato le redazioni e da questo studio è emerso il modo in cui i giornalisti percepivano i l
pubblico, la maggior parte non si interessava ai dati provenienti dal pubblico. Secondo loro era il giornalista
che doveva scegliere se pubblicare o meno una notizia a seconda delle competenze del giornalista. I
giornalisti si riufiutavano di sapere su quali argomenti soffermarsi perché erano quelli più graditi dal
pubblico: audience rejection

- Poca importanza ai dati


- Dati non esaustivi (campioni)
- Dati raccolti periodicamente (non veloci)
- Dati a grana rossa (bassa rivoluzione)

Oggi il modello sul quale ci si sofferma è l’audience engagement: si valorizzano tutti i dati che provengono
dall’audience:

- Molta importanza ai dati


- Dati esaustivi (intera popolazione)
- Dati raccolti in real time
- Dati a grana fine (alta risoluzione)

Le redazioni contemporanee vengono chiamate data intensive newsroom e tra i giornalisti si è instaurata
una nuova cultura dei dati. Diversa cultura dei dati sulle audience: data driven newsroom.

Prima vi era una logica editoriale basata su criteri classici (sostantivi, relativi al prodotto, al mezzo, al
pubblico, alla concorrenza) di notiziabilità per la scelta degli argomenti; adesso c’è una logica data driven: si
scelgono le notizie in base alle metriche (quanto le notizie simili in passato hanno performato). Tutti i
giornali hanno acquistato dei software per la misurazione delle notizie.

Il giornale The guardian ha sviluppato il software Ophan: offre dati minuto per minuto sui singoli articoli con
un alto livello di granularità. È basato su browser, e mostra non solo metriche tradizionali come
visualizzazioni di pagina, condivisioni social e tempi di attenzione per ogni articolo pubblicato nelle ultime
due settimane. Mostra anche se gli articoli sono stati promossi tramite i canali dei social media del
Guardian (compreso il post o tweet esatto con cui sono stati promossi) o se sono stati promossi sulla home
page.

«Tutti possono vedere i risultati che hanno i loro articoli ... quindi se apportano una modifica a un titolo, o
se aggiungono un collegamento o se aggiungono qualcosa in home page, ora possono effettivamente
vedere i risultati che queste modifiche producono in tempo reale. Possono testare un istinto e vedere cosa
succede, piuttosto che fidarsi ciecamente di quell'istinto».
(The Guardian executive editor for audience, 2015)
NATURA CONTINGENTE DELLA NOTIZIA: flessibile, mutabile real time, adattabile alla sua performance

Questo processo ha portato ad un Dominio dell’etica della performance: la qualità di un oggetto editoriale
viene ridotta, frammentata, in numeri che dovrebbero, secondo l’ideologia dei dati, o il determinismo dei
dati, essere in grado di misurare la qualità e l’efficacia di un pezzo.
Big board, Redazione di Gawker ha realizzato un software interno per mettere in competizione i giornalisti:
gli articoli vengono inseriti in base all’engagement e i giornalisti che si trovano primi in classifica vincono un
premio. In questo modo si corre indietro ai trend dei lettori, favorendo il clickbait ma ne viene meno la
qualità. Anche il Times utilizza un software che permette di vedere in contemporanea il feedback però è un
po’ diverso: non tutti hanno accesso ai risultati, non sono previsti premi, ecc. Insomma l’utilizzo dei dati
dipende dalle culture interne ad ogni azienda.

La selezione produce una Personalizzazione: Le piattaforme online forniscono contenuti personalizzati,


suggerimenti di profili personalizzati, messaggi pubblicitari personalizzati. Non avviene soltanto con
algoritmi. Il rischio è rinchiudere le persone dentro mondi personalizzati (filter buble: racchiudere le
persone in camere dell’eco, con persone con gli stessi gusti. In realtà tutti coloro che hanno cercato di
mostrare la capacità dei social media di provocare questo effetto, ma non ci sono riusciti, soltanto in casi di
utenti con omogeneità, utenti che rispecchiano la loro vita offline anche online. Ma nella maggior parte dei
casi i media rispecchiano la stessa varietà presente offline. Un concetto controverso, la prova empirica lo
ha)

Personalizzazione algoritmica (feed di Facebook, timeline di Instagram e Twitter)

Esercizio: quali azioni degli utenti influiscono gli algoritmi di selezione?

Conseguenze sociali della personalizzazione dei contenuti: FILTER BUBBLE. Quello che vedi tu non lo vedo io

Reputazione e trends:

- algoritmi reputazionali: senza la possibilità di una piattaforma di diffondere recensioni, viene meno
la fiducia non conoscendo qualcuno o qualcosa. La soluzione è quantificare la fiducia che altri
hanno avuto con quella persona/cosa. Ma anche qui ci sono dei problemi.
- Algoritmi di matchmaking: Permettono di stabilire una connessione tra gruppi di utenti con diversi
interessi per facilitarne lo scambio di beni, servizi, ecc.. Ma quali regole governano l’incontro di
questi gruppi sulla piattaforma?Dipende dal «ranking» dei singoli utenti

Ci sono forme di potere che le piattaforme esercitano nei confronti degli utenti.

Moderazione dei contenuti: filtraggio dei contenuti, blocco di utenti che non rispettano i termini di utilizzo,
moderazione dell'hate speech. Queste operazioni hanno a che fare con scelte editoriali: è una forma di
controllo editoriale diversa dalla tradizionale, scegliendo cosa va pubblicato e cosa no.

Secondo Gillespie (“Custodians of the internet” 2018) una piattaforma è un sito o un servizio online che:

a) accoglie, organizza e fa circolare contenuti generati dagli utenti o ne gestisce le interazioni sociali…

In questo senso Netflix non sarebbe una piattaforma.

b) ..senza che la piattaforma abbia prodotto o commissionato quei contenuti…


c) Costruita su una infrastruttura che raccoglie e processa dati per la gestione dei clienti, per la
promozione pubblicitaria, per profitto

«NELLA MAGGIOR PARTE DEI CASI, LE PIATTAFORME NON PRODUCONO CONTENUTI, MA PRENDONO
DECISIONI IMPORTANTI SU DI ESSI E LA LORO CIRCOLAZIONE» (Gillespie 2018: 19)

Queste piattaforme dovrebbe essere considerate degli editori. Ma Facebook è un editore? è responsabile
dei contenuti che i suoi utenti pubblicano? No, nei termini di servizio non sono responsabili. Ne sono
responsabili gli autori che producono quei dati messaggi.
Non pubblicare contenuti che mostrano nudità e/o attività sessuali inappropriate
Non pubblicare contenuti che incoraggiano la violenza diretta o la criminalità
Non pubblicare contenuti che incoraggiano il bullismo e le intimidazioni
Non pubblicare discorsi di incitazione all’odio
Non pubblicare ingiustificatamente contenuti violenti e immagini forti
Non incoraggiare l’autolesionismo

Queste sono le norme generali estratte dalla pagina “Standard della Community” di Facebook. Tra queste
norme vengono citati e descritti i contenuti “deplorevoli”. Ecco, chi decide cosa è “deplorevole”? Chi decide
quali contenuti possono rimanere sulla piattaforma e quali devono essere cancellati, perché “deplorevoli”?
Lo decide il team che lavora alla moderazione dei contenuti Facebook. La “moderazione” è un’attività di
“editing” ex post invece che ex-ante, come avveniva nell’epoca della radio, ma rimane comunque
un’attività editoriale: un gruppo di umani interagiscono tra loro e decidono le regole per essere pubblicati.
L’unica differenza con un editore tradizionale è che la moderazione avviene dopo la pubblicazione; mentre
nell’editoria classica avviene prima della pubblicazione.

Gillespie, Custodians of the Internet (Yale, 2018) sostiene che la vera merce che piattaforme come
Facebook offrono, non sono i contenuti, ma la moderazione stessa. Ciò che rende economicamente
rilevante Facebook agli occhi degli investitori pubblicitari e agli occhi degli investitori finanziari è la
capacità di Facebook di moderare il flusso di contenuti tanto da rendere la piattaforma un posto
abbastanza attraente e ricco di contenuti, evitando contenuti che possono “disturbare” l’utente e farlo
smettere di utilizzare la piattaforma.

Gillespie ci dice che la moderazione dei contenuti non va compresa come un’attività occasionale, a cui le
piattaforme sono costrette, ma al contrario è un aspetto fondamentale del servizio che offrono. Capire
come funziona la moderazione, ci aiuta a capire meglio cosa sono e quale ruolo sociale ed economico
hanno le piattaforme. Poca moderazione darebbe spazio a troppi contenuti divisivi e conflittuali, che
potrebbero generare una perdita di utenti. Troppa moderazione trasformerebbe la piattaforma in una
caserma di psico-polizia, dove nessuno si sente più libero di dire nulla, e anche questo provocherebbe una
diminuzione degli utenti o del tempo passato sulla piattaforma. In entrambi i casi, la perdita di utenti
porterebbe a meno introiti pubblicitari e a una caduta della fiducia degli azionisti sulle potenzialità di
crescita dell’azienda e di conseguenza a una caduta del valore delle azioni di Facebook. Occorre trovare un
equilibrio, è questo equilibrio la capacità rilevante di ogni piattaforma. Quello che vendono le piattaforme
non è il contenuto, quando piuttosto la capacità di moderazione. Ma è un lavoro problematico.

Alla base ci sono gli utenti che riconoscono eventuali violazioni e li


indicano ai segnalatori (flaggers); poi ci sono i manager delle comunity; gli strumenti di rilevamento; i
crowdworkes e in alto ci sono i team interni che aggiornano costantemente le regole di moderazione. La
moderazione prevede due livelli: - lavoro svolto da persone fisiche oppure da macchine/strumenti.

Facebook non è considerato un editore. Per via della «Section 230» della legge statunitense sulle
Telecomunicazioni del 1996: Gli intermediari che forniscono accesso a internet non possono essere
considerati responsabili per i contenuti dei propri utenti. Piattaforme e ISP considerati come servizi
telefonici. Sono considerati, al pari delle compagnie telefoniche, «information conduits» condotti di
informazioni al pari delle telecomunicazioni. La legge sancisce «il diritto, ma non l’obbligo, di rimuovere
contenuti e utenti che non rispettino i termini di utilizzo del servizio. Questa legge, concepita per gli ISP
(internet service providers) della epoca 1.0 del web e vale anche per le piattaforme di social media. E’ una
legge più orientata verso il mercato, che verso l’interesse pubblico. Privilegia i diritti degli internet provider,
piuttosto che l’interesse pubblico. E’ una legge che cerca di bilanciare le interpretazioni individualiste e
collettiviste del primo emendamento della costituzione americana (il diritto alla libertà di espressione). Ma
è un bilanciamento che protegge di più l’interpretazione individualista.

Le piattaforme non sono né editori né servizi: «Credo che siamo di fronte a una forma di intermediari
diversa sia dalle compagnie telefoniche che dagli editori tradizionali, una forma ibrida delle due forme
precedenti. Sono in parte industrie culturali e in parte no. (Gillespie, 2018).

Intermediari tradizionali vendono il contenuto; le piattaforme vendono moderazione.

13/03

Seminario: Gli algoritmi e i sistemi di raccomandazione come artefatti culturali (Riccardo Pronzato)

Studi critici sulle implicazioni sociali degli algoritmi. Il rapporto che c’è tra algoritmi e cultura.

Che cos’è un algoritmo? Scienziati sociali, persone comuni e ingegneri informatici intendono gli algoritmi in
maniera diversa… Questa parola nasce in epoca pre Medievale; nei Canterbury Tales si trova questa parola.

Viene considerato “un set di istruzioni per risolvere un problema o completare un compito seguendo un
ordine sequenziale attentamente pianificato”.

Per i sociologi, gli algoritmi sono qualcosa di molto più complesso. Dietro alla parola algoritmo c’è un
mondo, può essere studiato da angolature diverse (com’è fatto? Come le persone si relazionano?) e ha un
potere enorme sul funzionamento di ciò che ci circonda. Non è solo un set di istruzione ma un complesso
assemblaggio socio-tecnico: socio perché le istruzioni vengono date da persone fisiche.

Spotify: gli algoritmi hanno l’obiettivo di incrociare i nostri consumi per trattenerci nella piattaforma e
pagare l’abbonamento. Hanno la capacità di prevedere quale cose non ancora ascoltate potrebbero
piacere.

Queste tecnologie non sono neutrali: a seconda delle istruzioni o dei dati funzioneranno in maniera diversa
e permetteranno diversi esercizi del potere.

Due aspetti fondamentali

- Il ruolo e potere degli algoritmi in quanto presenza tecnica e materiale che prende decisioni,
favorisce e impedisce azioni, regola le relazioni sociali, ecc.
- La nozione di algoritmo. Beer sostiene che dobbiamo guardare oltre gli algoritmi stessi per
esplorare la nozione o il concetto di algoritmo siano anch’essi caratteristiche importanti del loro
potere. Esplorare la nozione di algoritmo, infatti può permetterci di vedere come gli algoritmi

Beer sostiene “quando pensiamo al potere dell’algoritmo, dobbiamo pensare non solo all’impatto e alle
conseguenze del codice, dobbiamo anche pensare ai potenti modi in cui le nozioni e le idee sull’algoritmo
circolano nel mondo sociale. All’interno di queste nozioni di algoritmo, è probabile che troveremo logiche e
norme più ampie, con il concetto di algoritmo che esercita un’influenza potente su come le cose vengono
fatte o come dovrebbero essere fatte”.

Diversi tipi di agency:


Foucault: la produzione di verità, il come del potere nella connessione tra potere e conoscenza.

Quantifico la realtà e utilizzo dei parametri per prendere decisioni

Cultura algoritmica: in che modo il modo di consumare dipende dagli algoritmi/piattaforme? Non sono più
solo le élite culturali a determinare cosa è importante e cosa no. Gli ingegneri hanno cambiato il modo
come generalizziamo.

Ricorsività degli algoritmi: l’uso che faccio di Spotify diventa dei dati che vengono tracciati e di conseguenza
diventano degli input. le macchine funzionano in maniera ricorsiva: la cultura algoritmica è il risultato di
questo processo di ricorsività.

L’algoritmo è un oggetto instabile in quanto cambia di continuo. La cultura non è qualcosa di progresso ma
si costruisce continuamente.

14/03

Your data body

Sebbene apparentemente “virtuale”, la raccolta dei dati su Internet e la sorveglianza digitale possono avere
un impatto fisico su di noi come esseri umani e opprimerci. Ogni tanto, dobbiamo fare un passo indietro per
identificare la forma che siamo costretti ad assumere in questi ambienti online, in modo da rimodellare noi
stessi ed essere più resilienti.

Obiettivo: esplorare i nostri corpi digitali, comprese le nostre forme, e creare un modello di resilienza.

POV: questo lavoro è “critico”, perché i nostri dati vengono manipolati, distorti e rubati, sfruttati o utilizzati
in modo improprio, veniamo soffocati, ostacolati o repressi e la nostra capacità di autodeterminazione

Data: fatti, dettagli, statistiche o ogni tipo di informazione raccolta insieme per riferimento o analisi.

Database: una raccolta di dati

Sistemi data-driven: guidati dai dati o automatizzati. L’automatizzazione può essere definita come
l’introduzione di tecnologie nelle pratiche sociali o organizzative, che spesso portano alla riconfigurazione o
alla sostituzione del lavoro umano.

Data stream: la condivisione delle informazioni raccolte riguardo una persona da un’istituzione ad un’altra;
come diversi sistemi dialogano tra loro.

Istituzioni: accordi e pratiche sociali stabili attraverso i quali vengono intraprese azioni collettive.

17/03

Shoshana Zuboff “Età del capitalismo di Sorveglianza”: per anni ha visitato le aziende e intervistato i
lavoratori. Questo libro è diviso in due parti:

- La prima, la più interessante, dimostra come sono cambiate le forme del capitalismo negli ultimi
vent’anni e mostra come le startup e le industrie che emergono dalla sillicon valley alla fine degli
anni 90 e che sono molto centrate sui dati e sullo sviluppo di prodotti e servizi digitali con
l’esplosione della bolla del 2001 si ritrovano in una frase di crisi, devono cercare nuove finanziatori
e due grande aziende startup dell’epoca, facebook e google, cominciano ad attribuire un ruolo
nuovo ai dati degli utenti. Google fino al 2001 era un motore di ricerca che utilizzava i dati degli
utenti per migliorare il proprio motore di ricerca, dal 2001 in poi comincia ad utilizzare i dati per
proliferare gli utenti e vendere la loro attenzione a degli investitori pubblicitari, spostando il
modello di business da una società tech che vende i motori di ricerca (servizio) cumulando utenti.
Come startup, google guadagnava dagli investitori che investivano dalla speranza che sarebbe
diventata un'azienda. Google trova un ingresso dalla pubblicità e uda i dati in maniera diversa, per
instaurare un capitalismo di sorveglianza: una forma di accumulazione del valore economico (Ho un
capitale e lo voglio modificare, moltiplicare). Queste aziende utilizzano per la prima volta i dati
come forma di sorveglianza degli utenti: estraggono i dati attraverso il processo di datafication,
inteso dalla Zuboff come un processo di sorveglianza volto a creare per la prima volta delle
tecnologie che catturino il surplus comportamentale.

Gli algoritmi processano, elaborano il «beahvioural surplus», (tutta una serie di dati estratti dal suo
comportamento online diventano dopo un processo di elaborazione, un nuovo prodotto: la capacità
preditiva delle aziende dei comportamenti) il surplus comportamentale trasformandolo in un nuovo
prodotto: la capacita di prevedere il comportamento dei consumatori. Espansione della logica della
sorveglianza. Sono gli algoritmi a prevedere i comportamenti futuri.

Zuboff derivava anche da studi marxisisti: come Marx parlava dell’operaio in fabbrica al quale il capitalista
(proprietario della fabbrica) estraeva la forza lavoro. Qui si estrae dal consumo i dati.

I nuovi mezzi di produzione del valore economico: non più le fabbriche, ma gli algoritmi, l’intelligenza
artificiale.

Google: industria della predizione. I profitti derivano dalla sua capacità, riconosciuta dal mercato, di predire
il comportamento degli utenti.

- La seconda parte, riguarda il sostenere che queste piattaforme sono in grado di ottimizzare il
comportamento online e indirizzarlo verso determinante scelte. Qui fa una critica al paradigma
comportamentista che sta alla base del capitalismo di sorveglianza.

«the discovery of behavioural surplus»

Nick Couldry e Ulises Mejias “Data colonialism” (2019): l’argomento centrale è il colonialismo dei dati,
simile alla Zuboff, ma l’interpretazione che ne viene data arriva da studi post coloniali. Data colonialism:
l’estensione di un processo globale di estrazione iniziato durante il colonialismo e continuato durante il
capitalismo industriale e culminato nella forma contemporanea: invece di risorse naturali e lavoro, ad
essere colonizzata oggi è la vita umana attraverso la sua conversione in dati. La nostra vita viene messa a
disposizione del capitalismo attraverso la dataficazione. Date di estrazioni di dati rappresenterebbero non
soltanto la continuazione con il colonialismo passato, ma soprattutto una fase distintiva del colonialismo,
un neo colonialismo, che pone le basi per lo sviluppo di un capitalismo fondato. Secondo loro il capitalismo
di piattaforma/sorveglianza ha 4 aspetti in comune con il colonialismo storico, sintetizzate nelle 4 X del
nuovo modello di capitalismo «estrattivista»:

- 1 EXPLORE: esplorare terre sconosciute (similitudine tra il documento Requerimiento spagnolo del
1513 , un documento unilateralmente scritto e firmato dall’impero spagnolo che si appropria delle
terre del Sudamerica, usando però una base legale, i popoli indigeni non hanno avuto possibilità di
parola; e gli accordi di licenza con le piattaforme, sempre una forma unilaterale, c’è una sorta di
agency perché non siamo costretti ad usare quelle piattaforme, ma allo stesso modo non sappiamo
che utilizzo verrà fatto dei nostri dati)
- 2 EXPAND: espandere (vie ferrate come mezzo di espansione del potere coloniale vs. infrastruttura
di sorveglianza usate per estrapolare i dati)
- 3 EXPLOIT: sfruttare (dalle materie prime agli umani trasformati in valori. Le imprese sfruttano gli
umani trasformandolo in Datafication, data flows)
- 4 EXTERMINATE: sterminare (graduale eliminazione degli spazi sociali esistenti al di fuori delle
infrastrutture del capitalismo dei dati: come gli imperi coloniali avevano sterminato le popolazioni
indigene degli imperi conquistati/ridotti in schiavitù allo stesso modo c’è una graduale eliminazione
degli spazi sociali esistenti al di fuori delle infrastrutture: si può fare sempre meno cose al di fuori di
queste).

Una visione apocalittica, prospettiva nuova sul fenomeno ma dimenticano la capacità dei soggetti di
resistere a questo potere.

Jathan Sadowski: “The internet of Landlords”, parla di Retier Capitalism, «Con ciò mi riferisco all'ampia
categoria di tecnologia chiamata Internet delle cose, basata sull'incorporazione di oggetti con sensori,
software e connettività, che è materialmente essenziale per le nuove fonti di rendita e i nuovi meccanismi
di estrazione del valore».

«I rentier sono definiti dalla loro "proprietà dell'accesso a una condizione di produzione" (Felli 2014: 269) e
dalla loro capacità di ricavare reddito (affitto) dall'accesso ai beni. In altre parole, i proprietari terrieri (che
controllano l’accesso) e le piattaforme hanno finalità di estrazione del valore molto simili: infatti entrambi
esercitano il proprio potere di gate-keepers, di mediatori dell’accesso a un bene o servizio, tanto che
possiamo definirli a tutti gli effetti dei rentiers.» Vive di rendita, un capitalismo della rendita.

Pensiamo a Booking, just eat, ecc: non vendono un bene ma guadagnano dalla loro posizione di
intermediario tra il cliente e il produttore.

«La logica è quella di trasformare ogni cosa e ogni luogo in un'attività finanziaria. Naturalmente, questa non
è una missione o una logica nuova per il capitale. Ma ciò che è nuovo sono le complesse tecnologie che
sono state progettate per estendere e potenziare le capacità di patrimonializzazione, estrazione e
«enclosure» del valore (appropriazione del valore).»

«questi nuovi rentiers generano i ricavi dall'uso delle piattaforme digitali. Invece di capitalizzare sugli
immobili e controllare l'accesso agli edifici, questi nuovi rentiers sono custodi di Internet e proprietari di
applicazioni software. La strategia principale di questi rentier consiste nel trasformare le interazioni sociali e
le transazioni economiche in "servizi" che si svolgono sulla loro piattaforma. Queste piattaforme si vedono
come semplici fornitori di servizi. Uber non è una società di taxi, ma una piattaforma che offre servizi di
trasporto. WeWork non affitta uffici e sale riunioni, ma è una piattaforma che offre "spazio come servizio».

«la trasformazione degli oggetti in risorse/servizi che generano reddito senza essere vendute» (es. della
musica) Musica: Spotify non vede cd ma vede l’accesso alla musica.

I meccanismi chiave delle piattaforme rentier (Sadowski 2020)


1) estrazione dei dati (non data mining, ma data manufacturing: il valore non è il dato in sé; ma analizzare il
dato in base ai vari surplus comportamentali)
2) Digital enclosure: recinzione digitale (la storia della «recinzione» si ripete, ma ora invece di costruire
recinzioni e chiedere l'affitto per l'accesso alla proprietà terriera, questi nuovi rentiers installano software e
catturano valore dall'uso di oggetti fisici. Diventiamo affittuari alla mercé di licenze software che
trasferiscono i diritti legali ai rentier.
3) convergenza dei capitali (“real estate/financial/technology complex”)

“Andrew Ng (2017), ricercatore di intelligenza artificiale che ha ricoperto posizioni di rilievo presso
piattaforme come Google, Baidu e Coursera: "Nelle grandi aziende, a volte lanciamo prodotti non per
generare ricavi, ma per i dati. In realtà lo facciamo spesso... e monetizziamo i dati attraverso un altro
prodotto". Spesso i prodotti sviluppati o le app servono non per guadagnare subito ma per attivare un
flusso di dati.

Dalle creative industries all’industria dei content creators: “Platformization” del lavoro culturale
La creazione e la circolazione di artefatti culturali è stata a lungo mediata dai professionisti delle industrie
culturali. Tuttavia, l'ascesa delle piattaforme digitali sta trasformando il ruolo delle industrie culturali e la
cultura in un bene sempre più dipendente dalle piattaforme. Due studiosi dei media, David Nieborg e
Thomas Poell, chiamano questo processo "piattaformizzazione della produzione culturale" (le piattaforme
digitali si stanno ritagliando un ruolo sempre più centrale all’interno delle industrie culturali creative) e lo
definiscono come "la penetrazione delle estensioni economiche, infrastrutturali e regolatorie delle
piattaforme digitali nelle industrie culturali, così come l'organizzazione delle pratiche culturali di lavoro,
creatività e democrazia". Le piattaforme digitali si sono introdotte nelle industrie culturali, avendo interessi
economici. Deriva una riorganizzazione delle pratiche e immaginari culturali attorno alle piattaforme.
In un altro lavoro, insieme a José Van Dijck, i due autori concepiscono questo processo come "la
riorganizzazione delle pratiche e degli immaginari culturali intorno alle piattaforme".

Ma cosa comporta questa riorganizzazione? Si riferisce ai modi in cui i produttori e i consumatori di


contenuti modificano le loro attività, i loro immaginari e le loro identità per conformarsi alla logica delle
piattaforme digitali globali.
Secondo studiosi dei media come Brooke Erin Duffy e i suoi colleghi, dovremmo intendere questo processo
a due livelli: sia come istituzionale sia come "radicato nelle pratiche culturali quotidiane".
Poell, Nieborg e Duffy (2021) individuano tre dimensioni che caratterizzano questo processo di platforming
delle industrie culturali:
 mercati
Cambiamento dei mercati
La piattaformizzazione delle industrie culturali - dalla musica alla televisione, dall'editoria al giornalismo -
incide fortemente sulle posizioni di potere acquisite dai produttori culturali tradizionali. Nel bene e nel
male.
Ad esempio, i giornali, che finora hanno svolto un ruolo centrale nell'intermediazione dell'informazione,
vengono marginalizzati, poiché dipendono sempre più dagli algoritmi di Facebook e Twitter per fornire le
notizie che producono ai loro lettori. Questo cambiamento innesca l'adozione di nuove strategie
manageriali da parte dei «legacy media» e li spinge ad adattare i loro meccanismi editoriali alla logica delle
piattaforme. Le notizie sono pensate per essere condivise sui social. Il contenuto è adattato in funzione
della logica delle piattaforme (stare attenti al titolo, ecc). Ci sono nuove logiche mediali dalle quali dipende
il mercato.
 governance: questioni di regolazione del mercato e dei prodotti.
La piattaformizzazione non riguarda solo i mercati della produzione culturale, ma anche i modi in cui la
produzione culturale viene regolata. Prima la distribuzione culturale dipendeva da una serie di attori chiave
che controllavano i flussi culturali. Adesso è determinata da logiche algoritmiche. Le piattaforme decidono
le modalità con cui il pubblico scopre gli artefatti culturali e le regole che governano i processi di
distribuzione culturale. Fotografie, articoli di giornale, commenti personali, video sono tutti soggetti alle
regole delle piattaforme, che hanno il potere di accettarli a bordo, rifiutarli (vietandoli) o limitarne la
visibilità (shadobading). La vicenda della censura da parte di Facebook della famosa foto della ragazza
vietnamita nuda che simboleggiava la guerra del Vietnam è un classico esempio di questo potere normativo
(dove non è stato valutato il contesto della guerra in Vietnam). Nieborg e Poell sostengono che le
piattaforme esercitano "un significativo controllo politico-economico e infrastrutturale sulle relazioni tra
complementari (produttori che forniscono i contenuti) e utenti finali". Poell et al.
In particolare si concentrano sulle forme di "governance da parte delle piattaforme", che "strutturano il
modo in cui i contenuti possono essere creati, distribuiti, commercializzati e monetizzati online,
influenzando la regolamentazione dello spazio pubblico più in generale" . Questi autori dimostrano che le
scelte di governance delle piattaforme hanno un impatto sull'autonomia dei produttori culturali: non che
prima fossero autonomi, c’erano sempre delle logiche.
 infrastrutture
La piattaformizzazione trasforma l'infrastruttura della produzione culturale. Ciò significa che chiunque abbia
dato forma a un artefatto culturale attraverso la propria creatività deve necessariamente rendere questo
artefatto adatto alla piattaforma che fornirà l'infrastruttura per connetterlo con un pubblico potenziale. I
produttori culturali dovranno quindi ottimizzare le loro creazioni, preparandole al meglio per essere
"riconoscibili" dagli algoritmi delle piattaforme. Lo studioso americano di media Jeremy Wade Morris ha
sottolineato le crescenti pressioni esercitate su artisti e produttori affinché realizzino una "canzone di
Spotify": "musica che sembri ottimizzata dal punto di vista sonoro per la piattaforma di Spotify e per le varie
occasioni e ambienti di ascolto per i quali gli utenti si rivolgono a Spotify per ottenere un
accompagnamento sonoro".
Quando l'infrastruttura fornita dalle piattaforme diventa il principale guardiano della loro visibilità, i
creatori di contenuti devono adattare le loro idee creative alle possibilità tecnologiche delle piattaforme.
Questo fenomeno non è del tutto nuovo, poiché i creatori di contenuti hanno sempre dovuto adattarsi alle
infrastrutture mediatiche precedenti, come la radio e la televisione.

Governance e infrastrutture modificano il modo in cui produciamo oggetti culturali.


Non c’è una piattaformizzazione soltanto delle industrie culturali, ma anche dell’educazione, della salute, di
altri settori perché il capitalismo di piattaforma si sta estendendo.

Cosa significa lavorare oggi nelle industrie culturali e creative? Che cos'è il lavoro culturale ai tempi del
capitalismo delle piattaforme?
“Illusioni perdute” di Balzac racconta la vita dei lavoratori culturali nella Parigi degli anni 30 dell’800: un
lavoro precario, instabile.
Eppure, per certi versi, il lavoro culturale è sempre stato precario, tranne nel periodo d’oro tra la fine della
seconda guerra mondiale e gli anni ‘80 del novecento.
Chardon arriva a Parigi con l'illusione di poter diventare un poeta famoso. Cerca disperatamente la fama,
ma ottiene solo delusioni e una vita artistica precaria. Balzac descrive con precisione "etnografica" la vita
bohémien della "classe creativa" parigina degli anni Venti dell'Ottocento (scrittori, giornalisti, poeti, pittori,
tipografi, critici teatrali, attori, editori).
Sembra di leggere le cronache dei lavoratori creativi di oggi: senza un soldo, costretti a uscire ogni sera per
incontrare persone che possano dare loro un lavoro, un mese pieni di soldi, il mese successivo al verde.

La stabilizzazione del lavoro è durata per circa una cinquantina d’anni, dagli inizi del 2000 con il diffondersi
di internet, delle economie digitali e il passaggio al neoliberalismo siamo arrivati a una ridifenizione del
lavoro in generale e la descrizione che è stata fatta di questo lavoro, di chi si occupa delle industrie
culturali: lavoro pieno di stress, precario, meno sindacalizzato. Simile a quello dell’800. Se è vero che le
carriere nelle industrie creative sono state a lungo caratterizzate da condizioni di lavoro precarie e salari
instabili, il modello economico imposto dalle piattaforme digitali sta mettendo in discussione il modello di
sopravvivenza dei lavoratori culturali e creativi.
Brooke Erin Duffy (“Non essere pagato per fare il lavoro che ami”) e i suoi colleghi sostengono che l'odierna
economia creativa piatttaformizzata amplifica la precarietà del passato perché alimentata da un'etica
neoliberale che valorizza l'auto-mercificazione (trasformazione di sè ad un brand) e ridefinisce il lavoro
indipendente come auto-imprenditorialità. Ciò che distingue il lavoro culturale su piattaforma dalle forme
precedenti di lavoro culturale è una condizione di precarietà ancora più estrema e individualizzata e,
soprattutto, una più intensa "metrificazione" della performance del lavoratore: fama, popolarità e visibilità
sono costantemente monitorate, calcolate e aggiornate. Così come la visibilità può fluttuare a causa di un
cambiamento delle metriche che la misurano, le entrate di un lavoratore creativo platformizzato sono
fragili, effimere e volatili. Le carriere in questo campo sono "legate alle fluttuazioni in ambiti socio-
economici, culturali e politici più ampi", come il prezzo dell'oro in borsa. La visibilità è diventata la valuta
principale delle opere culturali e creative sulle piattaforme, ed è sottoposta a meccanismi di fluttuazione
come il prezzo dell’oro in borsa.

Le piattaforme possiedono i mezzi di produzione (dati + algoritmi) per catturare e governare la visibilità dei
loro produttori di contenuti
Nel campo delle industrie culturali il potere computazionale delle piattaforme serve a governare la
performance della creatività immateriale dei lavoratori culturali, espressa attraverso la moneta della
visibilità. La misura della performance viene espressa in visibilità.
La visibilità è quindi il terreno di scontro tra piattaforme e lavoratori culturali. Nell'ecosistema delle
piattaforme, gli algoritmi esercitano un potere disciplinare sugli utenti attraverso quella che Taina Bucher
ha definito "la minaccia dell'invisibilità": a differenza del Panopticon (ES: il padiglione dei clamorosI)
foucaultiano, in cui i prigionieri temevano di essere costantemente visibili, sostiene Bucher, ciò che gli
utenti delle piattaforme temono è di perdere la propria visibilità. Questa minaccia spinge gli utenti a
mettere in atto pratiche, legittime o meno, finalizzate alla riconoscibilità algoritmica: Gli utenti di Instagram
sanno che devono ottenere un certo numero di "mi piace" e di condivisioni entro i primi minuti dalla
pubblicazione di una foto, se vogliono che questa venga riconosciuta dall'algoritmo come un'immagine
potenzialmente virale.

Social Media Entertainment (SME) = «Proto-industria in ascesa alimentata dalla professionalizzazione di


content creator in precedenza amatoriali, i quali utilizzano i nuovi formati di intrattenimento e
comunicazione per sviluppare business potenzialmente sostenibili basati su una Fan Base trasversale a più
piattaforme»

(Cunningham e Craig 2021: 27)

C’è una fase di piattaformizzazione del lavoro creativo, manuale, ecc.

Chi sono i «content creator» (influencer…instagrammer…streamer…twitcher…youtuber....blogger…


podcaster….)
1. «utenti nativi dei social media
2. Impegnati nella commercializzazione e nella professionalizzazione di sé, pochissimi entrano nei social
come professionisti ma di solito come prosumer.
3. Che generano e diffondono contenuti originali
4. Per incubare, promuovere e monetizzare il loro brand multi-mediale
5. Sia sulle principali piattaforme di social media sia in modalità offline. cercano di realizzare eventi offline
come corsi, ecc»
(Cunningham e Craig 2021)

Caratteristiche del lavoro culturale dei content creator:


 Prosumer (dilettanti/amatori/professionisti)
 Precarietà
 Mancanza di rappresentanza sindacale nei confronti delle piattaforme: non c’è un corpo intermedio
che rappresenta questi lavoratori davanti alle aziende.
 Auto-sfruttamento
 Opacità delle affordance tecnologiche delle piattaforme
 Opportunità di empowerment (per minoranze sotto-rappresentate dai media tradizionali)
 Opportunità di carriera (per pochi)
 Lavoro emozionale (emotional labour)
 Lavoro passionale – confini sfumati tra lavoro e tempo libero
 Bypass dei percorsi di gavetta tipici dei media tradizionali
 Relazione diretta con la fandom
 Grande mole di lavoro (50-60 ore settimanali)
 Lavorare da soli/ricoprire più ruoli professionali
 Apparente disintermediazione nasconde numerosi intermediari, come società di influencer
marketing; società di management dello spettacolo (talent agency), società di data analytics.

Caratteristiche del lavoro culturale dipendente da piattaforme


(«platform-dependent cultural/creative labour»cap. 5 di Poell et al 2022
 PRECARIETÀ («platform precarity»)
(ecosistema in continua evoluzione)
 INVISIBILITÀ («invisibility»)
(invisibilità algoritmica; regimi di visibilità nell’economia dell’attenzione della reputazione; lavoratori
strategicamente resi «invisibili» by design (content moderators, data workers) invisibilità «sociale» - lavori
non riconosciuti come prestigiosi nella platform economy, es. anche i social media editor - e «politica» -
freelancers e stagisti non protetti da sindacati)
 INDIVIDUALITÀ («individuality»)
Self-branding; lavoro individualizzato e competitivo; lento emergere di pratiche cooperative e nuovi
sindacati
 INSICUREZZA («insecurity»)
«algorithmic precarity» (Duffy et al 2021), precarietà del lavoro, fluttuazione continua della domanda di
lavoro, freelancing, reddito insicuro e imprevedibile
 DISEGUAGLIANZA («inequality»)
(discriminazioni di genere e di etnia nelle industrie mediali, si ritrovano anche nelle piattaforme, con
algoritmi che demonetizzano o shadowban contenuti prodotti da alcune minoranze

Differenze tra SME e industrie culturali tradizionali


Innovazione dei contenuti
Gameplay; DIY (unboxing); tutorial; personality vlog (nuove celebrità basate sulla personalità e
«l’autenticità» della condivisione delle proprie esperienze quotidiane)
Interattività
Centralità dello spettatore, costruzione e conservazione della community
Portata globale e dinamiche della proprietà intellettuale
Assenza di regolamentazione dei contenuti rispetto al broadcasting
Assenza di vincoli geografici ai contenuti (geo-blocking o antenne che raggiungono bacini nazionali)
La SME non si basa sul sul controllo della proprietà intellettuale
La differenza tra media tradizionali e l’ecosistema del SME è che i primi producono, possiedono o
concedono in licenza i contenuti per la distribuzione, la messa in onda o la vendita in più territori, mentre i
secondi si presentano come «aggregatori» di contenuti e creatori, dei quali non sono i padroni.
I primi guadagnano dalla vendita dei prodotti che producono e/o dalla pubblicità, i secondi dalla pubblicità
L’engagement della community come «lavoro RELAZIONALE»
«La cosa più importante è capire che alla base di tutto c’è la costruzione e manutenzione della community.
In passato, attori, autori, registi, produttori dovevano concentrarsi solo sulla realizzazione di qualcosa, e
c’erano sempre quelli del marketing che si sarebbero occupati della distribuzione digitale, della
sensibilizzazione verso determinati contenuti. Le star digitali di oggi non devono solo essere dei fantastici
content creator, devono anche sapere come costruire e mantenere la community»

20/03/2023

“Piattaforme mediali e musica: i nuovi intermediari delle industrie musicale”

Chi sono i gatekeepers (“guardiani”: colui che nel giornalismo decideva come un fatto diventava notizia)
dell’attuale industria musicale? Non sono soltanto le piattaforme, anche se queste assumono un ruolo
sempre più importante nell’industria musicale.

Il grafico mette in evidenza come sono cambiati i guadagni dei produttori di musica negli ultimi 30 anni.

Rosso: vendite di supporti fisici (cassette, cd); blu: ricavi dai streaming; verde: download; viola: diritti
spettacoli online; giallo: musica utilizzata per spot televisivi, campagne elettorali, sottofondo film ecc.

Da questo grafico emerge un aumento dello streaming a discapito dei supporti fisici. Mostrando la
smaterializzazione e l’acquisito non più della musica ma dell’accesso ad esso. Il che succede anche per i
contenuti mediali ed editoria. Il passaggio dalla proprietà all'acquisito di un bene all'acquisto di un servizio
(anche gli abbonamenti per ricevere delle box con cibo, il carsharing nelle città). Nella società delle
piattaforme, la piattaformizzazione può avvenire con diverse forme: da parte delle aziende. Quella
dell'industria musicale è una piattaformizzazione avvenuta da parte di soggetti privati che ha portato
all'acquisto non più di un bene ma di un servizio. Ciò mostra delle criticità: essere dipendenti per una serie
di servizi a diverse piattaforme, le quali non sono neutrali. Alcune piattaforme giocano come intermediare
tra utenti finali e produttori. Il modo in cui si attribuisce un valore ad una cosa cambia: non si attribuisce più
un valore economico ad un bene, per passare al servizio: si paga per utilizzare la tecnologia messa a
disposizione per cercare e ascoltare le canzoni. Cambia il modo in cui vengono mercificate e anche il valore
che viene attribuito.

Ci sono 3 o 4 attori mediali che controllano il mondo dello streaming.

Sosteniamo che le piattaforme di musica digitale, i loro algoritmi e i loro curatori umani rappresentano i
"nuovi guardiani" di un'industria precedentemente dominata da intermediari umani come programmatori
radiofonici, giornalisti musicali e altri esperti. Cambiano gli intermediari che selezionano la musica per noi.
Le nostre scoperte, tuttavia, mostrano che, contrariamente a quanto comunemente si crede, questa
"nuova" forma di gatekeeping non è interamente esternalizzata a processi algoritmici, ma consiste in realtà
in un lavoro di cura parzialmente editoriale, parzialmente algoritmico, in cui l'agency umana si fonde con la
costruzione sociale e culturale dell'infrastruttura algoritmica. Quindi l’agency umane vengono
implementate con il lavoro delle macchine.

Gatekeeping studies: lo studio dei gatekeepers ha una lunga tradizione negli studi sui media (Lewin 1947;
White 1950). I filtri tecnologici, culturali e sociali che determinano le scelte editoriali nelle redazioni di
giornali e canali televisivi sono stati a lungo indagati e "spacchettati" dagli studi classici nella ricerca sui
media (Tuchman 1978, Gans 1979). Tuttavia, il modo in cui le piattaforme digitali agiscono come
”gatekeepers" di artefatti culturali come la musica rimane per lo più inesplorato, a causa delle molte
difficoltà di accesso al campo della ricerca (Seaver 2017, Fleischer & Snickars 2017). Diversi studiosi hanno
già studiato il ruolo svolto dagli algoritmi nella cura della musica (Morris 2015) e più in generale nelle
industrie culturali (Napoli 2014), mentre altri hanno fatto riferimento ai modi in cui gli agenti algoritmici si
fondono con quelli umani (le discussioni di Kitchin (2017) sugli assemblaggi socio-tecnici), ma è la specifica
commistione di tali agenti, e le loro modalità di interazione pratica, che rimane relativamente poco
esplorata e che rappresenta il fulcro della nostra ricerca.

Il tipo di approccio qualitativo (osservazione partecipante, ecc) potrebbe rientrare nel caso delle
piattaforme digitali. A noi interessa studiare l’apparato sociotecnico: insieme delle infrastrutture tecnologie
e sociali che modellano queste infrastrutture. Anche se due piattaforme hanno delle infrastrutture simili, in
realtà il modo in cui si lavora e diverso. Studiare le piattaforme come se fossero degli oggetti culturali.

Il primo scienziato sociale ad usare il termine “gatekeeper” è stato Kurt Lewin (1947), ha osservato le
abitudini alimentari nelle famiglie e ha identificato il cibo proveniente da supermercati o giardini scelto
dalla casalinga per servire a tavola, indicando le donne (le casalinghe degli anni 50) come i gatekeeper per
filtrare quel cibo che finirà nella tavola. Successivamente David Manning White (1950): un gatekeeper in
una rete di comunicazione era una persona in grado di controllare lo spostamento di una notizia attraverso
determinati canali di comunicazione in un gruppo. White si è concentrato in particolare su una posizione
nell'editoria cartacea che ha definito "l'ultimo guardiano del cancello", colui che fa la scelta finale su cosa
sarà o non sarà stampato e con quale titolo. Lo studio di White si concentra su un editore bianco, di mezza
età, che lui chiama "Mr. White”. Il gatekeeping professionale si basa sulla scarsità di informazioni

Negli anni successivi, con la nuova era dei sociologi, questi restituiscono un quadro più complesso, in cui
non c’è soltanto una persona a svolgere questo ruolo (come ne parlava White). Questi studi resero il
concetto ancora più popolare., complesso e articolato. Le successive analisi di quella ricerca scoprirono che
il lavoro di quei singoli gatekeeper era influenzato da altri livelli di forze di gatekeeping (Epstein 1974,
Altheide 1976, Tuchman 1978, Gans 1979).

Herbert Gans ha intervistato per 10 anni giornalisti, ha osservato la situazione dentro le redazioni. Gans ha
dimostrato che i portieri tradizionali facevano scelte editoriali che non si basavano su ciò che il pubblico
poteva gradire, ma su ciò che ritenevano fosse meglio per loro. "I giornalisti - ha aggiunto Gans – sono
riluttanti ad accettare qualsiasi procedura che metta in dubbio la loro autonomia professionale".

Quella che era una logica puramente editoriale, adesso si ritrova…

Shoemaker, Eichholz, Kim e Wrigley affermano che Il "gatekeeping nella comunicazione di massa può
essere visto come il processo complessivo attraverso il quale viene costruita la realtà sociale trasmessa dai
media" (2001, p. 233). "gatekeeper indica quegli agenti che fungono da mediatori tra un notiziario e un
pubblico e che stabiliscono le regole per la circolazione delle notizie" (Shoemaker and Vos, 2009).
Dagli ani 60 non esistono soltano gatejeeper professionisti, c’è l’ascesa dei gatekeeper amatoriali (1960-
1980) e una serie di prodotti amatoriali realizzati non da esperti ma da semplici giovani, arrivando
condizionare le scelte. Dopo diventeranno professionisti.

Altra forma: avviene nella fase del web 1,0 e 2.0: Con la diffusione di Internet, la figura del gatekeeper
professionista, già indebolita dai media cittadini analogici, è stata sempre più messa in discussione e
ulteriormente estesa ad altri gatekeeper amatoriali (blogger, giornalisti cittadini e fandom, vedi Jenkins,
2006; Keen, 2007; Jenkins et al., 2013; microinfluencer, vedi Abidin 2015). Confusione tra professionisti e
amatory (produsers; pro-am). La selezione dell'offerta di contenuti culturali non riflette più esclusivamente
il capitale simbolico posseduto dalle élite culturali dominanti. Il compito di selezionare e filtrare ciò che vale
la pena di essere letto, condiviso, visto, visto, commentato, piratato o scaricato è stato a lungo un compito
condiviso in modo conflittuale tra due tipi di agenti: i gatekeeper professionisti e i dilettanti.

i blog, esperti appasionati di qualcosa che producono la loro testata personale. Diventano intermediari
importanti e avevano raccolto attorno a sè un seguito importante.

Ultima fase di evoluzione di questo concetto: anyone can edit, non c'è più la divisione netta, gli stessi utenti
possono comportarsi da gatekeeper (gatewatcher) non pubblicano notizie, ma quello che fanno è
pubblicizzare le notizie: rendere pubblica una notizia non da me realizzata. Produsing the news (produrre
ed usare le notizie). La figura del gatekeeper all'inizio del XXI secolo sembra essere stata apparentemente
dissolta e diluita tra le masse di pubblico, a causa della disintermediazione prodotta dalla diffusione di
Internet: agli intermediari culturali tradizionali si è aggiunta una nuova generazione di intermediari
amatoriali. I Gatewatcher fondamentalmente pubblicizzano le notizie piuttosto che pubblicarle. Giornalisti
e utenti comuni di Internet hanno progressivamente assunto il ruolo di gatewatcher, di curatore che
raccoglie, ordina, predigerisce e fa circolare informazioni online.

Il processo dei gatewatcher:

- Gatewatching: nuove risorse aperte a tutti gli user;


- Input: sottomissione sorvegliata di storie aperte a tutti gli user;
- Output: immediata pubblicazione o collaborazione editata di storie;
- Response: discusssione e commento aperto a tutti gli user.

La nostra ricerca mira ad approfondire l'esplorazione di questo campo emergente, ispirandosi e adattando
il lavoro svolto in passato da Gans (1979) e da altri studiosi all'interno di giornali e redazioni televisive, alle
piattaforme di musica digitale. Così facendo, sosteniamo che, seguendo Bucher (2016), dobbiamo andare
oltre l'idea degli algoritmi come "scatole nere" per studiare i costrutti sociali e culturali che stanno dietro
alle infrastrutture algoritmiche.

Applicare gli Studi sulla produzione dei media (Caldwell 2009; Barra, Bonini, Splendore 2016) alle
piattaforme L'obiettivo della ricerca è di seguire il suggerimento di Kitchin (2017) di “smontare
l’assemblaggio socio-tecnico degli algoritmi".

Metodologia: La nostra ricerca consiste in un'etnografia multisituata (Marcus 1995; Hannerz 2003) che ha
incluso 15 interviste semi-strutturate con informatori chiave che lavorano nell'industria musicale europea a
Londra (UK), Göteborg (SWE), New York (US), Berlino (GER) Roma e Milano (IT), tra ottobre 2017 e febbraio
2018. Gli intervistati sono data scientist (2), programmatori di musica radiofonica nei media di servizio
pubblico (2), responsabili marketing (2), sviluppatori di software (1), co-fondatori di start up musicali (2),
direttore delle strategie di streaming (1), curatori musicali per piattaforme di streaming (2), vice-presidente
di una major (1), manager musicale (3). Tra questi, alcuni lavorano per piattaforme come Apple Music,
Spotify, Google Play Music, Shazam, mentre altri lavorano per etichette discografiche o startup di musica
digitale. Tutte le conversazioni sono state registrate con il consenso degli intervistati e sono durate tra i 45
e gli 80 minuti. Oltre alle interviste, nel novembre 2017 abbiamo anche effettuato una breve osservazione
partecipante all'interno del dipartimento musicale di due emittenti radiofoniche di servizio pubblico, BBC
Radio 6 e Rai Radio2, a Londra e Roma. A questa si aggiunge un'osservazione qualitativa (Caliandro, Gandini
2017) dei profili Twitter dei curatori musicali che lavorano per Apple, Spotify e Google Play Music, volta a
esplorare la rete di relazioni sociali in cui sono inseriti e quanto interagiscono con gli altri attori
dell'industria musicale.

Metodologia: L’ACCESSO AL CAMPO – il campo come una “scatola nera” L'accesso al campo della ricerca
rappresenta un'interessante scoperta di questo lavoro in sé e per sé. Abbiamo iniziato il progetto con
l'obiettivo di effettuare l'osservazione partecipante all'interno delle società di streaming musicale come
Spotify, Deezer, Apple e Google, ma ci è stato negato sia l'accesso alla loro sede che il contatto formale con
gli intervistati. Il nostro accesso al campo è stato quindi possibile solo attraverso contatti personali
dell'industria musicale londinese e milanese che hanno fatto da ponte e ci hanno messo in contatto con
persone che lavoravano o avevano lavorato per una delle piattaforme sopra citate. Attraverso questi
contatti siamo riusciti a organizzare le prime interviste. Il nostro approccio riflette quindi il metodo
etnografico che Gusterson chiamava ''impegno polimorfo'': ciò significava ''interagire con gli informatori
attraverso una serie di siti dispersi e talvolta in forma virtuale; e significava raccogliere dati in modo
eclettico da una molteplicità di fonti disparate in molti modi diversi'' (1997, 116, in Seaver 2017, 6).

The field as a black box Ciò che generalmente ci manca come pubblico è la conoscenza dei modi in cui gli
algoritmi esercitano il loro potere su di noi. I precedenti gatekeepers non erano totalmente scatole nere,
come lo sono oggi le piattaforme. Non sappiamo nulla delle ragioni per cui gli algoritmi ci hanno suggerito
esattamente quelle canzoni. Possiamo solo presumere che sia perché abbiamo ascoltato qualcosa di simile
in passato. I gatekeeper contemporanei sanno molto di più su di noi, mentre noi non possiamo sapere nulla
di loro. La "dataficazione dell'ascolto" (Prey 2016) ha creato un'asimmetria di potere senza precedenti tra i
gatekeeper della musica contemporanea e gli ascoltatori di musica.

l’ascesa dei gatekeepers automatizzati (o ‘infomediaries’) Come ha spiegato chiaramente Morris, Un


gruppo emergente di aziende - gli infomediary - è sempre più responsabile di plasmare il modo in cui il
pubblico incontra e sperimenta i contenuti culturali" (Morris 2015, p. 446).

Curation by code (Morris, 2015)

L'attività di cura non è più la riserva di gatekeeper umani, ma viene ora eseguita anche da algoritmi
progettati da altri esseri umani questi intermediari dell'informazione stanno diventando i gate-keeper
emergenti della nostra società, un ruolo che un tempo era limitato ai giornalisti dei media tradizionali
(Bozdag, 2013, p. 209). «

Individuando così un quarto tipo di gatekeeper, ma non umano.

I curatori professionisti: 400 curatori nel mondo rappresentano la classe emergente dei nuovi gatekeepers.

Source: Buzzfeed 2016 Apple Music playlist: 400 curatori nel mondo rappresentano la Classe emergente dei
nuovi gatekeepers

Non è così facile distinguere un curatore umano ad un mix di logica algoritmica. La logica algoritmica e la
logica editoriale si fondono insieme e sono in realtà reciprocamente dipendenti. Come ci ha detto una
curatrice, le sue scelte sono: "10% di gusto personale, 40% editoriale, 50% dati". "Non ho un background
musicale, non sono nemmeno una grande esperta o appassionata di musica. Sono una storica dell'arte e
quando creiamo playlist basiamo le nostre scelte su dati e altri algoritmi".

"C'è un grande malinteso sul fatto che il lavoro di curatela e selezione sia il frutto di un’unica persona, che
gestisce il tutto. Non è assolutamente così. Noi prendiamo decisioni collettive per quanto riguarda le
playlist più grandi». "La decisione sulla posizione di una canzone, in quali playlist, si basa su dati storici, ma
anche, in tutta onestà, sull'istinto dei redattori". (Il direttore di Spotify Nord Europa, Daniel Breitholtz,
Billboard, 29 novembre 2017).

La playlist new music Friday: ”la settimana 1 è editoriale, La settimana 2 è algoritmica” (intervista con un
promotore di musica digitale, Londra, 13 Novembre 2017) Cosa fanno i gatekeeper umani quando
compilano la playlist di "New Music Friday"? "canonizzazione del non legittimo" (Bourdieu, 1984: 326.
Rendono legittimo qualcosa che perima era sconosciuto. ). Decidono quali tracce, uscite in quella
settimana, hanno il diritto di entrare nella playlist, di essere "canonizzate" come nuova musica - non ancora
popolare - ma che è destinata a diventarlo.

La playlist è la principale merce di scambio nelle piattaforme streaming.

La cura umana si basa su un mix di logica algoritmica ed editoriale: l’ascesa della logica ALGO-TORIAL. un
gatekeeping misto: editoriale + algoritmi

come fa un gruppo musicale ad arrivare agli aspettatori? attraverso una serie di gatekeeper di diverso
livello:
- produttori televisivi;
- giornalisti musicali;
- direttori dei festival di musica commerciale
- magazine online di musica
- produttori di media comunitari
«Il contenuto della playlist di Spotify è determinato da uno staff di TASTE-MAKER, in combinazione con una
suite di algoritmi proprietari, un approccio alla selezione delle canzoni che I dirigenti di Spotify descrivono
con il raccapricciante neologismo "algotorial".» (FONTE: NPR, April 4, 2018).
Daniel Ek, il fondatore di Spotify, ha osservato che oltre il 30% dei consumi su Spotify è ora il risultato
diretto delle raccomandazioni fatte dagli algoritmi e dai team di cura della piattaforma stessa - qualcosa che
ha detto "mette Spotify in controllo della curva della domanda". (Nota a margine: non è una definizione
piuttosto robusta di "gatekeeper"... uno che "controlla" la domanda?)

Una forma di egemonia algo-torial

"I dati sono compilati in un foglio di calcolo di Google, con ogni canzone nella playlist classificata da "Song
Score", una metrica multi-punto che, come il PUMA di Spotify, tiene conto di cose come la lunghezza media
dell’ascolto, il numero di skip, e il numero di like e dislike. Gli editori in genere accedono a questi dati
attraverso un sistema di gestione dei contenuti progettato da Google e chiamato "Jamza", che, tra le altre
cose, può consigliare canzoni da aggiungere a una playlist basata su quelle già scelte, o facendo una ricerca
per parole chiave". (Google Play Music playlist curator, 13, 2016, Buzzfeed)

Così come i giornalisti "costruiscono" la realtà - Schlesinger parla di "assemblare la realtà" - Gitlin parla di
"fare e disfare la realtà", Tuchman parla esplicitamente di costruire la realtà - i nuovi gatekeeper
dell'industria musicale costruiscono, assemblano, "fanno e disfano" la realtà musicale e esercitano un
potere di indirizzamento – «di spinta gentile» - del nostro consumo di musica.

I curatori delle playlist, così come i data scientist e coloro che lavorano sul codice, aiutano a costruire la
realtà, a "farla e disfarla". La "realtà" dell'offerta musicale che appare sui nostri schermi non è il semplice
specchio dei nostri gusti musicali, ma è il frutto del potere costitutivo della piattaforma, della sua egemonia,
che potremmo chiamare egemonia algo-torial

21/03 sociologia
"Se ti piace il tuo Discover Weekly e lo ascolti sempre di più, allora sì, più lo ascolti e più ti verranno
suggerite cose che sono predeterminate da una macchina". (intervista con uno sviluppatore software di
Spotify October 29, 2017)

Queste playlist sono il frutto di un lavoro umano, costante.

Come osserva Seaver (2013, p. 10), "i sistemi algoritmici non sono scatole a sé stanti, ma organi complessi e
collegati tra loro, con centinaia di mani che vi si infilano dentro, li modificano e li «accordano», scambiano
parti di codice e sperimentano nuovi arrangiamenti".

Le personalizzazioni frutto dell’algoritmo derivano comunque da tutti coloro che ci hanno messo le mani,
lavorandoci. Sono gli umani che modificano e hanno un impatto sugli algoritmi. "Ciò significa che gli
algoritmi devono essere intesi come artefatti di natura relazionale, contingente, contestuale, inquadrati nel
più ampio contesto del loro assemblaggio sociotecnico. Da questa prospettiva, l'"algoritmo" è un elemento
di un apparato più ampio, il che significa che non può mai essere inteso come una forma tecnica, oggettiva,
imparziale di conoscenza". (Kitchin 2017: 18)

La musica che ascoltiamo dipende da diversi gatekeeper: alcuni algoritmici, alcuni umani, alcuni che
lavorano specificamente per la piattaforma.

Come funzionano questi sistemi di raccomandazione presenti su Youtube, Amazon, Spotify: “Se acquisti
questo libro, allora ti propongo anche…”. Tutti i media sono sistemi di raccomandazione: selezionano per
noi qualcosa da proporci. Il processo di gatekeeping è sempre stato quello di selezionare alcuni elementi,
mettendoli sotto la nostra attenzione. il grande cambio di paradigma giunto con l’avvento delle piattaforme
che non producono un prodotto finito ma un servizio. I dati hanno sempre avuto un ruolo nella decisione
dei contenuti. Ma il vero cambiamento è che i dati contano più di prima e le aziende hanno un insieme di
algoritmi che permette di conoscere meglio i propri clienti.

Nel libro “Computing taste”, Seaver ha fatto una ricerca sulla popolazione di ingegneri e informatici che si
occupavano di alcuni sistemi di raccomandazione, nel libro ricostruisce la storia di questi sistemi di
raccomandazione. Ha definito i sistemi di raccomandazione musicale sono dei: «captivating devices»
«devices per anticipare, attrarre e trattenere gli utenti, che incorporano teorie su come le loro prede si
comportano e che forniscono all’azienda conoscenza riguardo i comportamenti delle persone che li usano»
(Seaver 2022, p. 52).

Questi dispositivi nel modo in cui sono stati fatti incorporano idee (in base a chi li ha sviluppati) su come si
comportano gli utenti. Perché è importante farlo?

Seaver ricostruisce un cambio di paradigma nella progettazione di sistemi di raccomandazione nell’ambito


delle industrie del software: in una prima fase di sviluppo i sistemi di raccomandazione erano progettati con
l’obiettivo di aiutare gli utenti a risolvere il «fardello della scelta» di fronte all’overload informativo. Più
recentemente, questi sistemi sono invece progettati come delle «trappole» per «catturare» l’attenzione
degli utenti, considerati come delle «prede» (questa idea la riprende da Fogg).

«CAPTOLOGY» (LA SCIENZA DELLA CATTURA) Seaver studia la cultura dei lavoratori tecnologici
dell’industria del software che hanno contribuito a sviluppare i sistemi di raccomandazione. Evidenzia la
diffusione del pensiero comportamentista tra i designer e sviluppatori della Silicon Valley, a partire da BJ
Fogg, un ricercatore di Stanford che nel 1998 fonda il Persuasive Technology Lab e il «Persuasive Design»
(ma prima Fogg lo ha chiamato »Captology»). Fogg vedeva i computer come delle “tecnologie persuasive”.
Poiché capaci di modellare/alterare il comportamento umano.
Captology = un senso comune comportamentista, diffuso tra gli sviluppatori di sistemi di raccomandazione,
che intende il comportamento umano come «malleabile» e la tecnologia (gli algoritmi) come un mezzo per
alterare tale comportamento» (Seaver 2022, p. 55)

Seaver mostra come nel tempo, nella comunità industriale degli sviluppatori di sistemi di raccomandazione
si impongono le «captivation metrics» cioè dei parametri di valutazione del successo della
raccomandazione basati non più sul numero di utenti raggiunti in un giorno o mese,ma sul TEMPO che gli
utenti passano sulla piattaforma, chiamato «DWELL TIME» (il tempo di dimora).

Un sistema di raccomandazione in questa nuova visione (dal 2016) non deve semplicemente spingere le
persone a cliccare su un brano, ma deve tenerle il più allungo possibile nella piattaforma.

MA SE I SISTEMI DI RACCOMANDAZIONE MUSICALE SONO DELLE TRAPPOLE, ALLORA GLI UTENTI SONO
IMPOTENTI?

Seaver ci mette in guardia dal considerare le «prede» impotenti. «per funzionare, le trappole non devono
del tutto limitare l’agency della loro preda» (cioè, una trappola non deve uccidere la preda, deve lasciarla
muovere) Bisogna stare attenti a dare per scontato il paradigma behaviourista che impera tra i designer. I
progettisti dei sistemi di raccomandazione non vogliono annichilire la loro preda. Vogliono che queste
prede non scappino dal recinto, e che si riproducano, attraverso lo sviluppo continuo di un ambiente
«ACCATTIVANTE» (captive) che allo stesso tempo vincoli la preda alla piattaforma ma le permetta anche di
muoversi con un po’ di autonomia» (Seaver 2022, p. 71).

Vogliono che non scappino dal recinto commerciale realizzato.

QUALE AGENCY HANNO GLI UTENTI ALL’INTERNO DI QUESTE TRAPPOLE?

Che provano a rispondere a questo modello.

1) Le prede possono scappare (rifiutare di utilizzare Spotify e acquistare vinili);


2) Le prede possono usare la barra di ricerca e cercare autonomamente i propri album preferiti;
3) Le prede possono costruire playlist personali o scoprire altre playlist create dai loro amici;
4) Le prede possono organizzarsi per fregare gli algoritmi di Spotify (caso dei fan del K-Pop: le persone
che adorano questo genere si sono organizzati per cliccare costantemente un album, creando
artificiosamente un aumento per cui quell’album è apparso tra gli album più ascoltati. Queste
comunità hanno, per tanto, contribuito ad aumentare la visibilità dell’album, così come avviene
anche nei gruppi instagram);
5) Le prede possono accettare intenzionalmente i suggerimenti e addestrare l’algoritmo ad essere
sempre più preciso e godere della sua selezione.
C’è una sorta di collegamento con il modello coding-decoding dei cultural studies.

Netflix: un caso particolare di piattaforma (rispetto alle definizione viste), non è un aggregatore di contenuti
esterni: è un catalogo di contenuti audiovisivi che non permette a tutti di caricare. Tecnicamente non
sarebbe una piattaforma.

Che oggetto mediale è? Nell’interfaccia grafica richiama il cinema, ma a livello dei contenuti non troviamo
soltanto film, infatti è, anche, un catalogo di prodotti televisivi. quello che fa la differenza sono i dati
computazionali: l’insieme dei dati, della proliferazione.

è UNA PIATTAFORMA DIGITALE? (produce principalmente software?)


Un sistema computazionale, basato su software che produce un’esperienza simile alla televisione? Veloce
reminder: che cos’è una piattaforma? «una piattaforma è un’architettura programmabile, progettata per
organizzare l’interazione tra utenti (…) Una piattaforma è alimentata dai dati, automatizzata e organizzata
attraverso algoritmi e interfacce, formalizzata attraverso rapporti di proprietà orientati da precisi modelli di
business e governata attraverso termini di servizio» (Van Dijck et al. 2019, p. 38).

Netflix si presenta ai regolatori, ai legislatori (come anche Uber, Facebook e You tube) come un’azienda
tecnologica, che agisce nel settore TECH, producendo software. Non si presenta come una «media
company» per evitare di essere regolamentata. Gli azionisti investono in tecnologia, mentre nell’industria
culturale si investe poco.

La piattaforma Netflix è proprietà di Netflix, produce software.

Disney plus è proprietà Disney: una media company che vendeva fumetti, poi film, poi animazione, gadget.
La maggioranza delle sue entrare derivano dalla vendita di prodotti mediali, mentre l’entrate di Netflix
derivano dalla produzione del software.

Danno lo stesso tipo di servizio ma sono distinte.

«Netflix combina insieme diversi elementi di diverse tecnologie mediali e istituzioni. Ma non è solo un
produttore cinematografico, non è solo un distributore televisivo, non è solo una piattaforma. Netflix è un
oggetto mediale che, come un attore, «veste» i panni di diversi media a seconda del palcoscenico: di fronte
ai governi, sostiene di essere una piattaforma. Nelle relazioni col pubblico, pretende di essere una
televisione. Nel design dell’interfaccia, si presenta come un’esperienza simile al cinema. Il suo sistema di
abbonamenti è come quello dei canali di pay-tv, ma i suoi algoritmi lo trasformano in una piattaforma
Netflix è una tecnologia ibrida che RI-MEDIA una varietà di media precedenti in diversi aspetti del suo
funzionamento» (Ramon Lobato, Netflix Nations, 2018, p. 43-44)

OPEN connect Servers: ognuno Contiene tutte le librerie Di Netlix e sono posizioni più vicini possibili ai paesi
dove esistono più abbonati. C’è un divario digitale: soltanto chi può avere una carta di credito e avere
accesso ad internet può avere Netflix.

«Netflix non è una «cosa» unitaria, ma un complesso e dinamico meta-sistema fatto di centinaia di processi
software differenti che dipendono da infrastrutture tecnolgiche hard e soft, sistemi di conoscenza sia aperti
che proprietari e investimenti privati» (Ramon Lobato, Netflix Nations, 2018, p. 100)

Altro modo per definire Netflix è fornito da Lobato: NETFLIX = LARGHEZZA DI BANDA + CARTA DI CREDITO =
CLASSE MEDIA OCCIDENTALE Limitazioni di banda e accesso alla carta di credito «shape», condizionano
l’accesso a Netflix

«La visione che Netflix ha dell’intrattenimento è una esperienza personalizzata ucostruita attorno a
consumatori individuali o al nucleo familiare, equipaggiati di carta di credito e un proprio account, che
avviene in uno spazio privato» (Ramon Lobato, Netflix Nations, 2018, p. 104).

LEADER MONDIALE DELLA TV ONLINE


● + di 159 milioni di abbonati, in molti paesi la presenza non è molto rilevante, pochi lavoratori per
curare il prodotto
● 190 paesi.
● 1 miliardo di ore a settimana mandate in streaming

BIG DATA

● Netflix è un’azienda tecnologica che è entrata nel mercato dei contenuti


● Disney è il contrario.
● Netflix è abituata a partire dai dati (diversa rispetto agli operatori classici di contenuti come Sky e
Disney: dati aggregati per caratteristiche sociodemografiche, non dati in tempo reale dei consumi):
sono tecnologi, data scientist...non sono scrittori e produttori cinematografici. La disney e la sky
devono imparare a sfruttare i data.
● Stanno imparando ad essere produttori di contenuti
● Credono nell’ideologia dei dati

Netflix impone dei cambiamenti nella trama e sceneggiatura con i dati accumulati da film simili
precedentemente realizzati. Anche i precedenti gatekeeper utilizzavano i dati, ma adesso ci sono molti più
dati e le loro scelte editoriali danno molta più importanza alle informazioni che arrivano dai dati.

L’utente è considerato una miniera d’oro, viene analizzato e scomposto in ogni azione realizzata (es: di
capitalismo di sorveglianza)

NETFLIX BUSINESS MODEL

● Nessuna pubblicità. Il pubblico è "irrilevante", non vendono la nostra attenzione.


● Il profitto si basa sugli abbonamenti.
● Due obiettivi di business: guadagnare e mantenere gli abbonati.
● Il contenuto deve essere efficiente. Efficacia = ore all'interno dell'app

2 caratteristiche tipiche di Netflix:

- bing watching: far guardare una serie per più tempo possibile
- distingue le serie in base a quelle che hanno la possibilità di essere più velocemente divorate

«Aperto 24 ore su 24, 7 giorni su 7, è il mantra del capitalismo contemporaneo, l'ideale perverso di una vita
senza pause, attivata in qualsiasi momento del giorno o della notte, in una sorta di condizione di veglia
globale. Viviamo in un non tempo interminabile che erode ogni separazione tra un intenso e ubiquo
consumismo e le strategie di controllo e sorveglianza. Sembra impossibile non lavorare, mangiare, giocare,
chattare o twittare lungo l'intero arco della giornata, non c'è momento della vita che sia realmente libero.
Con la sua presenza ossessiva, il mercato dissolve ogni forma di comunità e di espressione politica,
invadendo il tessuto della vita quotidiana» (Jonathan Crary, 24/7). Ricordare citazione Raymond Williams
(Drama in a dramatized society, 1974)
COME TRACCIA IL COMPORTAMENTO DEGLI UTENTI

Netflix traccia...

Tipo di contenuto visualizzato o scartato.

Funzioni di riproduzione. Intensità di riproduzione.

Valutazione data dall'utente.

Dispositivo.

Percorsi seguiti dall'utente all'interno dell'app.

Posizione, ora e giorno

24/03

Esperimento di deduzione dei meccanismi di funzionamento di una macchina dall’esterno, senza poter
accedere al sistema di raccomandazione di Netflix. Aveva creato alcuni profili separati, attribuendo un certo
stile di consumo; e un profilo che faceva consumi casuali. Dall’analisi sono venute fuori cose interessanti:

- la personalizzazione non avviene solo a livello di contenuti ma anche di copertina


- nel tempo i profili si strutturavano secondo lo stile di consumo predisposto dal ricercatore e
offrendo cose simili
- oltre a raccomandare cose inerenti allo stile di consumo; c’era anche una raccomandazione
trasversale uguale a tutti i profili che riguardava le serie nuove e in particolar modo le serie
prodotte da Netflix. Questo è un tentativo di promuovere i propri contenuti (come fa Spotify con le
playlist create), quello che ci offre questo sistema è l’illusione di una personalizzazione: le nostre
home page sono leggermente differenti da quelle di altre persone. oltre a dare elementi
personalizzate si da anche qualcosa di popolare.
Le interfacce considerano gli utenti come delle prede da tenere “Legati” e lo fanno con big data associati ad
ogni film.

BIG DATA MEETS METADATA

Netflix analizza ed etichetta ogni film e programma televisivo disponibile. Utilizza persone addestrate a
guardare i contenuti e li etichetta con tutti i tipi di

metadati. Questo genera decine di differenti attributi e categorie di contenuti. I metadati, combinati con le
abitudini di visione di milioni di utenti, rappresentano un vantaggio

competitivo per Netflix.

Permette di creare dei test profile di ogni singolo utente.

I metodi di conoscenza dell’audience di queste piattaforme rispetto a quelli usati dalla tv e radio, sono
molto più raffinati. la datafication non è un processo nuovo, non sono più centrali le caratteristiche
sociodemografiche, età, reddito, ecc; bensì le caratteristiche psicografiche, stili di vita e di consumo. invece
di segmentare il pubblico per fasce d’età ecc, vengono segmentati in base al tipo di consumo, stili di vita
colti attraverso i meta dati: si mettono insieme tutti coloro che consumo determinate categorie di film/serie
tv.
Sono le etichette dei meta dati che danno le categorie di consumo. Ad ogni singolo utente vengono
associate tante etichette.

Domanda esame: Quali sono i pericoli della piataformizzazione? Perdita della privacy? si ma non è il
problema principale, il problema principale riguarda l’economia politica dei dati. dal prezzo
dell’abbonamento estraggono un valore superiore.

Che valore hanno questi dati?

Nelle società cooperative che utilizzano questi dati, l’uso è differente. L’infrastruttura di meta dati permette
a queste piattaforme di creare un profilo accurato e differente rispetto al passato.

quando parliamo di Netflix, dobbiamo parlare di infrastrutture di algoritmi perchè non è soltanto uno:

• Personal Video Ranker:

• Top N Video Ranker

• Trending Now

• Continue Watching Ranker

• Video-video similarity

Il contenuto di Netflix:

esiste un imperialismo culturale realizzato dagli Stati Uniti sugli altri paesi, registrando un’influenza
culturale..

L’ecosistema italiano dei SERVIZI VIDEO ON DEMAND: il mercato è abbastanza concorrenziali, ci sono
diversi tipi alcuni a pagamento altri no. Hanno un peso non indifferente, che hanno subito un aumento
dopo la pandemia. c’è stata una crescita di aumento delle televisioni in digitale terrestre; e un aumento di
servizi streaming a pagamento. lo streaming aumenta e la televisione satellite diminuisce.

Erano molti gli utenti che utilizzavano servizi a pagamento.

La diffusione di netflix è a macchia d’olio, ricalcando la gerarchia del digital divide.

Se guardiamo come sono cambiate le cose negli ultimi 6 anni: i servizi tv a pagamento (pay tv) erano
presenti nel 26,3% delle case italiane è diminuito al 21.5%%; mentre gli abbonamenti per i servizi on
demand a pagamento è aumentata dal 3,3% al 39,1%-
In italia netflix non è il servizio più utilizzato in Italia: preceduto da prime video e da youtube.

Netflix avrà un problema di saturazione: non esistono persone come una carta di credito infinita e infinita
banda larga, anche il tempo a disposizione per visualizzare questi contenuti è limitato (massimo 6 ore al
giorno).

Lo streaming non ha intaccato né la lettura di libri, né il cinema, né il tempo passato davanti la tv. Le
differenze sono impercettibili. I fattori sociali e culturali sono quelli che incidono nei prodotti culturali.

Nonostante la maggior penetrazione delle piattaforme streaming; ci sono dei fattori socio-culturali che
mantengono i dati riguardanti la lettura, cinema, televisione, ecc.

Il tipo di consumo dipende dalla generazione: chi è nato con la televisione continua a conservare questa
abitudine.

I consumi culturali sono condizionati dall’età, reddito, educazione e molto meno dall’aspetto tecnologico.
Nella società italiana ci sono delle persone abituate al consumo di cultura, e una fetta consistente che non è
abituata e non dipende dall’uso delle tecnologie.

Il quadro normativo in Italia:

Per quanto riguarda gli obblighi di promozione delle produzioni audiovisive europee, l'AGCOM, l'agenzia
italiana per il governo delle Telecomunicazioni, richiede il 20% dei contenuti europei inseriti nel catalogo. In
alternativa, un servizio può investire il 5% dei ricavi dell'anno precedente per l'acquisizione o la produzione
di contenuti europei. I servizi on demand devono raggiungere queste quote in quattro anni e a seconda
delle condizioni di mercato. Questo quadro generale cambierà ancora una volta in seguito all'adozione della
strategia del mercato unico digitale in Europa, con particolare riferimento alla revisione della direttiva
2010/13/UE (Servizi di media audiovisivi).

I contenuti selezionati per noi non corrispondono solo a logiche algoritmiche, ci sono anche logiche
economiche di Netflix (proporre i propri contenuti e i contenuti più popolari o nuovi) e la logica di
governance all’interno del contesto giuridico dove il paese opera: l’europa impone questo per agevolare
l’economia dell’industria culturale dei propri paesi.

Nel contesto algoritmico, imperativo è abbastanza proporre che nel catalogo ci sia il 20% di titoli europei
nel catalogo? No, potrebbero non vederli mai. si introduce il tema della diversità culturale e della diversità
interna ad ogni
per promuovere la diversità culturale all’interno .. non si può soltanto imporre una legge sul catalogo, ma
ragionare anche in termini di esposizione. Gli algoritmi possono essere messi a disposizione di altri interessi
(come interessi economici):

Dati 2019, simili oggi, di un’analisi del contenuti di tutti i titoli disponibile sul catalogo italiano di Netflix +
analisi dei contenuti del catalogo personalizzato di un utente

N = 3,135 titoli (catalogo italiano)

N = 1,350 titoli (home page)

COME: l'analisi ha seguito il code-book fornito da Albornoz e García Leiva ("NETFLIX y la diversidad
audiovisual en el espacio iberoamericano, 2018-2019")

Contenuti seriali: 29%

Film: 71%

989 titoli su 3,135 (32%) sono «NETFLIX ORIGINAL» PRODUCTIONS

Tra le produzioni originali, 52% sono contenuti seriali

70% del catalogo è composto da titoli usciti negli ultimi 5 anni (2014–2019). vengono mostrati soltanto titoli
più recenti.

Paese di produzione
52% da US

8% da UK

5% da Italia (4° posto) …

3% dalla Spagna

Europa (UK inclusa: 20%)

Il 69% delle produzioni sono in inglese (lingua originale). L’italia è il paese europeo che guarda meno
contenuti in lingua originale (17%).

emergono temi come la diversità di genere

Nelle produzioni Netflix (sia film che serie), queste sono leggermente più equilibrate dal punto di vista del
genere rispetto alle produzioni non originali.

Sommario: Altamente globale, poco locale (ma meno americano del previsto. Nel 2014, il chief content
officer di Netflix Ted Sarandos ha dichiarato che la formula tipica del catalogo di Netflix era 80-85%
Hollywood + contenuti internazionali e 15-20% locali) Italian Netflix parla di Commedia, Documentari,
dramma e azione Il 56% dei titoli sono storie che si trovano negli Stati Uniti 70% del catalogo basato su titoli
usciti negli ultimi 5 anni (2014-2019) Il 69% dei titoli sono originariamente in inglese
se restringiamo l’analisi alla pagina del singolo utente: notiamo che il catalogo personale è differente,
potrebbe dipendere dal profilo culturale.

Le macchine estraggono habitus: l’insieme delle nostre disposizioni culturali, facendo un calco attraverso
l’infrastruttura che raccoglie i dati, restituendo elementi nuovi mai visti ma che hanno delle etichette simili
a quelli già visti.

Il pericolo è che non ci permetteranno di cambiare i nostri gusti, a meno che non siamo noi a cambiare.

Una maggiore esposizione a contenuti americani determina un assorbimento dei valori americani? Non
necessariamente, li decodifichiamo in maniera differente.

Lotz et al hanno confrontato 15 cataloghi differenti: preponderanza dei contenuti provenienti dagli stati
uniti. «In sintesi, le librerie di Netflix non sono composte esclusivamente da titoli prodotti negli Stati Uniti.
Gli Stati Uniti rappresentano un numero maggiore di titoli rispetto agli altri Paesi - in genere circa il 40% dei
titoli - ma il restante 60% proviene da 80 Paesi diversi; ciò è molto diverso da altri servizi nati negli Stati
Uniti (Disney; Apple TV). Tuttavia, Netflix offre un'offerta nazionale/domestica significativa solo in alcuni
Paesi (Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud, India e Regno Unito).» .

Questo dato paragonato alla diversità di Disney plus ecc è molto più variegato.

Netflix produce molte più ore di contenuto originario delle altre piattaforme, è più vicina ad una casa di
produzione cinematografica.
La strategia che utilizza netflix è un mix di globale e locale: non promuove solo contenuti americani. è una
tendenza che conferma la scoperta che è stata fatta dagli studi sulla televisione degli ultimi anni.

Questi dati devono essere trattati con cautela, perché:

1) Gli algoritmi di raccomandazione rimescolano e modificano la composizione del catalogo: Il catalogo


Netflix è un oggetto culturale astratto che esiste solo nei server Netflix distribuiti in tutto il mondo. Ogni
abbonato italiano sperimenta una versione di questo catalogo che si sovrappone solo parzialmente a quella
degli altri utenti. Il catalogo Netflix è un "bene contingente" (Nieborg & Poell 2018)

2) Non sappiamo nulla della ricezione di questi contenuti, della "rilevanza, della popolarità o

dell'impatto culturale di tali contenuti" (Lobato 2018: 142). Dovremmo abbinare un approccio CPE (Critical
Political Economy of the media, Hardy 2014) con un approccio di studi culturali, più incentrato sugli studi
della ricezione e sull'agency del pubblico.

3) Non sappiamo nulla dell'impatto culturale di questo catalogo sul pubblico italiano. Il pubblico che sembra
essere più esposto ai contenuti americani di Netflix è la classe medio-alta italiana con una certa
disponibilità di capitale culturale ed economico, culturalmente cosmopolita, abituata a viaggiare all'estero e
a parlare una o due lingue straniere, un'élite culturale del Paese, finora limitata a 2 milioni di abbonati.

4) Per avere un quadro generale del livello di diversità dei contenuti audiovisivi a cui è esposto lo spettatore
italiano, dovremmo essere in grado di confrontare questi dati con la composizione della TV italiana e di tutti
gli altri cataloghi VOD disponibili in Italia. + analizzare la DIVERSITÀ DELL'ESPOSIZIONE

L’ascesa di Netflix (e simili) pone due tempi all’attenzione degli studiosi di media. uno conseguenza
dell’altro: diversità culturale dei contenuti -> imperialismo culturale

IL CONCETTO DEL «ONE WAY FLOW» UNESCO 1974 – «TELEVISION TRAFFIC – A ONE WAY STREET?»

HA ANALIZZATO I PALINSESTI TELEVISIVI DI 50 PAESI PER STABILIRE L’ORIGINE E LA DIREZIONE DEI FLUSSI
CULTURALI TRANS-NAZIONALI. CONCLUSIONE: ESISTE UN FLUSSO A UNA DIREZIONE, DALL’OCCIDENTE AL
RESTO DEL MONDO

è emerso che gli stati uniti erano il maggior creatore di contenuti esportati, creando dei flusso. Anche Il
regno Unito. Ricalca la geografia del colonialismo: n

La TV era concepita come un micro-cosmo rappresentativo di una verità più grande: Il dominio del mondo
occidentale sui paesi in via disviluppo attraverso mezzi economici, politici e culturali (TV) Neo-colonialismo
di tipo culturale CPE marxista: la struttura economica determina la soprastruttura culturale

Imperialismo culturale? è difficile da dichiarare ciò.

Il potere di esportare contenuti si traduce direttamente in potere culturale? (ricordate teoria del proiettile
magico?)
Straubhaar (1991) dimostra come non appena i sistemi mediali dei paesi sudamericani si sono sviluppati,
hanno cominciato a produrre più contenuti locali e il consumo di prodotti domestici è cresciuto, invece che
diminuire

Chi ha vinto l’oscar 2020 come miglior film?

siamo in una fase multipolare

Imperialismo culturale?

«Può essere vero che i media sono «americani» (Tunstall 1977) Ma bisogna fare una serie di distinzioni: non
la televisione in generale, ma la fiction; non come condizione permanente, ma soggetta a variazioni nel
tempo e nello spazio» (Milly Bunanno, The Age of Television, 2007)

Jean Chalaby (2005; 2009): all’alba del boom delle trasmissioni satellitari negli anni ‘80, i canali americani
avevano sovrastimato l’appetito delle audience europee per contenuN stranieri, e mano a mano hanno
dovuto iniziare ad adattare i loro contenuti ai gusti locali. Il caso di MTV negli anni ‘90: la localizzazione dei
contenuti è importante, e il globale non rimpiazzerà facilmente il locale. MTV ha dovuto imparare ad
adattare il proprio canale ad ogni mercato/paese dove è entrata.

La stessa lezione la sta imparando Netflix sia per questioni giuridiche sia per questioni di gusti (?).

27/03

Le prossime lezioni saranno dedicate all’approfondimento di alcune teorie sulle tecnologie, ci avviciniamo
al rapporto tra media e società. Come la società modella le tecnologie e ha effetti su di essa? Vedremo le
fasi attraverso le quali le tecnologie cambiano il loro significato per la società.

Domesticazione delle tecnologie

Questa teoria è nata nel contesto dei cultural studies britannici

La teoria dell'addomesticamento (fine anni 80, Morley e altri appartenenti alla seconda generazione dei
cultural studies britannici) fornisce un quadro per comprendere il modo in cui le tecnologie
dell'informazione e della comunicazione (ITC, inteso come un termine abbastanza ampio) trovano un ruolo
nella vita delle persone. (CAP: 8 manuale SCANNELL: approccio tecnodeterminista)

Negli anni '80, in un periodo in cui gli studi britannici sui media erano dominati da approcci semiologici
incentrati sul significato dei testi mediatici e sul modo in cui venivano codificati dalle persone, alcuni
ricercatori stavano esplorando il ruolo potenzialmente più attivo del pubblico nell'interpretazione dei
media. Per esempio, seguendo il modello di codifica/decodifica (Hall 1980), uno dei primi studi ha
esaminato come il pubblico proveniente da diversi contesti abbia dato un senso a un particolare
programma di attualità televisiva (Morley, Nationwide, 1980). Un altro ha esplorato come i media, più in
generale, si adattassero alla vita delle casalinghe. Nel frattempo, la ricerca all'interno del paradigma degli
usi e delle gratificazioni chiedeva quali usi sociali le persone facessero della televisione. Si sono soffermati
sulle forme tecnologiche e il significato che le persone davano a queste tecnologie nella vita quotidiana.

Morley usa la metafora del concetto di addomesticamento: le tecnologie vengono addomesticate (curvate
alle esigenze di quella determinata persona x) dalle persone dal momento in cui vengono vendute a quando
arrivano a casa. Le persone esprimono una certa autonomia nell’interpretazione del funzionamento della
funzione che la tecnologia può avere nella vita quotidiana.
Roger Silverstone e il suo team alla Brunel University hanno combinato alcuni di questi elementi con
domande provenienti dagli studi sul consumo e dall'antropologia. Il principale contributo di quest'ultima
era l'interesse per la natura simbolica dei beni, il ruolo che essi hanno potenzialmente in relazione al senso
di identità delle persone e quindi come le persone reagiscono e li gestiscono, e come usano gli artefatti
nella presentazione di se stessi agli altri.

Nel capitolo che ha lanciato il concetto di addomesticamento (Silverstone, Hirsch, & Morley, 1992), la
metafora si riferiva all'addomesticamento degli animali, prendendoli dal "selvaggio" e "addomesticandoli".
La questione ora era come le varie tecnologie dell'informazione e della comunicazione (ITC), ampiamente
definite per includere una gamma di media sia più tradizionali (radio, tv, giornali) che nuovi (all’epoca:
videoregistratori, computer, consolle per videogiochi), entrassero e trovassero un posto nella vita delle
persone e, in quella prima formulazione, specificamente come sono entrate nelle nostre case.

6 fasi che qualsiasi tecnologia attraversa nel processo di addomesticamento:

MERCIFICAZIONE (commodification/marketization)

I processi di addomesticamento sono visti come processi di consumo. Il processo di addomesticamento


inizia dal momento dell'invenzione o dallo sviluppo di un prodotto.

Un prodotto o una tecnologia ricevono i loro significati estetici, funzionali e/o simbolici nel laboratorio o
nella fabbrica di uno sviluppatore, e passano dal laboratorio al mercato. Questi significati forniscono alla
tecnologia caratteristiche specifiche che esprimono gli ideali e i valori dei loro produttori. Questi significati
rappresentano le incarnazioni del design del prodotto. Il marketing definisce agli occhi dell’utente per cosa
può essere usato il prodotto (Silverstone & Haddon, 1996).

Le relazioni sociali stanno alla base della scelta di un determinato design.

Questa fase segna la connessione tra il momento del design di un artefatto e quello del suo
addomesticamento successivo

In questa fase si attribuisce al prototipo un prezzo e si inizia una campagna per la vendita del prodotto.

I produttori iscrivono in questi artefatti la loro visione del mondo, con annesse funzionalità preferite.
Un’attribuzione di significato. Tutti gli oggetti portano con sé i valori di chi l’ha disegnato. Il prodotto qua
viene prima immaginato e poi messo sul mercato con un certo messaggio.

IMMAGINAZIONE (imagination)

L'immaginazione è la fase in cui una tecnologia o un altro prodotto entra nella nostra mente e nella nostra
coscienza (Ling, 2004). Queste immaginazioni entrano nelle nostre menti attraverso il "sistema culturale"
creato dalla pubblicità dei prodotti, o attraverso i discorsi dei media (incluso il passaparola) (Silverstone,
1994; Haddon, 2003). Queste tecnologie vengono pre-formate con significati e ruoli sociali nel processo di
pre-adozione in cui il consumatore immagina il ruolo potenziale (o la mancanza di esso) della tecnologia
nella sua vita, e le negoziazioni intorno ad essa (Haddon, 2003). C’è una fase di costruzione del significato
che passa attraverso il sistema culturale e attraverso la pubblicità che ci fanno conoscere quel prodotto e
crea un immaginario collettivo attorno a quell’oggetto, che non sarebbe possibile senza il sistema culturale.
Questi significati sociali creano il desiderio o i sogni per l'uso della tecnologia nella mente del consumatore
(Silverstone, 1994).

Silverstone (1994:126) aggiunge inoltre che il processo di immaginazione è "dialettico, guidato dalla
stimolazione e dal desiderio prodotti dalla pubblicità, bloccato dalla frustrazione e dall'indifferenza,
trasformato dall'impegno attivo dei consumatori nel processo stesso di mercificazione".

Silverstone non intende questo processo unilineare, che impone alle persone dei desideri che non
pensavano di avere. C’è una fase di co-creazione, negoziazione e spesso anche di conflitto con le persone e
le loro rispettive immaginazione; possono emergere anche delle critiche.

Es; Kodak ha cambiato la storia della fotografia proponendo un macchinario che si poteva trasportare e
utilizzare ovunque. Costruendo un preciso immaginario simbolico, le immagini dicono che è un prodotto
adatto alle persone benestanti,utilizzabile da chi ha tempo libero a disposizione. Si rivolge ad una classe
sociale ben specifica. Queste immagini comunicano esclusività sociale. Crea un immaginario che indirizza le
persone verso una determinata classe sociale e uso.

Successivamente viene mostrato un altro prodotto, sempre dalla Kodak,

Es; Osborne 1 (anni 70): parla ai lavoratori medi che si spostano e che lavorano per le industrie
dell’informazione.

Es: Fine anni 80, si parla di un altro computer che estende l’uso a tutta la famiglia attraverso giochi,
imparando e con i programmi.

Es: Sony (primi anni 80), walkman pro, l’enfasi non è sull’uso particolare ma sull’effetto magico di una
nuova tecnologia.

I testi pubblicitari potrebbero essere usati come un corpo per comprendere come l’immaginario di un
artefatto è stato costruito. Ma va oltre questo immaginario persuasivo. Cosa succede quando le persone si
appropriano dell’oggetto?

APPROPRIAZIONE (appropriation)

L'appropriazione nasce dall'immaginazione creata dalla pubblicità e dalle persone intorno a noi che ci
aiutano a capire i modi di funzionamento di una tecnologia o servizio. L'appropriazione è il punto del
processo di consumo in cui la tecnologia lascia la sfera pubblica ed entra nella nostra sfera privata. Questa
fase del ciclo include la convinzione che un consumatore abbia imparato a conoscere la tecnologia e anche
la consapevolezza che la tecnologia potrebbe in qualche modo inserirsi nella sua vita (Ling, 2004).

L'appropriazione è vista come il momento in cui una tecnologia attraversa la soglia esistente tra la sfera
pubblica (economie formali) e quella privata (economie morali) (Silverstone, 1994; Hynes & Richardson,
2009).

Nel contesto dei siti web di e-commerce, questa fase può essere vista come quando un consumatore
identifica un bisogno o un motivo per usare un sito web di e-commerce, e lo visita (Harwood, 2011).

Quali sono le considerazioni che hanno portato l’utente a decidere di voler acquistare quel bene
tecnologico?

Perché crede sia utile per la sua vita? Come si sono formati questi desideri/bisogni?

All’opposto: perché alcune persone rifiutano di acquistare quel bene? (media resistance, vedi articolo
Riibak). L’effetto persuasivo ha effetto su alcuni, non su tutti.
OGGETTIFICAZIONE (objectification)

L'oggettivazione avviene quando i gusti, i valori e gli stili di vita di un consumatore sono espressi (Hynes &
Richardson, 2009) attraverso la disposizione degli oggetti nell'ambiente spaziale della casa (Silverstone,
1994). Emerge l’aspetto antropologico. L’interesse è capire, Dove viene posizionata la tecnologia (radio, tv,
computer…) all’interno dello spazio della casa? e perché? Quale sono le regole che determinano l’uso della
tecnologia all’interno della casa?

Ci si concentra sull’aspetto simbolico.

Silverstone (1994:127-128) opina che questa disposizione fisica ed esposizione degli oggetti oggettivizza i
"valori, l'estetica e l'universo cognitivo" del consumatore. Ling (2004) sostiene che l'oggettivazione descrive
come un prodotto si inserisce nei valori e nel senso estetico del consumatore. Ling (2004) sottolinea inoltre
che l'oggettivazione, in una certa misura, si concentra sull'estetica.

INCORPORAZIONE (incorporation)

Va di pari passo con l’oggettivazione, si concentra sullo stesso momento.

Ling (2004) afferma che mentre l'oggettivazione si concentra principalmente sull'estetica e la cognizione
(come la concepiamo), l'incorporazione si concentra più sulla funzionalità (come la pratichiamo nello spazio
domestico), ma ammette che queste due fasi vanno di pari passo in quanto sono due lati della stessa
medaglia. L'incorporazione è l'uso effettivo della tecnologia attraverso le sue funzioni. Una tecnologia può
anche essere resa funzionale in modi diversi da quelli progettati inizialmente dagli sviluppatori (Silverstone,
1994). Il livello di funzionalità di una tecnologia nella vita di un individuo dipende in gran parte da quanto
bene la tecnologia è stata incorporata nelle routine della vita quotidiana dell'individuo (Silverstone et al.,
1992; Silverstone, 1994; Lee et al., 2009). Le tecnologie sono scelte da un consumatore con specifiche
intenzioni di funzionalità in mente. Tuttavia, a volte queste tecnologie non si adattano all'intenzione del
consumatore e potrebbero portare ad un abbandono della tecnologia (Haddon, 2006; Lee et al., 2009).
Questo momento di incorporazione determina quanto bene una tecnologia si integri (o meno)
nell'economia morale della vita quotidiana dell'individuo.

COME le persone usano quella tecnologia e, più specificamente, come tale uso viene programmato
all’interno della routine delle persone, e quindi nelle loro strutture temporali? (es: quanto tempo è
permesso ai bambini di usare la tv? chi tiene il telecomando?)

Sviluppo di «norme» e regole familiari per l’utilizzo di una data tecnologia (non usare il tel a cena…)

Quali sono le norme della vostra famiglia rispetto alle tecnologie per la com. che avete in casa?

CONVERSIONE (conversion)

Come le persone hanno mobilitato queste ITC come parte della loro identità?

Come hanno usato le ITC per presentarsi agli altri, per esempio, nel modo in cui ne parlano o le mostrano
agli altri?

Questo momento, come l'appropriazione, definisce la relazione tra un consumatore e la sfera pubblica.
Tuttavia, a differenza dell'appropriazione, che transita dall'economia formale (la sfera pubblica)
all'economia morale (privata), la conversione transita nella direzione opposta. L'economia morale del
consumatore prevede la negoziazione e l’attribuzione di nuovi significati alla tecnologia (Silverstone, 1994).

Questo significato individuale diventa "parte del significato pubblico delle future appropriazioni e versioni
del prodotto" (Tobbin, 2013). Questo è anche il momento in cui si può dire che una tecnologia diventa (o
non diventa) parte della vita di un individuo (Lee et al., 2009). Questo punto finale ci riporta
all'addomesticamento (Silverstone, 1994).

Le prime due sono state aggiunte da Silverstone solo nel 1994.

è un processo che inizia dal momento in cui viene costruita una tecnologia al momento in cui arriva nella
casa della persona x, sono artefatti malleabili Le tecnologie vengono modellate a proprio uso e consumo.
C’è battaglia attorno al significato di un artefatto tecnologico: attori differenti attribuiscono significati
differenti, lo usano in maniera diversa.

La fase della conversione


riconduce l’oggetto pubblico dalla sfera privata alla sfera pubblica: le persone iniziano a utilizzare
pubblicamente nella sfera pubblica: indossano/utilizzano. Diventa uno status simbolo, per costruire la
propia identità personale.

L'"economia morale" si riferiva ai valori dei membri della famiglia e al modo in cui i significati simbolici dei
beni erano giudicati rispetto a quei valori.

Come si inseriva un oggetto nell’economia morale di una famiglia?

Ne parlò Silverstone per riferirsi all’economia morale della famiglia. Ogni oggetto entra in una differente
economia morale. La fase di ricezione/incorporazione è conflittuale/negoziata. Le stesse … di codifica che
applicava Hall, possiamo applicarli agli artefatti.

In generale, l'addomesticamento cerca di dare un senso alle prospettive e alle azioni delle persone in
relazione alle ICT, apprezzando sia il contesto più ampio della vita delle persone che i particolari significati
simbolici attribuiti a quei media.

Prime evoluzioni della ricerca sulla domestication:

- gli studi su come gruppi particolari usano tecnologie specifiche (migranti e uso del telefono, per esempio)

-Bambini e tecnologie
Il lavoro successivo sui bambini e l'addomesticamento ha comportato in parte una riorganizzazione di
alcune delle prime ricerche empiriche. Quei primi studi sulle famiglie spesso documentavano il modo in cui
i genitori interagivano e negoziavano con i bambini, ma a quel tempo il concetto stesso di "mediazione
parentale" non esisteva -

Il modello di Hall era teorico; questo empirico.

Metodologia di ricerca della teoria della domestication

Metodologicamente, la maggior parte degli studi sull'addomesticamento sono stati di natura qualitativa,
l'approccio più comune è quello delle interviste in profondità, progettate per sondare le sfumature più
sottili delle percezioni e delle esperienze delle persone e per cogliere aspetti come le tensioni tra i membri
della famiglia e le ambiguità sulle ITC. Ma fin dall’inizio ci si è chiesti se questo potesse essere integrato da
un'analisi quantitativa. In pratica, l'analisi statistica è stata usata per esplorare questioni come la misura in
cui sono presenti particolari preoccupazioni relative alle ITC e se diversi gruppi di tecnologie hanno pattern
di domesticazione simili.

Caso studio: Domestication di Netflix

Domesticazione mutua tra utenti e algoritmi di Netflix

fonte:

Siles, I., Espinoza-Rojas, J., Naranjo, A., & Tristán, M. F. (2019). The mutual domestication of users and
algorithmic recommendations on Netflix. Communication, Culture & Critique, 12(4), 499-518. (lo trovate in
moodle)

Sono state individuate 5 fasi.

«Noi sosteniamo che la relazione tra utenti e algoritmi può essere inquadrata in termini di un processo di
"addomesticamento reciproco": gli utenti incorporano le raccomandazioni algoritmiche nella vita
quotidiana tanto quanto la piattaforma lavora per colonizzare gli utenti e trasformarli in consumatori ideali
attraverso i suoi algoritmi. Discutiamo cinque meccanismi specifici attraverso i quali questo processo ha
luogo: la personalizzazione, o i modi in cui si costruiscono relazioni individualizzate tra gli utenti e la
piattaforma; come le raccomandazioni algoritmiche sono integrate in una matrice di codici culturali; i rituali
attraverso i quali sono incorporate nei processi spaziali e temporali della vita quotidiana; la resistenza a vari
aspetti di Netflix; e la conversione di queste raccomandazioni algoritmiche in modi di partecipare alla vita
pubblica. In questo modo, forniamo una specificità empirica al recente lavoro sul ruolo del pubblico nei
processi di datificazione»

(Siles et. Al, 2019: 500)

PERSONALIZZAZIONE: gli utenti «personalizzano» il proprio profilo, allo stesso tempo la piattaforma
personalizza l’offerta nel tempo. Gli utenti lo «addomesticano», lo fanno proprio e cercano di evitare che
altri utenti «contaminino» il loro profilo. La stessa piattaforma viene resa in maniera diversa dalle persone
che la usano, rendendola più simile alla persona che la utilizza.

INTEGRAZIONE (simile all’oggettivazione): come integrano Netflix nella loro vita quotidiana

«ci riferiamo alla combinazione di criteri che ogni persona usa quando deve scegliere quale contenuto
vuole guardare. Abbiamo trovato almeno cinque criteri che sono variamente combinati: relazioni
interpersonali, caratteristiche tecniche del contenuto, il ruolo di Netflix come produttore di contenuti
originali, recensioni e opinioni disponibili nei social media. Pertanto, le raccomandazioni algoritmiche non
funzionano completamente da sole (accettiamo la raccomandazione per un’insieme di motivi che si
sommano), né agiscono come unico fattore determinante del consumo per gli utenti di Netflix. Invece, gli
utenti integrano le raccomandazioni algoritmiche in una matrice di fonti e criteri basati sul loro background
socioculturale e sui loro interessi personali o professionali.»

(Siles et al. 2019: 502)

RITUALI: come integrano Netflix nella loro vita quotidiana

«L'addomesticamento delle raccomandazioni algoritmiche avviene attraverso routine ed eventi che hanno
luogo in tempi e luoghi specifici. Per rituali, ci riferiamo ai modi in cui gli utenti incorporano Netflix nelle
loro attività mondane in modo sistematico e creano pratiche di consumo attorno alle quali si organizzano
processi temporali e spaziali.»

(Siles et al. 2019: 508)

Uso «rituale» della piattaforma:

riti individuali: quando mangio, quando stiro, prima di andare a letto

Riti collettivi: il sabato sera/la domenica pomeriggio di relax con il mio compagno/marito/partner ecc..

I processi di oggettivazione e incorporazione rimangono molto rilevanti: l'addomesticamento di Netflix


viene eseguito in certi momenti della giornata e richiede la collocazione di certe tecnologie in luoghi
specifici.
RESISTENZA

«La resistenza deriva da ciò che le persone interpretano come una lettura errata degli input dati a Netflix
attraverso le pratiche di consumo. Adriana, specialista in relazioni pubbliche e studentessa di economia
aziendale, ha sostenuto che: "a volte le raccomandazioni sono completamente sbagliate e mi [chiedo]:
'Come può Netflix non conoscermi, a questo punto?’».

(Siles et al. 2019: 511)

«Gli utenti resistono non solo agli aspetti funzionali e tecnici, ma anche ai pregiudizi culturali inscritti
nelle raccomandazioni di Netflix. Questi pregiudizi si esprimono nella raccomandazione costante di
contenuti che gli utenti considerano stereotipati. Così, Julieta, una produttrice audiovisiva di 25 anni, si è
lamentata durante l'intervista: »se uno va nel catalogo 'Latino’ trova solo telenovelas".

(Siles et al. 2019: 511)

«Gli atti di resistenza possono essere interpretati come espressione di agency (Siles & Boczkowski, 2012).
Quindi, esaminare la resistenza è importante perché aiuta a sminuire le attuali "[affermazioni di] resoconti
monolitici del potere che tendono a sminuire o escludere il pubblico e il significato del mondo della vita"
nei processi di datificazione (Livingstone, 2019, p. 171).»

(Siles et al. 2019: 511)

CONVERSIONE

«Per conversione, ci riferiamo all'insieme dei meccanismi impiegati dagli utenti per trasformare il loro
consumo privato della piattaforma in una questione pubblica. La conversione è il processo di riconnessione
con il mondo pubblico attraverso la visualizzazione della tecnologia o dei suoi contenuti»

(Siles et al. 2019: 513)

«C'è così tanto contenuto disponibile [che] può essere difficile trovare cose di buona qualità. Così, quando
trovo qualcosa che considero prezioso, lo condivido. Se [io e mia moglie] troviamo qualcosa e ci sembra
buono, va [immediatamente] su Facebook»

Questi commenti riuniscono le dinamiche di conversione e di integrazione. Rivelano il desiderio di


trasformare la conoscenza della piattaforma in un'opportunità per influenzare gli altri nel loro processo
decisionale. In questo modo, Netflix diventa un pezzo fondamentale nella definizione dei gusti degli utenti.»

(Siles et al. 2019: 513)

Il circuito della cultura

La teoria è stata ideata nel 1997 da un gruppo di teorici durante lo studio del lettore di cassette Walkman.
La teoria suggerisce che nello studio di un testo culturale o di un artefatto bisogna guardare a cinque
aspetti: la sua rappresentazione, identità, produzione, consumo e regolazione. Du Gay et al. suggeriscono
che «presi insieme (questi 5 punti) completano una specie di circuito... attraverso il quale ogni analisi di un
testo culturale... deve passare se vuole essere adeguatamente studiato»
Somiglia molto alle dimensioni
dell’addomesticazione.

Per studiare un artefatto culturale – in questo caso il walkman – dovremmo capire:

-COME viene RAPPRESENTATO (fase di immaginazione)

-a QUALI IDENTITA’ sociali viene associato (quali sono i gruppi sociali al quale è indirizzato)

-COME viene PRODOTTO

-COME viene CONSUMATO

-QUALI meccanismi ne REGOLANO la sua distribuzione e il suo uso

- PRODUZIONE
Seguite i soldi! Chi lo sta pagando e/o sostenendo? Da dove vengono i soldi (e altre risorse)? Chi lo sta
facendo o producendo? Qual è la sua/loro storia? Background socio-economico? Interessi (finanziari e
non)? Esperienze personali? Posizioni (o "pregiudizi")?

Chi l'ha pensato?

Quanto sono diverse le persone che lo pagano, lo fanno e lo pensano?

- CONSUMO

Le persone che lo consumano (o lo usano, o lo fanno) sono diverse da quelle che lo producono? Se sì, di
nuovo come sopra: quanto diverse?

È qualcosa che si compra? Se sì, quanto costa? Chi se lo può permettere? Chi non può? Perché?

Come, dove, con chi e perché lo si consuma (fare/guardare/leggere/ascoltare/mangiare)?

È pubblicizzato o commercializzato? Se sì, come, dove, perché e a chi?

- REGOLAMENTAZIONE

È legale o contro le regole? Quali regole? Chi le fa e le fa rispettare? Come/perché?

È 'osceno'? 'pornografico'? "sovversivo"? Perché, e secondo chi?

Che tipo di certificazione, accettazione e/o timbro serve per poterlo produrre o consumare? Chi rilascia
questa certificazione?

- IDENTITÀ

A chi interessa? Chi pensa che sia importante? Perché?

Cosa pensano gli altri delle persone che lo fanno/utilizzano? Perché?

Cosa devi sapere, capire e credere per farlo/usarlo? Cosa deve essere "senso comune" per te, per essere il
tipo di persona che lo fa/usa?

In che modo l'oggetto crea insider e outsider - o un "noi" e un "loro"? Chi è "noi"? Chi è "loro"? Chi decide?
Come?

- SIGNIFICAZIONE (RAPPRESENTAZIONE)

Che cosa significa (per che cosa è un significante)? Che cosa significa (di che cosa è un significante)? E a chi:
ai suoi creatori/autori? A un altro pubblico? A voi?

In quale contesto lo trovate? Cosa succede intorno ad esso?

Che tipo di linguaggio e tono e sentimenti sono coinvolti, e come funzionano?

Per studiare un artefatto culturale – in questo caso il walkman – dovremmo capire:

-COME viene RAPPRESENTATO

Analisi del discorso «pubblicitario» intorno al walkman, che contribuisce a «fissare» il significato culturale
del walkman nella società: ascolto come un atto «privato», individuale, e non più collettivo. Portare la sfera
privata dentro la sfera pubblica?

-a QUALI IDENTITA’ sociali viene associato


Il discorso pubblicitario, i servizi sui media (giornali, radio, tv) come ne parlano? Lo raccontano come uno
strumento per giovani? E quali giovani? (beni di consumo, anche culturali, servono per «distinguersi»
socialmente. Ogni pratica di consumo è culturale. Vedi Veblen (1899) e Bourdieu (1984) ). Il consumo
esprime i gusti personali, e i gusti personali sono indicatori di appartenenza di classe o di gruppo sociale

-COME viene PRODOTTO

Come nasce l’idea di quell’artefatto? In quale contesto culturale? Studio delle origini di un artefatto: è il
frutto di una mente geniale o di un processo complesso che coinvolge diversi attori, sia umani che non
umani?

Quali significati culturali vengono «codificati» durante il processo di produzione?

Quale cultura della produzione ha portato allo sviluppo di quello specifico artefatto? Come questa cultura
della produzione ha influenzato le scelte dei progettisti?

Il DESIGNER come «INTERMEDIARIO CULTURALE» (BOURDIEU 1984)

Intermediario culturale: Quella figura che nelle industrie creative e culturali crea/produce beni e servizi
SIMBOLICI e promuove il consumo di essi, attribuendo loro dei significati privilegiati.

I pubblicitari e i designer hanno ruoli differenti, ma si tratta, in entrambi i casi, di intermediari culturali.

- COME viene CONSUMATO

Il consumo di un artefatto culturale non è indifferenziato, né omogeneo. Così come le audience non
ricevono passivamente e non decodificano in maniera omogenea lo stesso messaggio (Hall, 1980), anche i
consumi culturali sono «socialmente strutturati». L’uso del walkman, ad esempio, era fortemente
strutturato per classi d’età.

Studiare il consumo in maniera «etnografica» (vedi lezioni successive): che tipo di significati vengono
associati dagli utenti a quell’artefatto?

Du Gay et al. (1997): il consumo è una pratica «produttiva», attiva. Il significato di un artefatto culturale è
sempre prodotto anche dai consumatori, non solo dai produttori. Il significato «codificato» nell’oggetto dai
produttori, i modi in cui ne rappresentano l’uso, possono essere «ri-significati» dagli utenti, che si possono
appropriare di quell’artefatto per altri fini, o investendolo di altri significati (es. delle sottoculture punk
hanno usato i beni di consumo come significanti di un processo attivo di costruzione di una identità
antagonista ai valori dominanti nella società britannica

Il consumatore come «bricoleur» (Michel de Certeau, 1984)

-QUALI meccanismi ne REGOLANO la sua distribuzione e il suo uso


Il Walkman come tecnologia «ambivalente», che mette insieme due dimensioni fino a quel momento
incompatibili: l’ascolto privato e la sfera pubblica. All’inizio, questa tecnologia non era compatibile con i
significati simbolici attribuiti comunemente allo spazio pubblico: cosa si può e non si può fare nello spazio
pubblico.

Il walkman era «trasgressivo» perché rompeva i confini tra ciò che era considerato un comportamento
appropriato nello spazio pubblico e ciò che non lo era. Altri comportamenti «inappropriati» nello spazio
pubblico? (baciarsi in pubblico, per certe persone anziane è orribile. Allattare un bambino in strada, per
altre è orribile).

Esistono dei meccanismi sociali più o meno impliciti che regolano i comportamenti sociali

Altro esempio: la diffusione di siti pirata all’inizio del 21° secolo: sanzione morale che ne limitava l’uso

Ogni artefatto culturale (sia materiale che “immateriale”) è un processo semiotico che attraversa queste 5
dimensioni. Gli artefatti culturali non sono stabili nel tempo, cambiano tantissimo, sono malleabili.

28/03

Contro il determinismo tecnologico: l’ascesa del costruttivismo sociale della tecnologia

Delle discipline, all’interno delle scienze sociali, che hanno iniziato a dialogare con i media studies,
nonostante all’inizio non avessero interesse per i media. Queste discipline aiutano a mettere in discussione
le “idee” del determinismo tecnologico.

Nel determinismo tecnologico, e tecnologie sono entità autonome che si sviluppano secondo una logica
intrinseca ad esse e che produce determinati impatti sulla società.

Quali sono queste discipline?

Science and Technology Studies (STS) [maggiori esponenti: Bijker and Law] Studia come la società, la
politica e la cultura influenzino la ricerca scientifica e l'innovazione tecnologica, e come queste, a loro volta,
influenzino la società, la politica e la cultura.

A noi interessano le discipline mediali queste si

Studiare quei fattori che influenzano la ricerca scientifica: fattori culturali, politici, ecc. La conoscenza è
sempre una costruzione sociale. Questo approccio mette in evidenza dei fattori che influenzano anche la
creazione di nuove tecnologie.
Nasce negli anni ‘90, come filiazione del campo della sociologia della conoscenza scientifica (SSK, Sociology
of Scientific Knowledge). Costruttivismo sociale: gli artefatti tecnologici sono socialmente «shaped»,
modellati. La conoscenza è una costruzione sociale

Critica gli «impatti sociali» delle tecnologie

Esprime una posizione anti-essenzialista: le tecnologie non possiedono proprietà intrinseche al di fuori del
lavoro interpretativo degli umani, che attribuiscono loro determinati significati culturali

Technologies do not have a momentum of their own at the outset that allows them...to pass through a
neutral social medium. Rather, they are subject to contingency as they pass from figurative hand to hand,
and so are shaped and reshaped. Sometimes they disappear altogether: no one felt moved, or was obliged,
to pass them on. At other times they take novel forms, or are subverted by users to be employed in ways
quite different from those for which they were originally intended (Bijker and Law 1992: 8)

Dal punto di vista teorico: contaminare gli studi sui media con i Science & Technology Studies (STS)

- Gli STS sono un area interdisciplinare, nata a partire dagli anni ‘70/’80 che studia il rapporto tra
scienza, società e tecnologie.
- Le tecnologie non sono il frutto di un processo lineare (che va dall’invenzione, alla
commercializzazione al consumo finale), ma sono il risultato di traiettorie più complesse di
costruzione sociale (fatte anche dai fallimenti).
- Le tecnologie non sono il risultato del (solo) lavoro di laboratori e ingegneri, ma nascono da un
processo di “costruzione sociale”… le tecnologie vengono “modellate socialmente”, si tratta di un
processo di “co-produzionec” tra società e tecnologie.
- Per comprendere come tecnologie e società sono connesse, bisogna analizzare in che modo i
dettagli tecnici delle tecnologie, a volte anche molto specifici, nascono da implicazioni sociali,
culturali, organizzative, etc.
Come gli STS possono contribuire allo studio dei media?

- Media studies come analisi testuale o del contenuto: cosa dicono i giornali e cosa si vede in TV.
- Meda studies come teorie o filosofie dei media (esempio Mcluhan) • Media studies come economia
politica dei media: chi possiede media, quali relazioni di potere nel sistema dei media.
- Media Media studies come studio delle pra:che e degli usi (Nick Couldry, l’etnografia dei media)
- STS ► Media studies come comprensione dei processi concreti: di creazione (e modificazione) dei
dispositivi, delle infrastrutture e degli aspettI tecnici e come ques: sono lega: a aspetti sociali e
organizzativi.
Gli STS aggiungono ai media studies.

- determinismo tecnologico;
- dal lato opposto abbiamo il costruttivismo
In mezzo a queste due posizioni ci sono delle sfumature:

Social Shaping of Technology (SST) [maggiori esponenti: McKenzie & Wajcman]


Il «mutual shaping» tra tecnologia e società

le funzioni specifiche di una data tecnologia sono legate a fattori sociali come le ideologie che informano il
suo design o la divisione del lavoro all'interno del quale è impiegata. Tuttavia, essi continuano a sostenere
che ci sono proprietà particolari delle tecnologie che hanno qualche tipo di effetto sociale.

Se la tecnologia non emerge da una logica predeterminata o da un singolo fattore determinante, allora
l'innovazione è un "giardino di sentieri che si biforcano". Sono disponibili diversi percorsi, che
potenzialmente portano a diversi risultati tecnologici. Significativamente, queste scelte potrebbero avere
implicazioni diverse per la società e per particolari gruppi sociali.

La SST è uno dei modelli del rapporto tecnologia-società emersi negli anni ‘80 attraverso l'influente libro di
MacKenzie e Wajcman del 1985, insieme alla costruzione sociale della tecnologia (SCOT) di Pinch e Bijker e
alla ANT di Callon e Latour. Questi hanno in comune la critica al modello lineare dell'innovazione e al
determinismo tecnologico. Si differenzia da questi in particolare per l'attenzione che presta all'influenza del
contesto sociale e tecnologico di sviluppo che modella le scelte di innovazione. La SST si preoccupa di
esplorare le conseguenze materiali delle diverse scelte tecniche, ma critica il determinismo tecnologico, che
sostiene che la tecnologia segue il proprio percorso di sviluppo, al di fuori delle influenze umane. In questo
modo, i teorici del social shaping concepiscono la relazione tra tecnologia e società come una relazione di
"mutuo modellamento".

Social Shaping of Technology (SST) [maggiori esponenti: McKenzie & Wajcman (1985)] Il «mutual shaping»
tra tecnologia e società

- Natura politica di ogni innovazione tecnologica


- La forma e le proprietà delle tecnologie riflettono e portano inscritte su di sé gli interessi sociali
dominanti (vedi più avanti esempio dei ponti verso Long Island)
- Gli approcci SST trattano le tecnologie come socialmente situate:
- le tecnologie sono prodotte e usate in particolari contesti sociali, e i processi di cambiamento
tecnologico sono intrinsecamente sociali piuttosto che essere semplicemente guidati da una logica
tecnica interna alla tecnologia
- il cambiamento tecnologico è sempre parte di una trasformazione sociotecnica (tecnologica +
sociale)
- la tecnologia e la società sono co-prodotti nello stesso processo.

Social Shaping of Technology (SST) [maggiori esponenti: McKenzie & Wajcman]

Il «mutual shaping» tra tecnologia e società

- Tecnologia e organizzazioni sociali, forme culturali, valori, identità, ecc. co-evolvono, sono
coprodotti o sono reciprocamente costitutivi. Il cambiamento tecnologico, quindi, è sempre parte
di una più ampia trasformazione socio-tecnica.
DIBATTITO IN CORSO (qui ci aiuterà il concetto di affordance, vedi più avanti) C'è un carattere
irriducibilmente tecnico negli artefatti? Come dovremmo concepire i limiti alla malleabilità delle forme
tecniche? Il testo non è infinitamente malleabile, ma viene letto seguendo la lettura preferita.

Social Construction of Technology (SCOT) [maggiori esponenti: Wiebe Bijker e Trevor Pinch] La costruzione
sociale della tecnologia (detta anche SCOT) è una teoria nell'ambito degli studi sulla scienza e la tecnologia.
I sostenitori della SCOT - cioè i costruttivisti sociali - sostengono che la tecnologia non determina l'azione
umana, ma che piuttosto è l'azione umana a dare forma alla tecnologia. I modi in cui una tecnologia viene
usata non possono essere compresi senza capire come quella tecnologia sia incorporata nel suo contesto
sociale. La SCOT è una risposta al determinismo tecnologico ed è anche conosciuto come costruttivismo
tecnologico.

La tecnologia è socialmente costruita. Il suo progresso dipende da diversi fattori sociali e gruppi sociali
rilevanti

La SCOT si basa sul lavoro fatto nella scuola costruttivista della sociologia della conoscenza scientifica, e
dialoga con la ANT (un ramo della sociologia della scienza e della tecnologia) e l'analisi storica dei sistemi
sociotecnici, come il lavoro dello storico Thomas P. Hughes

Flessibilità interpretativa: ogni artefatto tecnologico può assumere diversi significati e interpretazioni per
vari gruppi. Bijker e Pinch mostrano che lo pneumatico della bicicletta significava un modo di trasporto più
conveniente per alcune persone, mentre per altre significava fastidi tecnici, problemi di trazione e una
brutta estetica.

Gruppi sociali rilevanti: I gruppi rilevanti alla base della costruzione di una tecnologia sono gli utenti e i
produttori dell'artefatto tecnologico, ma molto spesso si possono delineare molti sottogruppi - utenti con
diverso status socioeconomico, produttori concorrenti, ecc. A volte ci sono gruppi rilevanti che non sono né
utenti, né produttori della tecnologia, per esempio, giornalisti, politici e attivisti. Trevor Pinch ha sostenuto
che anche chi si occupa di marketing dovrebbe essere incluso nello studio della tecnologia, perché il
marketing contribuisce alla formazione dell’immaginario. Anche attivisti, giornalisti.

Ci sono dei gruppi sociali rilevanti nella formazione…

«CLOSURE» Lo sviluppo di una tecnologia a un certo punto può stabilizzarsi e arrivare a una «chiusura».
Esistono due meccanismi di chiusura:

1) Chiusura retorica: quando i gruppi sociali vedono che il problema è stato risolto, il bisogno di progetti
alternativi diminuisce. Questo è spesso il risultato della pubblicità, che stabilizza il significato condiviso di
una tecnologia.

2) Ridefinizione del problema: Per esempio, i problemi estetici e tecnici del pneumatico ad aria diminuirono
quando la tecnologia avanzò fino al punto in cui le biciclette con pneumatici ad aria iniziarono a vincere le
gare ciclistiche. Gli pneumatici erano ancora considerati ingombranti e brutti, ma fornivano una soluzione al
"problema della velocità", e questo scavalcava le preoccupazioni precedenti.

La chiusura non è permanente. Nuovi gruppi sociali possono formarsi e reintrodurre flessibilità
interpretativa, causando un nuovo ciclo di dibattito o conflitto su una tecnologia. (Per esempio, alla fine del
19° secolo le automobili erano viste come l'alternativa "verde", una tecnologia più pulita ed ecologica, ai
veicoli a cavallo; negli anni ’60 del novecento invece, nuovi gruppi sociali avevano introdotto nuove
interpretazioni sugli effetti ambientali dell'automobile, arrivando alla conclusione opposta).
L’APPROCCIO DELL’ ACTOR-NETWORK THEORY ALLE AFFORDANCES – L’AGENCY DEGLI OGGETTI BRUNO
LATOUR (2005)

Le tecnologie sono concepite come una rete emergente e sempre più stabile di attori umani e non umani.

ANT - anche se non è un approccio coerente - sostiene che l'agency è distribuita e relazionale, e che anche i
non umani sono attori dotati di agency. Come suggerisce Latour, l'agency dei nonumani si riferisce ai modi
in cui "le cose potrebbero autorizzare, permettere, abilitare, incoraggiare, suggerire, influenzare, bloccare,
rendere possibile, proibire e così via" (2005: 72 enfasi aggiunta)

Importante perché mette in discussione il concetto di agency: la capacità dell’individuo di esprimere la


propria libertà, di fare qualcosa che vuole fare. L’agency diventa un discorso distribuito e razionale: quello
che io riesco a fare dipende anche da altre cose che non dipendono solo dall’individuo. Ci sono una serie di
agency degli attori in gioco: si coopera..

ANT (Actor Network Theory, Bruno Latour, Michel Callon, Law): Superare il determinismo tecnologico e il
determinismo sociale: interazione tra sociale e materiale, soggetti e tecnologia. Umani e tecnologie si
modellano a vicenda e sono inseriti in una stessa rete di relazioni Tutti i membri della rete sono considerati
«attanti». Più attanti formano un assemblaggio ibrido di attori umani e non umani. Es. un uomo con una
pistola è un attore-rete con un preciso «programma d’azione»

Es. Actor network di una classe?

Quali sono gli attanti che producono la rete di attori di una classe?

- studenti, professori, scrivanie, luci, termostati,…..sono tutti attanti che contribuiscono a modellare
la nostra esperienza della classe
- Le tecnologie influenzano, ma non determinano i comportamenti umani
- Le persone e le cose sono parte integrante di un tutto inestricabile
- Limite dell’ANT: trattamento simmetrico degli attanti, senza la possibilità di individuare quali nodi
della rete hanno più influenza, sono più importanti. Manca una riflessione sui rapporti di POTERE
tra gli attanti, sulle relazioni a-simmetriche tra gli attanti

La tecnologia è relazioni sociali cristalizzate dentro un artefatto tecnologico.


«DO ARTIFACTS HAVE POLITICS?» – un classico dello studioso STS Langdon Winner (1981)

Analizza la pianificazione urbana di New York e si concentra sui ponti presenti lungo l’autostrada che porta
a Long Island. L’autostrada fu progettata da Robert Moses, famoso urbanista che negli anni 50-70
riprogettò New York in funzione di una modernità «motorizzata». L’altezza dei ponti sopra l’autostrada fu
progettata da Moses appositamente per non permettere agli autobus pubblici di poterci passare sotto, con
l’intenzione manifesta di precludere agli strati popolari di New York, che non disponevano di un’auto, di
accedere alle spiagge della classe media e medio-alta di Long Island. Le «affordance» dei punti lungo
l’autostrada non permettevano alle classi svantaggiate di accedere alle spiagge. I ponti erano tecnologie
che portavano inscritte nella loro forma una precisa volontà politica, così come le panchine delle città
contemporanee, disegnate per evitare che i senza tetto le trasformino nei loro letti notturni. Cosiddette
forme di architettura «ostile». Le tecnologie codificano rapporti di potere che producono determinati effetti
sociali Sì, gli artefatti hanno conseguenze politiche e sociali

IL LINK tra determinismo tecnologico e costruttivismo sociale:

le «Affordances» della tecnologia, una parola chiave per la sociologia dei media

C’è un concetto chiave in psicologia, design e sociologia: le affonrdances tiene insieme sia il determinismo
tecnologico sia il costruttivismo.

31/03

Genealogia del concetto di affordance della tecnologia: in modo da unire i poli del determinismo
tecnologico e costruttivismo sociale, ne rappresenta un link per comprendere sia l’aspetto materiale e di
impatto delle tecnologie nelle società.
Gli artefatti incorporano dentro di sè una visione politica. In linea con quanto detto da Latour “la tecnologia
incorpora i valori sociali di chi le ha prodotte”

il ponte basso incorpora determinate visioni della società. Il ponte ha una sua agency, incorporata da chi
l'ha prodotto, in questo modo vincola l’azione umana.

Affordance: una qualità dell'oggetto che comunica il modo in cui questo oggetto deve essere usato. Un
invito all’uso delle tecnologie in un certo modo. Vincolano a fare delle cose con quell’oggetto e non altre.

Varie discipline danno vari contributi all’utilizzo di questo termine.

Potrebbe rimandarci al concetto di codifica. Giornalisti ecc, incorporano la lettura preferita del testo
fornendo una lettura preferita. Breaking Bad: la storia di una persona buona che diventa un cattivo. Una
decodifica oppositiva magari da un europeo: la storia del servizio sanitario americano che costringe
qualcuno ha trovare un modo per pagarsi le cure.

Le persone possono decodificare il testo in maniera differente.

1. Gibson 1979 – Un approccio ecologico alla percezione visiva (psicologia ecologica)

Il concetto di affordance è stato originariamente concepito in psicologia ecologica da James Gibson per
designare tutti i tipi di possibilità d'azione latenti nell'ambiente fisico (e di come le persone lo percepiscono
e percepiscono si possa fare). Gibson ha usato per la prima volta il concetto di affordance per riferirsi a un
tipo specifico di relazione tra un animale e l'ambiente. Per Gibson, "l’afforndance dell'ambiente è ciò che
questo offre all'animale, ciò che fornisce" (2015: 119 enfasi in originale). Una roccia offre al ghepardo la
possibilità di arrampicarsi.

Anche se questa definizione sembra privilegiare ciò che specifiche proprietà ambientali hanno da offrire a
un animale, Gibson sottolinea anche che le affordances sono da intendersi come una proprietà relazionale:
"Intendo con questo qualcosa che si riferisce sia all'ambiente che all'animale in un modo che nessun
termine esistente fa" (2015: 119). L'obiettivo di Gibson era quello di proporre una teoria della percezione
visiva basata sui modi in cui le diverse specie abitano l'ambiente circostante. Nel suo fondamentale libro
L'approccio ecologico alla percezione visiva Gibson affronta la questione del "come vediamo". Gibson era
interessato a esplorare come "vediamo l'ambiente che ci circonda", in particolare in termini di come "ne
vediamo le superfici, la loro disposizione, i colori e le texture" (2015: xiii).

“Il fuoco, ad esempio, offre calore, illuminazione e cottura, ma allo stesso tempo può anche causare danni
alla pelle. Ciò che delimita il calore dalle lesioni non è sempre chiaro e dipende dalla capacità dell’animale
di rilevare il limite”.

Il calore è un affordance del fuoco, l’effetto che ha con la persona o l’animale dipende dalla relazione,
dall’agency che la persone ha nei suoi confronti.
Ciò che il fuoco offre, quindi, non è solo una questione di proprietà fisiche, ma di relazione con un
organismo specifico. Come suggerisce Gibson, le AFFORDANCES "devono essere misurate in relazione
all'animale" (2015: 120). Ciò non significa, tuttavia, che le AFFORDANCES siano indefinite. Per Gibson le
affordance sono invariabili, nel senso che "non cambiano al variare delle esigenze dell'osservatore".
L'osservatore può o non può percepire o assistere all'affordance, a seconda delle sue esigenze, ma
l'affordance, essendo invariante, è sempre lì per essere percepita".

Il concetto di affordance non implica che si possa fare qualsiasi cosa con un oggetto o una tecnologia, in
quanto "diversi layout permettono diversi comportamenti per diversi animali [...] L'altezza di un ginocchio
per un bambino non è la stessa per un adulto, quindi l'affordance è relativa alle dimensioni dell'individuo"
(2015: 120). Come ha detto Gibson, "l'affordance non provoca un comportamento, ma lo vincola e lo
controlla".

2. Donald Norman – la psicologia degli oggetti quotidiani (1988) e Il design degli oggetti quotidiani (1990):
trasla il concetto dalla psicologia al design, proponendo una nuova prospettiva di analisi per gli artefatti,
proponendo una sensibilità maggiore a questi e a quello che riguardano.

Norman ha definito le affordance come "le proprietà, sia percepite che reali, di un oggetto, in primo luogo
quelle proprietà fondamentali che determinano come un oggetto può essere utilizzato" (1988: 9). Scrivendo
nel contesto specifico della scienza cognitiva e del design, l'obiettivo di Norman era quello di esplorare la
relazione tra la cognizione umana e il design dei dispositivi e delle cose di tutti i giorni. Come scienziato
cognitivo, Norman era interessato a come funziona la mente umana, soprattutto in termini di errori umani,
volendo insegnare alle persone come evitare di commettere errori.

Norman propone il concetto di PERCEIVED AFFORDANCES (1990: 9, 1999a: 38) per suggerire che i
progettisti possono e devono "indicare come l'utente deve interagire con il dispositivo" (1990: 8). Come
sostiene Norman, "le affordance forniscono forti indizi sul funzionamento delle cose [...] Le manopole
servono per girare [...] Le palle servono per essere rilanciate o fatte rimbalzare.

Sono degli indizi per il funzionamento delle cose. L’enfasi viene posta sui progettisti.

Oggetti mal progettati causerebbero problemi inutili ai loro utenti. Con Norman, il concetto di affordance è
stato modificato rispetto all'approccio relazionale di Gibson per soddisfare gli interessi del design,
suggerendo che gli artefatti potrebbero essere progettati per orientare l’utente verso determinate forme di
utilizzo attraverso la nozione di "affordance percepite" (1990: 9). La questione non è più come gli organismi
vedono, come nel lavoro di Gibson, ma piuttosto come certi oggetti possano essere progettati per
incoraggiare o limitare azioni specifiche.

3. William Gaver 1991 – Technology Affordance – Human-Computer Interaction Come suggerisce William
Gaver, "le affordance sono principalmente fatti che riguardano l'azione e l'interazione, non la percezione"
(1996: 114). Per esempio, "quando si girano le maniglie della porta, il suono del chiavistello può rivelare che
la porta permette di essere aperta" (Gaver, 1991: 82-83). Per Gaver, le affordances non sono solo in attesa
di essere percepite, ma sono lì per essere esplorate attivamente. Basandosi sul modello relazionale delle
affordance di Gibson, Gaver ha contribuito ad una delle prime esplorazioni approfondite delle affordance
nel campo dell'HCI con il suo lavoro 'Technology Affordances' (Gaver, 1991; McGrenere e Ho, 2000).
Secondo Gaver, le affordances "sono proprietà del mondo definite in funzione dell'interazione delle
persone con esso" (1991: 80). Ciò implica «la complementarietà dell'organismo che agisce e dell'ambiente
che subisce l’azione" (1991: 80). Come esemplifica Gaver: "se un manico con particolari dimensioni può
permettersi di essere afferrato dipende dall'altezza dell'afferratore, dalle dimensioni della mano, ecc. Allo
stesso modo, una porta per gatti permette il passaggio a un gatto ma non a me" (1991: 80)

Gaver distingue una separazione tra le affordances e le informazioni percettive disponibili su di esse,
suggerendo che le affordances possono essere sia PERCEIVED che HIDDEN, nascoste (1991: 80). In
quest'ultimo caso, le affordance non sono visibili ma devono essere dedotte, possibilmente attraverso la
sperimentazione e altre azioni che rendono visibili le affordance. Nel caso di un'interfaccia grafica per
computer, ad esempio, un'affordance nascosta potrebbe essere rivelata dall'azione del mouse.

sia informazioni chiave ed evidenti; sia informazioni nascoste.

Scrivendo sulle caratteristiche materiali della tecnologia, Gaver specula sulle differenze tra i media cartacei
ed elettronici, sostenendo che le diverse affordance di questi due media possono avere molti effetti sulle
convenzioni sociali che li circondano. Contemplando il ruolo della posta elettronica, Gaver descrive come il
passaggio dal doppino telefonico alla banda larga ha cambiato radicalmente l'uso e la cultura della posta
elettronica. Le proprietà dei sistemi di posta elettronica possono non determinare le comunità che alla fine
si formano intorno a loro", suggerisce Gaver, "ma limitano fortemente le culture che potrebbero
svilupparsi" (1996: 120). Anche se Gaver si assicura di prendere le distanze dalle accuse di determinismo
tecnologico, il termine technology affordances stabilisce le qualità materiali della tecnologia come (in parte)
costitutive della socialità Gaver si concentra sulla scoperta dei complessi fattori ambientali che danno forma
all'interazione sociale" (1996: 125)

TECHNOLOGY AFFORDS (=enable/constrain) SOCIALITY? LA TECNOLOGIA ORIENTA (abilita/ vincola) LO


SVILUPPO DELLA SOCIALITA’? Facciamo alcuni esempi

- le app di dating presentano agli utenti un formato attraverso il quale esercitare un certo tipo di
relazioni (affettive). Tinder lo possiamo interpretare come un artefatto che ha una sua materialità
che presenta delle affordance, ci permette di fare qualcosa e altre no. In alcuni casi vincola la
possibilità di entrare in socialità.

Le affordances abilitano la società (permettendo di conoscere persone provenienti da cerchie sociali


differenti) ma vincolano anche il modo in cui costruiamo relazioni sociali.

4. Ian Hutchby – COMMUNICATIVE AFFORDANCE (2005)

Campo delle scienze sociali. Tipica di molte delle suddette concettualizzazioni delle affordances è la
questione di come la tecnologia e la società si relazionano. Per il sociologo Ian Hutchby (2001a, 2001b) il
termine affordance fornisce un modo per andare oltre l'ingenuo determinismo tecnologico e il rigido
costruttivismo sociale.
Pensa che le affordances è l’elemento che possa congiungere il determinismo tecnologico e il
costruttivismo sociale. Un concetto che mette in relazione la materialità dei media e l’azione umana,
L’autonomia dell’azione umana (agency)

Hutchby suggerisce che LA AFFORDANCE fornisce un termine a metà strada, che tiene conto sia del modo in
cui le tecnologie sono socialmente costruite e situate da un lato, sia del modo in cui sono materialmente
vincolanti e abilitanti dall'altro. In particolare, Hutchby sviluppa il concetto di 'affordance comunicativa'
riferendosi alle 'possibilità di azione che emergono da [...] date forme tecnologiche' (2001a: 30). Questa
definizione sottolinea come le affordance siano sia FUNZIONALI che RELAZIONALI; "funzionali nel senso che
sono abilitanti, oltre che costrittive" e relazionali in termini di richiamare "l'attenzione sul modo in cui le
affordance di un oggetto possono essere diverse per una specie rispetto a un'altra" (Hutchby e Barnett,
2005: 151 enfasi nell'originale). Per Hutchby, il concetto di affordance comunicativa è meglio inteso come
parte delle azioni ordinarie. Mentre Gibson una volta ha osservato che "l’affordance di una superficie esiste
indipendentemente dal fatto che l'animale ci cammini o meno", Hutchby e Barnett pensano che "è tuttavia
vero che l’affordance della superficie si manifesta quando l'animale ci cammina sopra" (2005: 152).

Il termine affordance comunicative è stato usato soprattutto nella ricerca sui mobile media (Boase, 2008;
Helles, 2013; Hutchby e Barnett, 2005) come un modo per descrivere come i dispositivi mobili "alterano le
pratiche o le abitudini comunicative" (Schrock, 2015: 1232). In termini di mobilità o portabilità, Helles
suggerisce utilmente che "l'affordance centrale dei telefoni cellulari non è la mobilità del dispositivo in sé,
ma piuttosto il fatto che l'utente diventa un terminale mobile per l'interazione comunicativa mediata,
attraverso i vari contesti della vita quotidiana" (2013: 14). Come ha dimostrato Humphreys (2005) nel suo
lavoro sull'uso del cellulare in pubblico, la gamma di contesti sociali in cui la comunicazione mobile si svolge
permette (AFFORDS/ENABLE) nuove forme di identità sociale, così come la modifica dei codici taciti delle
interazioni sociali.

Come sostiene danah boyd nel suo lavoro sui siti di social network come forma di networked publics
(pubblici in rete, 2011: 39), questi siti sono essenzialmente modellati da quattro fattori centrali: persistenza,
replicabilità, scalabilità (perché viene condiviso) e ricercabilità (2011: 46). Per Boyd, queste affordances di
alto livello dei SN strutturano le azioni degli utenti in questi ambienti (2011: 39-40).Ma questa idea è stata
messa in discussione da alcuni antropologi.

5. NAGY & NEFF 2015 – IMAGINED AFFORDANCES Nonostante la popolarità e l'uso diffuso del termine nella
ricerca sui social media, i recenti contributi alla letteratura sulle affordances esprimono la necessità di dare
definizioni più precise e sfumate del termine, proponendo vari concetti aggiuntivi per tenere meglio conto
delle complesse relazioni tra tecnologia e socialità (cfr. Ilten, 2015; McVeigh-Schultz e Baym, 2015; Nagy e
Neff, 2015). Nagy e Neff, per esempio, hanno introdotto il concetto di 'affordance immaginata' come 'una
teoria che incorpora meglio gli aspetti materiali, mediati ed emotivi dell'interazione uomo-tecnologia'
(2015: 2). Le Imagined affordances, sostengono Nagy e Neff, "emergono tra le percezioni, gli atteggiamenti
e le aspettative degli utenti; tra la materialità e la funzionalità delle tecnologie; e tra le intenzioni e le
percezioni dei progettisti" (2015: 5). Per Nagy e Neff le "vecchie" nozioni di affordance non riescono ad
affrontare la complessità dei processi cognitivi ed emotivi. La semplice individuazione delle possibilità
d'azione di una piattaforma di social media in un insieme di funzionalità non è sufficiente, sostengono,
perché le percezioni, le credenze e le aspettative degli utenti su ciò che la tecnologia fa o ciò che la
piattaforma sembra suggerire "danno forma al loro approccio e alle azioni che pensano siano suggerite"
(2015: 5).

I sistemi di raccomandazione (stringhe di codici di algoritmi che lavorano insieme) è un artefatto, il lavoro di
decine di specialisti. ma non sappiamo come funzionano Quindi si parla di affordance immaginaria, ipotizzo
che funzionano in un certo modo, non sapendo come funzionano davvero.

Come sostiene Bucher (2016) nella sua ricerca sulla comprensione e la percezione degli algoritmi da parte
degli utenti delle piattaforme dei social media, i modi in cui gli utenti immaginano e si aspettano
determinate affordance algoritmiche, influenzano il loro approccio a queste piattaforme. Le caratteristiche
di feedback-loop dei sistemi di machine learning come Facebook rendono le credenze degli utenti una
componente importante nel plasmare il comportamento complessivo del sistema, in quanto l'attività
dell'utente finale è generativa del sistema stesso.Perché se io nei confronti delle raccomandazioni mi
comporto in funzione della mia teoria (che sia vero o no: es pubblicando le mie canzoni solo di venerdì,
perché credo sia più efficace) sto dando degli input che alimentano l’algoritmo. Un sistema in cui l’output
diventa input.

6. VERNACULAR AFFORDANCES – MC-VEIGH-SCHULTZ & BAYM (2015) Queste concezioni sono focalizzate
più sugli utenti, come questi concettualizzano/decodificano le proprietà dell’artefatto (l’affordances).

In modo simile, McVeigh-Schultz e Baym (2015) suggeriscono di collegare la materialità delle piattaforme
dei social media ai processi di creazione di senso degli utenti nel concettualizzare le affordance.
Sviluppando il concetto di 'affordance vernacolare', McVeigh-Schultz e Baym sottolineano 'come le persone
stesse comprendono l'affordance nei loro incontri con la tecnologia' (2015: 1). Anziché i ricercatori o i
progettisti che assegnano le affordance ai social media, esse derivano le affordance dagli utenti che
discutono di come si confrontano con la tecnologia. Una prospettiva del genere, affermano, deriva le
affordance da un resoconto più "vernacolare" degli utenti stessi, che possono enfatizzare diversi aspetti
delle possibilità di azione di una piattaforma.

L’uso che faccia delle caratteristiche intrinseche dell’artefatto non sono costruiti a priori.

7. AFFORDANCES IN PRACTICE – ELISABETTA COSTA 2018 Articolo di Elisabetta Costa – «Affordances in


practice» (lo trovate in Moodle nella lista degli articoli da scegliere) Gli studiosi dei media hanno
ampiamente discusso gli effetti dei social media in termini di collasso del contesto (tra gli altri, vedi Marvin,
2013; Marwick e boyd, 2011; Marwick e Ellison, 2012; Vitak, 2012; Wesch, 2008, 2009), visto come il
collasso di diversi contesti l'uno sull'altro (Wesch, 2009). Il concetto trae spunto dall'argomentazione di
Erving Goffman (1959) secondo cui le persone presentano immagini diverse di se stesse a pubblici diversi in
contesti sociali diversi.
«Il crollo del contesto, infatti, è stato ritratto come conseguenza delle affordances delle piattaforme,
definite come le proprietà di un ambiente che rendono possibile e facilitano alcune tipologie di pratiche
(boyd, 2014). Secondo Marwick e boyd (2011), il collasso dei contesti sociali che erano precedentemente
segmentati nel mondo offline è una conseguenza delle affordances dei social media, come la persistenza, la
visibilità, la spreadability e la ricercabilità. In questo articolo, sostengo che il concetto di affordance è stato
spesso utilizzato per descrivere modelli di utilizzo situati in particolari contesti sociali anglo-americani, come
se fossero proprietà stabili di una piattaforma. Al contrario, le mie scoperte sostengono una prospettiva che
vede i social media come un insieme di pratiche che non possono essere definite a priori, e non sono
predeterminate al di fuori delle loro azioni e abitudini d'uso quotidiane» (Costa, 2018)

Le piattaforme non invitano a differenziare gli amici, dividendono il contesto. Mentre Costa con la sua
ricerca ha visto come persone (sia maschi, che femmine, che giovani) avevano più profili che permettessero
loro di dar spazio a tutte le loro “personalità” (quella con i propri genitori; con gli amici; con probabili
partner ecc).

Il modello di trasparenza radicale di Mark Zuckerberg (Kirkpatrick, 2011) ha incoraggiato le persone ad


avere una sola identità online. Zuck ha scritto che: "I giorni in cui tu hai un'immagine diversa per i tuoi amici
o colleghi di lavoro e per le altre persone sai che probabilmente stanno per finire abbastanza rapidamente"
(Kirkpatrick, 2011: 199). La piattaforma di Facebook è stata progettata per essere pubblica di default, ma i
Mardiniti se ne sono appropriati in modo tale che i diversi contesti sociali sono stati rigorosamente tenuti
distanti. Integrando i social media nella loro vita quotidiana, i Mardiniti hanno prodotto modelli di utilizzo
che riproducono i confini tradizionali tra i diversi contesti sociali che esistono nel mondo offline. Il pubblico
immaginato a cui si riferiscono i Mardiniti sulle loro pagine pubbliche non è diverso da quello presente ai
matrimoni, che per molti anni è stato l'unico evento pubblico in cui donne e uomini si potevano incontrare,
e dove si riuniscono diverse famiglie allargate e reti di amici.

«Le tecnologie dei social media non sono neutrali e contribuiscono a plasmare le interazioni sociali e le
comunicazioni, ma gli utenti se ne appropriano attivamente e adattano le tecnologie digitali per riflettere
meglio i propri bisogni. Di conseguenza, le affordances prendono forma solo attraverso specifiche
circostanze materiali, sociali e culturali (Davis e Chouinard, 2017). Tuttavia, negli studi sui social media,
l’autonomia degli utenti (AGENCY) è stata spesso trascurata (Chambers, 2017). Nei miei dati etnografici c’è
la prova che le persone utilizzano la piattaforma in modi creativi e attivi, che sia i designer che gli studiosi
dei social media non avevano previsto.» (Costa 2018)

Nella realtà, ci dice Goffman, ci presentiamo in maniera diversa a seconda dei contesti sociali: ad un
matrimonio, a scuola, in una discoteca, in un bar, in chiesa, in un ufficio comunale, al supermercato, in
vacanza in un albergo, offriamo agli altri versioni diverse del nostro sé, adeguate al contesto in cui siamo.
Nella realtà, cerchiamo di tenere separati i contesti e cambiamo comportamento a seconda del contesto in
cui siamo. Cerchiamo di tenere separate anche le nostre cerchie sociali: forse non ci comportiamo allo
stesso modo quando siamo fuori con i nostri amici delle elementari o superiori e quando invece
incontriamo i nuovi amici dell'università, giusto? E non vorremmo che queste due diverse cerchie sociali si
incontrassero, perché a entrambe offriamo una versione di noi leggermente modificata, più adatta a quel
contesto, non meno o più autentica, ma semplicemente più adatta a quel contesto. Goffman direbbe che
"performiamo" un ruolo diverso per "audience" differenti. Quando invece siamo dentro l'ambiente di un
social network, come Facebook, la presentazione del sé non riesce a distinguere tra i contesti sociali
differenti a cui apparteniamo. I contesti "collassano" uno sull'altro: gli amici delle medie, i miei genitori, i
nuovi amici dell'università, gli amici del lavoro, gli amici della palestra, che offline rappresentano tutti
audience separate, online stanno tutti insieme e assistono allo stesso "spettacolo", alla stessa
"performance". Questo perché le "affordances" di Facebook non ci permettono di distinguere in maniera
raffinata le audience a cui voglio rivolgere uno specifico post. Certo, Facebook ha poi fatto dei cambiamenti,
e possiamo distinguere tra "tutti" o "amici" o "amici di amici" o inserire nomi di persone che vogliamo
escludere da un nostro post, ma sono accorgimenti limitati che rallentano l'atto della condivisione. Inoltre
Facebook ci invita a dare al nostro account il nostro nome reale e a completare il nostro profilo con
informazioni reali. La Costa ha invece osservato tra i giovani abitanti del villaggio turco, in un contesto
culturale differente, un comportamento su Facebook che "forzava" i limiti delle affordances di Facebook,
aggirandole nella pratica: i giovani si creavano molti profili falsi, oltre a quello "ufficiale", per tenere
separati i contesti sociali, cioè per evitare che i genitori o i parenti vedessero quello che postavano su questi
profili fake. la famiglia pensava che avessero un solo profilo, quello pubblico. il fatto che qualcuno, in
un'altra cultura, riesca a mantenere i contesti sociali separati, anche online, dimostra che il context collapse
è un'affordance che può essere "modellata" dalla pratica degli utenti, per questo Costa parla di "affordance
in practice", che è molto distante dall'idea di Gibson che le affordance sono "invarianti", non dipendono da
chi ne fa uso.

L'evidenza etnografica richiede una riconsiderazione del concetto di affordance. «Basandomi sul concetto di
"technologies-in-practice" di Orlikowski (2000), propongo il concetto di affordances-in-practice,
l’interpretazione di proprietà della piattaforma da parte degli utenti in specifici contesti sociali e culturali.
Orlikowski si basa sulla nozione di struttura di Giddens (1979, 1984) per focalizzare l'attenzione sul modo in
cui viene adottata una tecnologia, e sul lavoro degli esseri umani che attraverso le loro pratiche sociali
producono e costituiscono le strutture della tecnologia (Orlikowski, 2000: 407). Allo stesso modo, le
affordances dei social media sono il risultato delle ripetute interazioni tra gli esseri umani e le piattaforme.
In quanto tali, non sono proprietà fisse e stabili, ma sono implicate in diversi processi costitutivi, che
possono variare radicalmente da un contesto sociale e culturale all'altro.» (Costa, 2018) «Affordances-in-
practice» sottolinea l'idea che le affordances non sono proprietà intrinseche che possono essere definite al
di fuori del loro contesto d'uso, ma interpretazioni temporanee da parte di utenti specifici che possono
variare nello spazio e nel tempo.

è la spiegazione più radicale.


Il concetto di affordance è diventato utile negli studi della comunicazione perché gli studiosi non hanno
ancora spinto la teoria oltre i "determinismi" (Lievrouw, 2014).

Ma non può andare oltre all’idea della razionalità.

Gibson (1986) e in qualche misura gli studiosi di design che lo hanno seguito hanno riconosciuto
l’ambivalenza del concetto di affordance come "entrambi/ nessuno dei due": «Un fatto importante sulle
affordance dell'ambiente è che esse sono in un certo senso oggettive, reali e fisiche, a differenza dei valori e
dei significati, che spesso si suppone siano soggettivi, fenomenici e mentali. Ma, in realtà, un affordance
non è né una proprietà oggettiva né una proprietà soggettiva; o lo è entrambi, se si vuole. . . È ugualmente
un fatto dell'ambiente e un fatto del comportamento. È sia fisica che psichica, eppure nessuna delle due
cose. Un'affordance punta in entrambi i sensi, all'ambiente e all'osservatore. (p. 129) Nella traduzione dagli
studi psicologici agli studi sociologici si è persa questa idea di affordance come doppia valenza, sia
ambientale che percettiva, sia concettuale che immaginata. (Nagy & Neff 2015)

“Come gli artefatti tecnologici permettono l’azione” di Jenny L. Davis si chiede come gli artefatti
permettono l’azione umana.

Le varie concezioni affrontano aspetti diversi, ma ognuna è d’accordo nel confermare l’importanza della
relazionalità

le strutture sociali sono duali: contemporaneamente abilitano e vincolano l’azione umana. Il rapporto tra
agency e society (il più grande dibattito della sociologia) fornisce una sintesi, si modellano a vicenda.

Concetto di gradiente.

Davis inizia indicando le critiche:

- Mancanza di una definizione condivisa


- Formulazione binaria delle definizioni: gli oggetti o invitano a certe azioni oppure non invitano a
certe azioni. Un affordance o è presente o è assente in una tecnologia. Non esistono gradienti. Non
considerano i gradienti
- Le affordance sarebbero inerti. I soggetti sarebbero descritti in maniera troppo statica e non in
relazione dinamica con le affordance.
Davis risponde alle critiche mosse alle affordances in quanto concetto binario (presente/assente)
sostenendo che non bisogna chiedersi WHAT artifacts afford ma HOW artifacts afford. Questa domanda
permette di dare conto della gradualità del concetto di affordance. Le tecnologie, secondo Davis,
permettono azioni in gradi differenti. Cambiare in questo modo la domanda precedente, ci permette di
riconfigurare le affordances come un continuum dinamico invece che un concetto statico e binario. Davis
suggerisce quindi un CONTINUUM in cui gli artefatti tecnologici non permettono o permettono (logica
binaria) una certa azione ma:

L’abilitazione o il vincolo l’azione può essere più inteso o debole.

Es: un progettista deve comunicare pubblicamente che c’è una zona x le persone non possono passare e
deve crearne un artefatto.
Fa una differenza semantica tra

RICHIESTE E DOMANDE Guidano l’utente in alcune direzioni, enfatizzando un particolare set di azioni, de-
enfatizzandone altre. Le richieste invitano l’utente a preferire alcune linee di azioni, mentre le domande
non offrono alternative: «se non paghi l’abbonamento, non leggi il Corriere.it» Anche se le domande di una
tecnologia esercitano maggiore potere sugli utenti rispetto alle richieste, non sono deterministiche. Un
utente può sempre rifiutarsi di usarle o sovvertire/hackerare quella tecnologia.

INCORAGGIARE/SCORAGGIARE Es. di Twitter Twitter scoraggia i testi più lunghi di 280 caratteri, ma gli
utenti possono comunque aggirare questo invito alla brevità producendo un «thread» numerato di più
tweet o allegando a un tweet un’immagine che contiene un testo lungo Una tecnologia invece si RIFIUTA di
permettere un’azione a un utente: i ponti di Moses si rifiutano di far passare gli autobus. Uno schermo
televisivo si rifiuta di produrre un output se toccato, perché non è uno schermo «touch». Potremmo dire
che Twitter si rifiuta di accettare testi superiori ai 280 caratteri, non permettendo di pubblicare testi se
eccedono questo limite.

Nel rapporto tra artefatto e agency umana, nella relazione conflittuale a volte l’artefatto può avere più
potere imponendo la propria linea di azione e quindi di farti fare una certa cosa (es: l’ultimo tipo di chiavi).

I frullatori multi-velocità PERMETTONO di graduare il livello di missaggio degli ingredienti. le luci dimmerate
PERMETTONO di bilanciare i gradi di luce e oscurità in una stanza.

Twitter, Instagram, Snapchat RICHIEDONO agli utenti di condividere contenuti, li INCORAGGIANO a


connettersi con altri utenti, PERMETTONO loro di scegliersi qualsiasi nome preferiscono. Mentre Facebook
RICHIEDE agli utenti di mostrare il proprio nome. Differenti artefatti tecnologici (Twitter, Facebook,
Instagram) richiedono e permettono differenti azioni, a seconda delle POLITICHE adottate dalle
piattaforme.

ARTIFACTS HAVE POLITICS! (le tecnologie non sono mai neutrali, non sono buone o cattive a seconda
dell’uso che ne facciamo)

Meccanismi delle affordance: come un artefatto permette l’azione? I meccanis,i delle affordances sono
indissolubili dalle condizioni sociali e strutturali in cui vengono fruite dagli utenti.

Condizioni delle affordance: per chi e in quali circostanze?

Percezione

Destrezza

Legittimazione culturale e istituzionale

Alla domanda «come questo artefatto permette l’azione» AGGIUNGIAMO: «PER CHI E IN QUALI
CIRCOSTANZE?» La stessa tecnologia può permettere un’azione a un certo individuo, ma rifiutarla ad un
altro: le tecnologie non permettono la stessa azione a tutti: il ponte di Moses permette il passaggio ai
possessori di automobili e lo rifiuta a chi può muoversi solo in autobus.

Percezione: affordances immaginate. Non tutti abbiamo la stessa percezione di ciò che possiamo fare o non
fare con un artefatto tecnologico. Un hacker può fare molte più cose di noi con lo stesso oggetto (un
computer)

Destrezza: le azioni permesse da una tecnologia dipendono anche dalle nostre capacità fisiche e cognitive di
mettere in pratica le funzioni di un oggetto.
Es.: le scale - una tecnologia che INCORAGGIA a salire. Eppure, le scale implicano una certa destrezza fisica.
Gli scalini che un adulto sale con facilità potrebbero essere troppo alti per un bambino. Un sito web fatto di
immagini potrebbe essere impossibile da fruire per una persona non vedente

Legittimazione culturale e istituzionale: Le norme sociali e culturali codificate in un oggetto permetttono


differenti tipi di azione agli individui: Es. del nastro «no trespassing» dei film americani: è un confine che
non può essere oltrepassato dai cittadini, ma i poliziotti possono comodamente oltrepassarlo. Oppure il
confine doganale di un aeroporto: i turisti possono oltrepassarlo, i migranti no.

Altro esempio: il telecomando in famiglia: il padre può usarlo, la madre può usarlo, ma i figli piccoli no.

Altro esempio: i social media non permettono a TUTTI di allargare il proprio capitale sociale: ricerche
empiriche tra le popolazioni a basso reddito afro-americane delle città statunitensi hanno mostrato come i
social media, invece di PERMETTERE l’incremento del proprio capitale sociale, sono luoghi di sorveglianza e
pericolo, sono sottoposti a furti di immagini, revenge-porn e critiche violente che sfociano in risse e questo
ha come conseguenza una maggiore autolimitazione a pubblicare contenuti.

Le relazioni tra umani e tecnologie sono sempre socialmente situate.

RICORDARE LE DINAMICHE SOCIALI DELLE TECNOLOGIE (es. tratto dalla tesi di Piras – «una questione di
capitale (sociale)»

03/04

L’etnografia dei media: Un metodo qualitativo di raccolta dati, molto usato per lo studio dei media, viene
preso dall’antropologia e applicato in molti altri studi (anche nel design).

Nel nostro caso si tratta di un approccio qualitativo per studiare i luoghi e gli spazi dei media e della loro
ricezione. è stato applicato per lo studio sul campo delle pratiche culturali legate allo studio televisivo. C’è
una lunga tradizione dell’etnografia dei media, sia nel campo della ricezione sia nel campo della produzione
(tutto quello che precede il testo mediale). Ancje applicabile allo studio degli artefatti tecnologici.

La nascita dell’etnografia: Malinowski nel 1922 applicò questo metodo nel suo studio della popolazione
degli argonauti del Pacifico Occidentale, in cui sostiene che questo metodo permette di “Afferrare il punto
di vista dei soggetti osservati, nell’interezza delle loro relazioni quotidiane, per comprendere la loro
visione del mondo”.

Con tutte le evoluzioni che ci sono state, questa affermazione rimane ancora valida sotto alcuni aspetti.
ancora oggi validi. All’etnografo non interessa misurare in maniera quantitativa gli effetti dei media sulla
società, interessa studiare il punto di vista degli attori coinvolti. Anche gli studiosi di media sono interessati
a capire cosa le persone fanno con i media e quali significati culturali attribuiscono a questi, ecco perché
sono interessati a questa tecnica.
Quindi l’etnografia studia i valori e i significati culturali che le persone attribuiscono al mondo circostante.

Malinowski suggerisce anche dei metodi:

Delimitazione di un campo della ricerca (all’epoca si trattava di qualsiasi popolazione etnica specifica, una
realtà altra da avere dei confini limitati);

osservazione partecipante: tecnica principale dell’etnografia (anche se ormai è diventata un insieme di


tecniche, ma la principale rimane questa, altrimenti non esisterebbe etnografia), il ricercatore si immerge
nell’ambiente che vuole studiare.

Accanto a questo metodo, ce ne sono anche altri come l’intervista qualitativa (conversazione con i soggetti,
un metodo di raccolta classimo) detta anche intervista semi-strutturata, perché non prevede una sorta di
struttura con delle domande da seguire rigidamente, si tratta più di una conversazione che parte di alcune
domande generali, chiedendo al partecipante di raccontare qualcosa/il suo punto di vista.

L'idea chiave è quella che l'etnografo deve partecipare alle attività della società da studiare, imparare la
lingua e le categorizzazioni dei soggetti studiati, permanendo sul campo per uno o due anni. Questo per
stabilire un’empatia che permetta di rendere nella descrizione il punto di vista dei nativi. Fondamentale per
quest'attività di studio è la capacità mimetica dell'antropologo, la sua abilità a conquistare la fiducia e
diventare nativo («going native»), in modo tale da descrivere la società dal punto di vista dei nativi. .

Approccio struttural-funzionalista: antropologo come osservatore neutrale, concezione positivista.


L’antropologo »scopre» una legge naturale che governa una società. L’osservatore visto come non capace
di influenzare la società.

L'etnografia "può essere qualsiasi descrizione completa o parziale di un gruppo (etno = un «popolo», grafia
= descrizione), come mezzo per identificare i tratti comuni, siano essi religione, relazioni sociali o stili di
lavoro" (Goulding, 2005: 299).

Ipotesi di base: Studio del comportamento sociale nel suo ambiente naturale

Non è possibile alcuna conoscenza del comportamento sociale senza una comprensione del mondo
simbolico delle materie di studio. Immersione a lungo termine in un ambiente «naturale» Osservazione
diretta della vita culturale (Elliot e Elliot 2003: 216). La comprensione del mondo simbolico è l’obiettivo di
qualsiasi etnografo (pensiamo alla ricerca fatta sulle soap opera nei confronti delle casalinghe: osservazione
di lungo termine).

UN’etnografia consiste nella descrizione di:


1) un’unità sociale, politica o geografica (un clan, una tribù, un regno, un villaggio, un paese, una
regione, o di:
2) Un tema specifico (un rituale, un’arte, un modo di produzione…) o:
La parola «etnografia» è stata anche usata per definire l’opposto di una teoria, come sinonimo di ricerca
empirica «sul campo»

Ma anche:

Metodo etnografico

Sguardo etnografico

Approccio etnografico: con questi termini si può indicare che il ricercatore è stato attento alle questioni
culturali dei partecipanti della ricerca, ma magari ha utilizzato anche altri medi

Nasce come metodo di ricerca antropologica, poi viene adottato dalla sociologia e successivamente dai
cultural studies e infine dai media studies (che ne cambieranno un po’ il significato del termine).

L’etnografia urbana della Scuola di Chicago: parallelamente (o quasi) questa scuola elabora lo stesso tipo di
approccio. La scuola di Chicago rappresenta in sociologia la nascita dell’approccio qualitativo. La sociologia
è stato a lungo una scienza quantitativa, ma la scuola di Chicago, influenzata moltissimo dall’antropologia,
inizia a fare una traslazione: invece di studiare sul campo tramite una partecipazione partecipante una tribù
culturalmente lontana dal ricercatore, applica questo metodo nel contesto. Nasce nel 1920 circa, attorno
alla figura di Robert Park, dove si inseriscono tutte una serie di altre figure, infatti prende il nome di
“scuola”: studi antropologici applicati alla società. Non è a caso che questa rivoluzione avvenne in quegli
anni perché gli anni 20 del 900 sono stati negli Stati Uniti, gli anni della grande crescita delle città, delle
metropoli, in seguito alla rivoluzione industriale. Anche perché gli Stati Uniti erano un paese di
immigrazione, le città diventano un crogiolo di diverse etnie e ciò spinge i ricercatori a domandarsi come le
città stavano cambiando e come queste persone si stavano adattando alla vita urbana. .

«Vi è stato detto di andare a scavare nella biblioteca, e quindi di accumulare appunti e un abbondante
rivestimento di polvere. Vi è stato detto di scegliere problemi ovunque potevate trovare pile di documenti
scritti ammuffiti, che si basavano su futili elenchi preparati da burocrati stanchi e compilati da chi era
riluttante a richiedere assistenza, da meticolosi filantropi, o da impiegati indifferenti. Questo lo chiamano
“sporcarsi le mani con la ricerca vera. Coloro che vi consigliano sono saggi e onorabili; i motivi che offrono
sono di grande valore. Ma occorre un'altra cosa: l'osservazione di prima mano. Andate a sedervi negli atri
di alberghi di lusso e sui gradini delle pensioni di infimo ordine; sedetevi sui sofà della Gold Coast o nei
giacigli dei bassifondi; sedetevi nell'Orchestra Hall e nel Star and Garter Burlesque. Insomma, signori,
andate a sporcarvi il fondo dei pantaloni in mezzo alla ricerca vera» ”.

Un approccio empirico molto simile, all’epoca, a quello dei giornalisti: molti esponenti di questa scuola
provenivano dal giornalismo. Obiettivo: studiare quelle popolazioni più “deboli” della società; eventuali
comportamenti devianti; ecc. Ognuno di questi studi cercava di capire qual era il contesto sociale che
portava queste persone a diventare in quel modo.

Park chiedeva a tutti di osservare questi ambienti, spesso rimanendo in disparte oppure esponendosi
pubblicamente, Era una fase in cui la codifica del metodo era ancora lontana, a parte Malinowski e il suo
libro.

Una critica riguardava l’essere molto empirico e basarsi sulla descrizione di quello che vedevano, ma non si
era presentata una auto riflessività sul metodo. L’approccio usato era estremamente descrittivo, simile a
quello giornalistico, al reportage: scrittura di fenomeni sociali in strada, o lavoratori, ecc.

Però per la prima volta sono stati approfonditi degli studi in merito a questi contesti. Il limite era il rimanere
ancorati alla descrizione, senza alcuna decodifica. La cosa che caratterizza da subito questi studi è la
mancanza di una teoria, questa veniva costruita sul campo. A differenza di altri metodi che partivano da
una teoria e poi la si testava sul campo., qui la situazione è diversa: non si verifica alcuna teoria di partenza,
ci sono soltanto delle domande molto ampie e poi durante il campo si costruisce la teoria. La teoria emerge
sul campo, durante l’osservazione, osservando i comportamenti ripetitivi ed eventuali significati che
emergono.

L’antropologia postmoderna, intorno agli anni 60-70, ha spesso negli ultimi decenni criticato la teoria
dell'osservazione partecipante. Uno degli eventi che contribuirono a metterla in discussione fu la
pubblicazione nel 1967 dei diari personali di Malinowski. Qui l'autore rivelò la difficoltà incontrata nello
svolgere la ricerca e nel vivere con i trobriandesi, che a tratti mostra di sopportare a fatica in realtà i
personaggi che stava studiando.

Clifford Geerz, studiando questi diari, ad esempio ha fatto notare come l'apparente semplicità con cui
l'"empatia" permetterebbe di cogliere il punto di vista del nativo nascondesse nel caso di Malinowski un
grande sforzo nel cercare un difficile dialogo, ed il carattere in parte di finzione della descrizione etnografica
che ne consegue.E dice che qualsiasi ricerca etnografica non è mai neutrale, ma una ricerca fatta da un
osservatore, una descrizione parzialmente finzionale (costruzione narrativa dell’osservatore).
L’antropologia moderna ci dice che l’osservazione non può essere non partecipante, perché nel momento
in cui si interferisce c’è sempre un punto di vista, non si è mai neutrali.

Da cosa si differenzia da altri approcci? Cosa la rende scientifica allora?

Non c’è un'epistemologia che la regola, il metodo è induttivo: dal campo restituisco una teoria, non
viceversa. Quello che fa la ricerca etnografica di distintivo è l’accuratezza dell’osservatore, anche se
consapevole dei propri limiti, l’analisi interpretativa nella sua profondità.

LA SVOLTA INTERPRETATIVA »INTERPRETATIVE TURN» (Geertz 1974)

L’antropologia non è una scienza positivista. Non esiste un’osservazione oggettiva

L’etnografia è una investigazione di determinate «pratiche» culturali.

I dati non si «raccolgono» (scoprendo una legge fisica e testandola), ma si «generano», sono i ricercatori a
trasformare qualcosa in un dato: i dati non esistono in natura, l’etnografo non ci «inciampa», non li
«scopre», ma li genera. Invece che parlare di «dati», si inizia a parlare di «oggetti» e «materiali» etnografici,
generati dalla ricerca sul campo.

Avere accesso alle pratiche che vogliamo studiare è reso possibile solo dall’interazione con le persone le ci
pratiche vogliamo studiare. C’è uno spostamento dall’idea di raccogliere dati, dall’osservazione sul campo,
alla comunicazione sul campo. È un’etnografia «del parlante»: i dati si generano parlando con le persone
che vogliamo studiare. Non bisogna solo imparare la lingua della comunità che studiamo, per poterli capire
mentre interagiscono tra loro, ma imparare la loro lingua per interagire con loro.

La PRESENZA del ricercatore sul campo è il carattere distintivo dell’etnografia interpretativa. La sua
presenza non è nascosta, ma valorizzata. Natura dialogica della ricerca sul campo

LA SVOLTA »LETTERARIA» (LITERARY TURN) (Geertz 1986; Clifford & Marcus 1988): si rafforza l’idea che
l’etnografia è un genere letterario della letteratura scientifica, molto particolare che si basa sulla capacità
narrativa del ricercatore di restituire quello che ha ascoltato/visto; a differenza della scrittura di articoli
scientifici che hanno tutti la stessa scrittura; le etnografie sono ognuna diversa da sé: vari etnografici
potrebbero restituire, in uno stesso contesto, delle visioni ognuna totalmente diversa dall’altra.

Ma dove sta quindi il valore scientifico? Nella durata del ricercatore nel campo, spesso molto lunga rispetto
al giornalista; un campione diverso da quello statistico ma sufficientemente significativo per esplorare e
soppesare alcune teorie (rispetto al giornalista che intervista ⅔ persone); il metodo utilizzato: l’articolo
viene revisionato da altri ricercatori con esperienze simili per controllare la coerenza, ecc (verifica dei
gruppi dei pari). Ciò rende il resoconto etnografico più accurato dell’intervista giornalistica. Gli scienziati
sociali qualitativi che utilizzano l’indagine etnografica per le ricerche sul campo, sono consapevoli che le
loro sono interpretazioni e il loro obiettivo è renderle più accurate possibili, più coerenti e trasparenti nel
processo (rendere conto di come si è giunti a quel risultato).

Una ricerca dialogica che si costruisce in relazione al dialogo con i partecipanti.


Negli anni 60, la svolta interpretativista porta a diversi risultati: seconda generazione di sociologi urbani che
svilupparono un’analisi del contesto urbano in una maniera più raffinata e profonda rispetto ai primi testi.
Es: Elliot Liebow “tally’s corner” (64) racconta un anno in uno specifico angolo di una strada; descrizione
ricca e profonda del perché quelle persone stanno lì tutto il giorno, ecc.

“Sidewalk” di Mitchell Duneir (99)

Herbert J. Gans, negli anni 62 ha studiato la vita degli italoamericani in un quartiere di Boston: “The urban
villagers”

Etnografie di spazi geografici molto circoscritti.

Etnografia come «thick description»

Uno dei termini chiave nella teoria antropologica di Clifford Geertz (in «Interpretazione di culture» 1973) è
quello di «Thick Description» (Descrizione spessa)

Geertz sostiene che il compito dell'antropologia è quello di spiegare le culture (i significati culturali che
delle persone che appartengono a una determinata società usano- Studio sui fattorini, presenza di
appartenenze sociali molto diverse tra di loro, intervistandoli e osservandoli è emersa la “teoria” secondo
cui ci sono 2 diversi modo di vedere questo lavoro. 1. chi aveva già fatto lavori a tempo indeterminato e per
qualche motivo era stato licenziato/ecc e che faceva questo lavoro e lo considerava migliore rispetto ai
precedenti perché riusciva molto di più a controllarlo e lavorare liberamente.

Dall’altra parte vi era una minoranza rumorosa che facevano questo lavoro perché disperati e lo odiavano
poiché poco libero e le decisioni delle aziende li limitassero, quindi erano molto più critici. Dicotomia di
visione: stesso lavoro ma i significati culturali di questi lavoratori erano diversi) attraverso una descrizione
complessa che specifica molti dettagli, strutture concettuali e significati, e che si oppone alla "descrizione
che è un resoconto fattuale senza alcuna interpretazione. La descrizione sottile di Geertz non è solo una
descrizione insufficiente di un aspetto di una cultura; è anche fuorviante. Secondo Geertz un etnografo
deve presentare una descrizione che è composta non solo di fatti, ma anche di commenti, interpretazioni e
interpretazioni di quei commenti. Il suo compito è estrarre, far venire alla luce, le strutture di significato che
costituiscono una cultura, e per questo Geertz ritiene che un resoconto fattuale non sia sufficiente, perché
queste strutture di significato sono stratificate in modo complesso una sopra l'altra. Es. dei 3 ragazzi che
fanno l’occhiolino (semplice riflesso; occhiolino intenzionale; parodia)

In alcuni casi il fatto che qualcuno stia facendo l’occhiolino può essere un riflesso condizionato, come un tic,
non si comunica nulla, se non che non riesco a fermare questo tic. Oppure potrei guardare qualcuno e fargli
l’occhiolino per comunicare qualcosa; oppure ancora per fare la parodia di qualcuno o prendere in giro
qualcuno.

Vediamo come questo gesto ha tre diversi significati, osservando, a seconda del contesto culturale
possiamo capire quale significato assume.

La descrizione etnografica è microscopica. Secondo Geertz, il metodo etnografico deve concentrarsi


sull’osservazione di eventi microscopici. Ciò che abbiamo di fronte sono sempre eventi specifici e
contestualizzati, e sono questi eventi a costituire il cuore di una thick description.

Il contrario della ricerca quantitativa che è macroscopica: ci dà pochi dati su una grande popolazione.

(Es. dei «villeggianti» nello studio dei producer precari della radio pubblica, coloro che hanno la partita iva.
L’uso di questa parola, nell’analisi interpretativa, ha fatto capire che veniva considerati come un lavoro per
cui pretendevano da questi precari una presenza fissa da ufficio)

Questo approccio si può applicare a qualsiasi cosa.

Negli anni 70, molti sociologi, tra cui Gans si inserisce dentro le produzioni di serie americane e scrive
“Deciding what’s news” riporta i primi studi che studiano le relazioni dall’interno. Grazie a questi studi
etnografici che prevedono la partecipazione partecipante e interviste con giornalisti e osservazioni che
rilevano le questioni e condizioni sociali e culturali che portano alla creazione delle redazioni. Emerge che
ogni giornalista proietta la sua visione del mondo, impattando quello che scriveranno. Ricostruisce
l’universo valoriale di questi giornalisti, I temi vengono scelti in base a se il giornalista li reputa tali da
discutere, non importa lo share. è una visione basata sulla logica editoriale e non sulla logica dell’audience,
pertanto c’era un contrasto tra la logica produttiva dei giornalisti in opposizione al dipartimento di
marketing di queste aziende. Racconta cosa voleva dire essere un giornalista all’epoca.

Questi studi hanno aperto, per la prima volta, aspetti del giornalismo che prima non si sapevano. La logica
del mercato e quella del giornalismo cercavano di negoziare.

Negli anni 70 in poi si afferma un’etnografia dei media. Gli americani lo fanno sui giornalisti, i cultural
studies sulle audience (a partire dagli anni 80):

Studiare le pratiche professionali e le logiche dei processi produttivi all’interno di un campo complesso
Studia la logica dei processi con cui è prodotta la comunicazione e il tipo di organizzazione del lavoro entro
cui avviene la codifica dei messaggi. Qualsiasi tecnologia mediale, per uno scienziato etnografico, è un
apparato socio-tecnico.

Tempi lunghi

Per l’etnografia le tecnologie sono «artefatti organizzativi», »apparati socio-tecnici»

L’osservazione partecipante secondo Hansen et al (1998):

-Rende visibile l’invisibile

-Risolve il problema dell’inferenza (quelle teorie che deducono come funzionano i media solo a partire
dall’analisi dei prodotti mediali)

-Permette l’integrazione con altri metodi

-Corrobora o ridimensiona speculazioni teoriche (grazie a una visione dall’interno, empirica)

-Ci ricorda la natura contingente della produzione culturale

-Ci ricorda che la produzione culturale non opera in un ambiente neutrale ma in relazione a determinati
contesti.

A tutti questi studiosi non importa affermare una verità, bensì dimostrare che quel tipo di persone
attribuiscono all’algoritmo quel determinato valore, cercando di interpretare come pensa un gruppo di
persone.

Le fasi del lavoro di ricerca:

-Il disegno della ricerca (stabilire l’oggetto della ricerca. No standard temporali, ovvero decidere a priori
quanto la ricerca durerà)

-L’accesso al «campo» (delimitare il campo; accesso da insider, sono una mamma, o outsider; rischio di
«going native»)

-Le relazioni sul campo (che tipo di relazioni riesce ad instaurare con gli «informatori»?)

-La generazione dei «dati» o materiali (non solo dati testuali (documenti aziendali formali e informali).
Osservazione degli spazi, dei rituali dell’interazione, delle relazioni gerarchiche, dei codici linguistici. Oltre
all’osservazione, c’è anche lo shadowing)
-L’analisi dei materiali (elaborazione di concetti, fase interpretativa: come li ho concepiti)

-La scrittura (realista- descrive l’oggetto in maniera neutrale-; processuale - racconta il processo che ha
portato a quelle interpretazioni-; riflessiva - riflette sul proprio ruolo interno alla ricerca- ) realtà come
scoperta vs. realtà come costruzione.

Non sono mai consequenziali.

Non stabiliamo a priori il numero dell’intervistato. Iniziamo a studiare alcuni e poi capiamo se ci serve
qualcuno con delle caratteristiche diverse (età, etnia, categoriale sociale); ma magari anche se abbiamo
scelto i soggetti in base a delle caratteristiche diverse potremmo continuare ad avere sempre le stesse
risposte e il campo così si è saturato e quindi funziona (campionamento teorico: in cui andiamo alla ricerca
di casi “negativi”).

05/04

Osservazione partecipante «L’espressione ''osservazione partecipante" sintetizza già le modalità di


interazione dell'antropologo con i membri del gruppo sociale indagato: egli vive all'interno della loro
comunità, assiste alla loro esistenza quotidiana (e, a volte, vi partecipa), padroneggia almeno in parte il loro
linguaggio, senza mai però abbandonare il suo intento conoscitivo e la sua collocazione di osservatore
esterno. Attraverso l'immersione approfondita in un certo contesto locale, il ricercatore cerca di acquisire
un'esperienza e una documentazione utili a illustrare e comprendere il tipo di vita sociale del gruppo
studiato».

Etnografia della produzione

Production studies: Studio delle culture della produzione.

Studio delle comunità professionali

Introduzione a Backstage. Studi sulla produzione dei media in Italia.

Postfazione di John Caldwell: L’industria dei media è sessualizzata; racialised; (auto)disciplinata; fornisce
ricompense reputazionali; è difficile da accedere (ciò che otteniamo dagli addetti ai lavori sono
performance pianificate); è composta da lavoro passionale (auto-sfruttamento)

Es. Studio sui producer della radio italiana


Etnografia della ricezione

Studio dei contesti della ricezione

Studio dei significati attribuiti al consumo di media

Es. studio sul «paquete» cubano (vedi articolo caricato in e-learning)

Caso di studi: la vita quotidiana dei producer e redattori freelance di 4 emittenti radiofoniche italiane

Milano è la città con il più alto numero di dipendenti nel settore creativo in relazione al numero totale di
dipendenti. Secondo gli ultimi dati ISTAT (2011), circa 250.000 persone lavorano in questo settore, circa il
15% della popolazione attiva dell'area metropolitana di Milano. I settori trainanti sono la moda e il
software, ma Milano è anche la città con la più alta percentuale di impiegati nel design, nella pubblicità,
nella produzione e nell'editoria radiofonica e televisiva.

Il settore radiotelevisivo è passato da 5.055 unità nel 2001 a 9.734 nel 2011 (ISTAT 2001; 2011), mentre in
Italia nello stesso periodo il settore ha aumentato i dipendenti da 27.047 a 31.048. Pertanto, il 31,35% degli
occupati nel settore radiotelevisivo è concentrato a Milano.

In particolare, l'industria radiofonica di Milano impiega 582 lavoratori, su un totale di 3.803 in Italia (ISTAT,
2011), quindi il 15% di tutti gli occupati nel settore. Milano ospita 8 delle 17 emittenti radiofoniche private
nazionali, 14 emittenti radiofoniche commerciali locali e una filiale locale della RAI, l'emittente
radiotelevisiva pubblica italiana, dove vengono prodotti e trasmessi alcuni programmi radiofonici.

La RAI impiega 12.136 lavoratori (RAI 2012: 73), di cui 1.660 detengono un contratto a tempo determinato.
La sede della società è a Roma, dove lavorano molti dei suoi dipendenti. Radio RAI, il settore radiofonico del
servizio pubblico italiano, impiega 750 persone con contratti a tempo indeterminato e 48 con contratti a
tempo determinato, per un totale di 798 persone (6,57% di tutti i lavoratori della RAI), a cui si aggiungono
250-300 lavoratori con rapporti di lavoro temporanei (partite IVA).

Metodologia

Interviste condotte tra novembre 2013 e marzo 2014. Interviste semi-strutturate a un campione di 20
individui: 14 donne e 6 uomini, di età compresa tra i 26 ei 47 anni, che lavorano a Milano o a Roma (le
principali città dove sono concentrate le attività radiofoniche) per le emittenti radiofoniche nazionali
pubbliche e private:
RAI Radio 2 (il canale di servizio pubblico di intrattenimento leggero, con 3,3 milioni di ascoltatori
giornalieri);

RAI Radio 3 (il canale di servizio pubblico dedicato alla cultura, al dramma, al discorso intelligente, al jazz e
alla musica classica, con 1,4 milioni di ascoltatori giornalieri);

Radio24 (un talk privato e una radio di notizie con un focus speciale su economia e politica, con 2 milioni di
ascoltatori giornalieri);

Radio 101 (una stazione di musica di successo contemporanea, con 1,8 ascoltatori giornalieri);

Radio Popolare (ascoltatore privato di talk & news supportato dalla radio, con una prospettiva di sinistra e
190.000 ascoltatori giornalieri)

18 di loro hanno una laurea in scienze umanistiche e due non hanno terminato gli studi universitari. 16 di
loro hanno iniziato a lavorare in radio attraverso uno stage.

Le 4 dimensioni della precarietà dei lavoratori freelance intervistati:

- Invisibilità

Il lavoro del produttore è un lavoro invisibile di per sé, perché lavora di solito "dietro le quinte", ma ancora
di più perché molte delle abilità del produttore non sono riconosciute dal suo contratto. I nostri intervistati
erano spesso autori di programmi: sceglievano autonomamente contenuti da inviare in diretta (notizie,
musica, telefonate, ospiti), erano autori di parti spesso significative del programma, e talvolta usavano
anche la propria voce; tuttavia, i loro contratti non riconoscono il loro ruolo di autori. I precari della radio
italiana sono anche invisibili alle aziende che li assumono. Mentre i loro coetanei che sono assunti con
contratti a tempo indeterminato hanno un badge permanente per entrare in ufficio, i freelance e i
dipendenti precari devono ottenere un badge «ospite» per entrare in ufficio, tutti i giorni. Simbolicamente,
la società li considera "ospiti", persone che vengono a "visitare" l'azienda tutti i giorni, ma che non ne fanno
parte. La differenza tra dipendenti permanenti e precari è anche sottolineata nelle redazioni. A Roma, uno
dei nostri informatori ci ha detto che i suoi colleghi con contratti a tempo indeterminato si aspettavano che
i freelance lavorassero come loro, anche se i loro contratti precari li autorizzavano a un certo grado di
flessibilità. Ma quelli che "approfittavano" della flessibilità del loro status di freelance venivano
ironicamente chiamati "villeggianti", o turisti, quelli che facevano tutto ciò che volevano, che andavano e
venivano a loro piacimento: »In redazione parlavano di persone che avevano lavorato lì prima di me, che
arrivavano tardi o andavano via presto, e li chiamavano "villeggianti"... la scorsa estate stavano cercando un
produttore, e uno di questi "vacanzieri» non era stato chiamato per questo»
- Solidarietà

Questa solidarietà tra colleghi è dovuta principalmente al fatto che tutti condividono le stesse condizioni di
lavoro, e vale la pena collaborare, perché la maggior parte delle loro future possibilità di impiego deriva dai
contatti che sono stati in grado di creare. Non c'è competizione tra loro, perché sanno che anche se
provano che sono migliori degli altri, non c'è possibilità che vengano assunti. In altre parole, non c'è
competizione perché non c'è un premio da vincere. L'unico premio è la riconferma del loro programma, ma
ciò dipende dalle prestazioni del programma e dalla popolarità del conduttore, non dalla competizione tra
colleghi di altre squadre.

“Negli ultimi 7 anni ho lavorato per 6 programmi. Ad esempio, il programma che ho seguito per tre anni e
mezzo è stato cancellato pochi giorni prima che iniziasse una nuova stagione. A quel punto, ho contattato
tutte le redazioni per le quali avevo lavorato per vedere se stavano cercando qualcuno. Devi far sapere a
quante più persone possibile, in ogni posto in cui hai lavorato fino ad ora, che sei di nuovo libero, "sul
mercato". Qualcuno ha bisogno di questa figura? A quel punto forse verrà fuori qualcosa, ma ci vogliono
secoli”.

- Un-branded (non riconoscibili come brand principali)

I produttori intervistati per questo studio, tuttavia, non attuano alcuna strategia di «personal branding» sui
siti di social network, né coltivano la propria reputazione "digitale" personale attraverso la curation online e
il self marketing come accade in altri settori delle industrie creative. Questo essere «unbranded» è un
risultato della loro invisibilità

"Quando dici «freelance» sorrido sempre. Non sei un vero freelance, sei una «lancia incatenata». Quanta
indipendenza hai? Devo sempre aspettare un'offerta, non posso andare a cercare da solo, andare e offrirmi
come produttore, regista, coordinatore ... Non posso, perché non funziona così, funziona al contrario: lo
staff, qualcuno ti vuole, qualcuno che ti conosce "

- Passione

Il lavoro si espande nello spazio e nel tempo (oltre ai tradizionali orari di lavoro, colonizzando
pervasivamente la sfera intima della vita privata). Un altro aspetto che emerge in modo piuttosto
sorprendente tra i produttori di radio è la forte connessione tra questo tipo di lavoro e la dimensione
«passionale»

Molti di questi lavoratori, nella parte biografica o aneddotica dell'intervista, dichiarano di essere stati dei
"fan" del programma radiofonico specifico per il quale lavorano (o hanno lavorato), - e di come il fatto
stesso che siano riusciti a lavorare proprio per quel programma rappresenti per loro un risultato incredibile
e fonte di soddisfazione sul lavoro di per sé.

“Ho accettato questo lavoro perché ho sempre ascoltato il programma alla radio, perché pensavo che fosse
il miglior programma ... come fan, sai ... volevo farlo!” (Informatore O, donna, 32 anni)

“Sai, questo è un lavoro eccezionale e oggettivamente la radio lo sa, penso, perché ti fanno sapere che
dietro di te c'è una coda di persone, e questo ti condiziona: Incontri molte persone, ti diverti ... lo sai, non
c'è molta gente che fa questo lavoro. Ti senti privilegiato. E presti meno attenzione alle ingiustizie
contrattuali” (Informatore N, uomo, 37 anni)

Metrics at work: Journalism and the contested meaning of algorithms (Angèle Christin)

Etnografia di due redazioni online: LaPlace e The Notebook (2011-2015) 100 interviste + osservazione
partecipante

Domanda di ricerca: come le «audience analytics» hanno modificato le pratiche di produzione della notizia
e le identità professionali dei giornalisti

I dati venivano valutati diversamente a seconda delle differenti tradizioni giornalistiche a cui appartengono
le due redazioni (Francia e USA)

Descrive un lavoro editoriale «impuro», aumentato da software e algoritmi, a cui però, culture redazioni
differenti attribuiscono significati differenti.

Digital ethnography (Pink, Horst & altri)

L’etnografia digitale consiste nelle pratiche di osservazione partecipante del comportamento online e
interviste in profondità con i soggetti studiati

Murthy, D. (2008). Digital ethnography: An examination of the use of new technologies for social research.
Sociology, 42(5), 837-855.

Caliandro, A. (2018). Digital methods for ethnography: Analytical concepts for ethnographers exploring
social media environments. Journal of Contemporary Ethnography, 47(5), 551-578.

MULTI-SITED ETHNOGRAPHY (Marcus 1995)


ETNOGRAFIA DIGITALE – DI COSA PARLIAMO Osservare la vita quotidiana non basta più. Molti aspetti della
vita quotidiana si sono trasferiti online, quindi il campo di osservazione – il mitico «the field» degli
antropologi, non è più un luogo soltanto fisico.

Virtual ethnography (Hine 2000) applicare le tecniche etnografiche tradizionali al dominio digitale,
virtualizzandole (sondaggi virtuali, interviste via chat, interviste via e-mail, ecc.), mescolando
sapientemente tecniche digitali con tecniche analogiche (ad esempio, osservazione partecipante online e
offline).

Internet ethnography (D. Miller and Slater 2001),

Cyber-ethnography (Escobar 1994)

Digital ethnography (Murthy 2008)

Expanded ethnography (Beneito- Montagut 2011) mix di osservazione online e interviste faccia a faccia

Ethnography of the virtual worlds (Boellstorff et al. 2012)à mix intervista facia a facia e online.

Il contatto con i soggetti che vogliamo studiare è spesso mediato da tecnologie: l’osservazione partecipante
non avviene in presenza, ma online. Questo può avvenire attraverso l’osservazione di cosa fanno i soggetti
online tracciandone i comportamenti, o chiedendo loro di farci accedere alle loro pratiche online (accedere
a un gruppo whatasapp, per esempio, come osservatori partecipanti). Il classico ascolto dell’osservazione
partecipante si può trasformare in lettura di blog, di raccolta di testi e meme scritti su whatsapp.

Invece di restituire i risultati attraverso la scrittura, l’etnografia digitale spesso produce video, fotografie,
blog.

COME L’ETNOGRAFIA CLASSICA, ANCHE L’ETNOGRAFIA DIGITALE è UNA RICERCA ITERATIVA-INDUTTIVA (si
evolve durante il suo svolgersi, le domande di ricerca non sono pre-definite, si costruisce la teoria a partire
dall’osservazione, e non viceversa).

Murthy (2011) l’etnografia digitale è centrata sulla raccolta di dati mediati da tecnologie comunicative
digitali: note di campo mediate da device digitali (note sonore registrate su smartphone), osservazione
partecipata online, lettura di blog, online focus group.

5 PRINCIPI PER FARE ETNOGRAFIA DIGITALE (PINK ET AL. 2016)

1. MOLTEPLICITA’ (dei luoghi di ricerca e delle tecniche di ricerca, a seconda del contesto)
2. APPROCCIO NON MEDIA-CENTRICO (i media sono inseparabili dalle altre attività della vita
quotidiana. I media sono parte di ambienti più ampi e di pratiche di consumo più ampie. L’oggetto di
studio non sono i media, ma cosa fanno le persone con i media, che ruolo gli attribuiscono nella loro
vita quotidiana)

3. OPENNESS (APPROCCIO APERTO) – pratica collaborativa, multidisciplinare

4. RIFLESSIVITA’ – pratica riflessiva, essere consapevoli che esistono molti modi di conoscere una
cultura, le persone che vi appartengono, e le loro pratiche. La conoscenza prodotta dall’etnografia
digitale è il frutto della capacità riflessiva dell’etnografo che emerge durante l’incontro con le vite degli
altri.

5. APPROCCIO NON ORTODOSSO – non solo articoli scritti, ma anche immagini, video, come
risultati della ricerca.

Il problema del “campo” nell’etnografia digitale

«per me, considerare il "campo come una rete" significava considerare «campo di ricerca» molte cose
diverse fra loro: un gruppo di amici e conoscenti, soggiorni più o meno lunghi in otto città cinesi, una serie
di piattaforme online, un inventario di dispositivi mobili, un campione di repertori linguistici, alcuni generi
di contenuti online, discorsi sui mass media su internet e una varietà di pratiche mediatiche. Tessendo
insieme un'osservazione fatta in un alloggio per studenti a Wuhan, un'accesa discussione su WeChat con un
amico di Pechino condotta camminando per le strade di Hong Kong, una conversazione di gruppo su QQ
con persone che non avevo mai incontrato, e un'intervista con una signora dell'ufficio di Shanghai in un
caffè di lusso, sono stato in grado di offrire un ritratto variegato di come la gente usava i media digitali in
Cina.» (Gabriele de Seta, 2015)

De Seta propone la visione di un etnografo/tessitore, che «tesse» il campo di ricerca, unendo luoghi e
persone diverse. Un campo che si costruisce mentre lui si sposta, non un campo già esistente

Etnografia dei nuovi luoghi di produzione culturale (le piattaforme digitali) La nostra tattica per avere
accesso a un campo difficile da accedere:

1. Connessioni personali
2. multi-sited ethnography;
3. focus sugli ex lavoratori delle piattaforme;
4. Osservazione «sottocopertura»
5. Digital Methods applicati all’Etnografia:
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Etnografia digitale

«Nell’etnografia digitale spesso siamo in contatto mediato con i partecipanti piuttosto che in presenza
diretta. Potremmo essere in conversazione con le persone durante tutta la loro vita quotidiana. Potremmo
guardare ciò che la gente fa tracciandoli digitalmente o chiedendo loro di invitarci nel loro pratiche sui
social media»

Attraverso strumenti digitali:

- Note di campo mediate digitalmente


- Osservazione partecipante online
- Blog/wiki con contributo degli intervistati
- Focus group online
- Interviste qualitative mediate digitalmente
Osservare la quotidianità non basta più. Molti aspetti della vita quotidiana si sono spostati online o sono
saturi di media, quindi il campo di osservazione - il mitico "campo" di antropologi - non è più solo un luogo
fisico.

GENEALOGIA DELL'ETNOGRAFIA DIGITALE

L'etnografia virtuale (Hine 2000) applica le tecniche etnografiche tradizionali al digitale dominio,
virtualizzandoli (sondaggi virtuali, interviste in chat, interviste via e-mail, ecc.), sapientemente mescolando
il digitale con tecniche analogiche (ad es. osservazione dei partecipanti online e offline).

cyber-etnografia (Escobar 1994)

Etnografia Internet (D. Miller e Slater 2001)

Netnografia (Kozinets 2010) – contesti di marketing e gestione

etnografia digitale (Murthy 2008) – campo dei media e della comunicazione

etnografia ampliata (Beneito- Montagut 2011) - mix di osservazione online e interviste faccia a faccia
etnografia dei mondi virtuali (Boellstorff et al. 2012)

Il contatto con le materie che vogliamo studiare è spesso mediato dalla tecnologia: l'osservazione
partecipante non avviene in presenza, ma online. Questo può avvenire osservando cosa fanno i soggetti
online tracciando il loro comportamento, o chiedendo loro di lasciarci interagire nelle loro pratiche online
(accesso a un gruppo whatasapp, ad esempio, come partecipante osservatori). Il classico ascolto
dell'osservazione partecipante può essere trasformato in lettura blog, raccogliendo testi e meme scritti su
whatsapp.

Invece di restituire risultati attraverso la scrittura, l'etnografia digitale spesso produce video,

fotografie, blog.

COME L'ETNOGRAFIA CLASSICA, ANCHE L'ETNOGRAFIA DIGITALE È UNA RICERCA INDUTTIVA ITERATIVA (si
evolve man mano che si sviluppa, le domande di ricerca non sono predefinite, la teoria è costruita
dall'osservazione, e non viceversa)

L'etnografia digitale di Murthy (2011) si concentra sulla raccolta di dati mediata dal digitale

tecnologie della comunicazione: note di campo mediate da dispositivi digitali (note sonore

registrati su smartphone), osservazione partecipativa online, lettura di blog, focus online

gruppi.

5 principi per fare etnografia digitale (Pink et al.)

1. MOLTIPLICITÀ (di luoghi e tecniche di ricerca, a seconda del contesto)

2. APPROCCIO NON DI CENTRO DIGITALE (i media sono inseparabili dalle altre attività della vita quotidiana.
I media sono parte di insiemi più ampi di ambienti e pratiche di consumo più ampie. L'oggetto di studio non
sono i media, ma cosa fanno le persone con i media, che ruolo gli attribuiscono nella loro vita quotidiana)

3. APERTURA (APPROCCIO APERTO) - pratica collaborativa e multidisciplinare

4. RIFLESSIVITÀ - pratica riflessiva, essendo consapevoli che ci sono molti modi per conoscere una cultura,
le persone in essa, e le loro pratiche. La conoscenza prodotta dall'etnografia digitale è il frutto della capacità
riflessiva dell’etnografo che emerge durante l'incontro con la vita degli altri.

5. APPROCCIO NON ORDINATO - non solo articoli scritti, ma anche immagini, video, come risultati della
ricerca.

IL CONCETTO PROBLEMATICO DI «CAMPO» NELL'ETNOGRAFIA DIGITALE

Hine ha sostenuto che, online, “il concetto di sito sul campo viene messo in discussione. Se

la cultura e la comunità non sono di per sé collocate sul posto, quindi nemmeno lo è l’etnografia” (2000, p.
64)

«Il lavoro sul campo non è più definito sulla base di dati geografici o criteri etnici. La cultura non è più
considerata strettamente legata ai luoghi fisici ma come un costrutto flessibile che può essere compreso nei
diversi spazi fisici e online in cui i significati vengono negoziati»

(Delli Paoli e D'Auria 2021, p. 244)

La definizione della ricerca sul campo come sistematica, a lungo termine e faccia a faccia

lo studio delle interazioni quotidiane (Bailey, 2007) è sostituita da una non fisica

delimitazione del campo.

1. Il campo come campo digitale «multisito».

La proposta di Marcus di un'etnografia multi-situata (1995) rappresenta uno dei tentativi più influenti di
spostare "fuori dei singoli siti e delle situazioni locali dei tradizionali disegni di ricerca etnografica di cui
esaminare la circolazione significativa, oggetti e identità culturali nello spazio-tempo diffuso”

Metodologicamente parlando, Marcus ha proposto sei diverse strategie per il lavoro sul campo multi-sito,
tutte basate sullo stesso imperativo, “seguire”: il Popolo; la cosa; la Metafora; la trama, la storia o
l'allegoria; la Vita o Biografia; il conflitto.

L'ontologia interconnessa di Internet ha favorito fin dall'inizio lo sviluppo del multisito approccio
etnografico (vedi Hine 2000; Burrell 2009). Quando si esplora l'ambiente digitale, l'appello di Marcus a
"seguire" è inevitabile. Si può legittimamente decidere di concentrarsi su uno specifico contesto digitale,
come un forum di discussione (Hine 2015:27). Tuttavia, al fine di costruire un resoconto “denso” del
fenomeno sociale indagato (Geertz 1973), i ricercatori devono seguire gli utenti dietro lo schermo o, come
affermano Miller e Slater, “per trattare i media Internet come un continuum incorporato in altri spazi
sociali” (2000:5).

2. Il campo come «rete» (de Seta 2015)

"per me considerare il 'campo come rete' significava considerare tante cose diverse come 'campo di
ricerca': un gruppo di amici e conoscenti, soggiorni più o meno lunghi in otto città cinesi, una serie di
piattaforme online, un inventario di dispositivi mobili, un campione di repertori linguistici, alcuni generi di
contenuti online, discorsi sui mass media su Internet e una varietà di pratiche dei media. Intrecciando
insieme un'osservazione fatta in un alloggio per studenti a Wuhan, durante un'accesa discussione su
WeChat con un amico a Pechino

camminando per le strade di Hong Kong, una conversazione di gruppo su QQ con persone che non avevo
mai incontrato e un'intervista con una signora dell'ufficio di Shanghai in un caffè di lusso, sono stato in
grado di offrire un ritratto diverso di come le persone

utilizzato i media digitali in Cina." (Gabriele de Seta, 2015)

De Seta propone la visione di un etnografo/tessitore, che 'tesse' i campi di ricerca, unendo differenti luoghi
e persone. Un campo che si costruisce mentre si muove, non come un campo già esistente

3. Il campo come «meta-campo» (Airoldi 2018)

«una parte importante delle esperienze digitali degli utenti dei social media viene rappresentata in
ambienti volatili come feed di social network, aggregatori di social media e raccolte modificabili di
contenuti con parola chiave o tag. Ciò che tutti questi ambienti digitali dinamici hanno in comune è che essi
aggregano tracce comunicative precedentemente disperse secondo una varietà di semantiche o logiche
algoritmiche. Scorrere foto sui #gatti su Instagram; dare un'occhiata alle tendenze di Twitteri; mettendo mi
piace ad alcuni dei post dei tuoi amici di Facebook, accuratamente selezionati dal feed delle notizie da parte
degli algoritmi: queste sono tutte pratiche digitali comuni per miliardi di utenti Internet, abilitate da
tecnicismi presenti nella maggior parte dei social media contemporanei. Queste pratiche si svolgono in
campi digitali costituiti da assemblaggi mobili di contenuti provvisori visualizzati insieme nello stesso
collocamento. Mentre potrei visitare un forum di discussione più volte al giorno, trovando ancora e ancora
(più o meno) gli stessi post e conversazioni, le foto di Instagram con l'hashtag "#gatto" cambiano in un tasso
incredibilmente veloce. Quest'ultimo caso è un esempio di quello che qui chiamo “meta-campo” – cioè
un’impostazione digitale che aggrega temporaneamente contenuti comunicativi sparsi condividendone
caratteristiche – come l’hashtag “#gatto”»

Sulle piattaforme dei social media è probabile che osserviamo etnograficamente i pubblici online: fluidi
associazioni tra persone che in gran parte non si conoscono, mediate dalle affordances della piattaforma
(Baym e Boyd 2012), caratterizzati da intensità emotiva (Papacharissi 2015) e canalizzati da un focus
comune, come una polemica politica (Barisione et al. 2017) o un marchio (Arvidsson e Caliandro 2016).

«Per accedere al mio meta-campo basato su Facebook, ho condotto una “ricerca di ricerca” sulla ricerca
interna della piattaforma engine, aggregando semanticamente post pubblici contenenti la parola chiave
“Erasmus” nei metadati (Guha, McCool e Miller 2003). Post scritti da studenti in scambio, pagine relative a
Erasmus e club che promuovono “Erasmus partiti” è apparso sullo schermo – un flusso di tracce
comunicative decontestualizzate, organizzate e ricollocate sulla base dei loro metadati. Questo sito “fuori
sede” sembrava un'enorme piazza piena di studenti in scambio camminando da soli, parlando a voce alta
delle loro “vite Erasmus”» (Airoldi 2018, p. 9).

4 TIPI DI ETNOGRAFIA DIGITALE (Delli Paoli e D’Auria 2021)

Social media ethnography: Comporta tipi di ricerca finalizzati allo studio di modelli di attività o
comportamenti esibiti nel mondo dei social media attraverso i post degli utenti cioè le loro espressioni
verbali o visive.Questo tipo di etnografia digitale viene effettuato

attraverso la ricerca e l'aggregazione sociale contenuti multimediali secondo computazionale criteri e


motore di ricerca interno.

Etnografia digitale contestuale: Viene eseguito spesso in ambienti digitali delimitati rappresentati da semi-
pubblici o ambienti privati come gruppi facebook, whatsapp gruppi, forum di discussione, comunità online
o blog, luoghi strutturati con utenti specifici, una

relativa comunità stabile di membri e definizione della situazione.

Etnografia metadigitale: utilizza l'analisi del contenuto o tecniche analitiche di data mining e text mining e
ha un’attenzione globale. Comprende una gamma di grandi masse di dati dal microblogging e altri siti di
social media per individuare modelli e costruire comprensioni dei fenomeni culturali e sociali. Il campo non
è contestualizzato a siti delimitati ma è rappresentato dalla raccolta di cose che si intrecciano.

Etnografia crossmediale: attraversa contesti online e offline, meta e ambienti contestuali creando campi
dispersoi su piattaforme web, online e realtà locali. Segue il flusso di un dato oggetto di ricerca, essendo
esso un fenomeno sociale, un brand, un gruppo o un singolo utente, su diverse piattaforme online o online
e ambienti offline.

Casi di studio dai progetti di ricerca del docente:

1. etnografia digitale della musica online lavoratori della piattaforma di streaming;

2. etnografia digitale dei lavoratori delle consegne di cibo online

Esempi concreti di ricerca che utilizza l’etnografia normale e digitale.

CASO STUDIO 2: Solidarietà algoritmica tra corrieri di consegna cibo (Tiziano Bonini e Emiliano Trerè)
Questo progetto sposta l'attenzione verso le pratiche e le tattiche create dal

persone con cui confrontarsi e vivere all'interno di forme algoritmiche di potere, istituzioni e

autorità. Esamina le pratiche che le persone mettono in atto per far fronte alle infrastrutture algoritmiche.

Metodologia: 68 interviste (7 in Messico, 32 in India, 12 in Cina, 12 in Italia, 5 in Spagna) con cibo online

corrieri e autisti di consegna

Le interviste sono state realizzate in diverse città: Queretaro e Città del Messico in Messico; Delhi, Gwalior,

Mumbai, Pune, Lucknow, Chattisgarh, Gurugram e Patna in India; Pechino, Shangai,


Shenyang, Weifang, Dongguan in Cina; Livorno, Firenze, Milano, Napoli, Messina in Italia;

Valencia, Barcellona e Bilbao in Spagna.

Le piattaforme coinvolte sono state Uber, Cabiify, Didi, InDriver, EasyTaxi e Rappi, Sin Delantal, Didi

Cibo, Uber Eats in Messico; Swiggy, Zomato e Uber Eats in India; per Meituan, Eleme, Flash

EX (Shansong) e SF Express in Cina; Just Eat, Deliveroo e in Italia; Uber Eats, Glovo,

Deliveroo, Just Eat e Stuart in Spagna.

Etnografia digitale di 1 anno

Osservazione non partecipante (luglio 2020 – agosto 2021) all'interno di decine di privati gruppi online
(WhatsApp/Facebook/Telegram/ WeChat) creati dai corrieri nei 5 paesi

coinvolti nel lavoro sul campo. Migliaia di membri.

Studio sui corrieri del food delivery e il loro rapporto con le piattaforme con le quali lavorano. Che potere
hanno le piattaforme su queste persone e le persone che utilizzano queste piattaforme hanno potere
(agency: autonomia, capacità di dare seguito ai propri bisogni)?

Come i corrieri di questi settori utilizzano le app e negoziano il potere che queste app utilizzano su di loro?
Queste piattaforme come sono governate dagli algoritmi? Le persone addomesticano gli algoritmi o si
fanno guidare?

Gli sviluppatori, proprietari di queste piattaforme hanno disegnato una piattaforma (possiamo parlare di
piattaforma perché la definizione che la vede come un “mercato a più lati che intermedia le relazioni tra
due o più attori” rientra perfettamente in questo caso) o app, anche le condizioni di utilizzo sono costruite a
priori.

Gli artefatti portano con sé, nel modo in cui sono costruiti e organizzati, una visione del mondo?
un’ideologia (Marx)? Si, perché queste app organizzano non solo il consumo delle persone ma anche il
lavoro del corriere, questo non è completamente libero di lavorare come vuole, ci sono delle regole oppure
non ci sono. La piattaforma è disegnata per non mostrare che la relazione che si realizza può essere
interpretata come un lavoro subordinato. Determinate scelte dettate da ragioni soprattutto economiche si
codificano nella forma, nelle affordances di queste app. L’app nega alcuni utilizzi (come la possibilità di
parlare con altri lavoratori, per evitare il più possibile la costruzione di una relazione orizzontale tra di loro.
L’obiettivo è creare una relazione verticale tra chi ha realizzato l’app e il singolo corriere) e ne
avvantaggiano altri.

C’è una volontà di designare l’app in quel determinato modo, attribuendo alcune specificità o eliminando
altre. Il designer ha un ruolo importante.

Il modo in cui queste app permettono di lavorare è uno specchio di una nuova visione del lavoro che evita
qualsiasi forma di organizzazioni tra i lavoratori. Queste app incarnano una visione di lavoro tra capitale e
lavoratore, quindi tra il singolo individuo.

Lo studio è iniziato occupando del campo e della governance algoritmica della forza lavoro.

Ci sono delle critiche sul modo in cui il lavoro viene governato da queste piattaforme:
- potere per via computazionale che si basa sulla datafication, sulla performance fisica dei
lavoratori…
Queste critiche non si interrogano mai su cosa fanno i lavoratori.

Il focus dello studio era capire cosa fanno le persone con queste app, se si fanno governare in maniera
docile, oppure c’è un uso non immaginato dai design che emerge dai lavoratori per migliorare il
lavoro/essere meno stressati.

Inizia la ricerca sul campo, attraverso un gatekeeper (qualcuno che fa parte del campo e può introdurti) che
ha permesso di far parte della chat dei rider livornesi. Da questo momento in poi sono aumentati i contatti
con i rider.

Questo modello è stato esteso, attraverso dei collaboratori in altri 4 paesi: Messico, Cina, India e Spagna.

I dati erano ricchi e molto variegati, La ricerca è durata un anno,

Più delle interviste, è stato utile far parte dei gruppi whatsapp per capire i loro valori, gli elementi e
discussioni ricorrenti. In questo modo è stato utile creare un loro modello di riferimento.

Sono stati utili i loro screenshot di prezzi.

Le scelte fatte per l’app generano un’asimmetria informativa nei lavoratori (es: non sanno se il fatto che un
ordine è stato pagato meno rispetto ad un altro, sia normale oppure no).

In questi gruppi Whatsapp hanno trovato il luogo dove trovare queste informazioni. Vengono mostrati i
loro guadagni (per vantarsi, ma anche per confrontarsi sui prezzi variabili).

Gli screenshot erano estremamente importanti e sono stati trattati come materiale etnografico, una
finestra sull’universo valoriale della persona (cosa pensava del lavoro, dell’azienda, ecc). Sono emersi 3
temi:

- la logica competitiva incorporata nel design dell’app


- tattiche individuali e collettive utilizzate dai lavoratori per controllare questo potere
- l’emergere di reti di solidarietà tra i lavoratori, la capacità delle persone di relazionarsi è stata resa
possibile dalle caratteristiche di Whatsapp.
Diverse forme e interfacce per utenti riguardo le statistiche per i lavoratori (es: glovo, deliveroo, uber eats).

Tentativo di interpretazione di questi dati per migliorare la propria “performance”. Le aziende danno
informazioni minime sui calcoli della performance, quindi ogni lavoratore ha la propria teoria. Queste teorie
formano l’immaginario algoritmico: l’insieme, idee che formiamo per immaginare il funzionamento degli
algoritmi: folk theories, non sono scientifiche, non sono verificate scientificamente, ma sono ipotesi sul
funzionamento che tutti abbiamo e alimentano il nostro immaginario algoritmico/consapevolezza
algoritmica.

Più informazioni hanno più le teorie dei lavoratori possono essere accurate e possono agire in funzione di
queste, avendo un effetto nel comportamento.

Grazie allo scambio reciproco si costruisce l’immaginario.

Intervistando, osservando i lavoratori e le loro conversazioni sono emerse delle tattiche, individuali o
collettive, per diverse finalità:

- aumentare gli introiti


- opporre resistenza alle aziende
Tattiche individuali:

- lavorare per più app (cosa sconsigliata ma non negata)à


- rifiutare di seguire le indicazioni stradali suggerite dalle piattaforme per scegliere una strada più
breve e permette di guadagnare di più
In uno dei gruppi WeChat privati creati dai rider si stava condividendo la sua esperienza su come
completare di più ordini con altri:

“Per me i tempi di consegna sono stretti […], anche se io era ancora all'Usha No.2 Market [il rider non era
arrivato presso la residenza del cliente], li chiamerei ancora (il cliente) e chiedere loro di ritirare il pasto in
anticipo [In questo modo il rider può lasciare il cibo al cliente quando arriva], devo partire appena arrivo dal
posto, altrimenti andrà male [il tempo di consegna non sarà basta], ancora una cosa, non seguo i percorsi
fissati dalle piattaforme”. disse il rider A Il pilota B era d'accordo con ciò che A aveva detto e lo aveva
ringraziato condivisione e Rider C ha ammirato A per averne completati così tanti ordini: “Così triste, ho
sprecato una settimana, a differenza di te, l'hai fatto ha guadagnato di nuovo migliaia di RMB questa
settimana”.

- “Shuadan”: creare dei falsi ordini in maniera artificiale, generano una domanda dove la domanda
non esiste. Una truffa a danno dell’app, ma un modo per il rider di guadagnare qualcosa.
In uno dei gruppi WeChat, Rider D era alla ricerca di partner per "shuadan" insieme:

“C'è qualcuno che lavora su Flash EX come me? C'è qualcuno interessato

‘Shuadan’? Il numero di ordini che ho completato finora non è sufficiente.”.

In un altro gruppo WeChat, Rider E stava condividendo il suo ultimo "shuadan" esperienza con altri piloti
del gruppo: “C'è un nuovo negozio di dolci in franchising all'angolo della strada, ho appena incontrato
questo negozio era ‘shuadaning’, molto carino.”

Rider

- led “shuadan” significa che un cavaliere ne usa due o più telefoni cellulari per agire come il cliente e il
rider contemporaneamente. Nella prima fase, il rider utilizza un telefono e

numero per registrare un account cliente su un alimento dell’app della piattaforma di consegna, quindi
utilizza un altro telefono e numero per registrare un account pilota sulla stessa piattaforma.Nella seconda
fase, il rider finge di essere un cliente, effettua un ordine sul primo telefono e poi usa il secondo telefono
per afferrare immediatamente l'ordine che hanno appena piazzato. Per aumentare il tasso di successo di
"Shuadan", il rider sceglierà un ristorante a lui più vicino e altri motociclisti nelle vicinanze, quindi c'è
un'alta probabilità che l'algoritmo invierà loro l'ordine perché sono i rider più vicino al ristorante. Così
facendo, il rider può aumentare il numero dei loro ordini, raggiungere gli obiettivi che vogliono, e ottenere
il corrispondente bonus.

- ordini rifiutati, magari collettivamente per far si che l’algoritmo alzi il prezzo dell’ordine.
- creare account fake su più telefoni contemporaneamente:per moltiplicare la possibilità di ricevere
ordini da più profili.
- prenotazione automatica dei turni di lavoro (bot)
Qualsiasi app permette di prenotare lo slot orario per ogni lavoratore, ma non è possibile scambiare il
proprio turno con qualcun altro. Alcuni lavoratori, tramite Whatsapp si coordinano per aggirare i limiti
imposti dall’affordance dell’app: liberando lo slot in modo che ci sia qualcuno dall’altra parte pronto a
“prenotare” quello slot. Non c’è la certezza matematica che questo funzioni.
- furto dell’ordine
- consegna al di fuori della piattaforma
- Diari come tecnologie del sè

Tattiche collettive:

- disconnessione solidare
- rifiuto coordinato dell’ordine
- Scambio reciproco dei turni di lavoro
- sabotaggio
- accessibilità della piattaforma contestata

Tramite incontri online i lavoratori alimentano il bisogno di costruire un legame con altri lavoratori, tentano
di organizzarsi per sopportare la precarietà e le condizioni di lavoro di questo ambiente.

Teoria a cui sono pervenuti: questi gruppi fossero delle infrastrutture per l’apprendimento, per la resistenza
e solidarietà.

Spazi di apprendimento: i nuovi arrivati possono imparare dai lavorato più esperti trucchi del mestiere per
lavorare meglio.

Ambienti dove si impara dai propri pari, costruendo l’immaginario collettivo.

7 modi principali in cui i corrieri di solito impiegano i gruppi WeChat/WhatsApp per aiutarsi a vicenda.
Questi pratiche diverse rappresentano anche diverse manifestazioni di solidarietà tra i corrieri:

- possibile aumento delle informazioni in merito ai sussidi/promozioni degli ordini (temporanee);


- informazioni per darsi assistenza;
- informazioni sul traffico in tempo reale
- scambiarsi ore di lavoro
- supporto per i nuovi arrivati
- spacchettamento (scoprire) collettivo degli algoritmi delle piattaforme
- fornire assistenza in casi di emergenza

Comprendiamo i gruppi di chat privati online come "infrastrutture di apprendimento, resistenza e


solidarietà”:

1. ambienti di apprendimento: In questi spazi online, i nuovi arrivati possono imparare dai rider più esperti
e tutti i membri possono scambiarsi suggerimenti e trucchi. Qui tutti imparano dai loro coetanei e insieme
costruiscono un immaginario algoritmico collettivo (Bucher 2017).

2. “trascrizioni nascoste” della resistenza: Nella sua analisi delle pratiche quotidiane di resistenza, Scott
(1990) traccia una sottile differenza tra forme di resistenza che si manifestano apertamente di fronte al
potere, e forme che si manifestano solo lontano dallo sguardo del potere (vedi Anwar e Graham 2020)

Abbiamo trovato tracce di queste trascrizioni nascoste nelle conversazioni che avvengono tra i rider
all'interno delle chat private di WeChat. A causa della paura di essere puniti dal

amministratori nei gruppi WeChat ufficiali, i motociclisti cinesi preferiscono creare o iscriversi
gruppi privati in cui tutti i membri sono rider. Dal momento che le piattaforme e gli affiliati sono esclusi da
questi gruppi "nascosti", i motociclisti possono lamentarsi, confrontarsi o sfidarli senza timore di
rappresaglie. Mentre nelle chat aziendali i motociclisti cinesi non si lamentano mai, nelle chat private
esprimono apertamente il loro dissenso, consapevoli di trovarsi in un ambiente protetto, lontano dal
controllo panottica delle piattaforme. È in questo ambiente protetto in cui i motociclisti iniziano a
comprendere le conseguenze del potere algoritmico, diventando consapevoli dei vincoli che pone sulla loro
agenzia. Questo ambiente online è un incubatore di future pratiche di resilienza e resistenza.

3. spazi solidali Questi ambienti online forniscono quello che Tassinari e Maccarone (2020) hanno chiamato
“sostegno reciproco giorno per giorno”. Abbiamo mostrato come i rider formano gruppi online più piccoli
da partecipazione a gruppi online più grandi. Questi ultimi consentono ai lavoratori di incontrarsi e legarsi ai
loro coetanei. Da questi incontri online nascono relazioni che continuano offline e producono gruppi online
più piccoli, che a loro volta forniscono, come abbiamo visto, più forti e legami di solidarietà più duraturi. Le
piattaforme di consegna di cibo online progettano le loro app per governare ogni lavoratore
individualmente, senza consentire loro di comunicare con gli altri colleghi. Le chat private, d'altra parte,
forniscono intenzionalmente un'accessibilità tecnologica omessa dalle piattaforme: consentono la
comunicazione tra pari, che a lungo correre crea un ambiente favorevole alla costruzione di legami di
solidarietà, scambi di informazioni e una maggiore consapevolezza della propria condizione di subalternità.

Solidarietà algoritmica:

Significato n. 1

Solidarietà «mediata da» algoritmi. Molti corrieri di consegna di cibo trovano opportunità di unirsi grazie ad
altri tipi di algoritmi: quelli che li aiutano a trovare persone che la pensano allo stesso modo su Douyin o Tik
tok o You Tube, dove i gig worker condividono esperienze e consigli.

Significato #2

algoritmi di solidarietà «intorno».

Solidarietà imprenditoriale vs oppositiva

La solidarietà che nasce dall'incrocio tra offline (strade e piazze) e interazioni online (chat private)
rappresenta una rete di sicurezza per i lavoratori e ne aumenta la resilienza. Ma può davvero essere
considerato una forma di resistenza radicale al potere delle piattaforme? O non è, piuttosto, un modo per
sopravvivere in questo precario ecosistema con l'unico scopo di aumentare i guadagni di tutti i membri
della comunità? In effetti, in molti casi, la solidarietà algoritmica che abbiamo osservato emergere tra i
corrieri di consegna di cibo non è altro che una rete di mutuo soccorso, senza alcuna dimensione "politica"
né alcuna intenzione di cambiare radicalmente le loro condizioni di lavoro.

Questo tipo di solidarietà, sebbene non incoraggiata in alcun modo dalle piattaforme, mira semplicemente
all'ottimizzazione collettiva delle proprie capacità “imprenditoriali” ed è stato notato anche da altri studiosi
in altri tipi di lavoro da concerto. Gli studiosi Filippino Cheryll Ruth Soriano e Jason Vincent Cabañes (2020),
ad esempio, la chiamano solidarietà “imprenditoriale”. Nel loro studio sui lavoratori delle piattaforme
freelance filippini, Soriano e Cabañes hanno evidenziato quanta “solidarietà imprenditoriale” emerge
attraverso i gruppi Facebook creati dai lavoratori. Sostengono che questo tipo di solidarietà non solo li
autorizza con un senso di agenzia, ma tende anche a migliorare il loro spirito imprenditoriale e “servono a
smorzare le possibilità di sfidare in modo significativo le strutture di potere alla base della piattaforma
digitale del lavoro” (2020: 9). La solidarietà imprenditoriale è abbastanza comune anche tra i corrieri a
domicilio, come abbiamo visto

Prima. Tuttavia, oltre a questa forma di “solidarietà imprenditoriale”, abbiamo notato anche una critica e
solidarietà di tipo oppositivo. Esempi di questo tipo di solidarietà includono il rifiuto collettivo degli ordini di
protestare contro prezzi di consegna troppo bassi, azioni di sabotaggio delle consegne, costruzione di
stazioni dove le persone possono incontrarsi, riparare i loro veicoli e costruire legami sociali.

Le tattiche di gioco che abbiamo messo in primo piano sono la prova di forme emergenti di

solidarietà tra rider che rifiutano l'etica competitiva codificata negli algoritmi delle app globali di consegna
di cibo e si organizzano invece per sostenersi a vicenda sopravvivere in questa economia spietata.
Nonostante la mancanza di opportunità di azione collettiva e un lavoro altamente controllato, i corrieri
sono in grado di esercitare l'agency individuale e collettiva a

migliorare parzialmente e temporaneamente le proprie condizioni di lavoro.

Il nostro lavoro mira a dimostrare che, nonostante il grave squilibrio di potere e

le ingiustizie che definiscono la piattaforma della società, le forme di resistenza e solidarietà possono
emergere ogni giorno.

Le chat private sono abilitate da app come WhatsApp e Telegram. Sono multipiattaforma app di
messaggistica che consentono agli utenti di scambiare messaggi sul traffico dati di un telefono senza pagare
extra per i messaggi di testo brevi e si sono dimostrati molto efficaci nel promuovere la comunicazione
peer-to-peer sia nell'attivismo dei media contemporanei che nel lavoro da concerto.

Lo studio delle interazioni sociali di attivisti e lavoratori all'interno delle chat abilitate da queste app
consente ai ricercatori di osservare le dinamiche sociali nel tempo e fornisce un enorme patrimonio di dati.

Condurre ricerche etnografiche all'interno delle app di messaggistica istantanea rappresenta


un'innovazione pratica nel campo dell'etnografia digitale, ma comporta anche notevoli sfide etiche.

Barbosa e Milan (2019) si chiedono “come sviluppare un approccio creativo al digitale

etnografia che non ha danneggiato o interferito con le interazioni tra i membri della chat?"

Nell'accedere a questo nuovo campo di ricerca, abbiamo seguito il loro approccio che si basa sul principio di
“non fare danno” nei gruppi di chat privati.

L'accesso al campo è iniziato in Italia. Stefano (nome di fantasia) è stato il primo custode che ci ha fatto
conoscere il campo. Stefano era un nostro amico, con cui abbiamo avuto diverse conversazioni del suo
lavoro di corriere. Ci ha presentato ad altri corrieri che lavoravano nella stessa città e il primo gruppo
WhatsApp di lavoratori, facilitando i nostri incontri con i suoi membri come ricercatori, ma anche come suoi
amici. Attraverso questo gruppo, abbiamo scoperto l'esistenza di altri gruppi simili, sia a livello nazionale
che locale, in altre città. Abbiamo iniziato a chiedere di aderire ai gruppi privati dei lavoratori a luglio 2020.
Abbiamo spiegato in modo trasparente il nostro programma di ricerca e ci siamo presentati come
ricercatori in ciascun gruppo. Una volta che eravamo stati ammessi dagli amministratori, abbiamo chiarito
che alcuni di loro potrebbero essere invitati ad un

colloquio in una fase successiva. L'ammissione ci è stata concessa grazie alla conoscenza preventiva con
alcuni membri del gruppo di chat, che fungevano da intermediari di fiducia. Nel giro di un paio di mesi,
abbiamo fatto parte di decine di gruppi WhatsApp di corrieri italiani, attraverso i quali abbiamo reclutato i
primi intervistati, che poi ci hanno presentato altri loro amici corrieri. Abbiamo quindi esteso questo
metodo di ricerca anche in altri paesi.

I ricercatori che hanno lavorato con noi al progetto AlgoRes sono stati tutti formati attraverso un workshop
interno e hanno replicato questo modello nei rispettivi lavori sul campo.

Gli intervistati hanno accettato di partecipare a condizione di completa anonimizzazione e protezione dei
dati dell'intervista. Sono state prese solo schermate di immagini pubblicate dai corrieri nei gruppi
WhatsApp e WeChat dopo aver chiesto il consenso agli autori dei messaggi. Inoltre, abbiamo discusso con i
nostri intervistati quali tattiche algoritmiche potrebbero essere condivise e quali era meglio tenere nascosti
perché potevano rappresentare una minaccia diretta o indiretta ai lavoratori.

I dati originati dal progetto sono stati condivisi dai membri del team in modo sicuro e crittografato in linea.
È stato chiarito fin dall'inizio che ogni ricercatore poteva utilizzare i dati raccolti attraverso le loro ricerche, a
condizione che ciò sia stato notificato ai Co-PI. Questo ha permesso ai ricercatori di promuovere le loro
carriere utilizzando i loro dati nelle loro tesi, discorsi e accademici e pubblicazioni non accademiche.

Questi gruppi sono “verbali nascosti della resistenza” (termine coniato da James Scott, parla di forme,
resistenza quotidiana non capace di ribaltare un rapporto di forza, ma permettono alle persone di
sopravvivere, si manifestano lontano dallo sguardo del potere). Intendeva tutti quegli atti di persone che
hanno accettato la subalternità.

Luoghi dove si comincia ad alimentare un immaginario di protesta, molte volte le proteste venivano
organizzate proprio tramite queste chat.

Tramite l’utilizzo di queste chat, i corrieri è come se avessero forzato l’affordance delle app utilizzando i
gruppi whatsapp.

Le chat le hanno addomesticate per piegarle ai loro fini. In questi spazi cresce la solidarietà mediata dagli
algoritmi e cresce attorno a questi. Molti lavoratori scoprono tramite delle app degli influencer (lavoratori
come loro che raccontano la loro attività su tiktok: es), tramite gli algoritmi che hanno suggerito questi
account, potranno scoprire idee su come lavorare meglio oppure creare una rete interpersonale.

Studiando il loro universo valoriale, sono emersi due tipi di corrieri:

- lavoratori che si considerano autonomi e sono a favore di questo tipo di lavoro e delle piattaforme
e che hanno incorporato il punto di vista delle piattaforme, credono che sia democratico come
lavoratore e come algoritmo.
Lettura preferita che incorpora questa credenza
- un numero, minoranza importante, si rende conto di essere sfruttata da questo lavoro. è critica con
le scelte delle aziende, ma non ne può farne a meno. Cooperano tra di loro per superare.
Logica di rifiuto in toto, mettendo in discussione la logica iscritta nella app, usando la solidarietà. Tra coloro
che optano per la solidarietà, emergono due tipi:

- solidarietà imprenditoriale: volta all'efficienza, al miglioramento del proprio lavoro. Questi gruppi
sono importanti per il sistema
- solidarietà oppositiva

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