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Riassunto Psicologia dello Sviluppo

Psicologia dello sviluppo e dell'educazione (Università degli Studi di Padova)

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Sintesi di “PSICOLOGIA DELLO SVILUPPO”


Vianello - Gini - Lanfranchi

CAPITOLO 1
PSICOLOGIA DELLO SVILUPPO: CENNI STORICI E TEORIE

La nascita della Psicologia scientifica si colloca nel 1879, con la fondazione del primo
laboratorio di Psicologia sperimentale a Lipsia, ad opera di Wundt.

- Wundt e colleghi non erano interessati, però, allo studio dello sviluppo della mente, che
ha costituto, invece, un oggetto di interesse per i “funzionalisti” americani, impegnati a
capire come la mente si adattasse all’ambiente. Non esiste una data di nascita della
Psicologia dello sviluppo. Essa è stata influenzata da diversi studiosi, tra cui:
- C. Darwin con la teoria della selezione naturale, ha contribuito a focalizzare l’interesse
degli psicologi sui rapporti individuo-ambiente e sugli effetti che questo può avere sulla
mente. I suoi studi hanno evidenziato l’importanza di capire la psicologia umana in
un’ottica di sviluppo sia filogenetico (della specie) sia ontogenetico (individuale);
- F. Galton ha studiato le diverse influenze di fattori ambientali ed ereditari ed ha ideato
il coefficiente di correlazione, tutt’ora utilizzato;
- W. James era un funzionalista e riteneva che la Psicologia dovesse studiare
l’adattamento della persona, come organismo, all’ambiente, avvalendosi, anche, del
metodo comparativo, ovvero confrontando i processi psichici dell’adulto con quelli dei
bambini, dei malati di mente, degli animali e dei primitivi;
- G. S. Hall era un funzionalista ed ha utilizzato molto, per i suoi studi, il metodo
dell’inchiesta, somministrando dei questionari agli adulti e ponendo, così, le basi per la
ricerca in Psicologia dello sviluppo. Attualmente, i principali approcci psicologici si
rifanno a Comportamentismo, Psicologia della Gestalt, Piaget, Psicanalisi, Vygotskij,
Psicologia cognitiva e Neuroscienze; l’approccio dominante, tuttavia, risulta essere
quello cognitivista.

Comportamentismo

Secondo quanto stabilito da Watson, oggetto di studio della Psicologia deve essere
il comportamento umano, da osservare in modo oggettivo e senza farvi interpretazioni.
Pavlov ha formulato la teoria dell’apprendimento per condizionamento classico, secondo
cui, presentando in modo associato e ripetuto nel tempo uno stimolo condizionato ed uno
stimolo incondizionato, è possibile ottenere una risposta condizionata, anche solo, in un
secondo tempo, alla presentazione dello stimolo condizionato. L’apprendimento consiste
nell’aumentare la probabilità di emissione di una certa risposta da parte dell’organismo.
Skinner ha formulato la teoria dell’apprendimento per condizionamento operante,
in cui la conseguenza (rinforzo o punizione) è ciò che va o meno a rinforzare la risposta
dell’organismo. Bandura ha formulato la teoria dell’apprendimento sociale, in cui l’uomo è
in grado di apprendere per osservazione ed imitazione di modelli. Esso viene, dunque,
considerato un soggetto attivo, che osserva comportamenti specifici e ne ricava delle
regole generali. Non sono più necessari, quindi, i
rinforzi, sebbene sia possibile un rinforzo vicariante: osservando un modello rinforzato per
una determinata risposta, il soggetto astrae la regola secondo cui quella risposta è
socialmente desiderabile. Bandura ha anche introdotto il concetto di “autoefficacia”,
ovvero la convinzione della propria capacità di raggiungere un certo livello di prestazione

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in uno specifico ambito. Il Comportamentismo ha una visione molto riduttiva della mente
umana, ma ha sicuramente il merito di aver contribuito alla nascita di un approccio
sperimentale in Psicologia.

Psicologia della Gestalt


Il vocabolo tedesco “Gestalt” significa “forma” o, più propriamente, “struttura complessa”.
Secondo la Psicologia della Gestalt, la mente umana non è una tabula rasa nel processo
conoscitivo, ma, al contrario, struttura in modo attivo la realtà esterna, adattandola
secondo le leggi di organizzazione dell’esperienza. Questo approccio ha influenzato molto
il pensiero di Piaget.

Piaget
Il suo principale oggetto di studio è stato lo sviluppo dell’intelligenza, intesa come la
massima forma di adattamento umano all’ambiente; si è quindi occupato di epistemologia
genetica. Come Kant, egli era convinto del fatto che la mente umana fosse costretta ad
interpretare la realtà esterna, basandosi su schemi o strutture propri, non derivati
dall’esperienza. Credeva che l’intelligenza si fondasse su processi di assimilazione, ovvero
di adattamento della conoscenza della realtà alla mente umana, e su processi di
accomodamento, vale a dire di modificazione dell’organismo a fronte di aspetti della
realtà che non possono essere conosciuti sulla base degli schemi e delle strutture mentali
esistenti. Conoscere significa, perciò, trasformare la realtà. Piaget ha descritto lo sviluppo
cognitivo partendo dall’osservazione dei suoi tre figli e, poi, concentrandosi su un
campione più ampio. Ha identificato quattro fasi di sviluppo: lo stadio dell’intelligenza
senso-motoria (0-2 anni), lo stadio preoperatorio (2-7 anni), lo stadio operatorio concreto
(7-11 anni) e lo stadio operatorio formale (11-14 anni).
Piaget è stato accusato di aver sottovalutato le capacità di neonati e lattanti e di essersi
interessato più allo sviluppo di un soggetto epistemico ideale che alle persone reali.

Vygotskij
Secondo Vygotskij, i processi psichici superiori non derivano solo da fattori biologici,
bensì anche dai rapporti culturali : le basi naturali delle funzioni psichiche si evolvono in
superiori grazie all’utilizzo, da parte dell’individuo, di strumenti sia materiali (ex. bastone) sia
culturali. Lo strumento culturale più importante è il linguaggio, a cui Vygotskij attribuisce un
funzione di regolazione del comportamento: inizialmente, è l’adulto a dire al bambino cosa
possa o meno fare e, in un secondo tempo, il bambino sviluppa un linguaggio privato,
ovvero si dice, dapprima ad alta e poi nella mente, come comportarsi; infine, il linguaggio
viene interiorizzato e si origina il pensiero.
Vygotskij ha anche introdotto la nozione di zona di sviluppo prossimale, ovvero un insieme
di apprendimenti possibili nel breve termine per il bambino, per mezzo del sostegno di un
adulto o di un coetaneo più competente.

Psicologia cognitiva
Si sviluppa negli anni ’50, come opposizione al riduzionismo comportamentista. In un
primo momento, i cognitivisti consideravano la mente umana come un elaboratore di
informazioni e la descrivevano attraverso la metafora del computer (Human Information
Processing). Attualmente, il Cognitivismo si occupa dello studio dei processi cognitivi, tra
cui:
- memoria funzione cognitiva che si compone di tre stadi, che sono la codifica,
l’immagazzinamento ed il recupero. Viene suddivisa in memoria sensoriale, a breve
termine ed a lungo termine. La memoria a breve termine ha una capienza molto ridotta
ed in essa la traccia mnestica permane per circa 15-30 secondi; è, anche, una memoria
di lavoro. Si compone di un loop fonologico, di un taccuino visuo-spaziale, di un
esecutivo centrale e di un buffer episodico: i primi due sono dei magazzini che

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contengono, rispettivamente, items fonologico-verbali e di natura visuo-spaziale.


L’esecutivo centrale ha una funzione di controllo e di coordinazione delle altre
componenti, mentre il buffer episodico combina il materiale provenienti dai due
magazzini con materiale della memoria a lungo termine nel momento del recupero
mnestico.
La memoria a lungo termine, si divide in esplicita o dichiarativa ed implicita. La
memoria esplicita è consapevole e prevede la rievocazione per mezzo del linguaggio;
comprende la memoria semantica, caratterizzata della non consapevolezza del
momento specifico di immagazzinamento dell’informazione, e la memoria episodica, a
sua volta suddivisa in autobiografica (di episodi vissuti in prima persona) e memoria di
eventi (ad esempio, di episodi che sono stati solo raccontati e non vissuti, eventi che
non hanno rilevanza emotiva). La memoria implicita è una memoria del fare e contiene
le tracce di procedimenti routinari, aspetti procedurali e per lo più inconsci,
automatizzati;
- risoluzione di problemi (e di compiti) studiando le modalità di risoluzione dei problemi,
è possibile capire come funzionino il pensiero ed il ragionamento. Si distinguono un
pensiero produttivo, capace di creatività e di trovare soluzioni nuove ai problemi, ed
un pensiero riproduttivo, che è, invece, lineare e viene utilizzato per lo svolgimento dei
compiti, in cui ciò che conta è solo procedere in modo ordinato e senza fare errori;
- metacognizione come il pensiero controlla se stesso e cosa sa di se stesso. Sembra che
gli individui più competenti in metacognizione siano, anche, avvantaggiati nelle
prestazioni cognitive;
- intelligenza secondo Sternberg, si compone di tre processi fondamentali, che sono i
metacomponenti, per la pianificazione, i componenti di performance, per l’esecuzione,
ed i componenti che regolano l’acquisizione delle conoscenze, che associano
informazioni vecchie e nuove. Gardner, nella sua teoria delle intelligenze multiple, ha
identificato sette tipi di intelligenza: linguistica, musicale, logico-matematica, spaziale,
corporeo-cinestesica, personale ed interpersonale; ad esse ne ha aggiunte, in seguito,
altre due, ovvero l’intelligenza esistenziale e quella naturalistica;
- funzioni esecutive operazioni che consentono di individuare un problema o obiettivo, di
pianificare le operazioni mentali e le azioni comportamentali da mettere in atto per
risolverlo, di monitorare la propria performance e di modificare, eventualmente,
l’esecuzione, in caso di necessità. Si considerano le funzioni esecutive come coinvolte
in tutti i comportamenti intelligenti e, contrariamente a quanto avvenisse in passato, si
ritiene che siano presenti già fin dai primi anni di vita. Da un punto di vista
neuropsicologico, vengono collocate a livello frontale.

L’approccio interattivo-cognitivista si occupa dello studio del comportamento sociale


in termini diadici e si fonda sulla convinzione dell’esistenza di una predisposizione innata
nell’uomo alla socialità. Questa idea si oppone a quelle psicanalitiche e
comportamentiste, che non considerano la socialità una motivazione primaria ma, al
contrario, rispettivamente un comportamento che viene messo in atto per soddisfare il
proprio bisogno di cibo od una risposta appresa in quanto precedentemente rinforzata.
Fodor, nella sua opera “La mente modulare”, ha descritto la mente umana come
caratterizzata da un funzionamento modulare, in cui ogni modulo ha una propria funzione
ed è indipendente dagli altri. In “Oltre la mente modulare”, Karmiloff-Smith propone una
visione meno rigida di quella di Fodor, considerando la modularizzazione come un prodotto
dello sviluppo e non come una condizione di partenza. Tomasello non nega il ruolo di
componenti innate nello sviluppo cognitivo umano e ritiene che l’apprendimento culturale
(per imitazione, istruzione e collaborazione) abbia luogo grazie alla capacità, tipicamente
umana, di riconoscersi nei propri cospecifici, capacità che emerge tra i 9 ed i 12 mesi.

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Presso l’approccio neurocostruttivista, infine, il cervello viene considerato più plastico che
presso le posizioni innatiste. L’azione dei geni non viene vista come predeterminata, ma
come dipendente, anche, dall’espressione di altri geni e dall’azione dell’individuo. Lo
sviluppo di mente e cervello viene descritto come tendente ad una crescente complessità
e differenziazione.

CAPITOLO 2
METODI DI RICERCA IN PSICOLOGIA DELLO SVILUPPO
Vengono, di seguito, descritti i principali metodi di ricerca applicati nell’ambito della
Psicologia dello sviluppo. La scelta di un metodo al posto di un altro dipende, chiaramente,
dall’oggetto di studio e dagli obiettivi della ricerca. Va da sé che ottenere risultati uguali
con metodi diversi consente di rafforzare la fiducia nelle conclusioni. Essenziale è, in ogni
caso, una mentalità sperimentale, indipendentemente dal tipo di metodo utilizzato.
Disegni di ricerca longitudinali
Negli studi longitudinali, uno stesso campione viene valutato per un certo periodo di tempo
ad intervalli decisi dallo sperimentatore. Questi studi hanno il vantaggio di permettere una
buona analisi dello sviluppo individuale di una specifica variabile, oltre al fatto che sono
utili per osservare gli effetti di particolari esperienze nel corso dello sviluppo. Richiedono,
tuttavia, molto tempo e non sono rare le perdite di partecipanti, che spesso sono già pochi,
trattandosi di progetti che possono durare, persino, molti anni: coloro che scelgono di
restare potrebbero, d’altro canto, avere delle caratteristiche particolari. Sono, infine, molto
costosi anche in termini di risorse.
Disegni di ricerca trasversali
Negli studi trasversali, si confrontano diverse coorti per studiare rapidamente le differenze
tra le età di una stessa variabile. Un vantaggio è dato dalla facile realizzazione e
replicabilità, ma vi sono, anche degli svantaggi. In primo luogo, ogni gruppo viene valutato
una sola volta, il che non offre la possibilità di osservare come gli individui che lo
compongono varino nel tempo. In secondo luogo, è possibile che ci siano delle variabili
che influiscono solo un gruppo e non sugli altri osservati.
Esperimenti e quasi-esperimenti
Il metodo sperimentale è il metodo scientifico più potente: si parte da un’ipotesi da
verificare, si dispone una situazione sperimentale e si valutano obiettivamente le ipotesi. Le
ipotesi derivano, il più delle volte, da teorie, ovvero insiemi di proposizioni, tra loro interrelate,
che riguardano uno specifico tema. Negli esperimenti si dispone, nella maggior parte dei
casi, di un gruppo sperimentale e di un gruppo di controllo, di solito formati in modo
randomizzato, il che significa che vi è un’assegnazione casuale dei partecipanti
all’esperimento ad un gruppo od all’altro: questo consente di rendere i due gruppi uguali
in tutto meno che nella variabile indipendente, il che diminuisce la possibilità di commettere
errori. Negli esperimenti, si manipola la variabile indipendente, rendendo i due gruppi
(sperimentale e di controllo) uguali in tutto il resto; il gruppo in cui si ha la manipolazione
della variabile indipendente è quello sperimentale. Gli esperimenti permettono di stabilire
delle relazioni causali tra variabili e sono molto rapidi e facili da replicare. Tuttavia, vengono
sovente condotti in ambienti artificiali come il laboratorio, motivo per cui ci vuole cautela
nel generalizzare i risultati ottenuti. Nei quasi-esperimenti, frequenti in Psicologia, non è
possibile manipolare la variabile indipendente, per cui non si soddisfa la conditio “uguali in
tutto il resto”(tranne che per la variabile).
Ricerche correlazionali
Gli studi correlazionali non permettono di stabilire una relazione causale tra le variabili, che
non possono essere manipolate sperimentalmente: permettono, però, di scoprire se i

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cambiamenti di una variabile siano o meno associati ai cambiamenti di un’altra variabile,


ovvero di stabilire se le due variabili siano correlate oppure no; la relazione tra variabili viene
espressa con il coefficiente di correlazione.
Osservazione
Il metodo osservativo ha un obiettivo descrittivo: lo sperimentatore non manipola la
variabile indipendente, ma osserva i comportamenti spontanei dell’organismo. Si
distinguono due tipi di osservazione:
1. naturalistica non si influenza in alcun modo il comportamento dell’organismo che si sta
osservando, anzi, l’osservatore può, perfino, cercare di dissimulare la sua presenza, in
modo tale da poter osservare i comportamenti così per come accadono in natura. Si
tratta, tuttavia, di un metodo molto dispendioso in termini di tempo, dal momento che
non è detto che verrà messo in atto, in tempi brevi, proprio il tipo di comportamento a
cui si è interessati;

2. controllata (o partecipante) si colloca a metà su un continuum che va dall’osservazione


naturalistica alla sperimentazione. Lo sperimentatore controlla parzialmente l’ambiente
e/o fornisce stimoli che possano indurre i comportamenti che vuole studiare, in modo
tale da risparmiare tempo. In questo caso, però, l’ambiente non è naturale, ma si tratta,
molto spesso, di un laboratorio, in cui i partecipanti sanno di essere osservati. A ciò si
aggiunge il fatto che le persone che si rendono disponibili ad andare in laboratorio
potrebbero non essere rappresentative della popolazione generale.

L’osservazione è, in ogni caso, guidata da ipotesi e si possono utilizzare delle griglie per
estrapolare, dal concetto più ampio, delle variabili più ristrette e che possano essere
direttamente osservate e misurate.
Interviste e questionari Il metodo dell’inchiesta richiede un linguaggio comprensibile e la
formulazione di domande che siano adatte al livello cognitivo del campione. Con gli
adolescenti e con gli adulti, inoltre, si deve considerare il rischio che essi incorrano nella
desiderabilità sociale. Le risposte previste possono essere di diverso tipo:
- una scelta tra due alternative;
- una scelta tra più alternative tra loro escludentisi;
- una scelta tra più alternative tra loro non escludentisi;
- una scelta tra più alternative + una graduatoria;
- risposta libera, utile per gli argomenti più complessi, ma molto difficile da codificare.
Le interviste vengono somministrate oralmente e, nel caso dei bambini, richiedono
un’adeguata produzione e comprensione del linguaggio, per cui un’età superiore ai 3-4
anni. E’ fondamentale instaurare un rapporto di fiducia con l’intervistato, così da farlo
sentire utile. I questionari richiedono buone capacità di lettura e scrittura, ovvero un’età
superiore ai 7 anni.

Colloquio clinico e/o critico di tipo piagetiano Quando Piaget ha iniziato a studiare lo
sviluppo psicologico del bambino, gran parte delle ricerche di Psicologia dello sviluppo si
basavano su studi longitudinali, cui seguiva la stesura di diari, oltre che sul metodo dei
reattivi, che consisteva in una somministrazione di interviste strutturate ai bambini, condotte
in modo molto rigido, con domande sempre uguali e con una scala su cui era possibile
posizionare le risposte dei vari intervistati, in modo da poterle, poi, confrontare sia
quantitativamente sia qualitativamente. Secondo Piaget, questa procedura permetteva
di ottenere solo risultati molto grezzi ed esponeva al rischio di falsare l’orientamento
mentale del bambino: per evitare ciò, era necessario variare, motivo per cui ha proposto il
colloquio critico, anche definito “piagetiano”. Il colloquio piagetiano ha due finalità: lasciar
parlare liberamente il bambino ma, al tempo stesso, indirizzarlo sugli argomenti di interesse.

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Ciò che caratterizza il metodo critico (come quello clinico) è la flessibilità: lo sperimentatore
non si comporta allo stesso modo, ponendo le stesse domande, con tutti i soggetti che
valuta. Piaget ha identificato cinque tipologie di risposte che possono essere date dal
bambino:
1. risposte “purchessia” date per noia ed a caso;
2. fabulazioni;
3. credenze suggerite il bambino dice ciò che gli sembra che lo sperimentatore voglia
sentirsi dire;
4. credenze provocate il bambino riflette sulla domanda dello sperimentatore che per lui
è nuova e fornisce una risposta che proviene dal proprio intimo;
5. credenze spontanee il bambino non ha bisogno di ragionare sulla domanda, poiché
ha già una risposa pronta.
I primi tre tipi di risposte non vanno considerati, dal momento che non forniscono
informazioni circa l’orientamento mentale del bambino: solamente gli ultimi due, possono
essere reputati importanti. Secondo Piaget, lo sperimentatore può influenzare le risposte del
bambino per mezzo delle parole (il che può essere evitato utilizzando un linguaggio
infantile) e per perseverazione (è quindi bene evitare di fare al bambino domande che lo
costringano a fornire, più o meno, sempre la stessa risposta). Per distinguere, al contrario,
quali credenze siano realmente assimilate dal bambino, si deve tenere conto del fatto che
esse sono, di solito, presenti in più individui di una stessa coorte, resistono alla suggestione,
hanno molteplici proliferazioni, non spariscono in modo brusco e sono suffragate, nel corso
dello sviluppo, da sempre nuovi elementi.

CAPITOLO 3
ACCRESCIMENTO SOMATICO E SVILUPPO MOTORIO

Sviluppo prenatale
E’ possibile dividere lo sviluppo prenatale in tre fasi:
1. periodo germinale comprende le prime tre settimane di gravidanza. Lo zigote
monocellulare scende dalla tuba di Falloppio e va incontro a molteplici moltiplicazioni
cellulari, fino a divenire un organismo che supera le 100 cellule: le cellule esterne andranno
a costituire la placenta e gli altri mezzi di nutrizione, quelle più interne daranno origine
all’embrione. Entro il decimo giorno, si ha l’annidamento nel tessuto endometriale;

2. periodo embrionale si protrae fino all’ottava settimana. Si ha l’organogenesi ed i tratti del


viso appaiono già formati;

3. periodo fetale corrisponde alle ultime due settimane di gravidanza. L’embrione diventa
feto, in cui il cervello continua a svilupparsi e si creano nuovi dettagli, come le unghie ed i
capelli. All’inizio della fase fetale, compaiono i primi movimenti del feto: degli arti, delle
dita con prensione rudimentale, del capo, stiramenti, suzione, sbadigli, singhiozzi e
deglutizione; la maggior parte di questi movimenti non sono, contrariamente a quanto si
possa pensare, risposte a stimoli esterni, ma hanno lo scopo di contribuire al benessere ed
allo sviluppo muscolo-scheletrico del feto, in modo tale da prepararlo al parto ed alla vita

extra-uterina.
Subito dopo la nascita, in seguito ad un’osservazione di cinque minuti, si stima l’indice di
Apgar, che valuta le condizioni di salute del neonato. Si attribuisce un punteggio da 0 a 2
a battito cardiaco, movimenti respiratori, tono muscolare, colorito e riflessi agli stimoli: il
punteggio totale va, quindi, da 0 a 10. Si valuta il bambino ad 1 minuto, a 5 minuti e, se

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necessario, anche a 10 minuti. Un indice di Apgar basso al quinto minuto è indicativo di


difficoltà respiratorie, mentre al decimo è associato a compromissione neurologica.

Accrescimento somatico nei primi tre anni di vita Al momento della nascita, il
neonato pesa circa 3400 grammi per 50 centimetri di lunghezza.
La testa è di 12-13 centimetri in lunghezza e con una circonferenza di 35 centimetri. La
circonferenza toracica è di 35 centimetri e le estremità sono più corte del tronco.
L’aumento di statura, peso e circonferenza cranica sono notevoli nel corso del primo anni
e più lenti dopo. Il neonato presenta, inoltre, una serie di riflessi: alcuni restano anche
nell’adulto, come lo sbadiglio, mentre altri scompaiono verso i 3-4 mesi, sostituiti da
comportamenti volontari. I principali riflessi neonatali sono:

a) riflesso di ricerca quando si sfiora con un dito la sua guancia, il bambino volta il capo
ed apre la bocca come a cercare del cibo;
b) riflesso di suzione permette al bambino di nutrirsi prima ancora di saper associare il seno
al latte;
c) riflesso di moro in presenza di un rumore forte od in seguito ad un movimento brusco, il
bambino arcua la schiena, distende gli arti ed apre le mani, dopodiché si riporta gli arti
vicino all’asse e stringe i pugni, in un tentativo di aggrapparsi a qualcosa per trovare
sostegno e non cadere;
d) riflesso della marcia automatica messo con le piante dei piedi a terra, il bambino si
muove come a voler camminare. Se, invece, si pone il suo stinco contro un ostacolo,
allora alza la gamba, come se dovesse salire su un gradino;
e) riflesso di prensione forzata (o grasping) presente anche ai piedi;
f) riflesso pupillare e chiusura degli occhi se la luce è intensa.

Lo sviluppo motorio del bambino procede in direzione cefalo-caudale (cioè dalle parti
alte del corpo a quelle più basse) e prossimo-distale (dal tronco e la testa alle estremità) e
segue due linee di sviluppo, di cui una può prevalere sull’altra in alcuni periodi: la prima è
finalizzata a consentire il raggiungimento di una sempre crescente mobilità nello spazio,
mentre la seconda è tesa al raggiungimento della stazione eretta. Lo sviluppo motorio è
reso possibile dalla maturazione del sistema nervoso, dallo sviluppo fisico, da fattori cognitivi
e motivazionali e dal supporto sia fisico sia psicologico che il bambino può ricevere da chi
si prende cura di lui.
Accrescimento somatico e sviluppo motorio dai 3 ai 6 anni
L’aumento di peso e statura è abbastanza costante nel ritmo.
Accrescimento somatico e sviluppo motorio nell’età della scuola primaria
Il ritmo di aumento di statura è costante.Sul versante motorio, non ci sono grandi differenz
e tra i sessi, anche se i bambini maschi mostrano di avere una forza maggiore
nell’avanbraccio e le bambine femmine esibiscono una più elevate flessibilità generale.

CAPITOLO 4
LO SVILUPPO PERCETTIVO
Sensazione e percezione ci consentono di conoscere il mondo circostante. La sensazione
si ha ogni qual volta degli stimoli esterni entrino a contatto con i recettori sensoriali, mentre
la percezione consiste in un’interpretazione di quanto è stato acquisito attraverso i sensi.
Per studiare la percezione nei bambini piccoli, sono stati utilizzati diversi paradigmi
sperimentali:

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- paradigma della preferenza visiva se il bambino osserva più a lungo uno dei due stimoli
che gli sono stati proposti, significa che è stato in grado di discriminarli e che ne ha
preferito uno;
- paradigma dell’abituazione col passare del tempo, la risposta comportamentale
elicitata a fronte di un determinato stimolo diminuisce per ampiezza e frequenza. Se
viene presentato uno stimolo nuovo ed il bambino lo riconosce come diverso dal primo,
allora torna a mettere in atto la risposta comportamentale;
- condizionamento sulla base dei principi dell’apprendimento per condizionamento
operante, si insegna al bambino a rispondere in un certo modo a fronte di un
determinato stimolo. In seguito, gli viene proposto un nuovo stimolo e si valuta se
risponda in modo condizionato anche a questo, manifestando di percepirlo come simile
al precedente, oppure no, mostrando di saper attuare una discriminazione e di
differenziare le risposte.

Percezione visiva
Gli occhi del bambino sono sensibili alla luce fin dalla vita uterina e, al momento della
nascita, il neonato reagisce a luce ed oscurità attraverso il riflesso pupillare, in modo tale
da regolare la quantità di luce da far entrare nell’occhio. Alla nascita, l’acuità visiva, che
consiste nella capacità di distinguere i dettagli delle forme, è scarsa, così come la capacità
di messa a fuoco. E’ assente il coordinamento binoculare. Il neonato riesce a mettere a
fuoco solamente oggetti che si trovino ad una distanza massima di 25 centimetri da lui, la
quale corrisponde, circa, alla distanza a cui si trova, di solito, il volto della madre durante
l’allattamento. Nei primi tre mesi, migliorano l’acuità visiva e la capacità di mettere a fuoco
ed entro il terzo mese si sviluppa la convergenza binoculare. Anche la percezione
cromatica si sviluppa abbastanza precocemente ed al quarto mese è molto simile a quella
dell’adulto. Già nel corso della prima settimana di vita, il neonato è in grado di percepire il
movimento. Anche le costanze di forma e dimensioni sono precoci; esse consentono di
riconoscere che un oggetto è sempre lo stesso anche se è, rispettivamente, in movimento
o situato a distanze diverse. Il paradigma sperimentale del precipizio visivo (con cui si pone
il bambino su un tavolo e, con un’illusione ottica, gli si crea l’immagine di un precipizio
davanti) ha permesso di evidenziare come, già a 6 mesi, il bambino abbia una buona
percezione della profondità: egli, infatti, non oltrepassa il precipizio visivo, neanche se la
madre lo chiama dall’altra parte del tavolo. Il volto umano è lo stimolo preferenziale per la
vista del bambino, in particolare quello materno: a pochi giorni dalla nascita, il neonato sa
già distinguere il volto della madre dagli altri.
Percezione uditiva
Il neonato è capace di discriminare la voce della madre fin dal primo giorno di vita
e tende ad adattare il suo ritmo di suzione, durante l’allattamento, in modo tale da poter
ascoltare il battito cardiaco materno, che ha già potuto conoscere durante la vita intra-
uterina. La voce umana è lo stimolo preferenziale dell’udito, soprattutto quella materna.

Percezione gustativa ed olfattiva


Anche i sensi del gusto e dell’olfatto risultano abbastanza sviluppati fin dai primi giorni
di vita. Relativamente al gusto, già dal primo giorno il neonato preferisce i sapori dolci, che
stimolano la suzione, a quelli acidi ed amari. Le soluzioni salate inibiscono la suzione e
cominciano ad essere gradite solo intorno al quarto mese. Per quanto riguarda l’olfatto, il
neonato reagisce in modo diverso ad odori gradevoli, come quello di fragola e vaniglia, e
non, per esempio odore di ammoniaca, pesce e uova marce. Fin dai primi giorni di vita, è,

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inoltre, molto sensibile all’odore del latte materno, che riesce a discriminare da quello del
latte di altre donne.
Il sincretismo percettivo infantile
Contrariamente a quanto si potrebbe supporre sulla base dell’esperienza comune,
la percezione non ci fornisce una copia perfetta ed affidabile della realtà circostante: essa
non è che una funzione psichica, che elabora i dati che derivano dai nostri sensi, ovvero
dalla stimolazione dei recettori sensoriali ad opera di stimoli esterni. Le singole sensazioni
vengono, però, subordinate al tutto e, in conseguenza di ciò, i singoli particolari assumono
una valenza diversa in relazione al tutto in cui sono collocati. La percezione di questo tutto,
ovvero della scena percettiva nel suo complesso, è, di conseguenza, sempre
preponderante rispetto alla percezione delle singole parti: la percezione è globale,
sincretica. I bambini esprimono il sincretismo attraverso il disegno.

Essi possono, da un lato, disegnare in modo molto rudimentale ed approssimativo


elementi che stanno per il tutto (ad esempio, la testa a cui si attaccano direttamente gli
arti superiori nel tipico “omino testone”, primo tentativo di rappresentazione della figura
umana) e, dall’altro, mettere in evidenza dei dettagli che, per loro, assumono la valenza di
“qualità vistose”, come possono essere delle macchie rosse in un campo di papaveri.

CAPITOLO 5
LO SVILUPPO DELLA MEMORIA

Paradigmi utilizzati per lo studio della memoria nei primi anni di vita

- Riconoscimento visivo: preferenza visiva ed abitazione maggiore è la durata


dell’intervallo temporale che intercorre tra la fase di familiarizzazione del bambino con
lo stimolo e la fase test, maggiore risulta essere l’oblio. Questo si spiega perché la
rappresentazione interna dell’oggetto-stimolo decade per il passare del tempo e, di
conseguenza, il bambino è nuovamente attratto dallo stimolo nuovo per poter costruire
una nuova rappresentazione mentale.
- Apprendimento per condizionamento operante: ritmo di suzione (il neonato tende a
succhiare con il ritmo che gli consente di ascoltare la voce della madre anziché quella
di una qualsiasi altra donna, il che è indicativo del fatto che la riconosce e la discrimina),
paradigma della giostrina (utilizzato con bambini dai 2 ai 6 mesi. Se il bambino ricorda
l’esperienza, scalcerà alla sola vista della giostrina per farla muovere, anche se essa non
è più collegata al suo piede) e paradigma del trenino (utilizzato con bambini dai 6 ai 18
mesi. Nella fase di training, tutte le volte che il bambino muove la leva, il trenino parte;
nella fase di test, questo evento non ha luogo. Se il bambino è in grado di ricordare
l’esperienza della fase di training, allora persisterà nel premere la leva, anche quando
questa non sarà più collegata al trenino) sia nel paradigma della giostrina che in quello
del trenino, è previsto dapprima un periodo senza rinforzo, poi un altro in cui il
comportamento del bambino viene rinforzato ed infine un terzo momento, nuovamente
senza rinforzo. L’apprendimento si misura paragonando la frequenza del
comportamento alla fine del primo periodo senza rinforzo ed all’inizio del secondo
periodo senza rinforzo.
- Imitazione differita si valuta la capacità di riprodurre un’azione od una sequenza di
azioni, che sia stata precedentemente messa in atto dallo sperimentatore. L’imitazione
è differita, dal momento che deve aver luogo dopo un certo periodo di tempo: ore,
settimane, mesi. Attraverso questo paradigma sperimentale, è stato possibile osservare

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come neonati di sole sei settimane siano in grado di imitare certe espressioni degli adulti
sia subito sia dopo 24 ore. Bambini di sei mesi, invece, sanno imitare una sequenza di
azioni dopo un intervallo temporale di 24 ore.

Ancora non si sa se i paradigmi di cui sopra valutino la memoria esplicita od implicita.


Lo sviluppo della memoria nei primi anni di vita
I bambini più grandi risultano aver bisogno di meno tempo, rispetto a quelli più piccoli,
per immagazzinare le informazioni. Analogamente, hanno una durata di permanenza della
traccia mnestica maggiore ed una memoria meno contesto-dipendente (i bambini molto
piccoli, di età compresa tra i 2 ed i 6 mesi, invece, riescono a ricordare degli stimoli
precedentemente conosciuti solo se questi vengono ripresentati in modo identico nella
stessa situazione passata).
Infine, i bambini più grandi hanno una miglior capacità di utilizzo dei promemoria: una
nuova presentazione, anche di breve durata, di un evento da ricordare costituisce una
sorta di “promemoria”, che consente di riattivare il ricordo e mantenerlo in memoria per un
periodo di tempo più prolungato, anche a lungo se il promemoria viene ripetuto nel tempo.
Fino agli ultimi anni del secolo scorso, vi era la convinzione che gli apprendimenti del primo
anno di vita fossero di esclusivo interesse della memoria implicita, ovvero inconsapevole. Al
giorno d’oggi, ci si chiede se non sia stato sottovalutato il ruolo della memoria esplicita,
cioè consapevole.
Esse sembrano infatti svilupparsi in modo parallelo già a partire dal primo anno. Un
percorso analogo riguarda le memoria semantica ed episodica: mentre una volta si
considerava preponderante la memoria episodica, ormai si ritiene che siano due memorie
compresenti già a partire dal primo anno di vita. Con l’aumentare dell’età, si sviluppa la
capacità del bambino di organizzare i ricordi in episodi: a volte, infatti, egli riferisce più degli
scripts (=copioni) che dei ricordi dettagliati ed è, così, complesso capire se vi siano delle
carenze di recupero o di immagazzinamento delle informazioni. Un fenomeno interessante
è, poi, quello dell’amnesia infantile, ovvero l’incapacità di ogni individuo di ricordare eventi
avvenuti tra i 2 ed i 5 anni.
Le cause sembrano essere diverse. Innanzi tutto, le informazioni sono trattenute per poco
tempo nella memoria del bambino ed a questo si aggiunge il fatto che si tratta di una
memoria contesto-dipendente, che consente una buona rievocazione solo in circostanze
particolari, in cui venga riproposto identico lo stimolo da recuperare; infine, i bambini piccoli
riflettono meno degli adulti sui propri ricordi e non li organizzano in schemi.
Per quanto riguarda, invece, lo sviluppo dell’uso delle strategie nei primi anni di vita,
queste strategie risultano essere usate, di frequente, già da bambini prescolari, di età di
circa 3 anni. Le strategie di memoria consistono nell’uso di attività mentali finalizzate a
migliorare le prestazioni di memoria.

Lo sviluppo della memoria negli anni della scuola dell’infanzia e di quella primaria
In questo periodo, si sviluppano tutte le componenti del sistema di memoria, così come la
capacità di ricorrere a strategie di memoria.
MEMORIA A BREVE TERMINE
La memoria a breve termine viene valutata con compiti di span, che vanno a
quantificare il numero massimo di items (numeri e parole) che il bambino è in grado di
rievocare nel giusto ordine. La memoria a breve termine si compone di un loop fonologico,
un taccuino visuo-spaziale, un esecutivo centrale ed un buffer episodico. Il loop fonologico
è a sua volta diviso in un magazzino fonologico ed un processo di ripetizione subvocalico;
la sua attività è sostenuta, anche, dalle conoscenze lessicali, immagazzinate a livello della

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memoria a lungo termine. Nel magazzino fonologico viene conservata la traccia mnestica
dell’informazione, la quale decade dopo circa due secondi.
Il processo di ripetizione subvocalico, invece, ha la funzione di consolidare le
informazioni che sono state depositate nel magazzino fonologico. Contrariamente al
magazzino fonologico, che è presente nel bambino fin dai primi anni di vita, il processo di
ripetizione subvocalico non compare fino ai 7 anni. Esso è influenzato dalla velocità di
articolazione delle parole, così come lo è anche la velocità di immagazzinamento delle
informazioni.
Inoltre, con il progredire dell’età, aumenta, anche, la conoscenza a lungo termine
del significato delle parole e della loro struttura fonologica, il che ha una ripercussione pure
sulle prestazioni nei compiti di memoria fonologica. Il taccuino visuo-spaziale si compone
di un magazzino visivo, in cui sono rappresentate le caratteristiche di oggetti ed eventi, e
di un meccanismo spaziale, il quale viene sfruttato per il ricordo di materiale spaziale o per
consolidare, reiterandoli, i contenuti del magazzino visivo, esattamente come accade per
il loop fonologico.
Per analizzare la memoria visuo-spaziale si fa ricorso, per lo più, a compiti di memoria
visiva, in cui si chiede al soggetto di rievocare una serie di posizioni precedentemente
assunte dallo stimolo o percorsi che esso ha seguito su una matrice. Lo span di memoria
visuo-spaziale aumenta regolarmente tra i 5 e gli 11 anni, a causa della crescita in termini
di capacità del magazzino che ritiene il materiale immagazzinato in forma visiva ed a
causa di un sempre miglior utilizzo, da parte del bambino, di strategie di memoria non visive
per supportare i ricordi.
I bambini più piccoli, infatti, hanno la tendenza a codificare ed immagazzinare le
informazioni visive classificandole, solo, sulla base delle loro caratteristiche direttamente
osservabili. Dopo il settimo anno, invece, tendono ad un immagazzinamento di immagini in
forma fonologica. La funzionalità dell’esecutivo centrale viene valutata con compiti
che richiedono contemporaneamente attività di immagazzinamento di informazioni e di
elaborazione del materiale da memorizzare: sono i “complex span tasks”. L’esecutivo
centrale si sviluppa dai 6 ai 15 anni, grazie al miglioramento delle abilità di controllare e di
focalizzare l’attenzione.

MEMORIA A LUNGO TERMINE


Sia la componente implicita che la componente esplicita si sviluppano a partire dai
6 anni: per quanto riguarda la memoria implicita, il bambino risulta in grado di acquisire
conoscenze procedurali sempre più complesse mentre, per quanto concerne la memoria
esplicita, si sviluppa molto la memoria episodica, sia autobiografica sia memoria di eventi.
Un notevole sviluppo continua a coinvolgere la memoria semantica, la quale immagazzina
le rappresentazioni dei concetti e delle loro relazioni, la cui genesi dipende dai processi di
astrazione e che evolvono, a partire dalla memoria episodica, attraverso gli scripts: questi
ultimi non descrivono l’evento dettagliato, ma la gamma di variabili che definiscono la
situazione in cui un evento ha luogo. In breve, i bambini piccoli hanno la tendenza ad
immagazzinare i ricordi in modo episodico, mentre, con l’aumentare dell’età, si sviluppa la
capacità di utilizzare dei concetti, tipici della memoria semantica.

STRATEGIE DI MEMORIA
Tra i 5 ed i 14 anni si assiste, pertanto, allo sviluppo di varie capacità di memoria,
dovuto a diversi fattori. Fondamentale è, chiaramente, lo sviluppo delle capacità di base,
con un aumento della velocità di elaborazione e della capacità di memoria. A questo si
aggiunge l’acquisizione, da parte del bambino, di nuove conoscenze, che rendono più
facile l’utilizzo di strategie di memoria e, di conseguenza, l’immagazzinamento del ricordo.
Per quanto riguarda l’uso delle strategie, già a 2-3 anni il bambino è in grado di ricorrere a

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strategie esterne per favorire il ricordo: per esempio, dovendo ricordare uno stimolo in
particolare, tende a guardare spesso nella sua direzione.
Verso i 7 anni, compare l’uso spontaneo della reiterazione, la quale è, in realtà,
conosciuta anche più precocemente e può essere facilmente appresa con training
specifici, anche se il bambino è, poi, poco incline ad utilizzarla in contesti diversi. A circa 9-
10 anni, comincia ad essere utilizzata la strategia dell’organizzazione, cioè organizzare il
materiale da ricordare in categorie semantiche, dotate di significato.
Nell’adolescenza, fa la sua comparsa l’elaborazione, una strategia di memoria che
consiste nell’inserire gli items da ricordare in una struttura dotata di significato: per esempio,
è possibile ricordare una serie di parole inserendole all’interno di un racconto o di una frase
che abbia un senso. Pur avendole imparate e pur sapendo della loro esistenza, i bambini
possono essere restii ad utilizzare le strategie di memoria: questo accade perché si tratta di
processi mentali che richiedono impegno e che sono, quindi, stancanti. Entra in gioco,
tuttavia, anche la metamemoria: i bambini, infatti, sono convinti che la memorizzazione sia
un processo automatico e che non richieda nessuno sforzo da parte loro; solo col tempo,
capiscono che si tratta, in realtà, di un processo volontario, che richiede uno sforzo
cognitivo attivo.

CAPITOLO 6
LO SVILUPPO CONGITIVO: CONTRIBUTI DI ORIENTAMENTO

PIAGETIANO
Piaget ha suddiviso lo sviluppo cognitivo del bambino in quattro stadi, che si differenziano
tra loro da un punto di vista qualitativo e che hanno dei confini temporali abbastanza ben
definiti. Questi stadi sono, inoltre, da intendersi come una traiettoria di sviluppo fissa, il che
significa che il loro ordine è invariabile, si presenta uguale per tutti gli individui.
Stadio senso-motorio
Nello stadio senso-motorio, che va da 0 a 2 anni, il bambino conosce la realtà esterna
principalmente attraverso i sensi ed i suoi movimenti nel mondo fisico. Questo stadio può
essere suddiviso in sei sottostadi: nei primi tre, si assiste ad un globale perfezionamento dei
riflessi del bambino ed alla messa in atto di azioni sul reale non guidate dall’intelligenza, nel
quarto e nel quinto, si sviluppa l’intelligenza senso-motoria mentre, nell’ultimo, fanno la loro
comparsa i primi veri atti di intelligenza, guidati dal pensiero. I sottostadi vengono descritti
di seguito:

1. 0-1 mese perfezionamento dei riflessi;

2. 1-3 mesi il bambino comincia a mettere in atto dei comportamenti diretti al proprio corpo
(ad esempio, succhiarsi il pollice) e li ripete, dal momento che questo gli provoca piacere.
Tali comportamenti sono le reazioni circolari primarie, movimenti semplici e non finalizzati
ad ottenere un risultato apparente dal mondo esterno. In questa fase, un qualsiasi oggetto
che sparisca dal campo percettivo del bambino viene dimenticato, visto che non è ancora
stata acquisita la costanza d’oggetto. Risultano, tra l’altro, assenti delle vere e proprie
nozioni spaziali, temporali e causali;

3. 3-8 mesi le azioni compiute dal bambino iniziano a produrre un risultato sull’ambiente
esterno e sono reazioni circolari secondarie, assimilabili a “condotte magiche” destinate a
far durare degli “spettacoli interessanti”. Non si può ancora parlare di comportamenti
intelligenti, dal momento che il rapporto tra mezzi e fini viene scoperto in modo casuale;

4. 8-12 mesi si assiste allo sviluppo dell’intenzionalità e si può parlare di intelligenza vera e
propria, con atti finalizzati a risolvere un determinato problema. E’, però, ancora

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un’intelligenza senso-motoria, poiché il bambino non è capace di utilizzare immagini ed


azioni mentali. La nozione di oggetto si consolida sempre di più fino ad arrivare alla
costanza d’oggetto (il bambino cerca e raggiunge l’oggetto perduto, servendosi di mezzi
intermedi, come può essere la tovaglia, che viene tirata per far cadere il giocattolo dal
tavolo, e della locomozione) e si sviluppano le nozioni spaziali, temporali e causali. Un

segno dello sviluppo neurofisiologico è costituito dalla capacità di inibire un’azione


comportamentale, come accade quando il bambino lascia un oggetto per prenderne un
altro e non cerca più di prenderne due insieme;

5. 12-18 mesi i progressi intellettuali del bambino si manifestano per mezzo di una continua
sperimentazione. Egli, camminando, esplora il mondo circostante ed utilizza tutto ciò che
trova. Per mezzo delle sue azioni, ottiene dei risultati nuovi e giunge volontariamente e non
più in modo fortuito alla scoperta di nuove relazioni tra gli oggetti, i quali oggetti devono
essere, però, presenti nel mondo fisico (queste solo le reazioni circolari terziarie);

6. 18-24 mesi in questa fase, si ha lo sviluppo del pensiero simbolico, il quale permette di
utilizzare rappresentazioni di oggetti non presenti nella realtà contingente, nel proprio
campo percettivo in un dato momento. Le parole vengono, a questo punto, sempre più
spesso utilizzate come simboli e non più solo come un accompagnamento dell’azione.
Un'altra conseguenza dello sviluppo del pensiero simbolico è la comparsa dei primi giochi
simbolici, in cui il bambino utilizza degli oggetti (per esempio, un bastone) “come se” fossero
qualcosa di diverso (per esempio, una spada). Questi giochi sono, secondo Piaget,
finalizzati alla soddisfazione di specifici bisogni dell’Io del bambino, quali possono essere il
bisogno di sentirsi grande (imitando l’adulto) o di controllare la realtà esterna; permettono,
anche, di scaricare energie, che sarebbero, altrimenti, controproducenti per lo sviluppo. A
livello spaziale, il bambino è in grado di rappresentarsi sia gli spostamenti che egli stesso ha
già effettuato sia quelli invisibili degli oggetti (per esempio, il movimento di qualcosa che si
muove dietro un mobile). Analoghi progressi si hanno relativamente alla nozione di tempo.
Riguardo la causalità, il bambino può, a questo punto, comprendere le cause di un evento
basandosi solo sull’effetto e viceversa.

Stadio preoperatorio
Lo stadio preoperatorio va dai 2 ai 7 anni ed è così definito dal momento che il
bambino non risulta ancora essere in grado di eseguire delle operazioni mentali: questo
significa che è, per esempio, in grado di risolvere un determinato problema ma che non sa,
poi, descrivere a posteriori come ci sia arrivato, dal momento che il pensiero è irreversibile.
Altre caratteristiche del pensiero sono, quindi, la rigidità, il carattere semi-logico (sono
presenti delle credenze, come l’animismo, l’artificialismo etc., che non rappresentano la
natura del mondo reale) e l’egocentrismo intellettuale, il che significa che il bambino non
è in grado di comprendere che altre persone possono avere dei contenuti mentali, dei
pensieri, diversi dai propri.
Si osserva, inoltre, una scarsa cognizione sociale, che sfocia, per esempio, nei
monologhi collettivi: più bambini possono parlare tra di loro ma è, in realtà,
come se ognuno stesse parlando solo a se stesso, dal momento che nessuno si aggancia
a quanto è stato già detto dagli altri.

Stadio operatorio concreto


Il pensiero ha perso le sue caratteristiche di rigidità, irreversibilità, semi-logicità ed
egocentrismo intellettuale, ma resta ancora un limite, che è quello della concretezza: il
bambino, infatti, necessita di basarsi su dati di realtà quando pensa. E’ in grado di
categorizzare degli elementi, ma solo sulla base di criteri di classificazione estremamente

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semplici e concreti, attraverso concetti di numero, di area, di lunghezza e così via; in


seguito, si aggiungono i concetti i peso e, poi, di volume.
Stadio operatorio formale
Il pensiero operatorio formale è caratterizzato da un ragionamento astratto, in grado di
formulare ipotesi persino sull’improbabile e l’impossibile. Si sviluppa nel periodo della scuola
secondaria di secondo grado ed è il pensiero al massimo livello di evoluzione. E’, anche,
definito ”ipotetico deduttivo”, dato che prevede la capacità di condurre ragionamenti
logicamente corretti e senza avere più la necessità di partire da un’esperienza reale.

Sviluppo delle conoscenze


Piaget non si è occupato soltanto dello studio delle strutture mentali e della loro evoluzione
nei diversi stadi, bensì, anche, dello studio delle conoscenze del bambino:
- Egocentrismo tendenza a non tenere sufficientemente in considerazione la possibilità
che esistano punti di vista differenti dal proprio;
- realismo tendenza ad attribuire più importanza ai dati percettivi che a quelli
rappresentativi ed a considerare come unica realtà quella visibile e materiale. Questo
limite influisce sulle nozioni inerenti il trascorrere del tempo e l’età: il bambino è portato
a stimare l’età di una persona basandosi più sulle caratteristiche fisiche evidenti che
sull’effettivo passare del tempo. Solo dopo gli 8 anni, il bambino capisce appieno il
concetto di età;
- pensiero magico o precausale deriva dall’egocentrismo e dal realismo e consiste in una
non sufficiente distinzione tra mondo interiore e mondo esteriore del bambino, il quale
può pensare, a titolo di esempio, che tra le cose e tra lui e le cose siano possibili una
serie di relazioni;
- animismo il bambino ha la tendenza ad attribuire vita, coscienza ed intenzionalità ad
elementi naturali in realtà inanimati. E’ possibile distinguere quattro periodi: 1) prima dei
5- 6 anni, il bambino attribuisce vita, coscienza ed intenzionalità a tutto ciò che è inserito
in un processo dinamico (ad esempio, anche ad un bastone che brucia); 2) fra i 6 e gli
8 anni, solo ciò che è in movimento viene considerato vivo, cosciente ed intenzionale;
3) dagli 8 ai 10 anni, solo gli oggetti che si muovono per moto proprio e non ricevuto
vengono considerati come dotati di vita, coscienza ed intenzionalità; 4) tra gli 11 ed i
14 anni, il bambino sviluppa convinzioni simili a quelle dell’adulto;
- artificialismo convinzione che gli eventi naturali, come possono essere i terremoti e le
tempeste, siano dovuti all’azione fabbricatrice dell’uomo, così come anche i grandi
elementi naturali, per esempio le montagne;
- finalismo visione provvidenziale della natura, in cui tutto viene considerato armonico ed
in linea con le leggi umane.

Critiche alla teoria piagetiana


A Piaget sono state rivolte diverse critiche. In primo luogo, i suoi scritti sono
considerati poco chiari, così come anche i suoi esperimenti, che non vengono descritti,
secondo diversi Autori, in modo adeguato. Egli si è inoltre servito di campioni non sempre
omogenei e, talvolta, molto piccoli e le sue analisi dei dati vengono considerate poco
accurate dal punto di vista statistico, a vantaggio, invece, di prolisse interpretazioni di
quanto osservato. A questo si aggiunge il fatto che ha proposto un modello di sviluppo
unilaterale, focalizzato, soltanto, sulla genesi del pensiero logico, e che ha sottovalutato le
capacità di neonati e lattanti. Secondo Piaget, per esempio, la capacità rappresentativa
fa la sua comparsa soltanto a partire dai 18 mesi, ma si è in realtà visto che i neonati sono

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capaci di imitare espressioni del volto di adulti e, per far ciò, è fondamentale la presenza
di una rappresentazione del proprio corpo e, anche, del tipo di movimento da mettere in
atto. Per quanto riguarda la nozione di stadio, sembra che i tempi di passaggio da uno
stadio all’altro siano, in vero, più lenti: va ridimensionata, pertanto, la credenza piagetiana
secondo cui lo sviluppo è “solidale”, armonico, ovvero caratterizzato da un miglioramento
in parallelo di tutte le strutture che si sostengono a vicenda.

Meccanismi responsabili dello sviluppo


Secondo Piaget, è possibile accelerare lo sviluppo, se si mettono in moto i meccanismi
responsabili dello sviluppo, che sono i seguenti:
- attività del soggetto ”una situazione di apprendimento è tanto più fruttuosa quanto più
il soggetto è attivo”, motivo per cui si deve stimolare l’interesse del bambino e fare in
modo che egli affronti la stessa situazione da più punti di vista tra loro differenti, fino ad
arrivare ad un conflitto cognitivo, ovvero allo stupore cognitivo di fronte alle situazioni,
che spinge il bambino a confrontare, meglio di prima, le varie modalità da lui utilizzate
per risolvere il problema, arrivando, in questo modo, all’apprendimento. Questa
prospettiva è in opposizione con tutti quei metodi che si basano, al contrario,
sull’imposizione della disciplina al bambino e che producono, quindi, risultati solo
superficiali e transitori. E’, pertanto, indispensabile procedere in modo flessibile, così da
adattarsi alle caratteristiche del bambino;
- coordinazione degli schemi “il progresso della conoscenza si manifesta per il fatto che
ogni nuova struttura integra, coordinandoli, gli schemi anteriori”;
- tappe d’evoluzione valutazioni adeguate consentono di venire a conoscenza del livello
di sviluppo del bambino, al fine di calibrare le proposte secondo i risultati di tali
valutazioni (per esempio, non fare proposte di apprendimento che superino le attuali
capacità cognitive del bambino).

Piaget, quindi, ritiene che si possano velocizzare processi di sviluppo, ma si oppone a


posizioni che presumono di poterlo fare con proposte che non tengono conto
dell’evoluzione del bambino.

Esempi di studi e ricerche neopiagetiane o comunque ispirate a Piaget


Pasqual Leone e Case hanno introdotto il concetto di “capacità mentale”, uno
spazio mentale disponibile per attivare schemi mentali. A partire dai 2 anni, si ha una
capacità mentale di base, la quale evolve di un’unità ogni biennio, motivo per cui, a parità
i condizioni, il bambino più avanti con gli anni ha più capacità mentale di quello più
piccolo. Doise e Mugny ritengono che un luogo privilegiato di apprendimento sia costituito
dall’interazione tra coetanei e che la cooperazione tra pari fornisca degli ottimi risultati
proprio nel momento cruciale dell’apprendimento, quando, cioè, il soggetto dispone già
dei requisiti necessari per risolvere il compito, ma è ancora nella fase centrale
dell’apprendimento. A permettere l’apprendimento è il conflitto sociocognitivo, il quale
non deve essere raggiunto necessariamente tra pari, bensì può essere possibile anche nel
rapporto con persone più grandi, a patto che il bambino sia messo nella condizione da
sentirsi alla pari. E’ stato, inoltre, osservato che le prestazioni di un bambino nello
svolgimento di compiti cognitivi aumentano se egli viene messo nella posizione di
insegnante per un altro allievo. Oggetto di studio di Ferreiro e Teberosky è stato, in
particolar modo, l’apprendimento della lettura e della scrittura, il quale non deve esser
ridotto ad una mera acquisizione di tecniche ma, al contrario, va considerato
un’acquisizione concettuale.
Nei loro studi è stata prestata grande attenzione, soprattutto, alle credenze dei
bambini circa queste due attività ed alla loro evoluzione negli anni. Per quanto riguarda la
lettura, bambini di 2-3 anni sanno distinguere tra disegno e scrittura e, a 3-4 anni, credono
che possano essere letti più segni tra loro non uguali e che un unico segno rappresenti,

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invece, un numero; la differenziazione tra lettere e punteggiatura è tardiva e non sono


frequenti ipotesi circa l’orientamento spaziale (ovvero se si debba leggere da destra verso
sinistra o da sinistra verso destra).
A proposito della scrittura, i bambini credono che vengano scritte solo le cose
importanti, in particolare i nomi di persona e, anche in questo caso, non formulano ipotesi
di orientamento spaziale; durante la così detta “fase sillabica”, i bambini comprendono
che ogni singola parola scritta è composta da più caratteri, mentre, durante la “fase
alfabetica”, capiscono che le parole sono separate tra loro da degli spazi, che sono più
grandi nel caso dello stampatello maiuscolo. I primi tentativi di scrittura si hanno intorno ai
2-3 anni: quelli in corsivo sono rappresentati da un tracciato ondulato, quelli in stampatello
appaiono come un insieme di cerchi, triangoli, quadratini, lineette etc.; il primo oggetto di
scrittura è il proprio nome.
Nell’acquisizione dell’abilità di scrittura, si possono distinguere cinque livelli: 1)
differenziazione tra corsivo e stampatello; 2) disegno di grafismi simili a lettere; 3) scrittura di
una lettera per ogni sillaba (ipotesi sillabica); 4) scrittura di più di una lettera per ogni sillaba
(ipotesi alfabetica); 5) sviluppo dell’abilità di scrittura al livello minimo.

CAPITOLO 7
LO SVILUPPO DEL PENSIERO: ULTERIORI CONTRIBUTI

Human Information Processing: alternative agli esperimenti piagetiani. L’obiettivo che si


persegue è quello di descrivere in modo preciso e dettagliato i procedimenti seguiti, da
parte del bambino, nello svolgimento di un particolare compito che gli è stato sottoposto.

- Young – compito di seriazione dei parallelepipedi bambini di 4 anni dispongono i


parallelepipedi senza parvenza di alcun criterio di seriazione, non seguono nessuna
regola se non quella di prendere un parallelepipedo e disporlo dopo un altro. Bambini
più grandi, invece, prendono un blocchetto a caso, lo confrontano con quelli che
hanno già allineato secondo uno specifico criterio e lo scartano se non va bene, ovvero
se non è il parallelepipedo di cui hanno bisogno per continuare la loro serie;
- Klahr e Siegler – compito della bilancia il campione considerato si compone di bambini
e ragazzini, di età compresa tra i 3 ed i 17 anni. L’obiettivo è quello di prevedere verso
quale lato si abbasserà la bilancia, tenendo in considerazione tre variabili, ovvero il
numero di anelli disposto su ognuno dei due bracci, il loro peso e la loro distanza dal
fulcro. I bambini di 4-6 anni tengono conto soltanto del numero di pesi appoggiati su
ogni braccio, mentre quelli di 7-8 anni considerano, anche, la distanza dal fulcro, ma
solo quando gli anelli posti su ciascun braccio sono nello stesso numero. A partire dai 13
anni, i ragazzini tengono in considerazione, allo stesso tempo, la quantità di pesi e la loro
distanza dal fulcro, ma portano a termine il compito in modo adeguato solo nelle
situazioni meno complesse. Infatti, è solo al più avanti con l’età che riescono a
rispondere utilizzando la forma corretta.

Tomasello – Le origini culturali della cognizione umana


“Dente d’arresto” è una locuzione tecnica che fa riferimento ad un dispositivo, che
permette di far ruotare un albero in un unico senso, cioè verso avanti: serve, per esempio,
a sollevare pesi ed a non farli ricadere nei momenti di pausa. Tomasello ha utilizzato la
metafora del dente d’arresto per spiegare come la specie umana, a partire dall’Homo
sapiens, sia riuscita a conservare e trasmettere come cultura molte delle conoscenze
individuali, arrivando ad un progresso cumulativo, in cui ogni generazione ha un patrimonio

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culturale da passare alla generazione successiva che è superiore a quello che ha ricevuto
dalla generazione precedente.
La trasmissione culturale è un fenomeno esclusivamente umano, reso possibile da un
meccanismo biologico, quindi innato, che rende possibile la capacità di riconoscere i
cospecifici in quanto esseri simili a sé, intenzionali e con vite mentali (desideri, opinioni sul
mondo etc.).
E’ l’identificazione, la comprensione delle intenzioni altrui, che consente, pertanto, la
collaborazione sociale, che consiste nella produzione di qualcosa che non sarebbe potuto
essere prodotto da parte del singolo. Comprensione dell’altro, che sembra essere assente
o compromesso nelle persone affette da autismo.
L’indicazione (il pointing dichiarativo) è possibile proprio perché il bambino tiene in
considerazione come l’altro potrebbe interpretare il suo gesto, esattamente come i
comportamenti di attenzione congiunta, che sono determinati dalla comprensione di sé e
degli altri come agenti, soggetti intenzionali. I comportamenti diadici, ovvero le relazioni
bambino-oggetto, lasciano il posto ai comportamenti triadici, con relazioni bambino-
oggetto-adulto, i quali sono caratterizzati da gesti deittici, che possono essere dichiarativi
(finalizzati ad ottenere l’attenzione dell’adulto) ed imperativi (finalizzati ad un’azione).
Verso i 2-3 anni, il bambino inizia a chiedersi ed a capire cosa gli altri pensino di lui e si
ha lo sviluppo della consapevolezza di Sé, già iniziato intorno ai 12 mesi. Il bambino mette
in atto dei comportamenti di imitazione, che sono tipicamente umani e che
presuppongono la comprensione delle intenzioni altrui; l’imitazione differisce
dall’emulazione, la quale è possibile anche nei primati e consiste nella comprensione
esclusiva dei rapporti oggettivi (si copia un comportamento messo in atto da qualcuno in
ragione delle conseguenze osservate, ma non si capisce la motivazione per cui questo
comportamento sia stato messo in atto dall’altro).
Si sviluppa, quindi, il processo di identificazione con gli altri, così come i giochi simbolici,
che sono, sovente, frutto di imitazione e che rappresentano un altro modo per entrare in
comunicazione con il prossimo, attraverso la condivisione degli stessi simboli. I primi giochi
simbolici hanno l’obiettivo di gratificare l’adulto, dal momento che il bambino vede che i
suoi genitori sono più soddisfatti, se egli utilizza un oggetto facendo riferimento non solo al
suo significato ma anche ad un significante; in seguito assumono, invece, una funzione di
soddisfazione dei bisogni dell’Io, proprio come è stato teorizzato da Piaget. Si sviluppa,
analogamente, il linguaggio, che è un codice di natura simbolica nato da una
convenzione sociale. Per imparare l’uso convenzionale di un simbolo linguistico, il bambino
deve, innanzi tutto, comprendere l’intento comunicativo dell’adulto che ha pronunciato
la parola e quindi, per inversione dei ruoli, intraprendere un processo di imitazione ed usare
il nuovo simbolo con lo stesso intento comunicativo e rivolgendosi all’adulto che ha
osservato.
Lo sviluppo linguistico è risultato dell’estensione delle abilità di attenzione congiunta ed
apprendimento culturale e questo sembra spiegare i possibili deficit del linguaggio negli
autistici. Verso i 4 anni, il bambino capisce che gli altri possono avere credenze che
differiscono dalle sue e questa scoperta è resa possibile dalla simulazione, che consiste nel
“mettersi nei panni mentali dell’altro”, per la quale sono molto importanti le interazioni
discorsive: tutto questo porta, tra i 3 ed i 7 anni, allo sviluppo di una morale cooperativa e
non più eteronoma, il che significa che il bambino valuta ciò che è giusto e sbagliato
tenendo conto, anche, delle prospettive delle altre persone.

Karmiloff-Smith – “Oltre la mente modulare”


Karmiloff-Smith cerca di conciliare, nella sua opera, l’innatismo di Fodor espresso in “La
mente modulare” con il costruttivismo piagetiano: ella ritiene che lo sviluppo sia reso
possibile sia da fattori dominio-specifici sia da fattori generali, motivo per cui i piagetiani

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dovrebbero accettare la modularità della mente umana e gli innatisti il fatto che infanti e
bambini siano attivi nel processo di conoscenza della realtà esterna.
Secondo Fodor, la mente si compone di una serie di moduli, ognuno dei quali ha una
propria funzione, riceve specifici inputs e trasforma i dati in entrata, che sono già stati
elaborati in modo tale da poter essere letti da quello specifico modulo, in un formato che
sia elaborabile a livello centrale (“il linguaggio del pensiero”). I moduli sono, pertanto, rigidi,
automatici, veloci e dominio-specifici ed il loro funzionamento non subisce influenze.
Le caratteristiche di un modulo sono, quindi, il fatto di avere un’architettura neurale fissa,
la rigidità, l’elaborazione obbligata e guidata dallo stimolo (il che vuol dire che ogni modulo
elabora un determinato tipo di stimolo in uno specifico modo), l’incapsulamento
informazionale (cioè l’impossibilità di essere influenzati dal contenuto del resto della mente)
e l’insensibilità a scopi cognitivi centrali.
Secondo Karmiloff-Smith, intelligenza e flessibilità sono possibili solo andando al di là
della modularità, ovvero pensando che, in vero, i moduli non siano prespecificati in tutti i
loro dettagli e che non vi sia una dicotomia netta tra il loro funzionamento e l’attività
cognitiva a livello centrale.
La modularizzazione è da intendersi come in parte predeterminata ed in parte prodotta
dallo sviluppo: inizialmente, i livelli di attivazione sono distribuiti nel cervello e, solo col
tempo, si creano particolari circuiti che si attivano in risposta a determinati inputs dominio-
specifici: il tutto è influenzato dall’ambiente. Nel descrivere la modularizzazione, Karmiloff-
Smith parla di fasi e non di stadi (nei quali i cambiamenti evolutivi hanno luogo
simultaneamente anche in domini diversi): per ogni dominio, così come per ogni micro-
dominio, vi sono ripetuti cambiamenti di fasi. Esattamente come il modulo, anche la
modularizzazione presuppone predisposizioni specificamente innate ma, a differenza del
modulo, la modularizzazione implica uno sviluppo che avviene in un certo modo dal
momento che c’è un’interazione con l’esterno: in altre parole, è l’esperienza a permettere
una “canalizzazione” delle predisposizioni innate in un certo modo. Nel caso del linguaggio,
la modularizzazione tende a completarsi del tutto o quasi entro la pubertà, mentre, per altri
dominio, il processo può essere più rapido come più lento.
Il bambino registra le informazioni che provengono dal mondo esterno in due modi
diversi: alcuni inputs hanno solo la funzione di innescare il processo di attivazione, poiché la
componente innata che si occupa del loro processamento è, di per sé, già
sufficientemente sviluppata e determinata ne dettagli; altri inputs, al contrario, sono di
interesse di una base innata, che non è del tutto prespecificata e, di conseguenza,
determinano la modularizzazione.
La modularizzazione altro non è se non una modificazione adattiva del modulo
coinvolto. All’interno di ogni dominio-specifico agisce un processo di tipo dominio-
generale, la ridescrizione rappresentazionale o modello RR, la quale è caratterizzata da tre
fasi:
1. apprendimento guidato dai dati si aggiungono delle rappresentazioni mentali senza che
queste siano associate, se non minimamente, a quelle già esistenti che riguardano lo stesso
dominio e senza modificarle (livello I, “implicito”);

2. il focus si sposta dall’esterno all’interno le rappresentazioni interne diventano passibili di


cambiamento (livello E, “esplicito”);

3. si raggiunge un equilibrio tra la considerazione degli stimoli esterni e delle


rappresentazioni interne (livello E 2/3). I dati a livello E1 non sono accora consapevoli né
verbalizzabili, quelli a livello E 2 sono consci e quelli a livello E 3 consci e verbalizzabili.
Mancano, tuttavia, delle evidenze a favore della possibilità che esistano dei dati consci ma
non ancora verbalizzabili ed è per questa ragione che Karmiloff-Smith preferisce parlare di
un unico livello E 2/3. Karmiloff-Smith ha chiesto a dei bambini di età compresa tra i 4 ed i

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9 anni di porre dei blocchetti su di un supporto metallico, in modo tale da farli stare in
equilibrio. Alcuni di questi blocchetti erano omogenei, altri con un peso nascosto al loro
interno ed altri ancora con un peso evidente già dall’esterno. I risultati sono i seguenti:

- livello I bambini di 4 anni risolvono il compito con estrema facilità, concentrandosi, solo,
su informazioni direttamente osservabili e trattando ogni singolo blocchetto come un
nuovo problema a sé. Essi sfruttano la retroazione propriocettiva positiva e negativa
circa la direzione di caduta, per comprendere come ottenere una condizione di
equilibrio. Il livello I è, dunque, caratterizzato dall’abilità di elaborare inputs specifici
secondo modalità selettive. L’esecuzione che consente la risoluzione del problema è
molto rapida ma carente in termini di flessibilità;
- livello E 1 bambini di 6 anni mostrano di avere prestazioni inferiori a quelli di 4 anni. Essi
ridescrivono le rappresentazioni dei corpi che stanno in equilibrio che sono state
immagazzinate al livello I e ne astraggono una caratteristica che accomuna tra loro
molti oggetti: hanno una struttura simmetrica e stanno in equilibrio se appoggiati sul loro
centro geometrico. Questa è la rappresentazione ridescritta, che ha lo svantaggio di
non veder presi in considerazione i dati provenienti dalla propriocezione: i bambini,
infatti, trattano la retroazione negativa come se fossero loro a non essere adeguati
nell’esecuzione e non la teoria ad essere errata; di conseguenza, cercano degli errori
nel proprio comportamento e dispongono più lentamente e con più cura i blocchetti
sul supporto metallico, ma invano. Nonostante si trovino di fronte a molte anomalie che
dovrebbero mettere in crisi la loro teoria, i bambini non la espandono alle irregolarità,
ma elaborano una nuova teoria parallela: creano due micro-domini anziché
comprendere tutti i dati in un unico e solo micro-dominio. Il livello E, dunque, si distingue
per il passaggio da conoscenze implicite a nozioni esplicite, che non sono però ancora
né consapevoli né verbalizzabili. Il comportamento si adatta ad una teoria, la quale è
stata ricavata da una ridescrizione rappresentazionale dei dati impliciti
precedentemente immagazzinati. Il passaggio dal livello I al livello E 1, quindi, non
dipende molto dall’esperienza, ma piuttosto dall’utilizzo di dati di cui già si dispone per
creare nuove teorie. I dati immagazzinati non vanno, ciò nonostante, perduti, giacché
l’individuo può mettere in atto un comportamento da livello I o da livello E 1 (o E 2/3), a
seconda della situazione;
- livello E 2/3 ad 8-9 anni, il livello di esplicitazione è maggiore rispetto a come fosse a 6
anni ed i dati di livello I vengono ridescritti in una teoria più ampia ed efficace di quella
di livello E 1. Lo sviluppo intellettuale secondo l’approccio psicometrico nella sintesi
proposta da Sternberg L’approccio psicometrico presta attenzione, in particolare, alle
differenze riscontrabili nelle prestazioni dei diversi individui ai test. Ricerca, quindi, dei
patterns comuni che, da una parte, riducano le innumerevoli differenze dei dati e,
dall’altra, consentano di differenziare tra loro gli individui: l’ipotesi di partenza è, infatti,
che i diversi patterns stiano per diverse abilità mentali di base.
Spearman ritiene che l’intelligenza si componga di un fattore generale (g), che è
l’intelligenza di base, presente in quantità diverse nei vari individui, cui si aggiungono
dei fattori specifici (s), che supportano ognuno una determinata funzione intellettuale.
La sua teoria è adatta a descrivere il funzionamento cognitivo nei primi 10 anni di vita.
Thurstone ha identificato sette abilità mentali primarie: la comprensione verbale,
l’abilità con i numeri, la memoria, la velocità percettiva, la visualizzazione spaziale, la
facilità verbale ed il ragionamento induttivo. La sua teoria è adatta a descrivere il
funzionamento cognitivo in adolescenza ed età adulta.

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Sternberg ritiene che i dati a disposizione suffraghino la teoria della differenziazione,


secondo la quale, con l’aumentare dell’età, si sviluppano, da un’abilità intellettuale
generale, vari gruppi di altre abilità che diventano, tra loro, sempre più indipendenti.
Presso l’approccio psicometrico, si usa il termine “intelligenza” per riferirsi a quel
“qualcosa” che rende possibili le prestazioni cognitive.
Secondo Sternberg, nel corso dello sviluppo cambi l’importanza dei diversi
fattori dell’intelligenza, così nei primi due anni prevalgono i fattori di tipo percettivo-
motorio mentre, tra i 2 ed i 4 anni, diventano preponderanti quelli di tipo simbolico. E’,
quindi, il contenuto a variare, non il tipo di intelligenza. Inoltre, con il progredire dell’età,
le persone diventano sempre più intelligenti in senso assoluto, fino, almeno, a 18-20 anni.
Tuttavia è anche vero che, più passano gli anni, meno un test psicometrico può
diventare predittivo della prestazione degli individui e questo ha diverse spiegazioni:
innanzi tutto, più aumenta l’età e più i test misurano non le capacità di base, ma le
influenze dei fattori ambientali; inoltre, maggiori sono le variabili da prendere in
considerazione e meno un unico indice diventa predittivo dei risultati a distanza di anni
e, infine, i ritmi maturativi hanno una forte variabilità individuale, non sono uguali per
tutti.

Lo sviluppo delle conoscenze concettuali


Il nostro pensiero funziona sulla base di concetti, di cui ci serviamo per classificare gli
elementi della realtà in modo efficace, così da poter regolare il comportamento da
assumere in un dato momento, in una certa situazione. I concetti sono delle categorie
mentali di elementi che hanno in comune delle caratteristiche essenziali per far parte di un
determinato concetto.
I concetti hanno una funzione adattiva, dal momento che permettono di capire come
comportarsi di fronte ad elementi che possono essere categorizzati in un concetto od in un
altro. Non sono isolati, bensì collegati tra loro ed organizzati in una struttura gerarchica, in
cui vi è un livello base (basic), uno subordinato ed uno superordinato; lo stesso elemento
può far parte di più categorie dell’organizzazione gerarchica. Nella vita di tutti i giorni,
possiamo trovarci in situazioni che richiedono l’uso di un concetto base ed in altre per cui
è più adeguato un concetto subordinato o superordinato.
Un concetto si compone di un nucleo, che è la regola che si deve soddisfare per farne
parte, a cui si aggiunge un prototipo, la prima rappresentazione mentale che ci viene in
mente se pensiamo al concetto e che deriva, sovente, dall’esperienza soggettiva (il nucleo
è, invece, obiettivo e condiviso).
Lo sviluppo della metacognizione: ToM, processi di controllo e conoscenze su come
funzioni la mente
La metacognizione si compone di processi di controllo, che consentono di scegliere che
strategie cognitive mettere in atto, di controllare l’esecuzione e di valutare quanto sia
efficace, e di conoscenze specifiche, verbalizzabili e consapevoli, che l’individuo ha circa
come avvenga la conoscenza.
In ambito metacognitivo, si possono identificare due filoni di ricerca: uno basato sullo studio
della teoria della mente (ToM, Theory of Mind) ed uno più generale, che si occupa di
metacognizione e del suo sviluppo e che risente dell’influenza dello Human Information
Processing.

LA TEORIA DELLA MENTE


Il filone di ricerca che si occupa della ToM si interessa agli stati mentali (credenze e
desideri) che i soggetti attribuiscono agli altri e studia le false credenze, le teorie implicite
ed esplicite che guidano il comportamento a livello individuale. Le ricerche sulla ToM sono

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state estese, anche, ai bambini con autismo, con disabilità intellettive e con disturbi specifici
del linguaggio.
Il compito di Maxi si inserisce nella serie dei compiti di spostamento inaspettato,
utilizzati per valutare il livello di ToM dei bambini: per lo svolgimento di questo compito, in
cui la madre di Maxi sposta la sua tavoletta di cioccolato in un posto diverso da quello in
cui egli l’aveva lasciato, è necessario comprendere che, nel momento in cui rientra nella
stanza, Maxi ha, necessariamente, una falsa credenza circa la realtà, dal momento che
non può sapere dove si trovi, ora, la sua tavoletta di cioccolata, né che la madre l’abbia
spostata.
Questa prova è stata superata dalla maggior parte dei bambini di 6 anni, ma sembra
che quelli più piccoli abbiano avuto delle difficoltà dovute, più che altro, al dover
memorizzare più informazioni allo stesso tempo e ad una non adeguata comprensione
della consegna. Il compito degli Smarties è, invece, un compito di contenuto inaspettato:
in una scatoletta di Smarties si mette una matita anziché caramelle e sin chiede ad un
bambino cosa crede che vi troverà aprendola; la domanda viene posta sia prima sia dopo
il rivelamento del reale contenuto della scatola ma, nel secondo caso, non si chiede al
bambino cosa lui si aspetterà di trovare al suo interno, bensì cosa penserà un altro bambino,
che in quel momento è fuori dalla stanza e non può sapere la risposta corretta.
La maggior parte dei bambini di 4 anni ha risposto in modo corretto, mentre i
bambini di 3 anni hanno sbagliato, rispondendo come se il bambino fuori dalla stanza
potesse comunque conoscere il contenuto della scatola di Smarties. Alla luce di quanto
emerso da questi studi, si può, pertanto, ipotizzare che, già a partire dai 3 anni, i bambini
abbiano una ToM. Alcuni Autori sostengono che già dai 18-24 mesi lo sviluppo del pensiero
simbolico possa essere precursore della ToM. Per quanto riguarda l’autismo, la convinzione
comune è che il deficit della ToM sia solo una delle carenze tipiche della malattia.

IL CONTROLLO METACOGNITIVO
A proposito degli studi sul controllo metacognitivo, invece, fin dagli anni ’70 sono
stati condotti due tipi di indagini scientifiche, inerenti lo studio del funzionamento
metacognitivo e le conoscenze del soggetto sul funzionamento della mente. Un buon
modo per valutare la metacognizione è indagare come il bambino usi le sue conoscenze
meta cognitive per regolare i propri processi mnestici: l’automonitoraggio, infatti, richiede
di conoscere a che punto si sia, nello svolgimento di un dato compito cognitivo, rispetto
all’obiettivo che ci si è prefissati, ovvero, nella fattispecie, comprendere ed immagazzinare
il materiale di interesse. Borkowski ha descritto, infatti, l’allievo che sa imparare bene come
avente a sua disposizione una vasta gamma di strategie utili all’apprendimento a cui
ricorrere ed in grado di comprendere quando una particolare strategia possa essere utile
e quando no. Questo allievo ideale è, tra l’altro, intrinsecamente motivato, il che gli
permette di perseverare nell’attività che viene reputata stimolante, indipendentemente
dalla presenza od assenza di rinforzi esterni. Ha una visione della mente incrementale,
ovvero considera la propria mente come possibile oggetto di miglioramento, non teme
l’insuccesso e si rende conto che si tratta, in realtà, di una tappa necessaria per
raggiungere il successo.
Di conseguenza, non prova ansia quando viene messo alla prova, dal momento che
la considera un’occasione per migliorare. E’ in grado di organizzare il proprio impegno,
ovvero di calibrarlo a seconda del tipo di compito che deve svolgere e di distribuirlo in
modo sistematico, conciliandolo con una buona programmazione. Intraprende, con se
stesso, una sfida ottimale, ovvero non pretende né troppo né troppo poco; anche la
competizione con gli altri, di cui apprezza le differenze in termini di talento, è vissuta come
costruttiva.
Infine, viene, chiaramente, sostenuto in questo suo modo di pensare ed agire dai
genitori, dalla scuola e dalla comunità in cui è inserito. Risultati interessanti sono stati ottenuti

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nel 1992 da Cornoldi e Vianello, i quali hanno dimostrato che uno specifico training
cognitivo condotto con soggetti affetti da una disabilità intellettiva può, effettivamente,
condurre ad un miglioramento delle loro prestazioni di memoria, a patto, tuttavia, che la
loro età mentale non sia troppo bassa.

LO SVILUPPO DELLE CONOSCENZE SULLA MEMORIA E L’ATTENZIONE


Le conoscenze individuali su memoria ed attenzione costituiscono oggetto di studio
sia del filone di ricerca che si occupa di ToM sia di quello che si focalizza sulla metamemoria.
In questo tipo di studi, si utilizza un metodo che richiama molto il colloquio piagetiano per
via della sua flessibilità, ma che, al contempo consente di ottenere dei risultati confrontabili
da un punto di vista statistico. Si parte dalla narrazione di una storia e si chiede al bambino
di fornire dei suggerimenti e delle spiegazioni, sollecitandolo con delle domande. Alla
narrazione si accompagna la presentazione di tavole illustrate e le domande hanno
l’intento di capire che tipo di conoscenze il bambino abbia a proposito dei fondamentali
eventi mnestici, come l’oblio e le sue cause, il processo di immagazzinamento e la
rievocazione dei ricordi. Importante è confrontare lo sviluppo delle strutture mentali con
quello delle conoscenze circa il funzionamento della mente.
Per quanto riguarda le conoscenze sulla memoria, si possono individuare 5 livelli:

- livello 0 (3-4 anni) il bambino ritiene che si ricordi “con il cervello” e che, di conseguenza,
non essere in grado di ricordare significhi “non avere testa”. Ha un’idea dei ricordi come
di qualcosa che entra ed esca dalla testa;
- livello 1 (4-6 anni) il bambino si concentra, soprattutto, sugli stimoli esterni e su quello
che si deve fare nel momento della codifica mnestica e non ha delle idee circa cosa
avvenga nella testa dopo la codifica. Crede che l’oblio sia causato dal trascorrere del
tempo o dalla stanchezza, motivo per cui una buona strategia di memoria consiste
proprio nel fare tutto subito, senza lasciar passare il tempo;
- livello 2 (6-8 anni) il bambino comincia ad avere delle conoscenze circa quello che può
avvenire in seguito alla codifica. Scopre l’esistenza della memoria di lavoro e dei
processi di recupero dai magazzini di memoria a lungo termine. Ritiene che delle buone
strategie di memoria consistano nel rimanere attenti, nell’impegnarsi e nel pensare
tanto e bene;
- livello 3 (8-10 anni) il bambino scopre il ruolo dei processi energetici (interessi, emozioni,
motivazioni ed impegno) che sottendono ai processi cognitivi. Ritiene che, per evitare
l’oblio, possa essere utile evitare l’interferenza da parte di pensieri ed azioni distraenti;
- livello 4 (dai 10 anni) il ragazzo capisce che sulla memoria influiscono, anche, le
emozioni, esattamente come il grado di interesse e la volontà. Inizia ad utilizzare
associazioni complesse per facilitare la memoria, così come la contestualizzazione,
l’attenzione focalizzata e la riduzione delle interferenze emotive.

Le conoscenze sull’attenzione, invece, si articolano su 4 livelli:

- livello 0 (3-4 anni) per il bambino fare attenzione è una regola educativa, non una
funzione cognitiva, motivo per cui essere disattenti equivale ad essere cattivi e
disobbedienti. Per prestare attenzione si deve, dunque, essere bravi;

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- livello 1 (4-6 anni) il non stare attenti viene imputato al fatto di non aver percepito e,
allo stesso modo, per attirare l’attenzione di qualcuno si considera utile il fare molto
rumore, proprio perché l’attenzione è fortemente legata alla percezione;
- livello 2 (6-8 anni) per il bambino il pensiero costituisce una grande fonte di distrazione
e, per fare attenzione, si devono evitare tutte le distrazioni ed i disturbi esterni;
- livello 3 (8-10 anni ed oltre) il ragazzo considera il pensiero importante per mantenere
l’attenzione e riconosce, anche, l’importanza ei fattori motivazionali, motivo per cui la
scarsa attenzione risulta poter essere imputata a mancanza di interesse e di volontà. Per
far attenzione può essere utile cercare di non pensare ad altro ed è fondamentale
cercare delle buone motivazioni. Per quanto riguarda, invece, l’attirare l’attenzione
dell’altro, è possibile cercando di suscitare in lui interesse od usando incentivi di vario
tipo.

Il disegno infantile

Anche per quanto riguarda il disegno infantile, è possibile dividere lo sviluppo del
bambino in fasi:

- 2-4 anni è il periodo in cui, tendenzialmente, iniziano ad esserci i primi tentativi di


disegnare qualcosa. Non è semplice stabilire se via sia o meno un’intenzionalità
comunicativa, dal momento che il bambino sembra attribuire soltanto a posteriori un
significato al proprio scarabocchio, motivo per cui si parla di “realismo fortuito” (questa
espressione sta ad indicare il fatto che eventuali significati non sono voluti, ma vengono
scoperti solo a lavoro ultimato dal bambino). A questa fase segue quella del “realismo
mancato”: il bambino vorrebbe disegnare qualcosa in particolare, ma non ci riesce e
può vivere in modo particolarmente frustrante eventuali critiche rivoltegli dall’adulto;
- 4-6 anni il bambino disegna quello che ha imparato a rappresentare meglio, di solito la
figura umana come “omino testone”, ovvero senza tronco e con gli arti direttamente
attaccati al capo. La mancanza del tronco sembra essere dovuta alla scarsa capacità
della memoria di lavoro ed è per questo motivo che la sua comparsa è importante. Già
a 4-5 anni, il bambino comincia ad aggiungere degli elementi sullo sfondo (case, il sole,
animali, alberi, fiori, erba ed automobili) ed i suoi disegni sono finalizzati a soddisfare sia
se stesso sia l’adulto. La sua attenzione è focalizzata nel riprodurre degli schemi, ovvero
delle rappresentazioni stereotipate di ciò che intende disegnare, e si distinguono due
fasi: all’inizio le persone e gli oggetti appaiono disegnati su uno stesso foglio ma tra loro
separati mentre, in seguito, compare lo sfondo e le figure rappresentate cominciano ad
essere PARZIALMENTE collegate tra di loro, nel senso che, in ogni caso, restano statiche
e non vi è un rispetto delle proporzioni. I disegni assomigliano ad una scena di teatro,
con le persone rappresentate mentre guardano verso l’osservatore;
- 6-8 anni è la fase del “realismo intellettuale”, ovvero il bambino è intento a
rappresentare delle scene. Inizia a cercare di rendere il senso della profondità e, a circa
7 anni, si impegna anche con la prospettiva;
- Dagli 8 anni verso gli 8-9 anni, il bambino tenta di riprodurre in modo fedele qualcosa
che sta osservando (“realismo visivo”), compreso il movimento di una persona. Dopo gli
11-12 anni e con l’adolescenza aumenta l’interesse verso la rappresentazione
prospettica, oltre che verso l’interesse decorativo; i soggetti iniziano, inoltre, ad essere
disegnati di profilo. In definitiva, l’atto di disegnare è, sicuramente, un atto che chiama
in causa diversi processi cognitivi, dalla pianificazione all’esecuzione, dal monitoraggio

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alla valutazione con eventuali correzioni e così via, ma è, anche, un’attività attraverso
la quale il bambino può cercare di comunicare con gli altri attraverso l’uso di simboli.

Leggere e scrivere
Il modello adulto di lettura prevede tre vie:

1. iniziale rilevamento della parola per mezzo dell’analisi visiva ricerca del suo significato
nel magazzino semantico > confronto tra i magazzini semantico e fonologico confornto >
tra ciò che viene reperito e ciò che è presente nel magazzino fonologico > la parola viene
pronunciata, a voce alta o nella mente;

2. analisi visiva passaggio al magazzino fonologico attraverso l’applicazione delle regole


di trasformazione grafema-fonema (c’è il rischio che si pronunci male la parola o che non
se ne colga il significato);

3. rilevazione della parola magazzino fonologico (dal momento che si salta il passaggio per
il magazzino semantico, vi è il rischio che il soggetto pronunci bene la parola, ma senza
conoscerne il significato).

MODELLO DI APPRENDIMENTO DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA:

I. stadio logografico il bambino legge o scrive le parole in modo globale, ovvero senza
riconoscere realmente i grafemi che le compongono. La conoscenza è, pertanto,
sincretica e non analitico-sintetica: non si basa sulle corrispondenze grafema-fonema;
II. stadio alfabetico il bambino impara ad applicare le regole di trasformazione grafema-
fonema;
III. stadio ortografico le regole di trasformazione grafema-fonema vengono applicate a
gruppi di grafemi/fonemi (ad esempio, alle sillabe);
IV. stadio lessicale lettura e scrittura avvengono in modo globale, senza che ci sia bisogno
di ricorrere alle regole di trasformazione grafema-fonema.

LA COMPRENSIONE DEL TESTO SCRITTO

Sono implicati due tipi di processi: il soggetto può mettere in relazione l’informazione
nuova con delle conoscenze già acquisite ed immagazzinate nella memoria a lungo
termine attraverso un’analisi che sia guidata dai dati sensoriali percepiti (bottom-up)
oppure dai concetti (top-down); nel primo caso si rischia di leggere senza capire mentre,
nel secondo caso, vi è il rischio di leggere anche qualcosa che, in realtà, non è scritto.

Comprendere un brano non si basa, solo, sulla comprensione delle singole parole, bensì
anche delle frasi e di come esse siano tra loro collegate nel determinare la struttura del
brano. Questo è più semplice se il brano ripropone delle strutture familiari, che rientrano in
qualche script conosciuto dalla persona.

Ad esempio, le fiabe sono molto comprensibili proprio poiché sono molto attinenti ad
un copione di base. In definitiva, la comprensione di un testo dipende sia dalle
caratteristiche stesse del brano, quali possono essere le eventuali difficoltà a livello lessicale,
sintattico, relative ai rapporti tra le frasi ed alla struttura globale, sia dal soggetto che legge
ed in questo caso si fa riferimento alle sue conoscenze pre-esistenti, alle sue capacità
cognitive e meta cognitive ed al livello di impegno profuso.

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LA PRODUZIONE DEL TESTO SCRITTO

L’atto di scrivere è equiparabile ad un problem solving ed il progetto dello scrivere si


articola in tre fasi:

1. progettazione generazione di idee che si intende comunicare, loro organizzazione e


scelta dell’obiettivo da privilegiare;

2. trascrizione trasposizione sul foglio di ciò che si è pensato;

3. revisione può essere continua (a mano a mano che si scrive) o sistematica (di tutto il
lavoro o di una sua parte consistente). Esiste una funzione monitor, che permette il
confronto online tra le tre fasi: della progettazione, della trascrizione e della revisione. Le
difficoltà dei bambini nel redigere un testo scritto sembrano essere dovuti a specifici fattori:
da un lato il fatto di dover produrre un testo senza ricevere, come invece avviene nella
comunicazione orale, un feedback dal proprio interlocutore e, dall’altro lato, il dover
reperire dei contenuti dalla memoria a lungo termine; a questo si aggiunge il fatto di dover
organizzare il testo, ovvero di dover scegliere come distribuire i contenuti nella sua struttura
globale e nelle singole frasi che lo compongono, e di dover svolgere la revisione, continua
o sistematica che sia.

Acquisizione delle abilità numeriche

Secondo la Gelman, i bambini anche molto piccoli hanno una competenza innata e
dominio- specifica dei principi dei numeri, motivo per cui i loro limiti nel contare sono dovuti
ad incompetenza, bensì ad un problema di efficienza. Ella ha identificato una serie di
principi fondamentali che consentono ai bambini di contare in modo appropriato, di
stabilire che cosa possa o meno essere contato e di seguire un ordine corretto mentre
contano. Questi principi sono i seguenti:

- principio di corrispondenza uno a uno (o di corrispondenza biunivoca) ogni elemento


dell’insieme che viene contato può essere definito da un solo numero;
- principio dell’ordine stabile quando si conta, si devono dire i nome dei numeri sempre
nello stesso ordine;
- principio della cardinalità nel contare un insieme, l’ultimo numero detto è di vitale
importanza, poiché fornisce informazioni sulla numerosità dell’insieme stesso;
- principio dell’astrazione (o di indifferenza al tipo particolare di oggetto) tutto può essere
contato;
- principio della non pertinenza dell’ordine si può iniziare a contare a partire
dall’elemento che si vuole e continuare come si preferisce. Siegler si oppone alla teoria
della Gelman e ritiene che i bambini imparino a contare in modo limitato e che solo in
seguito astraggano da ciò i principi sottostanti all’atto stesso di contare. Anche in questo
ambito vi è una forte opposizione tra la posizione innatista e quella costruttivista: la prima
non nega il ruolo dell’esperienza, ma ritiene che la competenza sia innata, mentre la
seconda non nega il ruolo di alcune predisposizione innate, più o meno generali, ma
ritiene che l’esperienza sia fondamentale ad attivare processi nuovi ed originali.
Secondo Karmiloff-Smith, la mente umana ha una certa predisposizione verso i dati
numericamente rilevanti, ma lo sviluppo non si basa esclusivamente su principi dominio-
specifici, bensì, anche, sugli stimoli forniti dall’ambiente e che il soggetto deve
elaborare. Ella, inoltre, ritiene che il principio di cardinalità non sia innato, ma che derivi
dall’unione di principi più elementari, come quello della corrispondenza biunivoca e

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quello dell’ordine stabile. Per quanto riguarda, infine, delle linee di sviluppo generali
circa l’apprendimento della capacità di contare, si possono identificare tre fasi:

1. primi 3 anni il bambino confronta tra loro insiemi di 2 o 3 elementi sulla base della loro
numerosità e, già dal primo anno di vita, si mostra sensibile ai cambiamenti numerici;

2. 3-6 anni il bambino è in grado di svolgere semplici addizioni e sottrazioni, anche più di
quanto normalmente si sospetti. Infatti, se viene aiutato nei suoi ragionamenti aritmetici, a
5 anni è già in grado di contare in modo appropriato oltre alla decina e di fare operazioni
di addizione e sottrazione entro il 10;

3. 6-11 anni a scuola, si propongono al bambino, gradualmente, delle tappe di


acquisizione fondamentali, quali le quattro operazioni, le unità e le decine, i decimali, le
frazioni e così via.

CAPITOLO 8
LO SVILUPPO DELLE EMOZIONI

L’emozione può essere definita come una complessa catena di eventi che inizia con
la percezione di uno stimolo interno od esterno e termina con un’interazione tra l’organismo
e lo stimolo stesso che ha innescato l’emozione, la catena di eventi. Le principali
componenti di questa catena sono una valutazione cognitiva dello stimolo, un’esperienza
soggettiva che è il “sentimento“, un arousal fisiologico, una tendenza all’azione ed un
comportamento manifesto. Secondo Darwin, le emozioni hanno una valenza adattiva che
è quella di permettere una reazione a fronte degli stimoli ambientali ed hanno una base
innata. Un’emozione ha, fondamentalmente, tre funzioni, di cui due comunicative:
1. permettere di far fronte ad un evento vissuto come eccezionale;
2. comunicare all’esterno il proprio stato emotivo;
3. informare il soggetto circa la presenza di qualcosa di eccezionale da affrontare e circa
i risultati ottenuti dalle sue strategie di regolazione emotiva.
Le emozioni si dividono in primarie o fondamentali, che hanno una base espressiva
universale (il che significa che si estrinsecano con espressioni facciali simili in tutte le culture)
e sono comuni agli essere umani e ad alcuni animali, ed in secondarie o complesse, le quali
sono tipiche dell’essere umano, del momento che necessitano, per generarsi, di
un’elaborazione cognitiva e di consapevolezza. Le emozioni primarie sono la paura, la
rabbia, la gioia, la tristezza, la sorpresa, l’interesse ed il disgusto, mentre, tra le emozioni
secondarie, possono essere annoverate la gelosia, l’imbarazzo, l’orgoglio, la vergogna ed
il senso di colpa.

La valutazione cognitiva è ciò che conduce ad un’esperienza soggettiva ed almeno


parzialmente conscia che, di solito, dà il nome all’emozione: è il così detto “feeling”.
L’arousal fisiologico determina dei cambiamenti corporei che consentono all’organismo di
adattarsi al tipo di situazione che deve affrontare. Sono anche presenti delle reazioni
tonico-posturali, le quali consistono in tensione o rilassamento di gruppi muscolari e tendono
a coinvolgere tutto il corpo, alterando le espressioni facciali, i gesti, la voce ed i
comportamenti esterni, che variano a seconda dell’emozione provata (per esempio, ci
possono essere comportamenti di fuga, pianto e così via).

Teorie dello sviluppo delle emozioni

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- Teoria delle differenziazione nel neonato è possibile distinguere, soltanto, un maggior o


minor stato di arousal e, soltanto col passare del tempo, questo arousal va incontro ad
una differenziazione, la quale consente di distinguere tra stati emotivi di sconforto e di
piacere. La differenziazione emotiva è un processo progressivo, reso possibile dai
concomitanti mutamenti a livello cerebrale, cognitivo e sociale. Si possono identificare
tre linee di differenziazione: piacere/gioia, circospezione/paura e rabbia/collera. E’,
inoltre, possibile dividere la differenziazione emotiva in sei stadi:

1) il primo stadio corrisponde al primo mese di vita del bambino e vi si possono identificare
i prototipi fisiologici delle tre linee di differenziazione emotiva, ovvero il sorriso endogeno, il
trasalimento a fronte di stimoli forti, il dolore che si manifesta con il pianto e lo sconforto.
Risulta, invece, ancora assente una vera e propria elaborazione cognitiva;

2) il secondo stadio si protrae fino al terzo mese. Sono, a questo punto, presenti solo
precursori forti e non reali emozioni e tra questi precursori vi sono il sorriso, l’attenzione coatta
precoce (il bambino fissa uno stimolo che percepisce come bizzarro a lungo) ed i
comportamenti di sconforto, per esempio un pianto particolare;

3) a partire dai 3-4 mesi (terzo stadio), nascono delle emozioni vere e proprie, ovvero quelle
di piacere, rabbia, disappunto e circospezione. Sono emozioni basate sulle azioni del
soggetto agite nei confronti del mondo esterno e si ipotizza che via sia una, seppur vaga,
consapevolezza;

4) nel quarto stadio, la consapevolezza circa alcune emozioni, quali la paura, la gioia, la
collera e la sorpresa, aumenta;

5) nel quinto stadio, corrispondente al secondo semestre del primo anno di vita, le emozioni
diventano più graduate e sono presenti delle ambivalenze;

6) nel sesto ed ultimo stadio, si ha una forte sperimentazione a livello affettivo ed emotivo,
con i movimenti di separazione e riavvicinamento messi in atto dal bambino nei confronti
dei genitori. Sono presenti emozioni di esultanza, ansia, umore irato e petulanza. Dopo i 18
mesi, fanno la loro comparsa l’affetto per se stessi, la vergogna, l’opposizione e, in seguito,
l’amore, l’orgoglio, il far del male intenzionalmente e la colpa, ovvero le emozioni
autocoscienti.

- Teoria differenziale di Izard la comparsa di un’espressione facciale viene considerata


indicativa della presenza dell’emozione ad essa associata, per cui da ciò si ricava che
le emozioni primarie sono presenti fin dal momento della nascita o nei mesi
immediatamente successivi, con un ordine di comparsa che è geneticamente
determinato. Ogni emozione primaria è predeterminata, dal punto di vista genetico,
nelle sue caratteristiche, per cui l’apprendimento e lo sviluppo cognitivo e sociale
influenzano solo quali possano essere le situazioni adatte a scatenare le emozioni
primarie, come queste possano essere controllate e che significato possano acquisire
per l’individuo. Izard distingue tre livelli di sviluppo:

1) 1° livello (2-3 mesi), delle esperienze sensorio-affettive le emozioni hanno la finalità di


comunicare i bisogni del bambino e di contribuire alla formazione del legame tra lui e la
madre e sono emozioni di interesse, sconforto, tristezza, trasalimento e disgusto, cui si
aggiunge la presenza del sorriso endogeno;

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2) 2° livello (3-4 mesi), dei processi percettivo-affettivi l’attenzione del bambino è rivolta al
mondo esterno e fanno la loro comparsa il sorriso sociale, la gioia, la sorpresa, la collera e
la paura;

3) 3° livello (dai 9 mesi), dei processi cognitivo-affettivi si sviluppa la consapevolezza di sé


e del proprio agire ed emergono nuove emozioni, quali la tristezza, la colpa ed il disprezzo.

I MODELLI DI SHERER ED HARRIS


Sherer, da un punto di vista cognitivista, ritiene che lo sviluppo emotivo sia
condizionato dalle capacità valutative del bambino. Al primo mese, egli è in grado di
distinguere gli stimoli nuovi da quelli familiari e ciò gli procurerà emozioni di trasalimento,
sorpresa e gioia. In seguito, impara a differenziare gli stimoli che producono piacere e
dispiacere, da cui le emozioni di piacere e sconforto. A partire dai 3 mesi, il bambino
comincia a valutare gli stimoli a seconda che essi permettano od ostacolino il
raggiungimento di un obiettivo e prova, così, emozioni di paura e collera o contentezza e
gioia.
A partire dai 12 mesi, infine, inizia a confrontare le sue azioni con le richieste sociali e
da questo confronto nasceranno le emozioni di vergogna, colpa e disprezzo. Harris ha
ripreso le ipotesi di Darwin circa l’esistenza di un “repertorio universale ed innato di
espressioni facciali”, alle quali si attribuiscono “i corrispettivi significati per mezzo di un
meccanismo innato di riconoscimento”. Egli ritiene che il bambino sia in gradi di
riconoscere, già dai primi mesi di vita, le espressioni facciali di dispiacere, felicità e rabbia.
Harris, inoltre, pone l’enfasi sul ruolo delle funzioni cognitive nel consentire al bambino di
comprendere e di controllare, almeno in parte, le emozioni.
Queste competenze avrebbero il merito di fornire al bambino, a partire dal primo
anno, una consapevolezza circa le proprie esperienze soggettive e, dal secondo anno in
avanti, condurrebbero ad una sempre maggiore comprensione delle emozioni altrui.
Questa comprensione, nel periodo della seconda infanzia ed in quello della fanciullezza, si
estenderebbe così, ad emozioni più complesse, quali l’orgoglio, la vergogna e la colpa.

Comparsa delle varie emozioni


Esiste accordo relativamente alla presenza del sorriso endogeno, del trasalimento e
dello sconforto fin dalla nascita, del sorriso al volto umano (sorriso sociale) nel 2°-3° mese,
del riso come espressione di gioia, della riabbia, della collera e della paura tra i 3 ed i 9 mesi
e della colpa e del disprezzo dopo il primo anno. Le discordanze tra gli Autori riguardano,
invece, l’età di comparsa della sorpresa, della vergogna, dell’interesse, del disgusto, della
timidezza e della circospezione.
Durante il secondo, emergono quelle emozioni che richiedono un confronto tra la
situazione presente ed una situazione passata o futura: aumenta, così, la gamma di
situazioni in cui il bambino esperisce le emozioni fondamentali e compaiono le vere
emozioni autocoscienti di imbarazzo, invidia e gelosia. Sono stati emotivi che richiedono di
rivolgere l’attenzione verso il proprio Sé, mettendo il proprio Io sotto lo sguardo proprio ed
altrui. La forma più evoluta di questi stati emotivi è rappresentata dalle emozioni
autocoscienti valutative, che nascono dal confronto tra il comportamento dell’individuo e
le norme sociali, compaiono intorno ai 2,5 anni e si sviluppano molto lentamente: sono
l’orgoglio, il senso di colpa e la vergogna.

La competenza emotiva
La competenza emotiva fa riferimento alla natura adattiva delle emozioni e si
sovrappone al concetto di Intelligenza Emotiva (IE), proposto da Goleman. Rientrano nel
concetto di competenza emotiva diverse abilità, la cui acquisizione, nel corso dello

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sviluppo, rende più semplice la gestione emotiva e l’instaurarsi di relazioni positive. Tra
queste abilità vi sono:
- una buona consapevolezza dei propri stati emotivi;
- la capacità di riconoscere le emozioni altrui;
- la conoscenza di un lessico emotivo ampio e che permetta di descrivere i vari stati
emotivi;
- la comprensione delle differenze esistenti tra l’emozione esperita e la sua espressione
esterna;
- la competenza empatica, intesa come empatia sia cognitiva (comprendere
l’emozione dell’altro) sia affettiva (condividere l’emozione dell’altro). La comprensione
delle emozioni altrui sembra essere presente già a 10 settimane di vita, quando il
bambino mostra di saper reagire in modo coerente alle espressioni della madre relative
a stati emotivi di felicità (mostrandosi contento), di rabbia (mostrandosi arrabbiato od
immobilizzandosi) e di tristezza (sbavando, succhiando o masticando a vuoto). Intorno
agli 8 mesi, con la comparsa della paura per l’estraneo, emerge, anche, la capacità di
interpretare le espressioni di ansia o di incoraggiamento della madre di fronte a stimoli
nuovi per il bambino e questo è il social referencing. A 15 mesi, il bambino è in grado di
interpretare così bene il tono arrabbiato di un estraneo, nella fattispecie, lo
sperimentatore, da evitare un giocattolo anche dopo 30 minuti. Poco dopo il
compimento del primo anno, inizia a mettere in atto comportamenti consolatori nel
momento in cui si imbatte nelle emozioni negative altrui e, dai 3 ai 6 anni, capisce che
le reazioni agli stimoli sono soggettive, cioè che possono variare da una persona
all’altra. Infine, nel periodo della fanciullezza, capisce che è possibile l’ambivalenza
(provare, allo stesso tempo, emozioni tra loro contrastanti), oltre che il fatto di provare
due emozioni diverse anche in poco tempo.

La regolazione emotiva
La regolazione emotiva consiste nella capacità dell’individuo di controllare l’esperienza
soggettiva e la manifestazione di un proprio stato di attivazione psicofisiologica (l’arousal
emotivo), per adattarsi al contesto sociale in cui si trova e per raggiungere un obiettivo.
Il neonato fa ricorso, per la sua regolazione emotiva, principalmente a stimoli esterni,
quali sono i genitori, il cui intervento è fondamentale: essi, evitando al bambino di provare
emozioni troppo intense, lo favoriscono nell’acquisire la capacità di regolare le emozioni
prima che esse diventino tanto intense da risultare ingestibili. Nel corso dello sviluppo, si ha
il passaggio dal ricorso a stimoli esterni all’uso di stimoli interni (per esempio, la rivalutazione
cognitiva). Sia gli studiosi che si rifanno alla teoria della differenziazione sia quelli che
appoggiano la teoria differenziale concordano sul fatto che, già verso gli 8-9 mesi circa, il
bambino abbia una certa consapevolezza dei correlati psicologici associati alle emozioni,
i quali costituiscono il vissuto soggettivo: si ipotizza, quindi, che proprio da questo periodo
cominci a svilupparsi la regolazione emotiva. Si tratta, chiaramente, di un percorso lungo e
che non si può mai considerare del tutto terminato e che viene favorito dallo sviluppo
cognitivo.
Molto utile risulta essere, anche, una buona meta conoscenza per quanto riguarda sia
il generale funzionamento della mente sia quello più particolare delle emozioni. Il controllo
emotivo è influenzato sia fattori intrinseci, che corrispondo ai sistemi biologici, al
temperamento ed alla disposizione individuali, sia da fattori estrinseci, quali, in età infantile,
le relazioni con gli adulti che si prendono cura del bambino. Va da sé che la regolazione
emotiva possa assumere forme differenti a seconda delle emozioni cui si riferisce.
Alcune modalità di controllo delle emozioni sono le seguenti:
- controllo della motricità corporea legata all’emozione;

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- capacità di diluire
fino ad arrivare a posticiparle, in modo tale da poter affrontare la situazione, per
esempio qualcosa di negativo, in modo graduale;
- capacità di isolare si isola una determinata emozione in una certa “regione” della
personalità, così da non consentire a tensioni nate in un certo contesto di espandersi in
altri, così da mantenere un buon funzionamento;
- capacità di nascondere fin dai 3-4 anni, i bambini sono in grado di mascherare alcune
emozioni, soprattutto quelle negative, con l’obiettivo di apparire “gentili ed educati”.
A partire dai 6 anni, possono modificare in modo consapevole le loro espressioni
emotivi al fine di ingannare l’altro (finzione). Per quel che concerne il controllo
dell’espressione emotiva, sembra che, ad una certa età, i bambini siano in grado di
utilizzare delle strategie di controllo senza esserne consapevole.
A livello di metaconoscenza, pare che essi siano, in primo luogo, consapevoli del
fatto che un evento positivo successivo ad uno negativo tende a mitigarne gli effetti
spiacevoli: utilizzano, quindi, la strategia di opporre qualcosa di positivo, anche solo
qualcosa di pensato, alla situazione che ha causato l’emozione negativa. Sono, inoltre,
consapevoli del fatto che continuare a pensare alla situazione che ha determinato
l’emozione negativa può peggiorare il proprio stato emotivo, motivo per cui può essere
utile controllare il tutto per mezzo di un’interferenza, il che significa, semplicemente,
pensando ad altro.
E’ quindi molto probabile che, fin dai primi anni della fanciullezza, i bambini siano al
corrente della possibilità di controllare, almeno in parte, le emozioni negative: per far
ciò, essi sembrano privilegiare le modalità “sostitutive”, ovvero quelle che offrono la
possibilità di “riempire la mente” con cose più piacevoli e distraenti.

CAPITOLO 9
LO SVILUPPO SOCIALE

Secondo la teoria evoluzionistico-etologica di Bowlby, il bambino ha una predisposizione


genetica a ricercare e mantenere la vicinanza con i cospecifici, in primis la propria madre.
La socializzazione è, pertanto, una motivazione primaria. Questa teoria ha ricevuto svariate
critiche, soprattutto relativamente all’eccessiva enfasi posta sulla caratteristica di unicità
dell’attaccamento (ovvero, secondo Bowlby, il legame di attaccamento è possibile con
una persona sola che, tendenzialmente, è la madre), allo scarso interesse rivolto ai rapporti
tra pari nei primi anni di vita ed all’importanza esagerata attribuita alla relazione
d’attaccamento nell’influenza le relazioni future in età adulta. La prospettiva interattivo-
cognitivista ingloba, in sé, alcune delle proposte di Bowlby ed è così chiamata poiché si
focalizza, in primo luogo, sugli aspetti interattivi, più che su quelli individuali, oltre che perché
esamina lo sviluppo sociale avvalendosi degli stessi parametri che vengono utilizzati per
studiare le funzioni cognitive.

Sviluppo sociale nel bambino

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Nei primi tre anni di vita, le relazioni che il bambino instaura con l’adulto (i genitori)
hanno lo scopo di soddisfare due suo bisogni, che sono quello di sicurezza-protezione e
quello di aiuto nell’ingresso all’interno del mondo sociale.

A 2 mesi, il bambino è ancora molto passivo nella relazione ed è l’adulto a doverla


controllare e stimolare; con l’approssimarsi ai 5 mesi, il bambino diventa sempre più attivo
e rivolge la sua attenzione anche ad oggetti inanimati, offrendo al genitore un qualcosa su
cui far leva per stimolare l’interazione: la relazione resta, infatti, ancora asimmetrica, dal
momento che è il genitore che deve sollecitare il bambino negli scambi sociali. A partire
dagli 8 mesi, le interazioni si fanno più complesse e sorge l’intenzionalità, che porta alla
reciprocità.

Verso il 7° mese, si considera formato il legame di attaccamento, come mostrato


dalle reazioni del bambino alla separazione dalla madre, il quale attaccamento può
diventare multiplo, ovvero coinvolgere altre figure oltre a quella che è stata la prima. Un
mese dopo circa, fa la sua comparsa la paura dell’estraneo e, a distanza di pochi mesi, il
bambino mette in atto comportamenti di separazione ed esplorazione, dal momento che
ha, ormai, una rappresentazione interna della figura di attaccamento e non necessita più
di vederla continuamente per rimanere tranquillo.

Gradualmente, l’immagine interiorizzata della madre comincia a procurare al


bambino la stessa sicurezza che egli ricava dalla sua presenza fisica. Tra gli 8 ed i 10 mesi,
la simmetria all’interno delle relazioni aumenta e si può notare il “concetto di dialogo”, il
che significa che il bambino impara a rispettare i ritmi giusti delle pause e degli interventi,
tipici della comunicazione verbale, nel momento dell’interazione (comprende, cioè, che
esistono dei turni, che regolamentano gli scambi sociali).

Dai 18 mesi, si afferma l’uso del linguaggio nella comunicazione e si sviluppa il


linguaggio interiorizzato come guida del comportamento. Il comportamento oppositorio,
comune tra il 2° ed il 3° anno, è un passo verso l’autonomia e la differenziazione del
bambino dalle figure genitoriali. Per quanto riguarda, invece, le interazioni con i pari, sono,
nel corso del primo anno, molto brevi e passive, caratterizzato da un graduale sviluppo
delle competenze sociali. Intorno ai 2- 3 anni si ha il passaggio dalle interazioni speculari, in
cui i bambini fanno la stessa cosa, vicini, ma in modo autonomo, alle interazioni
complementari, nelle quali si impara a rispondere alle richieste di aiuto altrui, ed alle
interazioni reciproche, un cui, dopo aver dato aiuto, ce lo si aspetta a propria volta.

Dai 3 ai 6 anni, il bambino inizia ad identificarsi con il genitore del sesso opposto e
ad imitarlo. Comincia a comprendere quali siano i diversi ruoli interpretati dalle persone
adulte che lo circondano ed obbedisce ai genitori in ragione della loro autorità, senza
ancora comprendere il vero significato delle regole che gli vengono imposte. Con i
coetanei, mette già in atto dei chiari comportamenti di aiuto, ma vi è, anche, una
tendenza all’individualismo ed all’egocentrismo, in assenza di un adeguato intervento
educativo che spinga alla cooperazione.

L’amicizia è intesa come “giocare assieme” e non vengono fatte distinzioni, di


conseguenza, tra gli amici ed i compagni di scuola. Con i fratelli, le relazioni sono paritarie
e caratterizzate da una rapida e continua alternanza tra momenti di conflittualità e di
intimità. Durante gli anni della scuola primaria, l’obbedienza ai genitori non si basa più tanto
sull’autorità, quanto sulla maggiore esperienza di vita che viene loro attribuita, ma, non per
questo, essi vengono considerati infallibili.

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Gli insegnanti vengono riconosciuti in quanto persone che stanno lavorando, che
non appartengono alla famiglia e che sono diverse, quindi, dai genitori: vi è il
riconoscimento del “fare l’insegnante per lavoro”. Con i pari, vengono messi in atto i primi
giochi con le regole e di competizione. L’amicizia viene, ora, intesa come “aiuto reciproco”
e questo conduce alla differenziazione tra amici e compagni di scuola.

Comportamenti sociali

- Prosocialità un comportamento prosociale è un comportamento che tende a


beneficiare un’altra persona, senza che si possa prevedere una ricompensa esterna per
questo. In questo senso, sono importanti l’empatia, che consiste nella capacità di
comprendere i punti di vista altrui e di provare le loro stesse emozioni, e la simpatia, che
da essa deriva e che consiste in una risposta affettiva di dispiacere o di preoccupazione
di fronte allo stato di sofferenza, difficoltà o bisogno in cui versa un’altra persona. I
neonati hanno un’empatia globale, che conduce al così detto “contagio emotivo”: se
uno di loro piange, anche gli altri neoanti cominciano a farlo. Intorno al secondo anno,
i bambini cominciano a reagire allo stato emotivo negativo altrui con preoccupazione
e mettendo in atto dei comportamenti pro sociali. Le abilità prosociali si sviluppano
gradualmente con l’età, così come la loro frequenza di emissione: lo sviluppo massimo
ha luogo nel corso dell’infanzia.
- Aggressività già nel corso del primo anno, i bambini esplicitano delle manifestazioni di
rabbia. Al secondo anno, essa si esprime con aggressioni strumentali, in cui l’obiettivo è
quello di sottrarre un oggetto o dello spazio all’altro. Con la crescita, si assiste ad un
graduale passaggio dalla preferenza verso le aggressioni fisica a quella per le
aggressioni verbali, dal momento che queste ultime sono più difficili da riconoscere e,
di conseguenza, vengono punite meno di frequente.

CAPITOLO 10
LO SVILUPPO COMUNICATIVO E LINGUISTICO

La comunicazione si compone di un aspetto verbale e di un aspetto non verbale. Per


quanto riguarda la comunicazione verbale, sono stati individuati una serie di aspetti che
accomunano tra loro tutte le lingue del genere umano e che sono quelli che seguono:

- utilizzo del canale verbale-uditivo;


- ampia trasmissione del messaggio verbale e possibilità di identificarne la provenienza;
- rapida scomparsa dei suoni emessi;
- chi sa ricevere il linguaggio verbale è, di norma, anche in grado di produrlo;
- feedback totale, ovvero la possibilità, da parte di chi produce un suono linguistico, di
percepirlo a sua volta;
- suoni del linguaggio verbale come risultanti di una specializzazione;
- referenzialità, ovvero i suoni linguistici fanno riferimento ad oggetti e concetti che sono
esterni al linguaggio;
- discrezione degli elementi che costituiscono il linguaggio (il che significa che due parole
con diverso significato hanno, normalmente, almeno un tratto fonologico che le
differenzia);
- arbitrarietà, il che significa che il significato degli elementi che costituiscono il linguaggio
verbale deriva da una convenzione sociale;
- possibilità di produrre messaggi sempre nuovi;

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- possibilità di fare riferimento, col linguaggio, ad oggetti che sono assenti tanto dal punto
di vista spaziale quanto da quello temporale;
- un insieme di parole tra loro connesse secondo regole specifiche corrisponde ad un
enunciato;
- possibilità di parlare del linguaggio;
- necessità di apprendere il linguaggio verbale e sua trasmissione tradizionale, di
generazione in generazione. Il linguaggio verbale ha, poi, quattro funzioni, che sono
quelle espressiva, comunicativa, di regolazione del comportamento (come sostenuto
da Vygotskij) e cognitiva. La funzione espressiva consiste nel permettere di eliminare od
attenuare una propria tensione interna manifestandola all’esterno, mentre la funzione
comunicativa fa riferimento al comunicare un’informazione agli altri ma, anche, a se
stessi. La funzione cognitiva è intesa come favorire i processi cognitivi supportandoli per
mezzo del linguaggio (per esempio, la reiterazione dell’informazione finalizzata a
consolidarne la traccia mnestica).
A proposito, invece, della comunicazione non verbale, Argyle ha identificato dieci
tipi di segnali comunicativi non verbali, che sono: 1) il contatto fisico; 2) la vicinanza; 3)
l’orientazione; 4) l’aspetto esteriore; 5) la postura; 6) i cenni del capo; 7) l’espressione
del volto; 8) i gesti; 9) lo sguardo; 10) gli aspetti non linguistici del linguaggio, come, per
esempio, la prosodia. La comunicazione non verbale e, in particolar modo, i dieci
segnali di Argyle, può assolvere a tre funzioni: di controllo della situazione sociale
immediata, di sostegno alla comunicazione verbale e di sostituzione dell’eloquio.
Rientrano nella comunicazione non verbale anche la ASL (American Sign Language)
e la LIS (Lingua Italiana dei Segni), che, pur non avvalendosi di parole da un punto di
vista fonologico, sono in grado di esprimere concetti astratti inerenti, anche, il prima ed
il dopo, grazie alla presenza di una grammatica non verbale. Per descrivere
l’acquisizione del linguaggio, si fa riferimento a quattro orientamenti teorici, di seguito
descritti:
- approccio ambientalista rifacendosi al Comportamentismo, si fonda sulla convinzione
che i bambini imparino a parlare imitando il linguaggio degli adulti e venendo da loro
rinforzati o puniti a seconda che parlino in modo corretto od errato. In realtà, i bambini
hanno uno sviluppo del linguaggio troppo rapido per avvenire per imitazione, senza
contare il fatto che sono in grado di pronunciare anche frasi che non hanno mai udito
prima e che, analogamente, commettono degli errori, gli ipercorrettismi (per esempio,
“ho faciuto”), che non possono certo aver sentito dagli adulti. A questo si aggiunge il
fatto che raramente gli adulti li correggono nella forma, dal momento che tendono,
soprattutto quando sono ancora molto piccoli, a privilegiare il contenuto delle loro frasi;
- approccio innatista secondo Chomsky esiste un LAD (Language Acquisition Device),
che è innato e consente al bambino di produrre e comprendere anche frasi che sono
nuove per lui. Chomsky ritiene che ogni lingua sia caratterizzata da una struttura
profonda, che è ciò che la rende simile a tutte le altre, cui si aggiunge una struttura
superficiale, la quale consente, invece, una differenziazione tra le diverse lingue parlate
dal mondo: è la struttura profonda a consentire l’apprendimento implicito, che non
necessita di un reale insegnamento, del linguaggio;
- orientamento interattivo-cognitivista si occupa di studiare come avvenga la produzione
linguistica nello specifico contesto sociale in cui essa ha luogo e non si focalizza
esclusivamente sul linguaggio, bensì, anche, sull’interazione. Un approccio
complementare alla prospettiva interattivo-cognitivista è quello fornito da Tomasello, il
quale si rifà alle teorie di Vygotskij e, contrariamente a Chomksy, enfatizza il ruolo di

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componenti innate di tipo cognitivo e non linguistico nel processo di sviluppo del
linguaggio.

Sviluppo del linguaggio

Fin dai primi mesi di vita, il bambino è in grado di mostrare comprensione, sebbene
solo intorno ai 9 mesi sia capace di indicare la posizione di un determinato oggetto sotto
richiesta dell’adulto. Nello stesso periodo, comincia, anche, a comprendere il significato di
alcune parole e, a partire dal compimento del primo anno circa, riesce a capire le
informazioni che gli vengono comunicate dall’adulto, se queste sono ben contestualizzate.
La vocalizzazione vera e propria, che si differenzia dal pianto, compare intorno ai 2
mesi. Ad essa fa seguito la lallazione (babbling), la quale è dapprima canonica (ripetizione
di sequenze di consonante e vocale semplici o ripetute) e, poi, variata (produzione di
sillabe via via più lunghe e più complesse, fino ad arrivare ad incorporare vocali e
consonanti diverse). Le prime parole compaiono intorno ai 10-12 mesi, vale a dire quando
le sillabe del babbling non vengono più utilizzate in modo indifferenziato, ma, al contrario,
cominciano ad essere associate, con una certa sistematicità, ad oggetti specifici.
Inizialmente, il bambino utilizza delle parole-frasi od olofrasi, il che significa che, con una
sola parola, non si riferisce soltanto all’oggetto che essa designa, bensì ad un’intera azione
o situazione relazionale (per esempio, la parola “pappa” non è da intendersi come facente
riferimento solo al cibo, ma a tutto il contesto sociale in cui ha luogo l’allattamento e,
quindi, al momento di vicinanza e contatto con la madre).
Intorno ai 18 mesi, si ha la così detta “esplosione del vocabolario”, ovvero un rapido
apprendimento, da parte del bambino, di un gran numero di nuovi vocaboli. Sempre a
partire dai 18 mesi, il bambino si mostra in grado di comprendere anche frasi che facciano
riferimento a realtà non presenti, per merito dello sviluppo del pensiero simbolico; a 2 anni,
riesce già a comprendere semplici frasi costituite da più parole.
Per facilitare lo sviluppo linguistico del figlio, i genitori utilizzano, spontaneamente, il
baby talk o motherese, ovvero un linguaggio caratterizzato da frasi brevi e molto semplici,
da un vocabolario assai limitato, da intonazioni accentuate e da frequenti ripetizioni. Lo
sviluppo fonologico inizia con la distinzione tra vocali e consonanti e, in seguito, conduce
ad una distinzione tra consonanti diverse. Le prime parole hanno una struttura di tipo CV
(consonante e vocale), che si evolve, col tempo, in CVCV e, poi, in CVCV1, con
l’introduzione di una nuovavocale, per arrivare, quindi, alla produzione di parole composte
da tre sillabe e così via verso una sempre maggiore complessità. Il bambino ha la tendenza
iniziale a non cercare di ripetere parole troppo lunghe o, per lo meno, a ridurle,
eliminandone alcune sillabe e lasciando, tuttavia, inalterata la loro ultima parte.
Per quanto riguarda lo sviluppo semantico, sono normali, nelle prime fasi di sviluppo,
errori di sottoestensione e sovraestensione semantica: la sottoestensione semantica
consiste nell’utilizzare una parola per far riferimento ad un unico oggetto specifico (per
esempio, chiamare “cane” soltanto il proprio), mentre la sovraestensione semantica è
caratterizzata dall’uso di una stessa parola per riferirsi ad oggetti tra loro simili ma diversi,
spesso dovuto alla presenza di qualità vistose di questi oggetti, che non vengono
considerate rilevanti dall’adulto ma che sono importanti per il bambino (per esempio,
chiamare “gatto” tutti i felini).
Lo sviluppo del pensiero simbolico dei 18 mesi fa sì che il bambino compia il suo primo
passo verso il linguaggio adulto, iniziando a chiedere il nome degli oggetti nuovi che
incontra: questo è dovuto alla comprensione, da parte sua, che tutti gli oggetti hanno un
nome e che la conoscenza dei nomi che vengono associati alle cose gli consente di agire
meglio su di esse, di controllarle.
La comprensione del linguaggio è già presente prima dei 3-3,5 anni e questo anche
se la comunicazione contrasta con l’azione in corso: inizialmente, invece, il bambino si

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mostra in grado di comprendere soltanto informazioni facenti riferimento all’hic et nunc,


ovvero informazioni attinenti a quello che sta accadendo nella realtà contingente.
Un ulteriore sviluppo fonologico si ha intorno ai 4-5 anni, quando gran parte dei
bambini italiani risulta essere capace di articolari quasi tutti i suoni caratteristici della loro
lingua, esclusi i fonemi R, F, S, Z, GL e SC. Lo sviluppo morfologico e sintattico cominciano
nel secondo anno, il primo con la distinzione tra il maschile ed il femminile ed il secondo
con la produzione delle prime frasi composte da due parole (linguaggio telegrafico, che
sostituisce il ricordo alle olofrasi); a 4-5 anni, il bambino riesce a produrre dei discorsi
composti da più frasi. Possono essere presenti degli ipercorrettismi, dovuti al fatto che il
bambino impara molte delle regole grammaticali per assonanza, per esempio associando
una certa desinenza ad una determinata variazione di significato della parola che la
contiene, facendo lo stesso con prefissi e suffissi ed astraendone una regola generale, la
quale regola viene, per un certo periodo di tempo, applicata a tutte le parole, ignorando
le irregolarità.
A proposito, invece, dello sviluppo lessicale, si sa che, intorno ai 6 anni, il bambino
medio conosce già più di 1000 parole. Esso è favorito, anche, dal fatto che, nel periodo
della scuola dell’infanzia, il bambino passa dal chiedere “cos’è?” al chiedere “cosa vuol
dire?”, ovvero non cerca più solamente la corrispondenza tra parole ed oggetti, bensì
anche quella tra parole ed altre parole, con la conseguente acquisizione di un gran
numero di sinonimi e, più in generale, altri vocaboli.
Il metalinguaggio, infine, consiste nella capacità di riflettere sul linguaggio e sui suoi
usi, capacità a cui si associano delle attività intenzionali di pianificazione, controllo e
monitoraggio dei processi linguistici propri, sia di comprensione sia di produzione.
La metalinguistica si compone di:
- metafonologia capacità di manipolare i fonemi, che sono le più piccole unità dotate di
significato del linguaggio orale;
- metasemantica capacità di riconoscere la natura arbitraria del codice linguistico e di
manipolare parole ed elementi più ampi dotati di significato;
- metasintassi capacità di giudicare la correttezza da un punto di vista grammaticale e
la coerenza semantica di una frase, analizzandone la struttura;
- metapragmatica capacità di comprendere le relazioni che esistono tra le frasi e tra il
sistema linguistico ed il contesto in cui esso viene utilizzato. Si basa sull’analisi congiunta
di tutti gli elementi che consentono la trasmissione delle informazioni. Sullo sviluppo della
consapevolezza metalinguistica sono state formulate diverse ipotesi. Alcuni Autori
ritengono che essa compaia molto precocemente, dal momento che la ritengono
parte del processo di acquisizione del linguaggio, mentre altri la considerano una
competenza più tardiva, evolutivamente distinta dal linguaggio e parallela, nella sua
formazione, allo sviluppo cognitivo e metacognitivo.
Un’ulteriore posizione è quella basata sulla convinzione che la consapevolezza
metalinguistica si sviluppi con l’ingresso del bambino a scuola, ove l’apprendimento
sistematico della lingua al quale egli è sottoposto, soprattutto per quanto riguarda la
lettura, determinerebbe un rapido incremento delle sue abilità metalinguistiche. Questo
si spiega col fatto che, un tale tipo di apprendimento indurrebbe alla riflessione circa le
regole e gli usi tipici della lingua.

CAPITOLO 11
LO SVILUPPO MORALE

Lo sviluppo delle nozioni morali secondo Piaget

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Piaget ha studiato lo sviluppo morale avvalendosi di un campione con un range di


età 4-14 anni. Secondo le sue teorie, presupposto fondamentale, anche se non sufficiente,
per lo sviluppo dei giudizi morali è l’acquisizione del pensiero operatorio.

Egli ha rilevato che bambini in età prescolare (età inferiore ai 6-7 anni) attribuiscono
una maggiore importanza alle conseguenze delle azioni rispetto che alle motivazioni ad
esse sottese: prevalgono dunque, in quella fascia di età, i giudizi morali che danno più
credito alla responsabilità oggettiva, ovvero a quella relativa agli effetti di un’azione, che
alla responsabilità soggettiva, la quale fa riferimento alle intenzioni dell’individuo che ha
commesso l’azione.

In età prescolare, inoltre, si considera un bugia come “una parola cattiva”, “una
parolaccia” o “una parola che non va bene” ed essa è tanto più grave quanto più è
“brutta” o “non vera”. Non si considera, ancora una volta, l’intenzionalità della persona,
ma solo il grado di corrispondenza tra ciò che ella ha detto e la realtà dei fatti,
indipendentemente, quindi, che si abbia a che fare con una vera bugia, intenzionale, o
con un errore non intenzionale.

I bambini, perciò, mostrano di attribuire più importanza ai risultati di quanto viene


detto od all’effettiva coincidenza con la realtà che non all’intenzione individuale ed è,
inoltre, riscontrabile un forte materialismo, dal momento che vi è la credenza che non si
debba mentire esclusivamente in ragione del fatto che, altrimenti, si viene puniti. Per
quanto riguarda la giustizia, è una nozione su cui si basano molti giudizi morali, sia infantili
sia adulti.

Si distinguono una giustizia retributiva ed una distributiva: la prima si pone il problema


della proporzionalità tra l’atto scorretto compiuto e la punizione che vi deve corrispondere,
mentre la seconda ha a che vedere con come debba essere distribuito qualcosa di
piacevole tra un insieme di persone. Nel caso della giustizia retributiva, si introduce il
discorso delle sanzioni, le quali sono espiatorie, se hanno soltanto una finalità punitiva e
sono arbitrarie, ovvero non hanno un reale nesso logico con l’atto scorretto che è stato
compiuto, oppure sono per reciprocità, se sono logicamente connesse con l’atto.

I bambini di età inferiore ai 6-7 anni hanno la tendenza a preferire le sanzioni


espiatorie, dal momento che il loro giudizio morale si basa, ancora, su un’accettazione
acritica delle regole imposte dall’adulto (morale eteronoma) e questo fa sì che non
reputino necessario un legame tra l’azione e la punizione. Per quanto concerne, invece, la
giustizia distributiva, ragazzini di età superiore agli 11-12 anni cominciano a considerare le
caratteristiche peculiari della situazione in cui si pone il problema della distribuzione di un
bene: i principi dell’eguaglianza vengono, cioè, corretti da quelli dell’equità; l’eguaglianza
impone, infatti, un trattamento uguale per tutti, mentre l’equità tiene maggiormente in
considerazione la peculiarità della situazione (per esempio, se nel gruppo c’è una persona
svantaggiata, ella avrà diritto a più agevolazioni rispetto alle altre, per cui non vi sarà
uguaglianza tra i soggetti, ma vi sarà equità).

Al di sotto dei 7-8 anni di età, i bambini padroneggiano meglio la logica della giustizia
retributiva rispetto a quella della giustizia distributiva: questo accade perché sono ancora
più focalizzati sulla relazione con l’adulto, colui che punisce, rispetto che sulla relazione con
i pari; la giustizia distributiva, infatti, richiede che un soggetto di senta parte di un gruppo in
cui tutti hanno gli stessi diritti.

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Esistono, poi, dei casi in cui è possibile un conflitto tra la logica della giustizia
retributiva e quello della giustizia distributiva: è il caso, per esempio, di quando si decide di
premiare il figlio o lo studente più bravo. Quando non è fisicamente presente l’adulto e, di
conseguenza, quando egli non può elargire direttamente delle punizioni per i
comportamenti da condannare, secondo il bambino, è la natura stessa ad irrogare
sanzioni automatiche.

Questo è il concetto di giustizia immanente e lo si considera possibile perché la


natura è soggetta alle stesse leggi morali e fisiche dell’uomo, che sono finalizzate ad
ottenere il meglio per questo ultimo (finalismo). Con il passare degli anni, tuttavia, con la
scoperta delle leggi meccaniche che sono alla base della regolazione dell’universo, il
bambino comincia a porsi più domande su come, seriamente, potrebbe agire la natura
nel punirlo e, gradualmente, la sua credenza inizia a vacillare fino a scomparire. Piaget
descrive, pertanto, il passaggio da una morale autonoma ad una morale eteronoma, che
avviene, secondo lui, grazie alla collaborazione ed all’inserimento del bambino nel gruppo
dei pari.

La morale eteronoma si basa sulla responsabilità oggettiva, sulla costrizione e sul


dovere. Il bambino è soggetto ad un’acculturazione morale acritica da cui derivano le
regole morali a cui sente di dover sottostare in quanto impostegli dall’adulto e nonostante
non sia in grado di comprenderle. Si tratta, quindi, di una morale adulto-centrica e che si
fonda su un rapporto di tipo autoritario tra l’adulto ed il bambino. La mortale autonoma,
invece, si basa sulla responsabilità soggettiva, sulla cooperazione e sulla ricerca del bene
per tutti. Le regole che vi sottendono vengono accettate in modo critico perché, questa
volta, vengono comprese.

Lo sviluppo delle nozioni morali secondo Kohlberg

Kohlberg considera il bambino un soggetto attivo e, di conseguenza, ritiene che


studiare lo sviluppo morale equivalga a valutare come le sue strutture mentali si modifichino
nel tempo a seconda degli stimoli che vengono forniti dal mondo esterno. Per conoscere
a che livello di sviluppo si trovi il bambino, non si considera tanto importante il fatto di
conoscere i contenuti dei suoi giudizi morali, quanto piuttosto il suo modo di ragionare sulle
questioni morali. Kohlberg identifica tre livelli di sviluppo morale, ognuno dei quali
comprende, al suo interno, due stadi, per un totale di sei stadi organizzati su tre livelli:

- livello preconvenzionale corrisponde, di per sé, alla morale eteronoma piagetiana,


sebbene Kohlberg ritenga, in realtà, che il suo superamento abbia luogo secondo delle
modalità più acritiche di quelle ipotizzate da Piaget. Kohlberg pensa, infatti, che non
abbia un peso soltanto il peso della cooperazione tra pari, bensì anche l’influenza e le
pressioni stesse esercitate dal gruppo dei coetanei: egli ritiene, in conseguenza di
quanto detto, che la vera conquista della morale autonoma sia possibile soltanto
nell’adolescenza ed in età adulta. Il bambino al livello preconvenzionale viene descritto
come molto sensibile ai giudizi di buono e cattivo, i quali vengono, tuttavia, associati a
conseguenze materiali e giustificati sulla base di quanto stabilito da un’autorità.
Stadio 1 si riscontra un assoluto rispetto per l’autorità giustificato dal timore di essere
puniti.
Stadio 2 i rapporti umani vengono valutati, esclusivamente, da un punto di vista
materialistico;
- livello convenzionale l’individuo è profondamente conformista, rispetta le regole e
cerca di soddisfare le aspettative altrui sul suo conto e questo fa sì che egli senta di

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poter considerare il proprio comportamento come quello giusto ed oggettivamente


valido perché condiviso.
Stadio 3 si considera positivo quel comportamento che aiuta gli altri ed è da essi
approvato. E’ presenta una notevole spinta a comportarsi in modo “naturale”, il che
significa, semplicemente, imitare la maggioranza. Da un punto di vista morale, il
comportamento delle persone viene giudicato più spesso sulla base delle intenzioni che
delle conseguenze.
Stadio 4 le regole vengono considerate importanti per garantire il mantenimento
dell’ordine sociale e, come tale, vanno rispettate;
- livello post convenzionale l’individuo segue dei principi morali autonomi.
Stadio 5 si attribuisce una notevole importanza al punto di vista “legale”, ma non viene
esclusa la possibilità di modificare la legge se questo va incontro all’utilità sociale.
L’azione corretta è definita tale in termini di diritti universali e modelli socialmente
approvati.
Stadio 6 detengono la massima importanza le decisioni prese seguendo la propria
coscienza e principi etici autodeterminati, i quali si basano su ideali di coerenza,
intelligenza logica ed universalità. L’ordine con cui si susseguono gli stadi è fisso, ma
possono variare tanto le età medie quanto il livello finale di sviluppo morale raggiunto
da ogni individuo.

Le ricerche di Damon sulla giustizia distributiva


Damon si è dedicato allo studio delle conoscenze inerenti la giustizia distributiva nelle
relazioni tra pari, focalizzandosi sulla giustizia distributiva positiva, ovvero quella che
riguarda la distribuzione di beni o premi. Ha identificato tre criteri: 1) il merito, secondo cui i
più bravi meritano di più; 2) l’eguaglianza, basata sull’idea che ognuno debba ricevere la
stessa quantità di bene che ricevono gli altri; 3) la benevolenza, cioè la considerazione
della condizione di partenza per non penalizzare coloro che partono svantaggiati. Ha,
quindi, descritto quattro livelli, i quali includono, progressivamente, i tre criteri:
1. 4 anni le idee sulla giustizia distributiva positiva sono legate a desideri e speranze personali
(“è giusto quel che voglio io”);
2. 5 anni si passa da una posizione fortemente auto centrata ad una maggiormente
orientata verso gli altri. Si arriva alla comprensione del fatto che individui diversi possono
avere desideri diversi e che, di conseguenza, non è sufficiente volere qualcosa per
giustificare una scelta che vada a proprio vantaggio;
3. 6-7 anni si afferma il criterio dell’eguaglianza, la quale riguarda dapprima le persone e
poi le loro azioni;

4. 8-9 anni emerge il criterio di benevolenza, che include l’idea del compromesso (cioè, si
capisce che possono esistere condizioni di partenza diverse, che alcuni individui
possono essere svantaggiati rispetto ad altri). In generale, le ricerche di Damon vanno
di pari passo con le teorie di Piaget, con un’unica differenza: i bambini che ha analizzato
sono più precoci rispetto a quelli che hanno costituito il campione di riferimento delle
ricerche piagetiane, dal momento che, già dagli 8 anni, ricorrono al criterio di
benevolenza.

La Teoria del Dominio, di Turiel e colleghi

Già a partire dalle prime fasi dello sviluppo, l’esperienza morale e quella convenzionale
si configurano come due domini tra loro distinti: il dominio morale, si basa sulla
considerazione delle conseguenze intrinseche delle azioni e del benessere dell’altro, per
cui vi è una moralità basata sui concetti di danno, benessere e giustizia; il dominio socio-

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convenzionale, invece, si focalizza maggiormente sulle regole socialmente condivise e non


su quelle che possono essere le conseguenze intrinseche delle azioni. Per verificare che i
bambini sapessero distinguere tra loro i due domini, sono stati utilizzati due tipi di valutazioni:
1. i giudizi dei bambini sono stati valutati facendo riferimento alle dimensioni teoriche che
sono alla base delle differenze tra il dominio morale ed il dominio socio-convenzionale,
ovvero la generalizzabilità (della regola morale a contesti diversi), l’obbligo morale (di
rispettare la regola) e l’indipendenza del giudizio morale dalle regole e dalle autorità
(cioè, dalle sanzioni);
2. le giustificazioni date dai bambini circa i loro giudizi sono state utilizzate come criteri per
distinguere i due domini. Le giustificazioni morali sono quelle che riguardano le
conseguenze intrinseche delle azioni per le altre persone, mentre le giustificazioni socio-
convenzionali si rifanno all’autorità, alle aspettative comportamentali, alle regole
sociali, all’organizzazione ed all’ordine sociale.

Si tratta di un ambito di ricerca che ha coinvolto molti studi ed i risultati sono stati positivi:
i bambini, fin da piccoli, sono in grado di distinguere i due domini. In sintesi, una buona
spiegazione dello sviluppo morale deve comprendere un’attenta analisi di come i bambini
coordinino gli aspetti morali e quelli socio-convenzionali.

Durante gli anni della scuola primaria, è possibile che i bambini antepongano alla
moralità altri aspetti, come le leggi e le convenzioni, nel giudizio di situazioni complesse. Tali
situazioni complesse possono essere le situazioni miste, ovvero quelle in cui sono presenti,
contemporaneamente, sia aspetti strettamente morali sia aspetti socio-convenzionali (per
esempio, se rubare va contro la legge, un uomo povero è in errore a rubare un farmaco
che non può permettersi di comprare ma che gli serve a salvare la vita della moglie
morente?).

La teoria socio-cognitiva di Bandura


Bandura si oppone ai modelli stadiali, dal momento che ritiene che non vi sia alcuna
ragione logica per considerare uno stadio come superiore a quello precedente:
l’immoralità, infatti, può derivare sia da ragionamenti complessi sia da ragionamenti
semplici. Egli distingue, inoltre, l’azione morale dal pensiero morale, il quale consiste nella
progressiva interiorizzazione delle regole morali vigenti nel contesto sociale a cui si
appartiene.
Man mano che i bambini crescono, gli adulti tendono, sempre più spesso, a fornire loro
delle spiegazioni circa quali comportamenti siano appropriati e perché, associando queste
spiegazioni alle sanzioni. E’ attraverso questo processo di socializzazione che il bambino
interiorizza un proprio pensiero morale con regole di comportamento proprie, la cui
violazione scatena vergogna e senso di colpa. La valutazione morale dei comportamenti
negativi Il concetto di moralità indica la capacità di discriminare ciò che è giusto da ciò
che è sbagliato e pone le basi per il giudizio morale. Il ragionamento morale vero e proprio,
invece, consiste nella giustificazione che viene data al giudizio morale. I comportamenti
aggressivi sono associati al rifiuto sociale di chi li mette in atto e, in situazioni ipotetiche, i
bambini li valutano in modo negativo. In età prescolare, l’aggressività fisica viene
considerata più grave di quella verbale mentre, negli anni della scuola primaria,
l’attenzione si focalizza sui problemi che essa può causare a chi la mette in atto, quali
possono essere possibili ritorsioni, più che sulle norme sociali che stabiliscono che si tratti di
una condotta sbagliata. I quattro domini a cui possono riferirsi le giustificazioni del giudizio
morale dato sul comportamento aggressivo sono:
1. morale (si riferisce a giustizia ed a benessere dell’umanità);
2. della convenzione sociale (legato a norme che garantiscono l’ordine sociale);
3. personale (si riferisce a privacy od azioni rilevanti per il singolo);

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4. legato alla prudenza (azioni personali pericolose per l’individuo).


Per quanto riguarda il ragionamento dei bambini circa la correttezza ed accettabilità
dell’esclusione sociale, esso varia a seconda del contesto ed alla valutazione di alcuni
fattori prioritari. Per le decisioni sull’esclusione, si attribuisce importanza alle caratteristiche
del soggetto escluso ma, anche, a quelle di chi, al contrario, può partecipare.
A proposito del motivo dell’esclusione, l’esclusione di genere viene giustificata
maggiormente rispetto, per esempio, all’esclusione basata su un criterio di appartenenza
etnica e vengono, sovente, chiamati in causa motivazioni socio- convenzionali e
stereotipiche. Nonostante le notevoli influenze che possono essere esercitate da
convenzioni e stereotipi, comunque, tra gli adolescenti predomina la tendenza a ritenere
scorretti comportamenti di esclusione e di discriminazione, in nome della giustizia sociale,
dell’equità, dell’uguaglianza e delle pari opportunità.

Stili educativi e sviluppo morale


Gli stili educativi possono essere divisi in tre categorie: lo stile educativo basato sul potere
fisico, quello basato sulla sottrazione dell’affetto e gli stili educativi di tipo induttivo basati
sul ragionamento e sull’empatia. Lo stile educativo basato sul potere fisico si serve di
punizioni primitive o di alcune loro varianti (per esempio, sottrarre, o minacciare di farlo,
oggetti materiali, l’opportunità di svolgere attività piacevoli e minacciare punizioni fisiche),
ovvero si basa sul ricorso prevalente a sanzioni di tipo espiatorio. I genitori fanno leva sulla
loro superiorità fisica sul figlio e sulla loro autorità per ottenere obbedienza, ignorando, in
questo modo, il dialogo con il bambino.
E’ lo stile educativo che determina il maggior numero di effetti negativi e che meno di
tutti favorisce il passaggio alla morale autonoma, dal momento che viene scoraggiata
l’interiorizzazione delle norme sociali. Inoltre, più la punizione che viene inflitta è intensa, più
il bambino desidererà, in futuro, l’oggetto proibito ed avrà bisogno di più energie per
resistere alla tentazione.
Lo stile educativo basato sulla sottrazione dell’affetto utilizza, come sanzione, la
sottrazione dell’affetto reale o minacciata: ha, pertanto, un altro potere punitivo e può
determinare paure abbandoniche. Un’altra sua conseguenza è l’inibizione dei sentimenti
di ostilità, oltre che un’aumentata tendenza a confessare le proprie colpe e resistenza alla
tentazione. Si differenzia dallo stile educativo basato sul potere fisico, poiché conduce ad
una superiore interiorizzazione delle norme di comportamento e, quindi, ad un più elevato
senso di colpa. Gli stili educativi di tipo intuitivo non si fondano sulla coercizione, ma fanno
leva sulle potenzialità del bambino, intese come la sua capacità di comprendere la
situazione o la sua empatia. Si possono, pertanto, basare:
- sul ragionamento si utilizzano sanzioni per reciprocità ed un ruolo fondamentale è
detenuto dal dialogo con il bambino, che ha lo scopo di spiegargli, per esempio, il
motivo delle punizioni; proprio per questo motivo, si parla di “stile educativo persuasivo”.
L’obiettivo è incentivare tutti quei comportamenti che possono accrescere l’autostima,
l’orgoglio ed il piacere che si ricava da un buon autocontrollo;
- sull’empatia vi è un decentramento del bambino ed il focus ricade, infatti, sugli effetti
che i suoi comportamenti possono sortire sugli altri. L’adulto aiuta il bambino a
comprendere i sentimenti altrui e le intenzioni che si celano sotto i comportamenti delle
altre persone. I due stili educativi di tipo intuitivo sono da intendersi come tra loro
complementari: il primo si basa sulla comprensione dell’altro a livello cognitivo, il
secondo a livello emotivo. Entrambi sono superiori a quelli basati sulla costrizione, in
particolar modo se adottati dalla madre.

CAPITOLO 12

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ADOLESCENZA

L’adolescenza è un importante periodo di transizione in cui si pongono diversi compiti


evolutivi:

- conoscere e mentalizzare il proprio corpo, accettarlo seppur nei suoi mutamenti ed


imparare a controllarlo in modo adeguato;
- imparare a gestire il proprio ruolo di genere all’interno del contesto sociale, dal
momento che l’adolescente è, sempre più, trattato come un uomo od una donna e
non più come un bambino di cui l’identità di genere non risulta altrettanto rilevante;
- raggiungere una buona autonomia nei confronti degli adulti, intesa come autonomia
psicologica (si esprime nella costruzione di un rapporto paritario con i genitori), emotiva
(l’adolescente chiede consigli, ma sa che la decisione finale spetta a lui e va presa in
accordo con i sentimenti che prova), sociale (corrisponde alla scelta di una professione
e di uno status sociale) ed economica (a volte viene posticipata per motivi che possono
variare ed a volte non viene neanche ricercata particolarmente);
- definire una propria filosofia di vita (di solito, si passa da un’accettazione conformista
infantile di quanto viene imposto ad un estremo relativismo morale, prima di arrivare alla
costruzione di una propria gerarchia di valori personali);
- ristrutturare il proprio concetto di Sé, ovvero l’insieme del conoscenze sul proprio Sé che
vanno a costituire l’identità e che hanno un impatto fondamentale, anche,
sull’autostima, la quale deriva da un’autovalutazione a proposito di ciò che si è e da un
confronto tra questo e le aspettative proprie e degli altri. Secondo Erik Erikson, il processo
di costruzione identitaria necessita di sperimentazione e scelte, le quali determinano,
irrimediabilmente, una serie di rinunce ad altre prospettive di sviluppo.
E’, quindi, fondamentali che vengano operate delle scelte di obiettivi raggiungibili e
coerenti con i propri talenti ed ideali.

Aspetti psicologici dello sviluppo fisico e puberale


L’adolescenza è un momento di grandi trasformazioni per il corpo, che passa dalla sua
forma infantile a quella adulta e sessualmente matura. La pubertà va dai 9 agli 11 anni
circa per le femmine e dagli 11 ai 13 anni circa per i maschi. In questo periodo, lo sviluppo
fisico è molto rapido, il che può portare ad una temporanea riduzione delle abilità di
coordinazione.

L’adolescente può risultare anche molto apprensivo nei confronti dei propri
cambiamenti fisici e questo è dovuto a fatto che non sa a quale risultato finale lo
condurranno: ne deriva, perciò, un’eccessiva preoccupazione per difetti anche piccoli, la
quale è, qualche volta, incrementata dall’apposizione di nomignoli da parte dei pari.
Frequenti sono le preoccupazioni per il peso e più di 1/3 degli adolescenti, principalmente
ragazze, non è del tutto soddisfatto del proprio aspetto fisico. Se le modificazioni puberali
hanno luogo nel range d’età media, è meno probabile che le reazioni negative risultino
particolarmente intense, mentre uno sviluppo precoce o tardivo può essere fonte di un
forte distress psicologico. La precocità determina disagio soprattutto nelle ragazze,
sebbene la tendenza vada ad invertirsi col passare col tempo, mentre nei ragazzi l’unico
fastidio può essere legato ad una certa goffaggine, dovuta al rapido aumento della forza
fisica; essi sono maggiormente turbati da uno sviluppo tardivo.

Lo sviluppo cognitivo

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Secondo Piaget ed Inhelder, il pensiero formale, ovvero quel pensiero caratterizzato


dalla capacità di produrre ragionamenti corretti da un punto di vista logico senza necessità
di partire dal piano di realtà e di verificare le conclusioni avvalendosi di un dato di
esperienza. Esso inizia a svilupparsi intorno agli 11-12 anni e, secondo i due Autori, non deriva
tanto dalla pubertà, intesa come l’insieme dei cambiamenti neurofisiologici e fisici tipici di
quella fase, quanto dall’inserimento del ragazzino nella società degli adulti. Egli, infatti, fa il
suo ingresso nel mondo “dei grandi” cercando di porsi in modo paritario, di elaborare un
proprio disegno di vita e di non essere passivo, bensì di lottare per apportare dei
cambiamenti a tutti quegli aspetti che considera inadeguati e che caratterizzano la
società stessa in cui sta facendo il suo ingresso.
In ragione di questo ultimo punto, Piaget ha parlato di un ritorno dell’egocentrismo
intellettuale, che l’adolescente supererà attraverso il continuo confronto con i pari e le
prime esperienze lavorative. Particolari espressioni di questo egocentrismo sono il “mito
personale” ed il concetto di “pubblico immaginario”, che determinano la tendenza
dell’adolescente a comportarsi come se ci fosse sempre qualcuno a guardarlo,
considerando importante tutto ciò che lo riguarda. In queste condizioni, l’adolescente ha
bisogno di un pensiero che gli consenta di costruire delle teorie e questo pensiero è quello
operatorio formale: esso non si struttura, perciò, in modo spontaneo, ma attraverso una
riflessione sistematica che conduce alla produzione di teorie.
Piaget ed Inhelder, inoltre, ritengono che, già a partire dagli 11-12 anni, gli adolescenti
facciano ricorso ad un tipo di pensiero adulto. Tuttavia, come è stato evidenziato da
numerosi studi, il pensiero adulto non è logico come vuole la convinzione comune o, per lo
meno, non lo è sempre. La mente umana è, infatti, pragmatica ed economica:
pragmatica, perché non si limita ad elaborare i dati che le vengono forniti dall’ambiente
ma, al contrario, ne aggiunge di nuovi che considera impliciti e che favoriscono
l’attribuzione di un significato alla situazione cui si sta guardando; economica, perché
tende al risparmio di energie cognitive non impegnandosi in troppi ragionamenti ed
optando per le conclusioni più immediate, talora preferendo le euristiche (non assicurano
di arrivare alla corretta soluzione del problema, ma permettono un buon risparmio di tempo
ed energia e, proprio per questo motivo, vi si ricorre, particolarmente in situazioni note) agli
algoritmi (serie di operazioni eseguite in sequenza che garantiscono di giungere alla
corretta soluzione del problema).
Piaget è stato contestato, anche, per quel che riguarda l’acquisizione stessa del
pensiero formale, che non viene più considerata una conquista assoluta, dato che un
adolescente che riveli buone capacità di pensiero formale in un determinato compito
potrebbe non raggiungere lo stesso standard in un altro tipo di compito. In un secondo
momento, lo stesso Piaget ha rivisto parte delle sue teorie ed ha optato per la possibilità
che non tutti arrivino, effettivamente, al pensiero formale e che questo possa essere dovuto
all’influenza di più fattori, come un ambiente poco stimolante ma, anche, le diverse
attitudini individuali: gli adolescenti maggiormente portati per materie quali la logica, la
fisica e la matematica sembrerebbero, infatti, avere una predisposizione superiore allo
sviluppo del pensiero operatorio formale. L’uso di tale forma di pensiero, inoltre, potrebbe
rivelarsi, preferenzialmente, nelle aree che il soggetto favorisce per motivi cognitivi
(attitudini) o motivazionali (interesse).
L’adolescente si differenzia dal bambino anche per le maggiori capacità di attenzione
e di memoria (queste ultime basate, anche, su un miglior uso delle strategie), oltre che per
le più ampie conoscenze metacognitive. Le differenze nelle traiettorie di sviluppo cognitivo
tra gli adolescenti sembrano avere molteplici cause: la provenienza socio-culturale, il livello
di scolarizzazione, l’educazione familiare e le opportunità di confronto con i pari. Gardner
ritiene, invece, che queste siano dovute a diversi assetti delle varie intelligenze di base che
caratterizzano i vari individui, ove le intelligenze di base sono quelle linguistica,
musicale, logico-matematica, spaziale, corporeo-cinestesica, personale, interpersonale,

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naturalistica ed esistenziale (teoria delle intelligenze multiple). Secondo Sternberg, inoltre,


esistono diversi stili di pensiero:
1) legislativo (credere, inventare, progettare, fare le cose a modo proprio, affrontare
compiti poco strutturati);
2) esecutivo (seguire direttive, affrontare situazioni molto strutturate);
3) giudiziario (valutare ed esprimere giudizi su cose e persone). Lo sviluppo cognitivo
dell’adolescente si riflette su diverse aree della sua vita. Sul piano scolastico, rende
accessibili tipi di studi che, prima, sarebbero risultati troppo ostici ed impegnativi, mentre,
sul piano della personalità, consente molte riflessioni introspettive, per esempio circa la
propria identità ed il proprio ruolo nella vita e nel mondo, motivo per cui l’adolescenza è
anche detta “età degli ideali”, “età delle teorizzazioni”.
In famiglia, l’adolescente pretende dai genitori delle motivazioni logicamente
adeguate delle loro affermazioni: la possibilità di condurre ragionamenti formalmente
evoluti, infatti, può essere vissuta come una conquista tanto importante da spingere a non
considerare l’utilità della verifica sul piano dell’esperienza reale.

La famiglia
E’ una credenza comune che l’adolescenza determini una forte conflittualità all’interno
della famiglia ed a questo fenomeno si è cercato di fornire diverse spiegazioni. Secondo la
Psicanalisi, la conflittualità è inevitabile, poiché il ragazzo ha la necessità di ribellarsi alle
figure genitoriali per riuscire a gestire efficacemente i rinnovati desideri edipici. Il conflitto è
stato interpretato, anche, come il risultato di una pulsione innata all’indipendenza,
contrapposta al controllo genitoriale. Alcuni Autori ritengono, poi, che un minimo di
conflittualità sia indispensabile per raggiungere l’autonomia. Tuttavia, sembra essere
emerso che, in realtà, per molti giovani l’adolescenza non rappresenti realmente una fase
di vita tanto turbolenta e che, anzi, la maggior parte di essi sia anche in grado di mantenere
buoni rapporti con le figure genitoriali.
La conflittualità potrebbe esprimersi, infatti, solo in alcuni periodi e limitatamente a
specifici argomenti. In generale, il conflitto genitori-figli è influenzato da condizioni storiche
e sociali, che mutano le modalità relazionali. Gli adolescenti sembrano, inoltre, avere più
problemi con la madre ma, allo stesso tempo, anche più interazioni positive, dal momento
che ella è, di solito, in grado di offrire una comunicazione più ricca, più completa.
Particolare il rapporto madre-figlia, in cui assume una grande importanza e può diventare
fonte di conflittualità il limite tra l’interessamento materno e la violazione della privacy della
ragazza, anche se, ad adolescenza terminata, tende ad instaurarsi un rapporto molto
adeguato e caratterizzato da un aumento della fiducia reciproca.
Frequente sembra essere, all’interno della famiglia, un forte senso di appartenenza e di
condivisione dei valori familiari (sociali, politici, religiosi, esistenziali, scolastici e professionali)
da parte dell’adolescente, il che è ancor più vero per le ragazze, le cui scelte di vita, nel
lungo termine, si allineano a quelle genitoriali. Questa tendenza spiega il possibile
riavvicinamento che ci può essere a seguito del conseguimento, da parte
dell’adolescente, di una relativa autonomia. Per quanto riguarda gli stili genitoriali, sembra
che lo stile autorevole sia il migliore per abbassare i livelli di conflittualità, al contrario degli
stili autoritario e permissivo, caratterizzati da una carenza comunicativa che porta alla
mancanza di negoziazione, intesa come quel confronto che può portare al
raggiungimento di un equilibrio tra opinioni e punti di vista diversi; lo stile permissivo-
indifferente, invece, aumenta il rischio che l’adolescente vada incontro a scarsa autostima,
depressione, scarso rendimento scolastico e comportamenti antisociali.
La comunicazione genitore-figlio ha, sicuramente, un’importanza tutt’altro che
irrilevante: le madri sembrano essere più capaci di ascoltare ed analizzare le situazioni con
i figli, in particolare con le figlie femmine; i padri, al contrario, hanno con le figlie una
relazione molto delicata, motivo per cui esse si rivolgono a loro prevalentemente per

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questioni pratiche, in cui il focus attentivo è spostato sullo svolgimento del compito e non
sulle persone e sugli stati emotivi. I rapporti con i fratelli sono caratterizzati da una forte
ambivalenza, con rapidi passaggi da conflittualità ad intimità. Con la sorella sembrano
essere più frequenti i legami di affetto mentre, con il fratello, è più probabile che si instauri
rivalità. La vicinanza emotiva resta stabile, con l’aumentare dell’età, con la sorella, mentre
diminuisce con il fratello. Anche in una famiglia numerosa, con molti figli, i rapporti sono
migliori con la sorella, in particolare per quel che riguarda l’ultimogenito.

Le funzioni della scuola


La principale finalità della scuola è quella di trasmettere la cultura della società di cui
gli allievi fanno parte e di fornire, in questo modo, un base culturale che sia comune per
tutti. La scuola secondaria di secondo grado ha, ovviamente, il compito di contribuire alla
differenziazione tra i cittadini dal punto di vista lavorativo e professionale. A scuola,
l’adolescente ha la possibilità di inserirsi in un gran numero di relazioni: alcune sono
strumentali al raggiungimento di specifici obiettivi, mentre altre acquistano più importanza,
sono basate sull’amicizia e vengono coltivate anche in orario extra-scolastico. Sono
presenti, anche, relazioni con gli adulti. La sfera socio-istituzionale fa riferimento ai compiti
di portare a termine la propria carriera scolastica, prepararsi per entrare nel mondo del
lavoro, diventare indipendenti economicamente parlando e prepararsi alla formazione di
una propria famiglia.
Essa viene considerata, dagli adolescenti, come più stressante ed impegnativa di quelle
personale ed interpersonale, ove la prima richiede di affrontare i propri sbalzi di umori e
turbamenti emotivi, di mentalizzare il proprio corpo, di diventare autonomi e di sviluppare il
proprio concetto di Sé, mentre la seconda consiste nel dover imparare a costruire delle
relazioni interpersonali stabili con un gruppo di amici e positive con persone appartenenti
all’altro sesso.
La scuola è, pertanto, un’istituzione in grado di generare molte ansie e conflittualità e,
nei cinque anni di scuola superiore, è esperienza comune quella di credere sempre meno
nel proprio ruolo di artefici circa i risultati scolastici, i quali vengono, infatti, sovente attribuiti
ad altri fattori, esterni e, come tali, incontrollabili: tutto ciò determina un abbassamento
dell’autostima. Le ragazze sono più propense dei ragazzi ad ammettere le loro difficoltà in
ambito scolastico anche se, generalmente, sono più soddisfatte delle proprie prestazioni e
si impegnano di più.
L’esperienza scolastica, inoltre, influisce sul processo di costruzione identitaria e lo fa a
partire dalle aspettative che i genitori e gli insegnanti hanno sul rendimento scolastico degli
adolescenti: molte volte, queste aspettative vengono deluse, il che può avere ripercussioni
sull’autostima del ragazzo anche nel lungo termine. Una figura centrale nell’ambito
scolastico è, chiaramente, quella dell’insegnante. E’ stato osservato come le prestazioni
delle classi siano migliori in presenza di insegnanti in grado di coinvolgere gli studenti
durante le lezioni ed aventi delle buone aspettative su di loro: al contrario, aspettative
basse si associano a demotivazione da parte degli alunni, che si sentono scoraggiati verso
l’apprendimento. Uno stile educativo impositivo rende, inoltre, il clima della classe poco
tendente alla collaborazione. Gli studenti possono, anche, imitare alcuni comportamenti
dell’insegnante, il che può non essere sempre positivo. Secondo gli adolescenti,
l’insegnante ideale dovrebbe essere in grado di trasmettere conoscenze e competenze
da un lato ma, dall’altro, riuscire anche a diventare un modello comportamentale, di
equilibrio e coerenza.
Un fenomeno sempre più diffuso nelle scuole e non solo è quello del bullismo, che fa
riferimento ad un insieme di agiti aggressivi intenzionali messi in atto ripetutamente da parte
di uno o più ragazzi nei confronti di una vittima incapace di tutelarsi. Le aggressioni sono
dirette quando il bullo assale la vittima apertamente, verbalmente, fisicamente o con
minacce, mentre sono indirette (anche dette “relazionali”) quando il bullo spinge il gruppo

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ad aggredire o tagliar fuori la vittima e questo ultimo è il comportamento più diffuso in


adolescenza.
Forme particolari e nuove di bullismo sono, poi, il cyberbulling, che consiste nel
molestare la vittima facendo ricorso a mail, SMS ed Internet, il sexual harassment ed il
bullismo omofobico, con questi ultimi due che godono di particolare diffusione tra gli
adolescenti. Contrariamente a quanto si possa pensare, il bullismo è un fenomeno che non
riguarda solamente il bullo e la vittima, bensì tutto il gruppo, compresi gli astanti che,
prestando la loro attenzione, possono rinforzare la messa in atto dei comportamenti
aggressivi.

Compagni ed amici
Nell’adolescenza, le reazioni con i coetanei assolvono a funzioni di socializzazione,
ludiche e cognitive, offrendo la possibilità di conoscere nuove realtà, diverse dalla propria;
a queste funzioni, se ne possono aggiungere altre, quali:
 permettere la condivisione dei problemi;
 eludere la sensazione di essere soli a dover affrontare il mondo degli adulti;
 contribuire allo sviluppo dell’identità, con i compagni, particolarmente quelli che
l’adolescente reputa più simili a sé, che assumono la funzione di uno specchio;
 offrire dei modelli più vicini di quelli proposti dagli adulti;
 favorire lo sviluppo dell’identità sociale, permettendo di comprendere con quali
persone ci si trovi a proprio agio e con quali no;
 facilitare i rapporti con l’altro sesso;
 insegnare a gestire le competizioni.

Una tendenza nel periodo adolescenziale è quella di abbandonare i gruppi formali,


ovvero quei gruppi che hanno una finalità politica, religiosa, sportiva o di altro tipo e che si
caratterizzano per la presenza di adulti che ricoprono un ruolo di promozione e controllo, a
favore di gruppi informali, in cui ci sono solo coetanei. Grande importanza è assunta dalle
amicizie, la cui qualità può essere valutata sulla base di quanto vengano condivisi stessi
interessi ed attività, possibili situazioni conflittuali, livello di intimità (legame affettivo intenso,
in cui si sente speciali per l’altro), aiuto reciproco e sicurezza di potersi fidare e di poter
ricevere aiuto in modo stabile, non solo transitoriamente.

Nella prima adolescenza può essere presenta un desiderio di esclusività, che va


scemando col tempo. Il ruolo ricoperto dai coetanei è complementare a quello dei
genitori, a cui, però, gli adolescenti si rivolgono maggiormente se hanno bisogno di ricevere
suggerimenti circa scelte future. Interessi per l’altro sesso, innamoramenti e sessualità Le
ragazze hanno uno sviluppo ormonale più precoce rispetto ai coetanei maschi e, di
conseguenza, maturano interesse verso l’altro sesso prima di loro. A questo interesse si
oppone, però, l’azione frenante della nostra cultura, che fa sì che esse si sentano più inibite
e meno propense ad esprimerlo apertamente. Solitamente, gli adolescenti provano un
senso di confusione e disorientamento e tendono a manifestare più tardi il loro interesse. I
primi approcci sono molto delicati e possono ripercuotersi profondamente sull’autostima
personale.

Negli ultimi decenni, si sta assistendo ad una diminuzione dell’età dei primi rapporti
sessuali e ad un aumento del numero di partners sessuali e dei rapporti: secondo la Bonino,
questo non è un indice di emancipazione, ma, piuttosto, di rischio. Secondo gli adolescenti,
l’età a cui i ragazzi hanno le loro prime esperienze sessuali è 17-18, mentre, per le ragazze,
si abbassa a 15-16 anni. Essi reputano che “l’età giusta” sia intorno ai 17-18 anni se non di
più, dal momento che si rendono conto della presenza del rischio di forti impatti sul piano

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psicologico dei primi rapporti e poiché considerano importante che questi si inseriscano nel
contesto di una relazione sentimentale (e questo vale soprattutto per le ragazze).

Una questione delicata è, in proposito, quella dell’educazione sessuale, che,


raramente, viene condotta in modo adeguato a far fronte alle esigenze degli adolescenti.
Si tratta, infatti, di un ambito in cui è necessario avere delle buone competenze e molta
sensibilità, al fine di trasmettere la complessità sentimentale delle esperienze sessuali.

I ragazzi credono che le persone più adatte a fare dell’educazione sessuale siano,
nell’ordine, esperti esterni a scuola e famiglia, insegnanti e genitori. Sono più interessati a
ricevere informazioni inerenti i risvolti psicologici e sociali della sessualità rispetto agli aspetti
più teorico-scientifici o di tipo morale.

Dall’adolescenza alla giovinezza


Le aspettative possono giocare un certo ruolo nel passaggio del figlio
dall’adolescenza all’età adulta, particolarmente quelle che hanno a che fare con famiglia
e lavoro. Tendenzialmente, le ragazze sono orientate verso carriere scolastica di durata
inferiore ed hanno, anche, aspettative professionali più mediocri, pur ricercando un ruolo
diverso da quello esclusivo di madre e moglie.
Hanno, tuttavia, il desiderio di conciliare vita familiare e lavorativa, ove la prima è
considerata prioritaria rispetto alla seconda. Per le scelte scolastiche e lavorative, sia per i
maschi che per le femmine, assumono un’importanza maggiore le aspettative della madre
rispetto a quelle del padre.

Problemi nello sviluppo della personalità


Lo sviluppo della personalità si inserisce all’interno di una fase di vita molto delicata.
E’ infatti difficile, all’interno di una società come la nostra, che offre pochi punti di
riferimento e molteplici ruoli possibili, portare a termine il compito evolutivo della costruzione
identitaria senza avvertire il peso della responsabilità. E’ proprio in questo periodo, quindi,
che possono manifestarsi specifici problemi, che diventano espressione del disagio
adolescenziale; i più frequenti sono la depressione, l’anoressia ed il comportamento
delinquenziale. La depressione viene esperita come un senso di vuoto interiore, carenza di
interessi, sfiducia in se stessi e nelle proprie capacità, il che conduce, anche, ad un
profondo pessimismo circa il futuro.
Uno stile educativo in grado di potenziare l’autoefficacia, una buona
comunicazione con la figura paterna e, per le ragazze, un’educazione che incoraggi
un’adeguata gestione delle emozioni possono configurarsi come fattori protettivi nei
confronti di questo esito negativo dello sviluppo. L’anoressia consiste in un grave calo
ponderale (dal 25% in su) alla cui base vi è una nutrizione insufficiente, motivata da “fobia
del peso” od assenza di stimoli della fame. Si associa, non di rado, ad appiattimento
affettivo e, nelle donne, disturbi del ciclo mestruale, fino anche all’amenorrea. Il
comportamento delinquenziale consiste nella forte tentazione di compiere, almeno una
volta, un atto considerato reato. E’ molto diffuso nei Paesi occidentali più industrializzati,
probabilmente a causa delle condizioni di maggiore isolamento in cui gli adolescenti
crescono e della loro necessità di trovare abbastanza soldi da rispettare i canoni
consumistici. Il comportamento delinquenziale correla, inoltre, con una bassa provenienza
socioculturale, con la presenza di modelli di adulti devianti all’interno del nucleo familiare,
con la disgregazione della famiglia e con gravi successi scolastici riportati dall’adolescente.

CAPITOLO 13
ETA’ ADULTA ED ETA’ SENILE
Negli studi sul ciclo di vita, vengono considerati diversi fattori che interagiscono nello
sviluppo:

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- influenze normative per classe di età, che predominano nell’infanzia ed in età senile;
- influenze normative per classe storica, che predominano nell’adolescenza;
- influenze non normative, che costituiscono una variabile che aumenta di importanza in
modo costante nel corso del ciclo di vita.

Età adulta
Attualmente, la maggior parte dei giovani di età inferiore ai 30 anni vive ancora in
famiglia, per motivazioni che possono variare. Si tratta, spesso, di giovani uomini
appartenenti al ceto medio del Nord Italia, che desiderano mantenere un certo tenore di
vita garantitogli dal continuare a vivere con i genitori, o di giovani del Sud Italia, che hanno
difficoltà a trovare un’occupazione che consenta loro di ottenere una buona
indipendenza economica.
Questa forma familiare consente al giovane adulto di mantenere una “giusta
autonomia”, ovvero di essere relativamente autonomo senza per questo dover rinunciare
al sostegno, anche economico, dei genitori. E’ così possibile “un’esperienza controllata del
mondo adulto”. Per i genitori, i loro figli rappresentano quella “giovinezza ideale” che essi
non hanno avuto e, da ambo i lati, è presente una rappresentazione della realtà di vita
adulta come un passaggio caratterizzato dall’insicurezza e che, in quanto tale, deve essere
rimandato fino a che non ci si sente pronti ad affrontarlo. Sono, in ogni caso, possibili
situazioni diverse, che vanno dal giovane che frequenta l’università ed accetta, suo
malgrado, di limitare la propria autonomia per continuare la carriera universitaria, al
giovane disoccupato.
Un discorso a sé è dato dalla “sperimentazione” a livello lavorativo ed affettivo: sono
tante, infatti, le coppie giovani che non si sentono in condizione di sperimentare dal punto
di vista sentimentale e che, quindi, rimandano sempre di più il momento del matrimonio, il
che costituisce una scelta razionale. Per quanto riguarda i genitori, lo stereotipo vuole che
sentano la necessità di mantenere il figlio tra le mura di casa il più a lungo possibile, ma, in
realtà, non è così: anche in questo caso, infatti, può trattarsi di una scelta razionale, dettata
dalle diverse condizioni economiche dei giorni nostri rispetto a quelle del passato.
A proposito di sviluppo cognitivo, esistono due tipi di intelligenza: un’intelligenza
fluida, caratterizzata da efficienza e rapidità a livello neurofisiologico, ed un’intelligenza
cristallizzata, utilizzata nel momento in cui si devono risolvere dei compiti che richiedono
nozioni e competenze, le quali possono essere acquisite, anche, con l’esperienza. I test di
intelligenza più tradizionali, come le scale di Wechsler (WAIS e WISC), possiedono degli items
che vanno a sondare entrambi i tipi di intelligenza. Attraverso studi longitudinali, è stato
possibile scoprire come individui di 40 anni sia tutt’altro che uguali ad individui di 20 anni
col doppio dell’età: infatti, con l’incrementare dell’età, i giovani adulti hanno mostrato di
avere prestazioni cognitive superiori rispetto ai ventenni. Risulta, infatti, più deficitaria
l’intelligenza fluida, che viene, tuttavia, ampiamente compensata dalle abilità di
intelligenza cristallizzata. Un motivo centrale dell’età adulta è, chiaramente, il lavoro:
mentre le donne sentono molto la necessità di conciliarlo con la vita familiare e, da questo
bisogno, può nascere una forte conflittualità, gli uomini lo ritengono prioritario ed il conflitto
è possibile, di solito, solo nel momento in cui non si sentano sufficientemente realizzati dal
punto di vista della retribuzione e dello status professionale.
La scelta di coppia è, psicologicamente, la scelta di un’identità che non è più
singola, bensì diadica e, con la formazione di una nuova famiglia, si arriva a formare una
nuova identità di coppia. L’amore tra i partners può cambiare moltissimo, sia
quantitativamente sia qualitativamente; sono possibili diversi tipi di amore che si
differenziano per le modalità con cui si combinano passione, intimità e dedizione.
Un amore completo è, ovviamente, quello che maggiormente promuove il
benessere della coppia, ma, sfortunatamente, in età adulta e senile non è raro che ci si
accontenti di un amore così detto ”solidale”. Quando si crea un nuovo nucleo familiare,
un momento cruciale è quello della gravidanza, il quale è segnato da una forte

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ambivalenza: da un lato, si prova gioia e ci sono molte speranze per il futuro, ma, dall’altro,
non sono infrequenti incertezze e paura, soprattutto da parte della futura madre.
Ella può andare incontro, inoltre, ad un calo della libido, oltre che a generali
alterazioni del tono dell’umore, che la portano ad avere una maggiore instabilità emotiva,
ad essere eccessivamente preoccupata, a ricercare più comprensione da parte del
partner e così via. La nascita del bambino conduce, poi, ad una notevole richiesta di
impegno da parte della madre, la quale deve conciliare il soddisfacimento delle richieste
del figlio con il lavoro, sovente in assenza di collaborazione da parte dei familiari; negli ultimi
anni, tuttavia, si assiste ad un aumento dell’interesse, da parte dei padri, nella cura del
bambino, con un maggior interesse e desiderio di accudire il figlio e la partner.
Non è inusuale, in questa fase, un riavvicinamento della coppia alle famiglie di
origine. La divisione dei compiti tra i genitori è, spesso, poco equilibrata, con la madre che
si occupa del bambino anche negli aspetti meno interattivi ed il padre che, al contrario, si
propone per lo più per gli aspetti ludici; sembra, tuttavia, che la completezza nella divisione
dei compiti sia correlata ad un elevato livello socioculturale.
Sia negli Stati Uniti sia in Italia, sono state condotte delle ricerche su famiglia e lavoro
in età adulta. Negli USA è risultato che ad ottenere un discreto successo lavorativo in età
adulta sono, principalmente, gli individui che hanno portato a termine specifici compiti
evolutivi, quali definire un proprio progetto di vita, trovare un consigliere, iniziare una
carriera lavorativa e stabilire relazioni interpersonali intime. Le donne risultano avere,
tuttavia, dei progetti di vita più complessi, in cui si inserisce, a pieno titolo, anche la cura
della famiglia (che può, talora, diventare un ostacolo dal punto di vista lavorativo), oltre al
fatto che hanno una minor tendenza ad affidarsi ad un consigliere. In Italia, è risultato che
esse hanno aspettative minori rispetto agli uomini, sia a livello scolastico che sul lavoro.
Per quanto riguarda la numerosità familiare, la tendenza attuale è quella di avere
un solo figlio: si tratta di una decisione presa di comune accordo dalla coppia e finalizzata
a mantenere un buon equilibrio tra condizione economica, lavoro della donna e ménage
familiare; tuttavia, se la famiglia reale prevede 1 o 2 figli, la famiglia ideale degli Italiani ne
prevedrebbe dai 2 in su: si tratta, perciò, di una scelta razionale. In termini di soddisfazione
coniugale, non sembrano esserci differenze sostanziali tra i due sessi e, nemmeno, tra
famiglie tradizionali od a doppia carriera. Le differenze tra uomo e donna sono legate al
fatto che il primo preferirebbe un ménage tradizionale, mentre la seconda apprezza
maggiormente un partner collaborativo. Il passaggio dalla prima alla seconda età adulta
ha luogo intorno ai 40-45 anni e può condurre la così detta “crisi dell’età di mezzo”, che
può essere più o meno intensa ed in cui l’individuo ha la sensazione di trovarsi di fronte ad
una svolta, il che può condurre, persino, a profonde riflessioni religiose, dovute alla paura
dell’approssimarsi della morte.
Il soggetto si interroga circa la correttezza delle proprie scelte di vita, con domande
simili a quelle tipicamente adolescenziali ma rivolte al passato e non al futuro. Anche i
cambiamenti dal punto di vista biologico e fisiologico possono ripercuotersi sull’assetto
psicologico, soprattutto sulla donna, in cui i cambiamenti a cui va incontro l’apparato
riproduttivo sono meno graduali che nell’uomo: si assiste, nel suo caso, ad una diminuzione
del peso delle ovaie, ad alterazioni del ciclo produttivo, ad un abbassamento dei livelli
ormonali ed alla menopausa, cioè un insieme di fenomeni fisici e psicologici che possono
essere molto vari, tra cui si annoverano cefalea, capogiro, sbalzi umorali, momenti di
depressione, brividi, vampate di calore, tachicardia e sudorazione, oltre che un calo della
libido (soprattutto nei primi 5 anni e per motivi psicologici), il quale può portare a problemi
nella vita di coppia.
In entrambi i sessi si assiste, poi, ad una diminuzione di vista ed udito, ma ad un
aumento della resistenza alla fatica, al freddo ed al digiuno; il rischio di patologie
cardiovascolari aumenta più per l’uomo che per la donna.

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Nella seconda età adulta, si assiste ad un lieve ma progressivo peggioramento di


alcune funzioni cognitive, che sono la memoria a breve termine, la velocità di reazione e
la finezza percettiva. Nei punteggi generali dei test di intelligenza, però, non si ha un
punteggio basso, perché sono ancora disponibili sufficienti strategie compensatorie.

ETÀ SENILE
Intorno ai 65-70 anni, cominciano a manifestarsi, tanto dal punto di vista biologico e
fisiologico quanto da quello psicologico, gli effetti dell’invecchiamento, il quale è dovuto
alla cessazione della riproduzione cellulare. L’età senile corrisponde al periodo di vita
successivo al compimento del sessantacinquesimo anno di età e si divide in età anziana,
che comprende i primi 10-15 anni, e vecchiaia, che copre tutti gli anni successivi al
settantacinquesimo/ottantesimo.
Uno dei cambiamenti di vita più importanti dell’età anziana è, senza dubbio, la
pensione, la quale può suscitare reazioni positive, dovute alla possibilità dell’individuo di
dedicare più tempo a se stesso ed ai propri interessi, ma, anche, negative, come un senso
di vuoto e di inutilità ed un certo disorientamento temporale, attribuibile al fatto di avere di
fronte a sé giornate meno strutturate dal punto di vista dell’organizzazione e della routine.
Un altro importante avvenimento può essere il fatto di diventare nonni, il che è, spesso,
fonte di grandi soddisfazioni.
Possono nascere, in questo periodo, nuove amicizie, sicuramente non eslcusive e
meno intense rispetto a quelle giovanili ma, non per questo, non gratificanti. La vecchiaia,
invece, è la fase in cui può essere possibile una perdita della propria autonomia, che
determina un bisogno di assistenza con, talora, un’inversione dei ruoli tra genitori e figli.
Aumenta il rischio di malattie e disfunzioni, diminuisce la forza muscolare e, anche, la
velocità di conduzione delle fibre nervose: questa va diminuendo dai 20 ai 90 anni, fino a
ridursi del 15%, con un aumento dei tempi di reazione del 50% per quanto riguarda stimoli
luminosi e suoni.
L’aumento di spessore del cristallino fa sì che la luce venga maggiormente assorbita
dal pigmento dei suoi strati, soprattutto le onde corte, il che porta ad una diminuzione della
vista. Si deteriora, anche, l’udito, in modo tanto più significativo quanto più il soggetto è
stato esposto a rumori forti nel corso della vita. Si accresce il rischio di demenza, nonostante
essa non coinvolga, dopo i 90 anni, la maggior parte degli individui. I sintomi più frequenti
ad essa associati hanno a che fare con la memoria e si riflettono negativamente
sull’autostima e sulle capacità di ragionamento. Anche l’aspetto comportamentale può
essere compromesso, con possibili aggressività, dolcezza stereotipata od alternanza tra
rabbia e sconforto con pianto.
La prima fase della demenza vede il soggetto consapevole dei suoi limiti: questa
consapevolezza va via via scemando col passare del tempo, lasciando il posto, talora, ad
una negazione esplicita dei propri deficit, anche a fronte della perdita dell’autosufficienza.
Le cause più comuni di demenza sono la malattia di Alzheimer, ictus arteriosclerotici
(demenza arteriopatica) ed il morbo di Parkinson, che determina, anche, rigidità e/o
tremore dei muscoli. Anche in assenza di condizioni patologiche, comunque, si assiste, nella
vecchiaia, ad un progressivo deterioramento di varie funzioni cognitive, iniziato, già, nella
seconda età adulta.
Diminuiscono, quindi, le prestazioni ai test che richiedono buoni tempi di reazione e
rapidità di elaborazione delle informazioni, sebbene il peggioramento sia meno evidente
nel momento in cui si prendono in considerazione le capacità verbali e l’utilizzo delle
informazioni in un contesto ecologico. Una tendenza tipica è quella di utilizzare le
informazioni per blocchi informativi, anziché per singole unità, basandosi sulla propria
esperienza per inserire le varie informazioni in un blocco piuttosto che in un altro. Il
vantaggio che ne deriva è che l’individuo può, in questo modo, concentrarsi solo sui dati
importanti ed evitare di sprecare energie con quelli secondari.

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Gli anziani, inoltre, usano molto più dei giovani le informazioni contestuali. Diminuisce,
in questa fase, la capacità di memorizzare esperienze recenti, mentre restano lucidi i ricordi
più antichi: questo è indicativo di un deficit di immagazzinamento e non di recupero a
carico della memoria a lungo termine. Esistono dei comportamenti che sembrano poter
rallentare un minimo la comparsa dei cambiamenti più negativi associati
all’invecchiamento e, tra questi, figurano il non fumare, il seguire una dieta equilibrata,
ovvero, lontana da eccessi in ambo i sensi, l’avere una buona organizzazione delle
giornate, il che sembra ridurre lo stress.
Per quanto riguarda gli aspetti psicologici del passaggio alla vecchiaia, ci sono
dubbi su quanto sia corretto generalizzare i risultati degli studi trasversali e longitudinali che
sono stati condotti, dal momento che questi sono influenzati, anche, dai cambiamenti del
contesto socioculturale. Per quanto riguarda gli aspetti motivazionali, l’anziano e, ancor di
più, il vecchio, è molto selettivo nei suoi interessi, motivo per cui si parla di “spazio
psicologico di libero movimento”, per far riferimento alle limitate aree di interesse ed in cui
sono possibili, di conseguenza, nuovi apprendimenti. E’ frequente un’implicita ricerca di
familiarità, ovvero, la tensione fondamentale è tesa all’auto accettazione riguardo ciò che
si è e si è stati, dal momento che da questo può derivare tranquillità. Infine, per quanto
riguarda l’assistenza, la tendenza attuale è quella di favorire la permanenza in famiglia dei
vecchi, per sì che essi possano conservare i legami con l’ambiente di origine.
Sarebbe, quindi, importante che tutti i familiari prendessero parte alla cura
dell’individuo non più autosufficiente, in modo tale da puntare, anche, sulle sue abilità
residue. Per quanto riguarda, invece, l’assistenza fornita dagli operatori, essi dovrebbero
rendersi disponibili per un lavoro domiciliare, in modo tale da lasciare l’individuo nel suo
ambiente naturale.

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