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Tratto da:

Creatività, pensiero divergente e pensiero laterale per una didattica


semplessa
Iolanda Zollo, Elias Kourkoutas & Maurizio Sibilio

https://www.researchgate.net/publication/284195737_Creativita_pensiero_divergente_e_pensiero_
laterale_per_una_didattica_semplessa

Formazione docente e complessità educativa

Le istituzioni formative, secondo una visione complessa ed adattiva del sistema educativo e del processo di
insegnamento-apprendimento, riflettono i mutamenti del contesto socio-culturale. I processi formativi, infatti,
non sono neutrali allo sviluppo delle tecnologie e dei media digitali, rispecchiano i nuovi stili e ritmi di
apprendimento, interpretano i diversi bisogni educativi degli studenti nella forma soggettiva, collettiva e
speciale (disabilità, disturbi evolutivi specifici, disagio affettivo-emotivo, svantaggio socio-culturale e
linguistico), determinando condizioni di complessità e di dinamicità che, negli ultimi decenni, caratterizzano
i contesti scolastici italiani (Rivoltella & Rossi, 2012; Chiappetta Cajola & Ciraci, 2013).
Alla luce delle possibili implicazioni di tale scenario, amplificate alla fine del secolo scorso dall’avvento,
nei contesti scolastici italiani, dell’autonomia didattica, organizzativa, di ricerca, di sperimentazione e di
sviluppo (Legge 15 marzo 1997, n. 59, art. 21; D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275), il ruolo dei docenti ha acquisito
una nuova centralità. La didattica ha assunto, infatti, un forte protagonismo nella scuola, rappresentando il
presupposto per interpretare la nuova funzione reticolare del sistema formativo e costituendo l’unico strumento
in grado di declinare i reali bisogni educativi dei discenti con le competenze professionali dei docenti.
L’autonomia ha, quindi, favorito in Italia lo sviluppo di un’identità scientifica della didattica, sollecitando
un filone della ricerca educativa capace di rispondere alle nuove istanze della formazione e costruendo un ricco
apparato epistemologico in grado di recepire ed armonizzare studi ed evidenze derivanti sia dalle scienze
umane che dalle scienze della natura.
In questo originale spazio della ricerca educativa si inseriscono gli attuali paradigmi dell’enattivismo, della
neurodidattica e della semplessità (Rossi, 2011; Rivoltella, 2012; Sibilio, 2012a; 2012b; 2013), accomunati da
una visione complessa, sistemica, plurale e transdisciplinare dell’esperienza formativa. Queste linee di ricerca,
se da una parte hanno cercato di contribuire ad una progressiva rivisitazione degli approcci e dei domini
scientifici ritenuti indispensabili per decifrare la complessità dell’esperienza formativa, dall’altra si sono
dimostrate in grado di interpretare il cambiamento sollecitato dai diversi interventi normativi e regolamentari
che hanno accompagnato il processo di autonomia, compresi quelli volti a promuovere i processi di inclusione
degli alunni con specifiche esigenze educative attraverso determinati percorsi formativi (Legge 8 ottobre 2010,
n. 170, art. 4; Linee Guida 12 luglio 2011, art. 7; Direttiva Ministeriale 27 dicembre 2012, art. 1, c. 6).
Lo snodo di questo necessario processo di cambiamento, sollecitato dalle norme ed avvalorato dalle attività
di ricerca, è stato la formazione delle competenze professionali dei docenti, indispensabili per interpretare una
funzione attiva ed efficace nell’esperienza formativa.
Un particolare richiamo al significato che assume la formazione docente in materia di didattica emerge dal
Profile of Inclusive Teachers redatto dalla European Agency for Development in Special Needs Education
(2012) che, tra i valori necessari agli insegnanti per esercitare la loro professione in ambienti scolastici
inclusivi, indica il “Personal Professional Development - teaching is a learning activity and teachers take
responsibility for their lifelong learning” (European Agency for Development in Special Needs Education,
2012, p. 16).
Da una prima analisi delle aree di competenza, delle conoscenze e dei comportamenti associati a tale valore,
si delinea una prospettiva secondo la quale gli insegnanti sono “reflective practitioners” e la loro formazione
iniziale è intesa come “a foundation for ongoing professional learning and development” (European Agency
for Development in Special Needs Education, 2012, p. 16). Partendo, quindi, dall’assunto che la formazione
costituisce una modalità complessa e plurale per la costruzione delle competenze didattiche dei docenti, ogni
insegnante, se è competente, potrà valutare il proprio operato e dimostrarsi un professionista responsabile ed
efficace. Difatti, il docente, solo se è in possesso degli strumenti per cogliere ed interpretare l’interazione
derivante dalla sua didattica, può essere in grado di riflettere sul proprio lavoro, sulle proprie prestazioni
professionali e sulle capacità che queste ultime hanno nel favorire il processo di insegnamento-apprendimento.
L’insegnante, dunque, riscontra la propria competenza nella qualità dell’interazione didattica, sviluppando
efficaci e flessibili strategie di problem solving (European Agency for Development in Special Needs
Education, 2012) per promuovere l’innovazione e l’apprendimento individuale ed in modo da rispondere al
bisogno professionale e all’esigenza funzionale di fronteggiamento della complessità formativa.
In tal senso, in una realtà proteiforme come quella educativa, caratterizzata dalla complessità e dalla
dinamicità dei suoi contesti, dalla varietà e dalla pluralità dei bisogni dei discenti, la logica del pensiero
creativo, se declinata in esperienze formative inserite nella costruzione delle competenze del docente, potrebbe
rivelarsi un’interessante strategia per la risoluzione di situazioni problematiche (Canevaro, 2013).
A questo proposito, è possibile riscontrare interessanti analogie nelle riflessioni scientifiche di Alain
Berthoz, fisiologo della percezione e dell’azione, il quale, nella sua teoria della semplessità, ipotizza che le
soluzioni elaborate dagli organismi viventi per decifrare e fronteggiare la complessità, possano essere
considerate valide ed applicabili all’intera classe dei sistemi complessi adattivi.
Uno dei principi della semplessità descritti da Berthoz è la deviazione, ovvero una
“regola di semplificazione del processo di adattamento che utilizza una complessità accessoria per rendere più
efficace il controllo del sistema, [...] un percorso risolutivo non lineare, capace di deviare da percorsi
schematicamente consolidati per utilizzare combinazioni di variabili semplici che evolvono in variabili composte,
più efficaci per la risoluzione di situazioni problematiche complesse” (Berthoz, 2011, p. 20).

Ogni itinerario formativo destinato agli insegnanti dovrebbe, dunque, consentire di costruire una capacità
professionale di deviazione didattica, ovvero di individuazione di strategie flessibili ed alternative a quelle che
frequentemente si consolidano in prassi troppo spesso cristallizzate. La deviazione, sul piano didattico,
risponde all’esigenza insita nell’insegnamento di ricercare modalità diverse di trasposizione didattica che
offrano al docente una pluralità di soluzioni volte ad assicurare un maggiore controllo del sistema.
I presupposti di deviazioni da utilizzare in campo didattico sono rintracciabili nella facoltà del soggetto di
fronteggiare la complessità delle situazioni problematiche, attingendo ad una forma di flessibilità cognitiva
che è stata oggetto di molteplici studi e ricerche, con particolare riferimento a quelli sulla creatività (Goleman
et al., 1999; Runco 1999), sul pensiero divergente (Guilford, 1950; 1967) e sul pensiero laterale (de Bono
1985; 1994) che hanno dimostrato interessanti implicazioni educative e sono avvalorati da una ricca letteratura
scientifica.

Creatività e pensiero divergente

La prima teorizzazione sistematica del concetto di pensiero divergente risale allo psicologo statunitense
Joy Paul Guilford che, in un articolo dal titolo Creativity pubblicato nel 1950 sull’American Psychologist,
individua un pensiero divergente meno vincolato a schemi rigidi e razionali, aperto a nuove soluzioni ed in
grado di dar vita ad un’inedita combinazione di elementi, collocandolo accanto al pensiero convergente che
aveva caratterizzato la ricerca scientifica fino a quel momento.
Secondo Guilford (1950), quindi, il pensiero convergente opera entro schemi stabiliti, affronta il problema
con un determinato metodo e, attraverso quest’ultimo, trova l’unica soluzione possibile; il pensiero divergente,
invece, agendo fuori dagli schemi stabiliti, consente di approcciarsi al problema con un’impostazione nuova,
pervenendo a soluzioni originali ed identificando il processo creativo con le dinamiche tipiche del problem
solving.
Guilford (1967), nell’analizzare e nel valutare le capacità e le abilità del pensiero divergente, identifica
quattro fattori fondamentali:
• fluidità e speditezza del pensiero (facilità a rispondere ad un problema dato con un gran numero di
idee e con un linguaggio ricco e fluido);
• flessibilità e facilità ideativa (abbandonare schemi di pensiero consueti e rispondere con idee di
categorie varie);
• originalità (offrire risposte inusitate, rare e difficilmente evidenziabili in situazioni intricate);
• elaborazione (capacità di aggiungere dettagli alla prima risposta data arricchendola e rendendola
complessa).
Il pensiero divergente, dunque, si esprime non solo nella ricerca di soluzioni esatte, ma anche nella
molteplicità e nell’originalità delle risposte fornite, nella ricchezza di idee e nella ristrutturazione della materia;
in questo senso la definizione dello psicologo statunitense coincide in gran parte con il concetto di creatività
(Guilford 1967; Terrassier, 1985).
Da qualche decennio, le neuroscienze e le scienze cognitive, ridimensionata la concezione della creatività
come una “dote innata”, sono concordemente giunte alla conclusione che “il processo creativo è tipico del
cervello umano e quest’ultimo è naturalmente strutturato per pensare creativamente” (Cesa-Bianchi et al.,
2009, p. 14), favorendo l’ipotesi di riconoscerne il valore potenziale ed il carattere dinamico.
La creatività, dunque, da caratteristica esclusiva di poche menti eccezionali diventa il tratto distintivo del
pensiero umano, l’espressione naturale dell’interiorità dell’individuo.
Secondo la prospettiva della ricerca scientifica e psicologica, la creatività consente all’essere umano di
adattarsi e di cercare nuove soluzioni ai problemi più svariati; essa può essere intesa come uno strumento di
deviazione da azioni risolutive stereotipate e modellizzate in quanto, superando la realtà organizzata, può
scardinare opinioni e convinzioni e fornire una nuova prospettiva (Cesa-Bianchi et al., 2009).
Tale concezione prevale in molti studiosi tra cui Daniel Goleman, il quale, ritenendo che “lo spirito creativo
sia alla portata di chiunque si senta spinto a provare e a migliorare le cose, di chiunque voglia esplorare nuove
possibilità”, intende la creatività come capacità di miglioramento e di adattamento (Goleman et al., 1999).
Condividendo tale visione, Mark A. Runco, uno dei maggiori studiosi del pensiero creativo, afferma che
l’elemento più importante che caratterizza la creatività sia la flessibilità, che consente di vedere la stessa cosa
da più punti di vista, di confrontarsi con i cambiamenti e di escogitare nuove soluzioni permettendo soprattutto
di praticare un pensiero “contaminato” e non autarchico (Runco, 1999).

Il pensiero laterale di Edward de Bono

Edward de Bono, studioso impegnato nel campo della creatività e dei meccanismi della mente, ritiene che
il pensiero creativo sia un’abilità che può essere rapidamente aumentata ed incrementata; lo psicologo e
medico maltese, infatti, applicando la creatività al mondo degli affari e collegandola alla competitività
aziendale, la definisce come “la capacità di pensare e di agire diversamente che può essere sviluppata in modo
sistematico e deliberato da chiunque voglia mettere in pratica i principi del pensiero laterale” (de Bono, 1994,
p. 28).
Uno dei metodi teorizzati ed utilizzati da Edward de Bono per lo sviluppo di abilità di problem solving
creativo è quello dei “Sei Cappelli per Pensare” (1985). Lo studioso, attraverso la metafora dei cappelli,
insegna ad affrontare i problemi assumendo punti di vista differenti e propone sei diverse prospettive dalle
quali è possibile generare un’idea.
La riflessione di Edward de Bono parte dalla modalità con la quale ci si approccia alle situazioni
problematiche, considerando in molti casi un solo punto di vista e riducendo, in tal modo, le soluzioni possibili.
Secondo lo studioso maltese, ogni modalità di risoluzione di una situazione problematica può essere
paragonata ad un cappello che non solo definisce un certo tipo di pensiero, ma ha anche un proprio colore (de
Bono, 1985); dunque, anziché provare a coprire con il pensiero tutti gli aspetti, è possibile separare i vari tipi
di pensiero e portarli a termine separatamente:
• il cappello bianco riguarda i puri fatti, le cifre, i dati, le informazioni e rispecchia il pensiero verticale;
• il cappello rosso fornisce il punto di vista emotivo: non solo emozioni e sensazioni, ma anche
presentimenti ed intuizioni;
• il cappello nero è relativo agli aspetti negativi ed alle ragioni per cui una cosa non può funzionare;
• il cappello giallo comprende l’ottimismo, la speranza, i pensieri positivi e le opportunità;
• il cappello verde indica la creatività, il prodursi di nuove idee ed è tipico del pensiero laterale;
• il cappello azzurro è connesso al controllo e all’organizzazione del pensiero, è relativo, quindi, anche
all’uso degli altri cappelli.
I “Sei Cappelli per Pensare” costituiscono “uno strumento tangibile per tradurre l’intenzione in attuazione”
(de Bono, 1985, p. 23) e, partendo dall’assunto che se si recita la parte del pensatore alla fine lo si diventa,
considerano l’intenzione come il primo passo verso la risoluzione di un problema; segue il momento
dell’attuazione: “il pensiero si adegua ai gesti e la finzione diventa realtà” (de Bono, 1985, p. 20).
Il pensiero laterale, dunque, secondo la proposta scientifica di de Bono (1994), è una sintesi tra proprietà e
volontà del soggetto ed è, quindi, considerabile sia come uno stato d’animo che come l’insieme di metodi ben
definiti. Questa originale armonizzazione tra la naturale attitudine del soggetto e la sua volontà a produrre un
cambiamento del suo punto di vista e dei suoi atteggiamenti è, appunto, l’espressione del pensiero laterale.
Declinato in campo formativo l’esercizio del pensiero laterale teorizzato da de Bono (1994) richiederebbe
itinerari esperienziali per la costruzione di competenze professionali dell’insegnante, da svolgersi attraverso
attività che mettano in campo la capacità del soggetto di esercitare la flessibilità e la deviazione nella
trasposizione didattica. Tale approccio richiama, quindi, il ruolo centrale della consapevolezza, ovvero la
capacità del docente di riconoscere i propri atteggiamenti e le modalità adottate per affrontare le situazioni
problematiche, anche rispecchiandosi nella visione che gli altri hanno costruito sulle prassi del proprio agire.
Il confronto con gli altri, individuato anche come uno dei valori del Profile of Inclusive Teachers (“working
with others - collaboration and teamwork are essential approaches for all teachers”, European Agency for
Development in Special Needs Education, 2012, p. 19), realizzato nelle diverse forme possibili con rigore
metodologico, consente un necessario rispecchiamento del docente che restituisce alla sua esperienza didattica
la consapevolezza della pluralità e della diversità percettiva, la coscienza del pericolo di un’inefficace
interazione capace di produrre una distanza tra docente e discente.
Il confronto avvalora, infatti, la tesi secondo cui la nostra visione delle cose è una possibilità simile a tante
altre; ne segue, dunque, la volontà di evadere da una struttura di pensiero per trovarne una migliore (de Bono,
1985).
In questa prospettiva, se una soluzione diretta prevede il ricorso, anche in campo formativo, alla logica
sequenziale, risolvendo il problema a partire dalle considerazioni apparentemente più ovvie, il pensiero
laterale si discosta da tale logica e cerca punti di vista alternativi. Il pensiero verticale in tal senso è, quindi,
logico, selettivo di idee e sequenziale, mentre il pensiero laterale è generativo di nuove idee e di nuovi concetti,
esplorativo, integrativo e, soprattutto, non sostitutivo di quello verticale, ma inteso come processo che segue i
meccanismi della percezione con la finalità di generare idee validamente supportate dalla logica.
A questo proposito, de Bono (1996) attribuisce aspetti perfettamente logici al pensiero laterale, in quanto
presenta caratteristiche divergenti e convergenti: entrambe i processi mentali, infatti, sono necessari alla
produzione di idee e si alternano in ogni elaborazione.
Lo studioso maltese, dunque, superando la visione del processo creativo diviso per fasi fondamentali,
individua un modello complesso ed intende il pensiero laterale come “una forma strutturata di creatività che
può essere usata in modo sistematico e deliberato” (de Bono, 2000).
Secondo de Bono (1996), il pensiero laterale dipende dal funzionamento del cervello come sistema che si
auto-organizza in modo da formare schemi asimmetrici; il cervello, da una parte, consente alle informazioni
in arrivo di organizzarsi in modelli, dall’altra usa tali modelli nel processo della percezione. Il modello è il
tracciato principale, ma può esservi anche una deviazione laterale, in quanto il pensiero può percorrere una
strada alternativa e tale deviazione dà luogo alla creatività (Cesa-Bianchi et al., 2009).
Il pensiero laterale, quindi, è concepito da de Bono (1996) come la modalità attraverso la quale il “cervello”
diventa “mente”, organo capace di pensare se stesso e divenire emulatore di nuove idee.

Pensiero creativo e didattica semplessa

Dal breve excursus diacronico della letteratura scientifica internazionale sui concetti di creatività, di
pensiero divergente e, più nel dettaglio, di pensiero laterale, emergono interessanti spunti di riflessione su
possibili declinazioni didattiche di tali teorie nella prospettiva di una didattica semplessa, ovvero di una
modalità di insegnamento capace di decifrare e di fronteggiare la complessità dei processi formativi e dei
contesti educativi.
Difatti, partendo dal concetto di semplessità coniato da Alain Berthoz (2011) e tenendo conto del
framework teorico relativamente al pensiero creativo, è possibile individuare significative analogie tra i due
ambiti.
Tra le principali abilità del pensiero creativo, divergente, laterale come analizzato, si annoverano la
flessibilità, l’adattamento e la deviazione (Guilford, 1967; Goleman et al. 1999; Runco & Thurstone, 1999;
Cesa-Bianchi et al., 2009), individuati da Berthoz come proprietà e come principi della semplessità, ovvero
strumenti e regole semplici che consentono di decifrare e fronteggiare la complessità, compresa quella
didattica.
La flessibilità e l’adattamento al cambiamento si configurano, infatti, come proprietà semplesse del sistema
didattico e dell’azione didattica che devono “essere in grado di percepire, catturare, decidere o agire in molti
modi (vicarianza) a seconda del contesto, compensare deficit, affrontare situazioni nuove” (Berthoz, 2011, p.
9). Si tratta, quindi, di strumenti che consentono di districarsi nelle multiformi difficoltà dell’esperienza
formativa, cogliendo proprio dalla situazione problematica l’opportunità di allargare la conoscenza attraverso
l’azione.
Analogamente de Bono (2000) propone, con il fine ultimo del pensiero, non di risolvere i problemi singoli,
ma di cogliere nuove interpretazioni della realtà. La ricerca di soluzioni adattive diverse e di alternative alle
situazioni abituali costituisce, in questo senso, l’espressione di una libertà di scelta nell’ampio repertorio di
soluzioni possibili per evitare di perdersi nella complessità.
In tal senso, principi semplessi come l’inibizione, il principio del rifiuto e il principio della deviazione
appaiono indispensabili per fare emergere le potenzialità del pensiero creativo che richiede la capacità di
inibire e di rifiutare soluzioni automatiche ed immediate, individuando strategie operative flessibili che,
attraverso una complessità accessoria, facciano emergere nuove modalità di azione didattica in grado di
favorire il processo di apprendimento.
Alla luce di tali riflessioni e tenendo conto della prospettiva sistemica delineata, l’acquisizione di abilità di
pensiero creativo, coerentemente con una visione semplessa della didattica, potrebbe costituire una valida
strategia per promuovere interventi formativi finalizzati a decifrare la complessità, fronteggiandone le insidie
da essa derivanti.

[….]

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