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il mediaevo italiano.

morcellini
Scienze Della Comunicazione
Università degli Studi di Roma La Sapienza
57 pag.

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CAPITOLO 1: IL MEDIAEVO ITALIANO-PROPOSTE DI ANALISI
PER L'INDUSTRIA CULTURALE
1.1 Che la storia incominci: premessa e linee interpretative
Occorre chiamare in causa un elemento di precarietà e debolezza della letteratura
scientifica sui mezzi di comunicazione, infatti non è raro riscontrare negli studi un
carattere di incompiutezza dell'analisi, dovuto probabilmente all'assenza sostanziale
di un approccio storiografico e a una scarsa consapevolezza della natura sistemica
della comunicazione.
Bisogna prendere atto che una parte rilevante delle debolezze e delle insufficienze dei
modelli interpretativi e delle teorie dei media, così come una parte delle divisioni fra
scuole e paradigmi, è strettamente riconducibile ad una teoria autoreferenziale della
comunicazione: troppo spesso essa è disancorata da una convincente storia
dell'industria culturale e dal riconoscimento del ruolo delle tecnologie, che finisce per
apparire concettualmente infondato e senza senso.
1.2 La metamorfosi: l'impatto della comunicazione nel caso italiano
Da qualunque angolo di osservazione, che sia storicamente o sociologicamente
fondato, i media si presentano come un fattore strategico di induzione dei processi di
modernizzazione, intesa come l'insieme dei processi economici, sociali e culturali
che hanno trasformato le società europee ed occidentali negli ultimi 3 secoli, tanto da
poter parlare di una dicotomia società tradizionale/società moderna.
È ormai largamente acquisito che ogni tipo di aggregato sociale, insieme con i suoi
fattori e le sue componenti, è soggetto nel tempo a modificazioni e trasformazioni da
uno stato ad uno successivo; secondo la sintesi di Gallino per mutamento sociale si
intende qualsiasi variazione, differenza o alterazione che si produce nella struttura e
nel modo di funzionamento di una società, osservabile in un certo momento rispetto
ad uno anteriore.
Dal momento che molti mutamenti sociali sono connessi a cambiamenti dei sistemi
culturali, nelle scienze sociali contemporanee si è soliti parlare di mutamento socio-
culturale.
Man mano che ci si avvicina alla modernità, si intende provvisoriamente con tale
termine la fase di più decisa industrializzazione dei mezzi e di generalizzazione dei
fenomeni comunicativi, facendosi più evidente la consapevolezza che i mass media si
sono posti progressivamente come fondamentali strumenti di socializzazione,
soprattutto per la decadenza della funzione educativa della scuola e della famiglia.
1.3 La spirale della comunicazione: mutamento → mass media → nuova
socializzazione
L'analisi di mezzo secolo di sviluppo dei mass media fa emergere vividamente la
centralità del consumo culturale come dimensione che caratterizza la modernità dei
comportamenti: tutto ciò avviene nel contesto di una progressiva affermazione e
legittimazione di un'ideologia e di una pratica del tempo libero, del consumo e della
comunicazione presso settori sempre più vasti della popolazione.
Un ruolo decisivo è svolto dai mezzi di comunicazione, che caratterizzano le socie3tà
moderne in termini di incidenza sulla struttura materiale ed economica, sugli standard
culturali e sulle personalità individuali agendo quasi da “sistema nervoso centrale” in
cui si riconfigurano le dimensioni costitutive della modernità.

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Le caratteristiche essenziali delle società moderne possono essere identificate con:
a) CAMBIAMENTO, inteso non come trauma, ma come metamorfosi progressiva e
accelerata
b) SECOLARIZZAZIONE, come processo di desacralizzazione del potere e delle
istituzioni sociali
c) COMPLESSITÀ SOCIALE, intesa come crescente complicazione e
differenziazione dei ruoli e delle funzioni sociali a causa della “perdita del centro” e
dell'evanescenza dei punti di riferimento normativi
E se l'Italia è così profondamente cambiata, è pertinente l'assunto che la
comunicazione sia stata la grande rete di modernizzazione, anche a fronte di obiettivi,
ritardi e incertezze di altre direttrici di sviluppo: l'ammodernamento delle
infrastrutture e dei servizi, l'adozione di una mentalità di programmazione, la debole
progettualità delle classi dirigenti e delle politiche di governo nel porsi
consapevolmente alla guida dei processi di innovazione dell'economia e della società.
I ritratti dei diversi comparti dello spettacolo e della comunicazione consentono
anche di delineare l'investimento in termini di tempo e risorse sul consumo culturale
da parte dei pubblici: la ristrutturazione della spesa per lo spettacolo, per il loisir e per
i beni di cittadinanza culturale è infatti in grado di illuminare molti aspetti della
transizione che ha interessato la società italiana, soprattutto in termini di analisi del
ruolo decisivo che i media hanno assunto nel passaggio da una società agricola a una
società industriale, e poi postindustriale.
Il pubblico è ovviamente presente nella struttura del prodotto culturale, sul quale
proietta sempre più prepotentemente il proprio simulacro: è il caso ad esempio della
programmazione televisiva pubblica e privata, a proposito della quale occorre
pienamente valorizzare l'analisi degli ascolti, spaziando dalle tradizionali
metodologie di rilevazione fino alla customer satisfaction.
In questo contesto è la TV che, grazie ai suoi aspetti di libertà d'uso, basso costo e
molteplicità di funzioni e generi offerti, intercetta in Italia più che altrove il mutato
atteggiamento verso il consumo culturale e l'investimento in termini di budget time:
essa sembra davvero “l'oggetto più democratico delle società democratiche”.
1.4 Industria culturale italiana: principali dimensioni interpretative
Sia che si intenda alludere agli apparati e alle “istituzioni” di produzione della
comunicazione o che si prediliga la comunicazione come offerta, sia che si alluda alla
comunicazione come corpus di modelli comportamento, è evidente che la
comunicazione è strutturalmente legata al mutamento, e al tempo stesso risulta
inafferrabile fuori da un'ottica interdisciplinare, e in questa affinità della
comunicazione con il cambiamento si può scorgere una radice della sua
straordinaria fortuna nell'epoca moderna.
È complesso spiegare le ragioni per cui nel nostro Paese non si siano adeguatamente
affermati una tradizione storiografica e uno stile scientifico e cognitivo saldamente
interdisciplinari: occorre ricordare un'interpretazione che enfatizza la dimensione
istituzionale, imputando una precisa responsabilità al ritardo dei un curriculum
universitario di Scienze della Comunicazione.
Un percorso di studi che ha come profilo distintivo la formazione di operatori, ma
anche di esperti e studiosi di comunicazione, costituisce un'occasione per rinnovare

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profondamente gli schemi cognitivi dei media studies e in particolare l'approccio
italiano: i corsi di Scienze della Comunicazione stanno contribuendo ad invertire il
trend, essi infatti esigono naturalmente nuove professionalità docenti e un mix
disciplinare più aperto e ricco di quelli precedenti, creando pertanto le condizioni
potenziali per una nuova comunità scientifica.
Proprio la complessità dell'oggetto-comunicazione e la stessa novità istituzionale
rappresentata dal curriculum inducono a ricordare un elenco minimo di saperi
multidisciplinari che oggi dovrebbero essere messi in gioco per costituire un campo
culturale degli studi di Scienze della Comunicazione, ambientandoli correttamente
nel contesto dei processi di mutamento della società italiana.
1.5 Una lettura sistematica per l'età della convergenza
La prima dimensione che occorre chiamare in causa per la sua estrema novità è quella
dell'analisi geografica della comunicazione: le trasformazioni dei confini nazionali,
l'urbanizzazione che fino agli anni '80 ha caratterizzato le società italiane con il suo
impasto di migrazioni interne, fino ai nuovi fenomeni dell'immigrazione e del
multiculturalismo in molte aree del paese, sono realtà da considerare attentamente per
una valorizzazione più attenta dei mezzi di comunicazione e della loro portata
sociale.
Inoltre bisogna fare una considerazione sull'impatto dei mutamenti demografici: si
pensi all'incidenza attribuibile al declino delle nascite del secondo e del terzo figlio a
partire dal secondo dopoguerra, al nuovo protagonismo della donna, alle nuove
polarizzazioni nei rapporti di potere fra i sessi.
Si rifletta anche sulla definitiva affermazione dell'infanzia e della gioventù come
figure storico-sociali relativamente nuove, sulla riduzione del numero dei componenti
della famiglia e sul nuovo status dei single: tutti fenomeni che demarcano
comportamenti mediali specifici e innovativi.
Inoltre bisogna sottolineare la natura economica del sistema dei media, che deve
certamente coinvolgere analisi aziendale e controllo dell'agire imprenditoriale,
efficacia dell'organizzazione del lavoro e verifiche della competitività del prodotto.
Ma un modello interpretativo economico è decisivo anche per gli studi sulla sfera
pubblica nel settore della comunicazione (interventi finanziari,
tassazione/detassazione, sostegni indiretti in beni e servizi ecc.), così come per una
verifica degli investimenti delle famiglie e dei singoli utenti, sotto forma di
abbonamenti, biglietti ecc.
È decisivo poi chiamare in causa l'analisi delle tecnologie della comunicazione: sotto
la spinta dei modelli e dei mercati sopranazionali si è determinata negli ultimi anni
una moltiplicazione degli strumenti disponibili per l'invio e la ricezione dei messaggi;
se fino agli anni '70 gli strumenti utilizzabili erano la posta, il telegrafo, il telex e la
radio, nel giro di pochi anni si sono diffusi il telefax, il modem, il videotext (in Italia
televideo) che porta messaggi scritti nelle case sulle onde della televisione via etere.
Contemporaneamente lo sviluppo dell'informatica e il ricorso a forme di
trasmissione a “banda larga” (capaci cioè di concentrare in un unico vettore, come i
cavi telefonici in fibra ottica, un volume di informazioni assai superiore a quello
trasmissibile attraverso i vettori tradizionali) hanno consentito di integrare fra loro
forme di comunicazione che in precedenza richiedevano canali differenziati.

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1.6 I peccati originali dell'industrializzazione culturale
L'industria culturale costituisce un modello di sviluppo sui generis e rappresenta un
caso9 emblematico della diversità italiana: un esempio tipico delle differenze
fondamentali con gli standard di altri paesi è dato dalla disparità di ritmo e di
rilevanza rispetto ad altri settori dello sviluppo industriale come quello
automobilistico, degli elettrodomestici ecc.
Nella vicenda delle modificazioni strutturali e profonde dell'Italia uscita dal secondo
dopoguerra, non si può certo dire che gli apparati di produzione culturale (cinema,
radio, editoria, spettacolo) abbiano giocato un ruolo strategico o comunque decisivo:
la vocazione industriale dei centri di produzione comunicativa è stata lungamente
esitante e scarsamente consapevole del possibile ruolo economico, o almeno di guida
dello sviluppo, che potenzialmente si presentava in un paese in profondo
cambiamento.
La prima rilevazione è che i diversi comparti dell'attività culturale non sono
descrivibili come un sistema e neppure come un contesto di possibili relazioni e
sinergie: così, quelle che altrove si pongono da subito come industrie culturali, da noi
appaiono come singoli apparati di produzione (cinema, radio, editoria, spettacolo),
per di più costituiti spesso da un pulviscolo di piccole imprese (protoindustria
culturale).
Le relazioni “binarie” tra gli apparati e la politica, l'economia e la società appaiono
diverse in ragione del punto di osservazione che si sceglie: la radio è più legata al
sistema politico, mentre il cinema italiano gioca negli anni della Grande Commedia
una straordinaria partita alla ricerca di una profonda sintonia con la società e con la
crescente modernizzazione del costume e degli stili di vita; l'editoria si orienta da un
lato alla politica e da un lato a rotocalchi popolari più attenti alla readership e al
mercato dei lettori.
Quel che appare evidente è la scelta di non intensificare le relazioni con gli altri
soggetti economici dello sviluppo industriale: gli apparati dell'industria culturale
sembrano ignorare “idealisticamente” qualunque interazione sistematica con altre
imprese o gruppi industriali, così come le grandi famiglie e i protagonisti dell'attività
economica sottovalutano seccamente il settore della cultura come un campo
significativo dell'attività economica e del profitto.
Una tale orgogliosa rivendicazione della separatezza non ha certo rappresentato
l'affermazione dell'autonomia, anzi, si è determinato in questo contesto un carattere di
fragilità e precarietà strutturale degli apparati produttivi di cultura: tutto ciò alimenta
le precondizioni per una dipendenza ancora più stringente con il sistema politico.
L'ulteriore elemento di debolezza dei fragili apparati culturali italiani è consistito
essenzialmente nella riluttanza a riconoscere la società come punto di riferimento
delle strategie comunicative e momento di verifica delle proprie scelte.
Nasce e si afferma così un rudimentale sistema il cui centro gerarchico e
gravitazionale è costituito dalla politica, laddove la programmazione dello sviluppo e
l'assunzione delle decisioni strategiche avvengono per conseguenza senza alcuna
autonomia delle logiche della mass culture e dei media.

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1.7 Media e modernizzazione in Italia: distorsioni e “convergenze
parallele”
Abbiamo già osservato come il caso italiano appaia atipico rispetto ad altri processi di
modernizzazione e altri contesti, presentando ritardi, sfasature ma anche singolari
accelerazioni in alcuni segmenti.
In Italia è stata straordinariamente rapido il passaggio da un mercato culturale
ristretto a un mercato culturale di massa, così come è stato atipico il percorso delle
diverse istituzioni della socializzazione: infatti il percorso classico prevede prima un
aumento della scolarizzazione e poi la diffusione di massa della stampa periodica e
quotidiana, della radio e del cinema e infine della televisione; in Italia invece tutti
questi processi precedono l'aumento della scolarizzazione.
Ampliando la gamma delle relazioni reciproche che normalmente si stabiliscono fra
apparati culturali e trasformazioni sociali, occorre segnalare alcune distorsioni e
“cadute” nel percorso di modernizzazione, registrabili nella prima fase di
affermazione dell'industria culturale, infatti la storia della funzione sociale dei media
fa emergere lunghi momenti in cui essi costituiscono la frontiera più acuta della
modernizzazione, e fasi in cui invece prevale la funzione di freno e di stemperamento
della spinta innovatrice: in questo secondo caso i media sono scavalcati dalle spinte
collettive al cambiamento, rintracciabili nello “spirito del tempo”, fatte proprie da
particolari soggetti sociali (giovani, studenti, donne, lavoratori subordinati, tecnici
ecc.), dunque in questi casi i mezzi sembrano letteralmente finire alla retrovia delle
trasformazioni.
Questa contestualizzazione deve fare i conti con ciò che avveniva intanto nella
società italiana: all'inizio degli anni '50 c'è un'offerta culturale nuova fondata
sull'azione e sul carisma dei mezzi di comunicazione, in cui i media finiscono per
interpretare la spinta alla modernizzazione e si determina uno scenario sociale
caratterizzato da valori, stili di vita e aspirazioni condivisi a livello di massa (es. miti
dello sviluppo, del benessere e del progresso); i media diventano i più importanti
diffusori e ripetitori delle mete socioculturali collettivamente condivise.
Ben diversa invece appare la situazione alla fine del “primo tempo” dell'industria
culturale, in cui si attenua lo status di arretratezza socioeconomica e la stessa ventata
di novità riferibile ai media, soprattutto alla TV, comincia a eclissarsi.
È plausibile l'ipotesi che la centralità del sistema politico in Italia sia stata al tempo
stesso causa e conseguenza di una sostanziale gracilità strutturale dell'industria
culturale; si imbocca la strada di un cauto dosaggio del potere di modernizzazione dei
mezzi di comunicazione di massa che tende a frenare l'innovazione tecnologica e di
prodotto.
A questo si aggiunge che il sistema dei media di quegli anni subisce una distorsione
legata ad una gestione politica moderata di buona parte dei mezzi e degli apparati,
che spinge a una tipica torsione propagandistica e allontana nel tempo una visione più
autonoma e specifica dei media, che dunque sono visti più come instrumentum regni
da parte della classe politica e non come colonna sonora del cambiamento e della
modernizzazione.
1.8 Tesi per una ri-lettura dell'industria culturale
Occorre tener conto di una serie di elementi interagenti e di contesto che hanno

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frenato e modificato lo sviluppo coerente e tempestivo dell'industria culturale e che
sembrano traducibili in termino di specifiche ipotesi.
1) Lo sviluppo dell'industria culturale italiana è stato negativamente condizionato
innanzitutto dalla scarsa capacità propulsiva interna agli apparati, e dunque dai
limiti culturali, aziendali e industriali dei decision makers e dall'eccessiva
frammentazione degli apparati produttivi. Soprattutto in Italia tutti i processi di
recessione hanno sempre indotto a “tagliare” nel campo della cultura, e la
ciclicità di tali crisi a livello finanziario e di investimenti ha continuamente
alimentato una sostanziale sfiducia nella remuneratività delle imprese culturali.
A questo si somma il ritardo con cui le imprese industriali hanno guardato al
settore della cultura come a un campo normale e legittimo di raccolta dei
profitti; nonostante alcune rilevanti eccezioni individuali e di “grandi
famiglie”, l'investimento di capitali sugli apparati culturali è sempre stato raro
e discontinuo
2) Anche il percorso di modernizzazione, di rinnovamento tecnologico e di
crescita risulta cauto e frastagliato, e la lentezza del processo di
ammodernamento trova una plausibile spiegazione nella concezione miope e
preoccupata del processo di sviluppo: si pensi al ritardo con cui la TV a colori
arriva in Italia, o alla ritrosia nei confronti dell'innovazione grafica e del
ricorso al colore nella stampa quotidiana; a questo si somma una totale sordità
nei confronti di ciò che avveniva negli altri paesi.
3) L'intervento ridondante della politica sulla comunicazione deve essere
interpretato come la causa diretta di non poche contraddizioni nello sviluppo e
nella caratterizzazione genetica del ruolo dei media. L'interventismo del
sistema politico non si è posto come corretto ed equilibrato sviluppo del
sistema industriale della cultura, e a partire dagli anni '80 il sistema politico ha
sostituito all'interventismo petulante un impasto tutto italiano di irresponsabile
omissione di interventi strategici di “regolazione del sistema”. A parziale
attenuazione di questa lettura occorre dire che l'invasione politica di molti
apparati culturali non è spiegabile senza richiamare in causa un tessuto di
industrie culturali evidentemente inconsistente in termini di autonomia, di
management e di peso imprenditoriale, e dunque proiettato più alla ricerca di
alleanze che all'orgogliosa difesa dell'autonomia della cultura o dell'impresa.
4) L'eccesso di politica che ha caratterizzato e “frenato” l'industria culturale
italiana non è spiegabile se non chiamando in causa anche un clima ideologico
e d'opinione che ha profondamente segnato le scelte strategiche per un paio di
decenni e che attribuiva ai mezzi di comunicazione una funzione
essenzialmente pedagogica e di promozione sociale.
5) Occorre ricordare i limiti socioculturali di un paese che usciva sconfitto dalla
Seconda guerra mondiale, come la precarietà dei processi di scolarizzazione.
Nel caso italiano la spiegazione più radicale della lentezza dell'insediamento
dell'industria culturale è la debolezza e la limitatezza del ciclo della
domanda e l'assenza di un mercato di massa. La combinazione
dell'iniziativa modernizzatrice delle culture politiche italiane (quella cattolica e
quella socialista) con l'azione della scolarizzazione, e della mobilità geografica

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(emigrazione, servizio militare, viaggi) comincia tuttavia, anche se lentamente,
a dare i suoi effetti. È soprattutto la ventata unificatrice dei mezzi di
comunicazione audiovisivi, che si affermano anche grazie alla loro capacità di
superamento della fatica di leggere, a determinare le condizioni minime per
la nascita di una vera e propria società civile.
1.9 Verso la res publica: un'ipotesi interpretativa
L'ampiezza e la radicalità del mutamento inducono a riconsiderare gli interrogativi
cruciali relativi a chi abbia assunto la funzione di “attore di mutamento” e a quale
progetto sia stato perseguito.
In primo luogo una spiegazione persuasiva deve uscire da un singolo “campo
culturale” e interagire con altri settori dello sviluppo economico e sociale del paese,
dall'industrializzazione al benessere, dall'avvento delle grandi reti autostradali
all'innalzamento dell'obbligo scolastico, dallo slancio di trasformazione nel costume
fino alle innovazioni nel settore delle telecomunicazioni.
In secondo luogo si può ipotizzare che è scarsamente plausibile individuare un attore
di mutamento, mentre occorre chiamare in causa un network di influenze, spinte,
reazioni e infine elementi propri del clima d'epoca che, nel loro insieme, producono
una strategia di trasformazione socioculturale.
La dinamica storica italiana però chiarisce che tutta una serie complementare di
grandi decisioni hanno in larga misura prodotto il grande processo di trasformazione
che il paese ha conosciuto, anche non si può affermare che ci fosse una chiara
consapevolezza degli esiti ultimi delle decisioni.
Il deficit di modernizzazione nella gestione dei media e nelle politiche per la
comunicazione non si è automaticamente tradotto in una contrazione della capacità
dei media stessi di “spostare” la società in cui essi agiscono verso l'innovazione, essi
infatti attivano una serie di effetti psicologici, culturali e sociali.
CAPITOLO 2: DALL'AVARIZIA ALLA COSMOGONIA DEI CONSUMI
CULTURALI: CINEMA, TV, SPORT, SPETTACOLO DAL VIVO NEL
SECONDO NOVECENTO ITALIANO
2.1 I consumi culturali come indicatori dei processi di modernizzazione
Dal Secondo dopoguerra ad oggi i consumi hanno acquisito una progressiva centralità
nella soddisfazione di bisogni esistenziali, d'identità, relazione e valorizzazione della
vita quotidiana degli individui.
In una lettura dei consumi culturali di matrice soggettivistica, l'individuo moderno,
sempre più emancipato dalle forme del potere, dai suoi linguaggi e dalle sue strutture,
diventa un consumatore che impara a costruirsi un palinsesto personale della
propria vita: di fronte al tempo di vita trasformato in un periodo di pura e semplice
transizione di un inizio e di una fine, l'individuo deve rimandare “la fine del tempo”,
percepire il bene come sempre più prezioso, da maneggiare con cura e distribuire
equamente e secondo criteri di ottimizzazione razionale tra le tante attività che
compongono la vita sociale.
“Il tempo libero è lo spazio di manovra entro il quale imparare ad afferrare e ad
assaporare attimi di svago, di serenità, dei distensione per dare forza al nostro
logorante agire”.
I consumi culturali degli italiani hanno funzionato come induttori dei processi di

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modernizzazione e attori di innovazione, favorendo il risveglio della soggettività,
tratto distintivo della società moderna; nel nostro paese la comunicazione si è
costituita come grande rete di modernizzazione, a fronte di ritardi e incertezze in altre
direttrici di sviluppo, come l'ammodernamento delle infrastrutture e la debolezza
delle politiche di innovazione dell'economia e della società.
In un momento in cui la società non è più matrice di spiegazione dei comportamenti,
il soggetto è costretto a cercare altrove nuovi orizzonti di scoperta di relazioni e
quindi nuovi territori di socializzazione intrecciati con la comunicazione, e sono state
le istituzioni fondamentali della comunicazione a divenire i vettori di orientamento
all'interno delle società complesse.
Parafrasando Alberoni, potremmo dire che i beni di comunicazione si trasformano in
beni di cittadinanza, un patrimonio elementare di beni che segna l'appartenenza a
pieno diritto della comunità e la cui mancanza è un segno di esclusione o di
marginalità.
La lettura storica consente di individuare una progressiva riduzione delle forme di
esclusione culturale più direttamente imputabili alla divaricazione di censo e classe:
oggi i soggetti si rivolgono alla comunicazione in modo più equilibrato, meno
segnato dalle ferite di stratificazione sociale.
Oggi la ricchezza di una nazione si misura anche attraverso il modo in cui persone
in carne e ossa utilizzano i linguaggi della comunicazione, dal modo in cui essi sono
in grado di dotarsi di un paniere di beni spirituali e culturali, dall'equilibrio dei
consumi di contenuti veicolati da diversi media e istituzioni formative.
2.2 I consumi culturali: competizione e/o sinergia
Dal secondo dopoguerra alla fine del '900, gli italiano hanno modificato il loro
interesse per i consumi culturali, comunicativi e di spettacolo, in termini sia
qualitativi sia quantitativi: se consideriamo gli “indirizzi della spesa”, va segnalato
che l'incremento della quota di reddito destinata alla ricreazione, alla cultura e allo
spettacolo è risultato più alto di quello relativo ai consumi finali e al PIL.
Ciò significa che in particolare negli anni '80 gli italiani hanno speso per la
ricreazione e la cultura ovviamente più di quanto non facessero negli anni '50.
Ovviamente è ipotizzabile che a partire dalla seconda metà degli anni '60 i
finanziamenti statali abbiano esercitato una notevole influenza sulla spesa per cultura,
ricreazione e spettacolo: ciononostante si può affermare che fino a metà degli anni '90
né l'accresciuto benessere economico, né la scolarizzazione di massa abbiano
contribuito a far esplodere le risorse individuali destinate a questo tipo di consumi;
ciò ovviamente non vuol dire che negli anni '90 gli italiani si sono divertiti, hanno
comprato giornali e libri, si sono recati ai teatri come durante i primi anni '50, ma che
in passato spendevano proporzionalmente di più per una dieta meno assortita e
pesante.
Contemporaneamente a questa tendenza dei consumi si è registrato un significativo
abbattimento dei costi: negli anni '90, grazie allo sviluppo tecnologico e a un mercato
sempre più vasto, si è prodotta cultura di massa a costi sempre più bassi.
Il ritmo della modernizzazione nel nostro paese è stato invece caratterizzato da
incertezze e contraddizioni: in primo luogo, escludendo beni come il televisore a
colori, il possesso e l'uso degli altri mezzi di comunicazione dipendono, fino alla

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prima metà degli anni '90, da variabili sociodemografiche, quali l'età, il genere o la
professione; si pensi al videoregistratore, comune tra i soggetti fino a 55 anni, o al
personal computer, diffuso in particolare fra le classi più giovani e tra i liberi
professionisti, o alla penetrazione della stampa, da sempre sostenuta quasi
esclusivamente dalle classi d'età centrali maschili.
In secondo luogo, la percentuale di reddito dedicata a “ricreazione e spettacoli” non
subisce dagli anni '50 variazioni sostanziali, infatti dovremmo aspettare gli anni '80
per individuare, a fronte di un'offerta più ricca e differenziata, quel salto qualitativo e
quantitativo nella domanda di cultura che si pone come requisito standard nei
processi di modernizzazione.
Ma è dalla metà degli anni '90 che il processo di modernizzazione culturale e
industriale della società italiana raggiunge la massima penetrazione sociale dei media
generalisti e il cammino verso una multimedialità di prima generazione.
Fra i settori osservati nel corso di questo mezzo secolo spicca la progressiva perdita
di attrazione del cinema: questo medium ha avuto un'influenza notevole sul costume
e sulla cultura degli anni '50, quando assorbiva da solo il 70% circa della spesa per gli
spettacoli; da allora la sua importanza è andata progressivamente riducendosi, infatti
il dato quantitativo relativo ai biglietti venduti nel 1998 stigmatizza efficacemente il
processo di perdita di identità mediologica e di riconoscibilità del mezzo durante
il mezzo secolo che gli italiani si lasciano alle spalle.
Come mostra la tabella, a differenza del cinema tutti gli altri comparti dello
spettacolo hanno mantenuto quasi immutata nel secondo Novecento italiano la quota
di spesa ad esso destinata, e in alcuni casi sono aumentati in maniera abbastanza
significativa; sia lo spettacolo dal vivo che quello televisivo sembrerebbero lasciarsi
alle spalle la fase di più acuta concorrenza, per inaugurarne una nuova in cui nonh
mancano elementi di integrazione e sostegno reciproco.
Tra i settori in forte crescita in questi 50 anni si segnala lo sport-spettacolo, che ha
conosciuto un'espansione fino al 1991, e che ha visto allargare le preferenze del
pubblico come momento di affermazione e veicolo di valori in cui si sono identificate
sempre più persone.
Un comparto che ha registrato un'espansione addirittura superiore a quella dello sport
è quello dei trattenimenti, un settore che comprendeva manifestazioni danzanti e
spettacoli itineranti, vari divertimenti (flipper, videogiochi ecc.) e feste in piazza: i
trattenimenti nei primi anni '50 avevano una quota di spesa di poco superiore a quella
del teatro, mentre nel 1999 sale impetuosamente staccando nettamente tutti gli altri
generi del consumo, ovviamente TV esclusa.
La televisione è stata il microcosmo capace di “sequestrare” per lungo tempo molte
occupazioni di tempo libero e consumi culturali degli italiani, e la sua crescita si è
stabilizzata dagli anni '80; la televisione ha ridimensionato le differenze culturali fra
diverse classi d'età, aree geografiche e sociali assai distanti, e si è posto come il più
“accreditato” diffusore della cultura di massa nel nostro paese.
2.2.1 LA TELEVISIONE COME REGINA DEL TEMPO LIBERO
DEGLI ITALIANI
Negli anni '90 la televisione è stata il medium più diffuso e più intensamente
utilizzato per occupare il tempo disponibile e dunque per soddisfare una serie di

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domande culturali che spaziano dall'intrattenimento all'informazione, dallo spettacolo
alla cultura, dallo sport alla fiction; la TV si è caratterizzata per l'universalità della
sua diffusione, sostanzialmente indipendente dalle variabili geografiche e per la
scarsa concorrenzialità con molte altre forme di utilizzazione del tempo libero.
La televisione occupa fino alla fine degli anni '90 gran parte del tempo libero degli
italiani: la concentrazione maggiore di ascolto si rilevava nel prime time e in misura
minore nella fascia preserale e pomeridiana; il ridimensionamento del consumo si
aveva nella prima serata del sabato, e il rigonfiamento si aveva la domenica
pomeriggio.
Tuttavia, come è emerso anche da alcune ricerche condotte sui giovani, target ideale
per la previsione di scenari futuri, il tempo dedicato alla televisione negli anni '90 non
è aumentato, anche grazie a un'offerta sempre più differenziata di svaghi da
consumare entro le mura domestiche, come le videocassette, l'ancora limitato pay-
per-view, i videogiochi, fino ad arrivare a quei media “tradizionali” come la radio, ma
anche l'ascolto di dischi, CD, musicassette, o ancora la lettura di giornali e riviste.
2.2.2 IL CINEMA: UN'IDENTITÀ PERDUTA..E FORSE
RITROVATA
Il cinema, il mezzo che più di tutti aveva rappresentato in Italia il sentimento
collettivo, fu costretto a cedere il passo alla televisione: questo processo di
smobilitazione e conseguente migrazione verso diversi formati comunicativi che ha
investito dagli anni '70 sia la domanda che l'offerta di cinema, si è tradotto
simbolicamente durante gli anni '80 e '90 nelle immagini tristi e malinconiche di tante
sale cinematografiche, costrette a cedere il passo a sempre più scintillanti ipermercati
o magazzini.
Tuttavia i segnali positivi dell'ultimo decennio del '900 identificano una rinnovata
capacità di attrazione del mezzo, derivante dalle mutate attitudini ed esigenze dello
stesso spettatore e da una sostanziale rigenerazione dell'offerta.
Quello contemporaneo sembra un pubblico più informato, che consuma cultura
cinematografica con intenzionalità cosciente e deliberata e con chiare aspettative sul
film che sceglie di andare a vedere, attraverso la visione di anticipazioni su emittenti
broadcast e narrowcast, la navigazione su Internet e lo scambio di idee in ambienti
telematici interattivi.
L'offerta dal canto suo ha dovuto far fronte alla ricchezza dei consumi mediali
alternativi e alla possibilità di fruire del prodotto film da casa, sollecitando e
ricompensando la visione in sala attraverso fattori di qualità della sala (poltrone
ergonomiche, creazione di servizi di ristoro all'interno degli esercizi, introduzione di
nuovi sistemi audio come il Dolby stereo, il cinema digitale, THX ecc.)
2.2.3 IL TEATRO: IL RISVEGLIO POST-TELEVISIVO
Le attività teatrali e musicali devono la scarsa crescita più al fatto di connotarsi fino
alla metà degli anni '90 come genere di consumo d'élite, per i costi talvolta proibitivi
dei biglietti, piuttosto che per una concorrenza sleale della televisione.
Certamente il periodo critico per questa forma di spettacolo si può rintracciare negli
anni '60 e '70, il primo decennio caratterizzato dal miracolo economico, il secondo
dalle contestazioni e dai rivolgimenti sociali: dunque se nel primo caso era
auspicabile un aumento dei consumi culturali a causa di un aumento di reddito, nel

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secondo periodo le violente proteste studentesche contro la cultura d'élite potrebbero
aver contribuito all'allontanamento di ulteriori fette di pubblico.
Nella TV monocanale la fiction di ascendenza teatrale, specialmente la prosa, ha
avuto uno spazio privilegiato: gran parte della programmazione veniva realizzata in
diretta negli studi televisivi e, solo a partire dal 1964, la prosa ha cominciato a
ritirarsi in spazi sempre minori di un'offerta che andava aprendosi allo specifico
televisivo.
Se si confrontano i dati relativi all'offerta televisiva di teatro con l'andamento della
domanda registrata dalla prosa negli stessi anni, si evidenzia a partire dal 1958 una
vistosa contrazione del pubblico, cui corrisponde un'analoga riduzione dell'offerta;
dal 1973, quando la televisione ha trovato una sua identità mediologica, altra rispetto
allo spettacolo dal vivo, la prosa ha invece cominciato a crescere costantemente,
rivelando una certa vitalità del settore.
Tuttavia la quasi totale scomparsa dai palinsesti televisivi delle rappresentazioni
teatrali o la loro collocazione in fasce orarie e su canali poco battuti dal grande
pubblico non hanno favorito lo sviluppo di un processo più ampio di
sensibilizzazione al genere fino alla prima metà degli anni '90; il genere appariva in
difficoltà soprattutto fra i più giovani, il cui consumo teatrale era riconducibile quasi
esclusivamente alla spinta scolastica
2.2.4 NEL VIVO DELL'INTRATTENIMENTO
L'ancoraggio alla dimensione territoriale è in grado anche di spiegare il costante
successo di un genere, quello dei “trattenimenti vari”, che costituisce una voce
autonoma nel panorama dell'industria culturale; infatti a differenza degli altri
compartimenti, queste attività di svago sono geograficamente identificabili, in quanto
offerte anche nei comuni minori e nei piccoli paesi, in particolare in quelle aree dove
la popolazione si riversa durante le vacanze.
Fin dai primi processi di modernizzazione, l'immaginario collettivo ha abbandonato
le sue radici territoriali e locali per spostarsi prima nella metropoli, e poi nel villaggio
globale; tuttavia a questa tensione verso una vocazione planetaria corrisponde un
altrettanto incisiva volontà da parte delle audience di ritrovare un ancoraggio
territoriale forte nelle pratiche di consumo territoriale.
La crescita esponenziale di tutte le forme di gestione del tempo outodoor, dal cinema
alla discoteca ai concerti alle mostre, testimonia la rinnovata capacità degli attori
sociali nell'abitare i luoghi pubblici e privati del loisir.
L'esistenza di una domanda di consumi dal vivo ha come simbolo per eccellenza il
ballo, che si dimostra elemento di traino soprattutto fra i giovani; preoccupa per tanto
il trend negativo iniziato negli anni '90.
Dirette al medesimo target sono le attrazioni del luna park, dei videogiochi, seguiti
dai biliardi, dai concertini, dagli spettacoli all'interno dei villaggi turistici, dalle
mostre e dalle fiere.
2.2.5 TV E SPORT: UNA TRANQUILLA CONVIVENZA FORZATA
Lo sport è quasi per antonomasia il primo veicolo e terreno di incontro e di
integrazione fra ceti diversi, un luogo immaginario in cui un popolo di pigri per
eccellenza come quello italiano proietta, gara dopo gara, i propri eroi.
Il tifo è inoltre un forte motivo di coesione, spesso utilizzato propagandisticamente

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come mezzo di identificazione del nemico, dell'altro da noi.
La televisione ha attinto dalle manifestazioni sportive per riempire palinsesti e per
attrarre a sé anche quei pubblici per così dire d'élite, che si piegano al mezzo solo per
lo sport e l'informazione.
Quando nel 1965 la RAI ha iniziato a utilizzare nella “Domenica sportiva” il replay
come mezzo spettacolare ed entusiasmante per osservare le azioni più belle, o quando
Sergio Zavoli ha inaugurato “Il processo alla tappa” seguendo il Giro d'Italia con le
telecamere, gli spettatori non hanno abbandonato le manifestazioni sportive, anzi.
Come sottolinea Grasso, e anche il senso comune, in realtà non è possibile
considerare una manifestazione dal vivo alla stessa stregua di una trasmessa dalla
televisione, e d'altra parte non è vero che la televisione è la preziosa documentazione
della manifestazione dal vivo: il punto di vista dello spettatore allo stadio è
completamente diverso da quello del pubblico a casa, perchè mentre il primo “vede”
il reale svolgimento della partita, il secondo fruisce di un collage perfettamente
confezionato di immagini, inquadrature che forniscono un tempo ideale della gara,
dal quale sono tagliati fuori i tempi morti e i giocatori estranei alla fase di gioco.
La televisione permette, prolungando virtualmente e diluendo la giornata sportiva
nell'arco di una settimana, tra rubriche, talk show e telecronache dirette, che si
realizzi quello che Livolsi definisce un “processo circolare”, che prevede il
rafforzamento di alcuni consumi culturali a partire dall'offerta di altri generi.
Lo sport, e in particolare il calcio, gioca all'interno della relazione offerta-consumo il
ruolo di killer application, per la penetrazione e il consolidamento, e anche la
sopravvivenza dei mezzi di comunicazione presso i propri pubblici: si pensi alla
stampa, da sempre in crisi di identità e incapace di interagire con vaste platee, che
trova tuttavia nel contenuto sportivo le ragioni di una profonda fidelizzazione presso i
propri lettori (presenza di testate sportive tra le più lette in Italia); anche la telefonia
di terza generazione fa parte di questo quadro, attraverso l'offerta di contenuti e
servizi legati all'universo sportivo più popolare in Italia, il calcio.
CAPITOLO 3: MEDIAEVO VS TECNOEVO – IL MONDO NUOVO DEI
CONSUMI CULTURALI
3.1 Il passaggio al futuro dei consumi culturali
Dalla metà degli anni '90 si assiste ad una situazione singolare per l'evoluzione
dell'impatto sociale dei mezzi di comunicazione in Italia: alcuni media sembrano
essere arrivati al massimo dell'espansione, ed è il caso di quei consumi culturali che,
dopo la metà degli anni '90, non riescono a guadagnare nuovi pubblici e cominciano
per la prima volta a perdere mercato.
Il caso della televisione offre l'impulso più chiaro all'ipotesi qui avanzata perchè ci
mette di fronte a un fatto paradossale: a lungo è sembrato che la TV possedesse il
carisma e la capacità di dilatare progressivamente le basi della propria penetrazione
nella società in termini di pubblico e di fruizione.
Oltre alla TV anche la radio, i quotidiani, i settimanali e i libri sembrano arrivati alla
loro massima espansione.
Una tale interpretazione, affidata soprattutto ai “numeri” che documentano il
passaggio degli italiani all'adozione di standard europei ai comportamenti culturali,
spinge a discutere le dimensioni più sensibili del mutamento culturale: la definizione

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di comunicazione e il concetto di industria culturale.
1) La comunicazione: nuove prospettive interpretative. L'incardinamento della
cultura di massa italiana è apparso per molti anni fondato su un modello
generalista, e dunque su un'offerta di comunicazione affidata ai grandi apparati
produttivi e distributivi, economicamente e contenutisticamente accessibile a
tutti. Con le trasformazioni imposte dall'evoluzione tecnologica alla
comunicazione e alla società, questo modello ha registrato un progressivo
indebolimento, tanto da far parlare di declino dei media generalisti (si
rivolgevano a un grande pubblico con programmi indifferenziati, senza
privilegiare un particolare settore specialistico). L'offerta di comunicazione
attuale non è più centrata in maniera esclusiva ed univoca sui “vecchi” media,
ma il contributo che essi possono ancora offrire alla modernizzazione della
società italiana va oggi riconsiderato e specificato
2) L'industria culturale: verso una nuova definizione. In tutti i paesi moderni,
una definizione avanzata di industria culturale deve tenere conto dell'impatto
della televisione, della radio e della carta stampata sulla società, e più
correttamente deve considerare tutte le tappe del controverso cammino in
direzione della multimedialità, che ha 3 concezioni:
a) una prima concezione, più elementare, la interpreta all'interno della vecchia
tribuna dei mezzi generalisti e denota le diverse combinazioni nel consumo
individuale tra televisione, radio e giornali
b) una seconda concezione presenta aspetti di transizione perchè considera
alcuni segmenti del consumo generalista come condicio sine qua non per
l'innesto di una varietà di altri comportamenti culturali soddisfatti da altri
media, ma anche dai cosiddetti trattenimenti dal vivo
c) una terza concezione vede una multimedialità più evoluta, che si concentra
sull'accesso alle reti e sulla navigazione in Internet, offrendo gli strumenti
analitici propri del mondo digitale (Rete, TV, cellulare). I comportamenti più
evoluti appartengono a quel tipo di pubblico che attinge alla vetrina del
generalismo e, al tempo stesso, sfrutta in maniera personalizzata il menu
dell'offerta culturale alternativa, che in passato avremmo chiamato d'élite.
3.1.1 LA PROVA DELLA TV
Alla fine degli anni '90 i dati di diffusione della TV sottolineano la progressiva
disinfiammazione del consumo televisivo, che segna un'inversione di tendenza nel
processo di dilatazione ed espansione dell'impatto quantitativo e sociale del mezzo
stesso: dal 1996 il numero di quanti si espongono quotidianamente al mezzo
televisivo è calato del 3%, con una leggera ripresa nel 2001 e 2002, chiaramente
connessa al tendenziale ripiegamento delle persone nel nucleo domestico, in
condizioni di stress generato dalle minacce terroristiche.
C'è da dire che la crisi della TV generalista, annunciata con enfasi verso la metà degli
anni '90, di fronte alla nascita e alla diffusione dei canali digitali e dei nuovi servizi a
pagamento, si è rivelata il frutto di una frettolosa e superficiale lettura delle
complesse relazioni in gioco nel sistema mediale italiano ed europeo.
L'offerta a pagamento quindi non è ancora in grado di produrre quell'effetto di
sostituzione nel consumo mediale, sebbene abbia investito massicciamente sui generi

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principi della TV, ovvero film e sport, in particolare il calcio.
All'indebolimento della televisione si accompagna paradossalmente il declino degli
altri media generalisti, e ha riguardato gli stessi consumi culturali che negli altri paesi
funzionano da propulsore alla modernità (radio, editoria, quotidiani, settimanali,
periodici).
Ci si poteva aspettare che il disimpegno dalla televisione avrebbe favorito un
reinvestimento su altri media di massa; in realtà una simile previsione non si è
verificata, poiché tutte le forme di generalismo sembrano oggi in crisi.
3.1.2 LA RADIO ALLA PROVA DEL NUOVO
Anche la situazione della radio presenta luci e ombre, infatti stando ai dati ISTAT la
platea della radio si attesta intorno al 62%; anche se le percentuali non sono molto
incoraggianti, il mezzo radiofonico si propone nuovamente come uno dei pochi
media generalisti capace di adattarsi alle logiche dell'evoluzione dei mercati della
comunicazione e della stessa rincorsa tecnologica.
Infatti all'inizio degli anni '90 si attestano importanti broadcaster nazionali “privati” e
il mercato radiofonico inizia ad affermarsi anche dal punto di vista degli investimenti
pubblicitari: la radio esce fuori dalla marginalità e inizia a raccogliere i primi
significativi frutti anche sul terreno commerciale.
Lo studio della fruizione per fasce di età mostra l'orientamento giovanile del mezzo:
la radio infatti è seguita soprattutto dalle fasce giovanili, con percentuali di circa
l'83% per la popolazione fra i 15 e i 34 anni, mentre fra i 35 e i 75 anni e oltre la
percentuale di ascolti subisce una progressiva diminuzione.
È soprattutto sociale la simbiosi fra radio e nuove tecnologie: essa è infatti
l'espressione della tendenza dell'informatica ad allearsi con i mezzi predisposti a un
progressivo abbattimento delle tradizionali barriere spazio-temporali.
Internet favorisce questo processo di interazione perchè rappresenta non solo un
canale di comunicazione, ma anche un vero e proprio strumento editoriale, attraverso
il quale l'offerta della radio è arricchita da nuovi linguaggi (testi, video); le tecnologie
digitali sembrano così favorire sia il processo di integrazione della radio in strutture
multimediali preesistenti sia la trasformazione della radio stessa in un vero e proprio
canale multimediale.
3.1.3 IL NETWORK DELL'INFORMAZIONE: QUOTIDIANI,
SETTIMANALI, PERIODICI
Secondo i dati ISTAT sin dal 1994 la lettura di quotidiani conferma il suo
caratteristico trend altalenante e nel complesso negativo, che fa registrare la
variazione più considerevole in corrispondenza del 1998.
Nel 2000 la stampa quotidiana risulta perdere complessivamente quota nelle
preferenze degli italiani, segnando una significativa flessione di pubblico rispetto al
1995: la perdita di pubblico è impressionante se si pensa che si tratta di un mezzo
ancora scarsamente radicato presso la popolazione, e proprio la debole penetrazione
lasciava supporre che la modernità e l'aumento dei livelli di istruzione superiore ed
universitaria avrebbero incrementato in maniera consistente il pubblico dei lettori di
quotidiani.
Al contrario, l'andamento della lettura dei giornali sembra smentire qualunque
visione euforica sulla maturazione dei comportamenti culturali: per un medium fin

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dalla nascita afflitto da problemi cronici di popolarità (a differenza della televisione e
della radio), la contrazione del 6% lungo il quinquennio segnala con evidenza un
momento di crisi, se non addirittura una vera e propria sconfitta.
L'indice di lettura risulterebbe più attendibile e realistico, oltre che compatibile con
gli altri paesi europei, se la popolazione di riferimento fosse limitata alle persone di
età superiore a 14 anni; in generale gli uomini risultano più interessati alla lettura di
quotidiani rispetto alle donne, dichiarando di leggerli almeno una volta a settimana.
I lettori più costanti sono quelli fra i 25 e i 59 anni, equivalenti a circa il 68% della
popolazione.
Da segnalare anche l'incremento dei lettori di settimanali: in questo senso, la
stampa settimanale sembra assolvere funzioni che sostituiscono parzialmente, nel
media mix dell'audience, l'offerta informativa allestita dai quotidiani: emerge con
discrezione la tendenza da parte dei soggetti ad informarsi più velocemente attraverso
canali meno impegnativi e meno continui nel tempo, oppure a ricercare contenuti
alternativi come quelli proposti dai settimanali di informazione generale.
Emergono 2 contrapposte tendenze: da un lato sono aumentati i lettori di quotidiani
che leggono anche settimanali, dall'altro lato è aumentata la quota di lettori di
settimanali che non leggono quotidiani, o che li leggono “debolmente” una o 2 volte
la settimana.
La propensione a leggere quotidiani aumenta rapidamente con l'età, infatti si
mantiene superiore al 60% fino ai 64 anni, per poi decrescere nelle fasi anagrafiche
successive.
Quanto alla dinamica territoriale, la lettura dei quotidiani rimane notevolmente più
diffusa al nord e al centro rispetto al mezzogiorno; c'è però da dire che i lettori di
quotidiani sono diminuiti nel nord-ovest di oltre 8 punti percentuali e nel centro di
circa 6 punti, mentre nel mezzogiorno l'escursione è stata comparativamente molto
più lieve.
A distanza di 5 anni, la modificazione della frequenza di lettura del quotidiano
costituisce un ulteriore elemento che dimostra i cambiamenti nei tempi e nei ritmi
della fruizione culturale.
Emerge inoltre il fenomeno della lettura del quotidiano virtuale: la crisi della
popolarità della stampa quotidiana è infatti temperata almeno in parte dalla parallela
crescita del pubblico delle news online nel 2000: il 12,9% dei lettori di quotidiani
infatti legge il quotidiano anche via Internet, per la ricerca di un'informazione rapida
e aggiornata, in tempo reale.
Dal punto di vista dei contenuti informativi diminuiscono i lettori di politica, di
cronaca nera e di attualità ed esteri, mentre rimane costante la quota dei lettori
dell'informazione sportiva.
I settimanali costituiscono l'unico tipo di pubblicazione tra quella considerate che ha
visto aumentare il numero dei propri lettori fra il 1995 e il 2000: essi sono preferiti
dalle donne e dalle fasce di età comprese fra i 20 e i 54 anni, e i lettori di concentrano
soprattutto al nord e fra i laureati; per quanto riguarda le tipologie di settimanali sono
aumentate le donne e diminuiti gli uomini che leggono settimanali di attualità, mentre
ha subito una contrazione soprattutto il pubblico di settimanali radiotelevisivi e
femminili.

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Secondo la FIEG (Federazione Italiana editori giornali) la complessa e problematica
situazione dei giornali non dipende tanto dalla scarsa sintonia fra l'offerta delle
redazioni giornalistiche e le esigenze informative del pubblico, quanto al forte calo
degli investimenti pubblicitari, riducendo le possibilità di sviluppo delle stesse
aziende editoriali, limitando la capacità di investimenti strategici; resta il fatto che il
mercato italiano si conferma uno dei più arretrati nel contesto europeo dal punto di
vista delle vendite di quotidiani.
3.1.4 LA LETTURA FUORI DALL'ANGOLO
Tra i media generalisti l'unico segmento che si presenta con qualche elemento di
sorpresa positiva è quello del libro: un settore associato intuitivamente, fino a poco
tempo fa, alla categoria dei consumi d'élite e quasi interdetto per la maggior parte
degli italiani, all'improvviso grazie all'intuizione di alcuni manager illuminati e ad un
nuovo clima culturale diventa protagonista del dibattito pubblico, oltre che esempio
illuminante di un rinnovato marketing culturale.
Anche se l'italiano nell'acquisto del libro si rivolge ancora ai canali tradizionali,
soprattutto la libreria, va segnalata una certa propensione verso altre formule di
vendita, come l'edicola, il supermercato, i libri allegati ai quotidiani e, pur
rappresentando ancora una quota trascurabile, anche la Rete, con le sue aperture
verso il commercio elettronico.
Ma la novità più degna di studio e riflessione riguarda proprio il fenomeno “edicola”:
per molti è stato quasi uno choc prendere atto della fortuna dei libri abbinati ai
periodici e ai quotidiani, che peraltro è riuscita a incrementare in modo significativo i
15 milioni di acquirenti tradizionali: dunque le cosiddette “vendite collaterali”
portano ai principali gruppi editoriali fatturati impressionanti.
Il matrimonio fra quotidiano e libro appare come un'operazione strabiliante di
promozione, di marketing sociale, una sorta di invito alla lettura fondato sulla
distribuzione a prezzi convenienti, sull'elevata qualità editoriale e sulla comodità del
punto vendita.
Fino alla metà degli anni '90 la produzione di libri si manteneva su una linea di
coerenza rispetto agli standard produttivi e distributivi degli anni '80, mentre il
periodo attuale è segnato da un'accresciuta competitività che si indirizza non più
unicamente all'interno del mercato librario, ma anche all'esterno, verso altri soggetti.
La casa editrice non è più solo un'azienda che pubblica libri o riviste, ma un'impresa
che tratta contenuti e informazioni potenzialmente in grado di assumere formati
distributivi molteplici (libro, CD-ROM, rivista, seminario, banca dati, contenuto
online): l'adattamento alle nuove logiche di produzione è fondamentale per seguire
segmenti di mercato all'avanguardia e per incalzare il cambiamento e la
modernizzazione della società italiana in generale.
3.2 Tra vecchi e nuovi media: il tempo della conciliazione
Alla fine degli anni '90 questa ondata di multimedialità si sposta prevedibilmente sul
fronte delle nuove tecnologie; non sempre però l'incremento nella dotazione
tecnologica innovativa si configura come il risultato di un'effettiva crescita di
competenze multimediali nella famiglia, infatti se segnalano molte situazioni in cui
una vasta dotazione tecnologica audio-video e di comfort elettronico si accompagna
ad una limitata presenza e/o utilizzo degli apparati.

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Alle 3 categorie di utilizzatori che ricorrono alla strumentazione tecnologica come
forma di piacere (pionieri fra i 7 e i 14 anni), di miglioramento oggettivo di qualità
della vita (tecnopragmatici 20%) e di conciliazione fra la fruizione passiva e la
propensione empirica alla sperimentazione delle novità tecnologiche (tecnoludens
20%) si aggiungono altri gruppi tipologici caratterizzati da una minore familiarità con
le tecnologie:
• Tecnovidens (18 % fra 14-74 anni): sono dotati di competenze di fruizione solo
per motivazioni di integrazione sociale e di conformismo agli ambienti che
frequentano, con un atteggiamento sostanzialmente passivo nei confronti delle
tecnologie
• Tecnobasici (19%): sono sostanzialmente volti ad adottare le dotazioni
tecnologiche di base per supportare stili di vita fondati sulla partecipazione e
sulla responsabilità sociale
• Esclusi e spaventati (16%): sono contraddistinti da una condizione di difficoltà
di accesso legata a ragioni di scolarità e di reddito, ma anche al timore e alla
tendenziale percezione di inadeguatezza generazionale
I luoghi tradizionalmente deputati alla trasmissione di contenuti culturali (libri,
enciclopedie, musei, gallerie, spazi classici dello spettacolo) vengono gradualmente
sostituiti dalle possibilità che le nuove tecnologie informatiche e telematiche mettono
a disposizione dell'utente: è ormai in atto una profonda ristrutturazione della mappa
dell'offerta e soprattutto dei meccanismi di consumo, dal momento che l'innovazione
tecnologica rafforza la tendenza alla personalizzazione e alla delocalizzazione della
fruizione culturale.
Gli ultimi anni attestano la nascita e la rapida affermazione di nuovi canali
dell'informazione e della cultura, dalla free press alla vendita di libri allegati ai
quotidiani e all'apertura di testate online, segnalando così una rinnovata capacità
dell'editoria quotidiana e periodica italiana di adattarsi a una società che cambia,
praticando strategie di marketing innovative e sperimentando formule inedite volte
alla modernizzazione dei prodotti.
I dati parlano chiaro: secondo l'ISTAT l'uso del computer in casa alimenterebbe una
maggiore predisposizione alla lettura, esercitando un effetto moltiplicatore valido
per diverse tipologie di pubblicazione.
3.3 Fuori dalle mura domestiche: i consumi outdoor
Le spie del cambiamento, annunciate soprattutto dall'indebolimento dell'emisfero
televisivo degli ultimi anni, sono state accompagnate da segnali di crescita proprio tra
quei consumi culturali per cui è richiesta un'elevata qualità e competenza di scelta: la
stessa routine quotidiana risulta scandita non più solo dai tempi dei media, ma anche
da una pluralità di interessi e attività che definiscono i ritmi di un nuovo tempo di
vita.
I dati parlano chiaro: ad esempio fra il 1995 e il 2001 sono aumentate le preferenze
degli italiani per il teatro, per il cinema, da sempre fisiologicamente in crisi, per i
musei e le mostre, per i concerti di musica classica; un ultimo dato interessate
riguarda le visite a siti archeologici e monumenti, uno dei settori considerati molto
elitari, che aumentando in solo 4 anni attestano chiaramente la volontà di una più
consapevole partecipazione degli italiani alla propria identità culturale.

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La considerazione più interessante legata ai dati appena presentati riguarda senza
dubbio la coerenza dell'incremento registrato da tutte le attività culturali dal vivo
e outdoor; osservando questi dati per generazioni, vediamo che per teatri, musei e
mostre ci sono in primo piano i ragazzi fra gli 11 e i 19 anni, il cinema trova riscontro
soprattutto fra i giovani fra i 15 e i 24 anni, i concerti vengono privilegiati dalla fascia
fra i 18 e i 24 anni, gli spettacoli sportivi vengono privilegiati dalla fascia dei giovani
fra i 15 e i 19 anni e infine le discoteche rappresentano l'intrattenimento preferito dai
giovani fra i 18 e i 24 anni.
I dati territoriali confermano il divario fra il centro-nord e il mezzogiorno: tuttavia nel
2002 i tassi di fruizione nel sud risultano in aumento per alcune tipologie di
spettacolo, in particolare il cinema, e più lentamente i concerti di musica leggera.
Occorre sottolineare una rinnovata capacità di attrazione del cinema italiano
nell'ultimo decennio del '900: la pervasività dello schermo domestico negli anni '90,
giocata attraverso un'offerta di film che ammontava a 900 ore mensili, fra reti
generaliste e a pagamento, fra canali digitali e a pagamento, ha rappresentato da una
parte una risorsa per il cinema, letta in termini di stimolo e motivazione alla visione
di spettacoli cinematografici, e dall'altra ha messo in risalto un'ulteriore esplorazione
culturale e comunicativa.
La nuova identità del cinema può infatti essere garantita esclusivamente dalla
valorizzazione di ciò che rende questo consumo culturale veramente diverso dalla
TV: non i contenuti dunque, né i soli formati espressivi, ma la modalità stessa di
fruizione; infatti si enfatizza l'importanza dello spazio in cui si mette in scena l'atto di
consumo, ovvero la sala.
In questa prospettiva il cinema riacquista sempre di più la valenza sociale del luogo
di incontro, favorito da ambienti accoglienti e confortevoli dotati di bar, piccole
librerie e in alcuni casi inseriti in grandi complessi commerciali, dove il multiplex
stesso diventa la vetrina di un'offerta allargata.
Spostando l'attenzione sui consumi culturali dal vivo, e4 in particolare sullo sport,
possiamo affermare attraverso i dati dei primi anni del millennio che all'occasionalità
dell'attività sportiva corrisponde una decisa propensione verso lo sport passivo.
3.4 Architetture culturali e scenari di partecipazione: la struttura
piramidale dei consumi
Gli anni '90 segnano nel loro insieme una progressiva sottrazione si soggetti alla sfera
della non partecipazione culturale, condizione che come abbiamo visto è stata spesso
imputabile a divaricazioni di censo e di classe: ora gli attori sociali appaiono più
autonomi rispetto ai condizionamenti socioeconomici e il sistema dei media si
configura come un ambiente immersivo all'interno del quale il consumatore si muove
liberamente, e costruendo la propria dieta multimediale tende a privilegiare alcuni
generi e contenuti mediali rispondenti a particolari motivazioni o attese.
Il ritratto degli italiani può essere tratteggiato come una piramide dei consumi
culturali:
1) ESCLUSI: sono quei soggetti che il CENSIS definisce “i poveri di media alla
periferia dell'impero mediatico”: si tratta tendenzialmente di donne anziane,
con nessun titolo di studio o con licenza elementare, soprattutto residenti al
sud, che stabiliscono un rapporto univoco con la sola televisione, cui affidano

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la soddisfazione di qualsiasi bisogno di informazione, evasione e socialità
2) PARTECIPAZIONE VICARIA: sono quei soggetti che continuano a mantenere
un rapporto privilegiato con la TV, al punto da essere definiti “la classe media
radiotelevisiva” pur abbinando al consumo della TV il consumo di altri media
come radio e quotidiani (in prevalenza donne con licenza media e occupate), o
di radio, libri e quotidiani (in prevalenza donne più giovani con un titolo di
studio medio superiore)
3) INNOVAZIONE SOCIALE E IMMERSIONE IN TUTTE LE CHANCES
DELLA MODERNITÀ: sono i soggetti della “futura classe dirigente, giovane
e onnivora di media”, costituiti prevalentemente da uomini, giovani adulti (fino
a 44 anni d'età) con diploma medio-superiore o laurea: il consumo culturale si
apre alle nuove tecnologie che trovano posto accanto ai media più tradizionali
4) EXPERTISE: sono i soggetti della “nicchia degli esperti, i pionieri dei new
media”, di cui fanno parte le classi più giovani dai 18 ai 29 anni, ovvero quei
soggetti allevati dalle TV commerciali e precocemente alfabetizzati ai media
elettronici, che si muovono con grande disinvoltura e autonomia comunicativa
nei territori della multimedialità
Quest'ultima tipologia può approdare ad opzioni divergenti: da un lato una radicale
esplorazione delle tecnologie e delle Reti, e dall'altro il fenomeno
dell'autoemarginazione, ovvero una società in cui si comunica molto ma ci si
incontra poco; il tempo libero consente di riappropiarsi di spazi per sé per evadere
dalla routine, da dedicare ai proprio hobby e interessi a fronte di un panorama in
costante crescita.
3.5 Esperienze di cambiamento nei consumi culturali
L'immobilismo e la dipendenza che hanno caratterizzato per decenni gli scenari della
comunicazione nel nostro paese sembrano sempre più sostituiti da forme di
“insurrezione” nelle identità e negli stili culturali: tutto muta velocemente, e come in
uno spettacolo teatrale si avvicendano la scena e il retroscena.
I cambiamenti intensi e veloci che investono la società emergono con chiarezza dalla
lettura dei trend, e gli stessi “numeri” della società italiana, testimoniando quanto
piccoli mutamenti possano segnalare l'arrivo delle grandi scosse, assumono un
considerevole valore descrittivo e anticipatorio.
Si è già dimostrato come negli ultimi anni il rapporto biunivoco e fiduciario tra
televisione e società italiana e sistema di attese del pubblico inizia a venire meno,
lasciando spazio ad una serie di rivoluzioni della/nella comunicazione.
Un ruolo interessante in questo processo è giocato dal medium più sintomatico per
l'evoluzione del contesto italiano: il telefono cellulare.
Ad una prima e superficiale lettura sembrerebbe una predisposizione tutta italiana alla
comunicazione verbale e persino alla chiacchiera, ma a guardare dentro i dati salta
fuori che la realtà è ben diversa, infatti più di 5 milioni di italiani fruiscono di servizi
informativi tramite il cellulare, e dunque unificando la necessità di comunicazione
interpersonale, la scrittura (con gli SMS) e ultimamente l'immagine, il cellulare
diventa il mezzo di comunicazione di facile impiego che fa da “maestro” sia per
l'apprendimento dell'uso sia per il superamento del timore nei confronti delle nuove
tecnologie; il consumo culturale tradizionalmente legato a media classici come la

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televisione, il giornale, la radio inizia a spostarsi sui cosiddetti mezzi mobili, più
flessibili e meno vincolanti, soprattutto in termini di spazialità.
A questi fenomeni che investono la fruizione si accompagna una rilevante riduzione
della fedeltà nei confronti dei media tradizionali, con una tendenziale
diversificazione della dieta mediale, ma anche un atteggiamento esplorativo delle
potenzialità delle tecnologie, generando di conseguenza un'evidente diminuzione
delle aree sociali di passività; pertanto la televisione, il medium tradizionalmente
considerato “di famiglia”, inizia a dividersi gli spazi vitali con le nuove tecnologie,
sempre più determinanti nella definizione degli stili di vita.
L'acquisizione e l'utilizzo di nuove tecnologie da parte della famiglia risponde a
esigenze diverse rispetto a quelle che hanno governato l'ingresso nelle case degli
italiani delle tradizionali dotazioni tecnologiche della casa: l'interesse per le nuove
tecnologie è sempre più legato a fattori soggettivi, alla presenza in famiglia di figli in
età scolastica, e soprattutto all'affermazione di nuovi stili di vita (es. attività di
telelavoro, cambiamenti nelle abitudini di intrattenimento).
Bisogna innanzitutto ricordare l'importanza della ricerca sul tempo libero, con le
sue trasversalità e centralità nella vita quotidiana, anche con la multidimensionalità
dei suoi contenuti: un tempo libero che supera l'accezione di evasione, di esclusiva
fuga dal lavoro, identificandosi con una mappa sempre più ricca di energie e di
risorse individuali investite in consumi culturali, nei viaggi, in un tendenziale
recupero dell'equilibrio del soggetto umano.
In questo contesto i giovani rappresentano i principali drivers del cambiamento nelle
società contemporanee, in grado di giocare un ruolo decisivo nell'esplorazione, nella
definizione e nell'ampliamento dei consumi del tempo libero dentro e fuori i
media: è in buona parte nel mondo giovanile che prendono forma e si sedimentano le
nuove tendenze ad estendersi alla famiglia, alle generazioni adulte, all'intera società.
3.6 Il mondo del digitale: realtà e rappresentazione sociale
Si ragiona sul digitale come fenomeno che stressa le mode, come stimolo, ma anche
come risposta alle logiche di un mercato in incessante movimento: un'interpretazione
ottimistica vede il potere di accelerazione che la nuova tecnologia possiede, la
capacità di innovazione e la costruzione di un nuovo habitus culturale e tecnologico
della società italiana.
L'inedita affermazione di una fruizione culturale più personalizzata a partire
dall'ultimo decennio si registra dal passaggio dalla ritualità della fruizione
televisiva tradizionale che induce un atteggiamento di inerzia e avvitamento su
un unico mezzo di comunicazione verso una più veloce accettazione
dell'innovazione tecnologica, dovuta essenzialmente all'ampliamento del
palinsesto delle tecnologie.
Il digitale si prefigura come linguaggio più sofisticato e moderno, capace di
soddisfare la complessità di interessi e di forme espressive che i soggetti moderni
richiedono: esso costituisce addirittura nuove forme di relazionalità e razionalità
umana, fondate soprattutto sull'integrazione tra i linguaggi.
3.6.2 IL DIGITALE TRA “NUOVISMO” E CAMBIAMENTO REALE
La chiave interpretativa deve essere la gestione del mutamento sociale attraverso
l'alfabetizzazione digitale, capace di superare le posizioni estreme (entusiasmo e

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celebrazione da un lato, preoccupazione e timore dall'altro) interpretando
l'innovazione tecnologica come un'opportunità di crescita della persona, simile
all'acquisizione delle capacità essenziali di leggere e scrivere.
Una sorta di decalogo che delinea ottimisticamente le sue principali prerogative
sintetizza che la tecnologia digitale:
1) induce all'innovazione tutte le tecnologie comunicative
2) non implica il rischio di regressione
3) facilita la convergenza e l'integrazione di territori del sapere e di luoghi di
espressione diversi
4) velocizza il cambiamento sociale
5) induce una velocizzazione dei processi di conoscenza
6) genera innovazione di prodotto e di consumo
7) non è strettamente dipendente dalla formazione
8) provoca ibridazione di tutte le figure professionali
9) garantisce possibilità più immediate di convalida dei singoli prodotti
10) assicura un'ampia apertura socioculturale
3.6.3 LA TV CHE VERRÀ
L'affermazione della televisione satellitare in Europa, in una prospettiva ottimistica,
potrebbe aprire alle agenzie di pubblicità la possibilità di sperimentare quelle nuove
forme di comunicazione commerciale mirate a specifici segmenti di pubblico, senza
per questo dover rinunciare alla pianificazione tabellare classica, senza parlare
dell'apertura all'interattività, l'elemento più declamato dalla retorica del digitale
terrestre.
La tecnologia digitale, sperimentata inizialmente attraverso i satelliti e il cavo, ha
permesso la diffusione di moltissimi canali, ma non è detto che la moltiplicazione di
questi ultimi si rifletta nel panorama del consumo dei media come una grande
rivoluzione rispetto alle forme e alle abitudini di fruizione precedentemente
affermate: infatti il modello previsto è quello del simulcast, cioè l'integrazione
attraverso l'ibridazione dei 2 modelli all'interno di un'unica offerta, TV generalista e
canali tematici, arricchiti da semplici applicazioni interattive.
La TV digitale terrestre appare in grado di fornire a quella parte della platea televisiva
che non ha ancora accesso a tali servizi un prodotto forse più “attraente”, meno
costoso e più rispettoso delle abitudini e dei modi di consumo del mezzo.
PARTE SECONDA
CAPITOLO 4: INTELLETTUALI E INDUSTRIA CULTURALE
4.1 L'industria e la cultura
4.1.1 PUNTI DI RIFERIMENTO
Karl Marx, introduzione a “Per la critica dell'economia politica” (1857):
nell'usare un oggetto e dunque, nella società industriale, una merce, l'individuo
dandogli vita vi aggiunge qualcosa in più, mettendolo in opera ne arricchisce
personalmente il senso, lo interpreta.
Dall'analisi marxiana della produzione già emerge con chiarezza il ruolo centrale del
consumo produttivo: l'oggetto accende il bisogno dell'utente, e il desiderio di
quest'ultimo accende l'oggetto.
Il rapporto che qui si instaura tra intelletto e industria è già di per se stesso culturale,

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antropologicamente e socialmente culturale, è cioè un rapporto che riguarda la
generalità delle attività umane di produzione e consumo dei beni, la loro sensibilità e
intelligenza: questa lettura marxiana verrà assorbita e valorizzata dall'Art Nouveau,
fondamentale per la nascita dell'industria culturale novecentesca, per la sua
estetizzazione delle merci che venendo estesa a tutto il pubblico dei consumatori e
non solo al pubblico delle arti e della cultura, diventa il motore della civiltà dei
consumi.
Sigmund Freud, “L'interpretazione dei sogni” (1899): già la fine del '700 e tutto
l'800 erano stati attraversati da continue linee di fuga verso l'immateriale e il
fantasmatico, e a ciò avevano contribuito il nesmerismo, lo spazio luminescente delle
metropoli, delle Esposizioni universali e delle vetrine, la fotografia, il grande
schermo cinematografico.
Freud fa emergere con il proprio progetto terapeutico forme di vita che appartengono
ad un tempo e a uno spazio non più segnati dalla linearità del progresso moderno e
dalle mappe sociali dello sviluppo industriale: di fronte ai suoi sogni l'individuo si
trova a vivere un'esperienza che è di tutti e di sempre.
Anche in questo caso si tratta di un'attività mentale intimamente all'attività corporea
che la sostiene (come per il consumatore di Marx), e la produzione di senso messa in
opera dallo spettatore appartiene ad un lavoro intellettuale che si estende a tutti i
consumatori e a tutti i produttori.
Balla, Marinetti, Boccioni e altri, “Manifesto dei pittori futuristi” (1910):
l'automobile funziona da motore di un intenso processo di integrazione fra industria
pesante e industria della vita quotidiana, della comunicazione, del tempo libero e
degli stili di vita: automobile e cinema dunque nascono insieme, generati dal corpo
delle metropoli.
Grazie al futurismo l'Italia ha espresso l'unico suo apice di rilevanza internazionale
dopo il '700, e questo avviene perchè la natura esasperatamente antiletteraria delle
avanguardie storiche fu in grado di predisporre un rapporto tra intellettuale e industria
culturale un rapporto fra intellettuale e industria culturale di tipo aggressivo e non
difensivo, affermativo e non negativo.
Marcel Duchamp, “Se stesso”: anche se, come si è visto in Marx e Freud, il
rapporto tra l'individuo e i prodotti culturali disponibili sul mercato può essere inteso
come relazione che riguarda la generalità dei soggetti e la generalità degli oggetti in
un determinato contesto sociale, solo alcune fasce hanno la proprietà dei mezzi
necessari a esprimere la qualità di tale rapporto, emancipandosi dalla sua esperienza
diretta e istintiva. Per oggettivare questa qualità e darle un valore bisogna rielaborare
la natura dei rapporti umani secondo un punto di vista e una gerarchia sociale, e per
fare ciò non basta saper leggere ed essere parte dei consumi, ma bisogna disporre dei
saperi della scrittura.
Anche Marx, Freud e Duchamp sono stati scrittori, ma non si sono distaccati
dall'oggetto della loro riflessione, dal mondo che agiscono e che pensano, dal mondo
che li consuma e li produce: il primo ragiona dentro il modo il produzione e consumo
della realtà sociale, il secondo dentro il modo di produzione dell'inconscio, il terzo
dentro l'evento stesso della produzione di senso.
La loro teoria li include nell'esperienza che descrivono, e sono il segno di un rapporto

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ancora pienamente organico tra intellettuale e processo di modernizzazione, tra
innovazione e società.
Adorno e Horkheimer. “Dialettica dell'illuminismo” (1947): il termine “industria
culturale” nasce e si diffonde nel segno dell'analisi adorniana della cultura di massa
americana: a differenza di Benjamin, che usa il pensiero di Marx in modo politico
(trasgressivo, innovativo) e non strumentale (autoprotettivo, conservatore) come i
francofortesi, Adorno formula una teoria dell'industria culturale che ha al suo centro
proprio la scelta paradigmatica di un rapporto critico negativo tra l'intellettuale e la
mercificazione dei linguaggi espressivi operata dal cinema e dalla TV.
Il saggio di Adorno e Horkheimer ha fatto da matrice per tutte le teorie critiche in cui
il capitale culturale dei ceti intellettuali si è strategicamente o tatticamente
contrapposto al capitale culturale in gioco nelle forme estetiche della società di
massa; l'influenza dei francofortesi in Italia è stata notevole, tanto almeno da
condizionare la lettura di Benjamin, travisarla e renderla superficiale.
4.1.2 L'INDUSTRIA CULTURALE
Il grado di integrazione socioeconomica ed espressiva che distingue i regimi
dell'industria culturale varia nel tempo e nello spazio: il più evoluto, quello
americano, raggiunge i suoi standard planetari attraverso il progressivo assorbimento
dei sistemi culturali europei, sino ad includere nelle sue strategie di mercato anche le
differenze dei contesti locali delle industrie culturali nazionali, mentre queste a loro
volta sono state sempre più costrette a integrarsi o quantomeno a misurarsi con i
modelli egemoni dei prodotti di consumo americani dagli anni '50 in poi.
In questi processi di sviluppo il ruolo degli scrittori e degli artisti è stato
fondamentale, assicurando innovazione di prodotto e di creatività alle dinamiche
industriali, alla progressiva trasformazione del lavoro concreto in lavoro astratto e
collettivo.
Ma quando i modi di produzione e di consumo degli apparati televisivi hanno
cominciato ad assorbire e ristrutturare in se stessi tutti i linguaggi storici dell'industria
culturale, portandola agli standard diffusivi di una comunicazione per flusso sempre
più integrata alla vita quotidiana, il centro del sistema è passato a forme di lavoro
intellettuale che tengono sempre più ai margini le figure professionali e “politiche”
delle tradizioni letterarie e artistiche.
Tuttavia a tali figure, per quanto espulse dai luoghi della produzione e del marketing,
il sistema continua ad assegnare ruoli di manovalanza intellettuale o legittimazione o
rappresentanza o ricerca e sperimentazione a basso costo.
Per molti aspetti mass media o cultura di massa o consumi diffusi o televisione sono
diventati sinonimi di industria culturale: gli ambiti valorizzati come “vita quotidiana”
e “oggetti di consumo” finiscono per coincidere con i contesti esponenziali
dell'industria culturale.
Questa dimensione onnicomprensiva dell'industria culturale si rivela come limite
massimo della sua potenza della sua potenza storica e al tempo stesso suo punto d
catastrofe e destrutturazione; l'evoluzione multimediale e interattiva dei new media
presuppone un'implosione dei modelli e delle pratiche dell'industria culturale
tardomoderna e postmoderna, ma anche un'esplosione irraggiante del suo patrimonio
formale e sociale: le componenti fondamentali degli apparati della cultura di massa,

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venendo meno i regimi coesivi dell'industria culturale tradizionale non si ritirano in
sé, ma si offrono alle potenzialità di nuovi sistemi, decentrati e trasversali.
L'intelligenza collettiva delle reti sembra offrire una soluzione operativa, politica,
proprio a quei soggetti emergenti che intendano finalmente disgregare le “macchina
culturali” dei regimi industriali classici, la loro rigidità sociale ed espressiva.
Nel nuovo “sentire” dei mondi cibernetici, la tradizione moderna del rapporto fra
intellettuale e industria culturale dovrebbe allora estinguersi, lasciando evaporare le
tradizionali marche di distinzione tra istituzioni culturali e vita quotidiana.
4.1.3 L'INTELLETTUALE
Il termine “industria culturale” emerge negli anni '50, e dunque all'inizio di un nuovo
ciclo dei mercati culturali di massa, quando lo sviluppo moderno ha ormai
solidificato i processi di divisione e specializzazione del lavoro dell'intellettuale in
vere e proprie mappe istituzionali, organizzative e professionali.
Il legame da individuare è dunque quello tra industria culturale e le figure che più
avrebbero dovuto e ancora dovrebbero sapere interpretarne le forme e i contenuti,
dunque l'uomo di cultura e, a partire dagli anni '30, l'intellettuale, la cui
configurazione sociale assume in quegli anni il carattere di ceto colto che non si sente
più protagonista della storia, ma o fiancheggiatore e professionista o salariato o al
massimo testimone.
Salvo alcune grandi eccezioni, come ad esempio McLuhan e Fiedler, va detto che di
recente gli accademici americani, allargando le proprie letture ad autori come
Benjamin, Foucault e Laean, hanno assunto una veste simile a quella dell'intellettuale
europeo, assorbendone alcune implicazioni ideologiche: la separatezza culturale del
sistema, insieme alla vocazione critica.
Più complesso un quadro di sintesi quando come nel caso italiano ad una tipologia
intellettuale particolarmente resistente alla modernizzazione corrispondono modelli
nazionali di industria culturale deboli e a basso grado di integrazione locale e globale.
4.1.4 INTELLETTUALE VERSUS INDUSTRIA CULTURALE
Usando il termine “intellettuale” già pratichiamo un taglio convenzionale prevalso
nel senso comune: non pensiamo al lavoro professionale ad esempio del medico o del
giudice, ma pensiamo a un lavoro intellettuale che si esprime in sanzioni e sentenze, a
una produzione e trasmissione di conoscenze che hanno statuto di verità, e pensiamo
dunque a un pensiero critico che gode di grande consenso.
Si tratta di personaggi a cui l'opinione pubblica attribuisce il ruolo di testimoni e
controllori della società civile, che possono parlare a nome del Principe o contro la
sua volontà.
Nel caso specifico, il ruolo arbitrale degli intellettuali sulle forme dell'industria
culturale funziona grazie a una spaziatura istituzionale e a 2 spazi mediatici: la
stampa e la TV, per più aspetti simili ma di diverso grado espressivo.
Per quanto riguarda la TV, la comunità dei mediologi e dei comunicazionisti in Italia
ha mostrato tanto una scarsa visibilità accademica quanto una forte ininfluenza
sociale, anche per responsabilità dell'assai debole e incoerente sistema italiano di
relazioni tra ricerca scientifica e apparati pubblici o privati.
Per quanto riguarda lo spazio della stampa, tranne casi rari, non è stata la comunità
dei competenti in comunicazione di massa a determinare l'immagine pubblica del

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rapporto tra intellettuale e industria culturale, quanto piuttosto la comunità dei
letterati, del giornalismo culturale e dei critici di professione, dunque ceti e gruppi
appartenenti ai saperi, valori e interessi della scrittura: in Italia è la pubblicità
televisiva a far sopravvivere la stampa, e dunque è la ricchezza dei consumi a fornire
mezzi di espressione alle culture scritte.
La ricorrenza di articoli, servizi, interventi e dibattiti con cui le pagine culturali dei
quotidiani e dei settimanali aggrediscono le forme di produzione e consumo dei
programmi televisivi mostra la natura di classe del conflitto fra intellettuale e
industria dei consumi: contro le forme di lavoro mercificato e serializzato dei mass
media si sollevano i testimoni e controllori che appartengono alle culture
professionali e politiche della tradizione.
4.1.5 I 4 LIVELLI DEL RAPPORTO INTELLETTUALI –
INDUSTRIA CULTURALE
Nel rapporto si possono distinguere almeno 4 livelli:
1) Livello gestito dai gruppi intellettuali, che giudicano e sanzionano i prodotti
dell'industria culturale: soprattutto in Italia prevalgono posizioni che tendono a
mortificare o rimuovere le funzioni dell'industria culturale
2) Livello dell'area di lavoro intellettuale impegnato negli apparati di
produzione e distribuzione dell'industria culturale; i settori trainanti dei
consumi di massa impongono una forte modificazione del lavoro intellettuale
di stampo umanistico e letterario. I punti di crisi dei mercati culturali sono
dunque assai spesso determinati dalla rigidità delle pratiche e dei modelli
incarnati nelle professioni tradizionali del lavoro intellettuale. La frizione tra
lavoro intellettuale e routine produttive è la causa della diversa qualità
espressiva che separa tra loro le forme testuali della letteratura popolare, dello
spettacolo, del giornalismo, della fiction cinematografica, del fumetto, della
serialità televisiva, dell'intrattenimento, della pubblicità, della moda: a quello
di intellettuale si è ora sostituito da tempo il requisito positivo e anzi
irrinunciabile di “creativo”
3) Livello dell'area del consumo produttivo, virtualmente estesa alla totalità di
quasi tutti i consumatori, ma questo livello è assai meno leggibile dei 2
precedenti; lo sviluppo dei new media tende a far emergere il rapporto fra
consumatore e industria culturale fuori dai vincoli autoritari del rapporto fra
offerta culturale e intellettuali di regime e di professione. Ora la forma del
lavoro intellettuale che va realizzandosi attraverso le reti digitali si disincarna
dalle vecchie specializzazioni della cultura, si personalizza, si decentra e dilata
con il dilatarsi, le icone e i canoni dell'intellettuale restano sempre più vincolati
alla sua radice moderna.
4) In contesti realmente postmoderni l'identificazione di un attore sociale
definibile come intellettuale tende a evaporare: l'identità dell'intellettuale viene
assorbita dai vasti processi di disidentificazione messi in opera dal cyber-space,
che nella sua forma di intelligenza collettiva si annuncia come il futuro quarto
livello, globale e al tempo stesso locale, delle relazioni tra la persona e il
mondo delle sue stesse rappresentazioni.

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4.2 Da Gramsci a noi: geopolitica delle professioni
4.2.1 PUNTI DI RIFERIMENTO
Carcere di Turi e clinica Quisisana (1926-1935): segregato dal regime fascista,
Antonio Gramsci in alcuni dei suoi “Quaderni” affronta in modo esplicito il rapporto
tra intellettuali e industria editoriale (letteratura popolare e giornalismo), che
nell'Italia degli anni '20 e '30 costituiva ancora il cuore se non l'intero corpo
dell'industria culturale.
Gramsci non ha in tutto a che vedere con il neorealismo, e cioè con l'esperienza
nazionale che ha segnato in modo indelebile la qualità antimoderna del rapporto tra
intellettuali e industria culturale in Italia; il Gramsci populista che riflette sulla
filosofia, sulla pedagogia e sulla letteratura nazionale non è lo stesso Gramsci che con
precoce acume riflette sull'industria culturale internazionale.
Questo “secondo” Gramsci ha anticipato il punto di crisi delle poetiche neorealiste e
delle politiche culturali del movimento operaio italiano.
Non a caso tra i pochi intellettuali italiani che sono stati in grado di entrare in un
rapporto maturo con l'industria culturale ci sono Italo Calvino, autore rapidamente
sottrattosi alla fascinazione populista e resistenziale del neorealismo, e Pier Paolo
Pasolini che, pur venendo da una profonda assimilazione del Gramsci nazional-
popolare, è stato in autore che ha vissuto fino in fondo l'esperienza cinematografica
del montaggio non tanto o non solo sul versante della scrittura, del romanzo e della
sceneggiatura, bensì su quello dell'oralità, del faccia a faccia con lo spettatore.
Pochi hanno messo nel giusto rilievo il valore conflittuale che avrebbe potuto avere
nella società di massa la proposta di Gramsci: l'integrazione politica, formale e
professionale tra intellettuale e industria culturale: alla radice di questa scelta anti-
gramsciana vi è una forte manipolazione compiuta dal PCI nel fare un diverso ordine
alla stesura originaria dei “Quaderni” e ancor più nel programmarne l'uscita, e quando
negli anni '40 i neorealisti si serviranno del cinema non per incarnare i bisogni del
pubblico della ricostruzione (che era quello dell'industria culturale degli anni '30), ma
per affermare il loro primato letterario sulla società dello spettacolo, l'operazione sarà
legittimata nel nome di Gramsci. Ma i neorealisti ancora non lo avevano letto e
dunque avevano in comune con lui soltanto la stessa tradizione intellettuale che
legava il Gramsci letterato ai letterati che lo avrebbero letto e interpretato.
La consacrazione di questo uso del pensiero gramsciano in chiave anti-industriale
avviene negli anni '50, e gran parte della storia, del rapporto fra intellettuali e
industria culturale e delle conseguenti politiche della sinistra in campo editoriale,
cinematografico e televisivo è segnata da questo passaggio; anche fenomeni di
modernizzazione culturale come il Sessantotto e le Neoavanguardie restano
impigliate in un pregiudizio ideologico e premoderno sull'industria culturale e sui
mass media, e perchè avvenga qualcosa di nuovo bisogna attendere gli anni '70, in un
contesto di violenti conflitti socioculturali.
“Rinascita” (1946): Mario Alicata, letterato meridionale trasformatosi in quadro
dirigente del PCI, polemizza con “il Politecnico”, il cui pur timido tentativo di
modernizzazione del lavoro intellettuale e del suo rapporto con il mercato editoriale
aveva disturbato il populismo politico e letterario che animava l'ideologia dei
dirigenti comunisti.

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Questa scelta politico culturale è doppiamente strategica: all'interno del movimento
operaio funziona come difesa del primato intellettuale dei leader storici di fronte al
mutamento sociale determinato dai modelli di consumo emergenti; all'esterno
funziona come piattaforma rivendicativa in vista di un conflitto programmatico tra le
politiche popolari e l'industria culturale di massa, i suoi mercati, i suoi miti, le sue
identità e i suoi padroni.
Un postsessantottino come Veltroni ha ripreso lo spunto fondamentale di quella
doppia strategia quando, negli anni '90, ha programmato il proprio faccia a faccia
personale con Berlusconi: coprendosi le spalle di comunista dagli attacchi che
altrimenti gli sarebbero venuti dall'interno dell'apparato, ha assecondato ogni isteria
corporativa dei ceti intellettuali schierati contro la concorrenza che un TV sempre più
di mercato (emblematicamente quella di Berlusconi) andava facendo ai vecchi
soggetti e oggetti della cultura: editoria e cinema.
Al tempo stesso, Veltroni si propone come leader di un'industria culturale buona
invece che consumista, popolare invece che padronale, di vocazione pubblica se
non statalista invece che privata.
Il rapporto tra intellettuali e industria culturale subisce qui una più forte sterzata dal
piano estetico a quello più generale del rapporto fra culture stataliste e culture dei
consumi, tra istituzioni e mercato, tra welfare e liberismo.
I gruppi di opinione favorevoli a Berlusconi parlano in nome del consumatore, per
quanto rozzamente ricalcato sui neoproduttori dell'iniziativa privata (una “classe”di
imprenditori diffusi venuta dopo la “classe storica” delle grandi fabbriche come la
FIAT); al contrario quelli favorevoli ai partiti storici della Prima Repubblica parlano
in nome del cittadino, cioè del soggetto ancora incastrato negli interessi delle vecchie
forme di governo e nei suoi linguaggi espressivi.
Entrambi i fronti perdono il contatto con la massa degli elettori, che vive le sue
divisioni partitiche, il suo interesse o disinteresse per la res publica, comunque dentro
il complesso della TV generalista: Berlusconi non riesce a rispecchiare la propria
base elettorale, ma ne rappresenta soltanto la componente anti-istituzionale e la
vocazione negativa, mentre Veltroni non solo delude la componente storica della
propria base elettorale più irriducibilmente legata ai vecchi miti, ma non convince
neppure l'altra componente, quella anti-storica e spontaneamente consumista.
Pane amore e fantasia (1953): la breve stagione neorealista si conclude nel
neorealismo rosa e nella commedia all'italiana.
L'intellettuale di sinistra, dopo la sconfitta subita dai comunisti nel 1948, di fatto ha
lasciato il campo degli apparati del potere pubblico ai politici e ai professionisti
democristiani e cattolici: a loro il dominio sulle istituzioni culturali più tradizionaloi8,
ma anche sulla radiotelevisione.
All'intellettuale resta invece il libero mercato dei prodotti narrativi, dell'informazione
scritta e della fiction spettacolare: la stampa, l'editoria e il cinema.
È qui la matrice dello sviluppo della nostra industria culturale: forme di lavoro
intellettuale tendenzialmente emarginate dalle leve di comando del potere e
dell'economia (e perciò spesso ostili ai valori del mercato) partecipano ai processi
produttivi della cultura di massa in qualità di testimoni e al tempo stesso di subalterni,
di salariati, sceneggiando i bisogni espressivi del consumo, ma senza poter scrivere e

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dirigere la qualità generale del sistema.
Al contempo gli apparati pubblici e le centrali del potere governativo e
imprenditoriale che erano nate da una così profonda frattura nazionale non riescono a
disporre di proprie risorse culturali in grado di sostenere i processi di socializzazione
necessari allo sviluppo nazionale; per colmare questo vuoto il ricorso alle subculture
di sinistra diventa ben presto una prassi ricorrente, una vera e propria delega.
I settori in cui si manifesta questa progressiva apertura ad un lavoro intellettuale
socialmente impegnato e critico sono nell'industria del libro, nelle terze pagine dei
quotidiani, nel cinema e infine in modo più attento nella televisione pubblica; solo
più tardi, alla fine degli anni '80 e negli anni '90, le culture di regime e le culture
emergenti più schierate contro le lobby del cattocomunismo, cominceranno a
lamentare il dominio mediale della cultura di sinistra.
Berlusconi: il trauma politicoculturale del 1994: questo è l'anno in cui le elezioni
politiche sono vinte da Silvio Berlusconi, padrone della Fininvest e dunque del più
potente network privato, divenuto in soli 10 anni l'antagonista della RAI, sottraendole
il ruolo di unico motore televisivo del sistema dell'industria culturale italiana; figure
di partito tipicamente intellettuali come Occhetto e Veltroni vengono, anche se
provvisoriamente, sconfitte da un uomo del marketing.
Di fronte a Berlusconi la tradizione intellettuale antitelevisiva si acuisce, spesso
tornando a mettere in ombra quel poco di positivo che era riuscita a individuare nei
prodotti di massa dell'industria culturale: trova un facile alibi nel fatto che un
“padrone” molto più triviale dell'elegante modello offerto da Gianni Agnelli non solo
sia il proprietario di un network televisivo ma, in modo certamente anomalo si sia
messo anche a fare politica, a pretendere di governare e legiferare.
Nel tracciare il rapporto fra intellettuale e industria culturale bisogna centrare il
discorso prevalentemente sul rapporto fra intellettuali e TV: in Italia infatti non solo è
vero che i settori non televisivi dell'industria culturale sono assai meno strutturati e in
prevalenza sottodimensionati, ma è anche vero che questi settori sono poco in vista,
costituiscono dati disaggregati, venendo raramente concepiti come parti (si pensi
all'editoria stampata o al turismo o ai beni culturali o agli spettacoli dal vivo) del tutto
(magari includendovi discoteche, sport, giochi, collezionismo, bricolage ecc.).
La seconda ragione invece dipende dall'idea teorica che la TV in Italia rappresenti il
settore più forte di un'industria culturale disomogenea, ma in generale che essa
costituisca anche il modello di produzione e consumo dell'intero sistema, ne sia
l'esemplificazione e il palinsesto.
La storia della difficile assunzione del carattere dell'industria culturale da parte degli
intellettuali può essere tracciata in ondate:
1) quella in cui l'industria mediale impatta con la sostanza premoderna del
sistema Italia e tanto più del suo ceto intellettuale
2) quella in cui cominciano a verificarsi fenomeni di integrazione, seppure
tendenzialmente superficiale e sempre revocabile tra impegno intellettuale e
modernizzazione
3) quella in cui il rapporto fra tradizioni colte e industria culturale comincia a
essere vissuto nella destrutturazione postmoderna operata dai new media
sull'immaginario collettivo dei media della società moderna

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4.2.2 LA PRIMA ONDATA DEI MASS MEDIA
La qualità modernizzatrice della società industriale in cui l'Italia comincia a entrare
negli anni '50 e '60, con un “boom economico” che mette in primo piano la fabbrica,
la qualità della vita, ma anche i conflitti di classe, ha degli effetti sotterranei nella
qualità della scrittura: non a caso Alberto Moravia assunse la rubrica di critica
cinematografica sull”Espresso”.
È anche in queste riviste “omnibus” che l'industria della stampa recuperò molti dei
tratti di “mercato culturale” formulati dal giornalismo degli anni '30, dando luogo ad
una serie di grandi firme che, producendo la crescita della lettura, elaborano un
atteggiamento intellettuale e un'opinione d'élite tendenzialmente aperti nei confronti
dell'industrializzazione come segno di una modernizzazione che significa anche
arricchire, sprovincializzare e liberalizzare il paese e gli italiani.
Il primo impatto con l'avvento della TV mette alla prova il grado di modernizzazione
delle cultura italiana e, in questa, del ceto degli intellettuali di sinistra.
Prende corpo in quegli anni la tendenza degli uomini di cultura a caricare di
significati e simboli critici, quanto salvifici sul piano istituzionale, individuale e di
gruppo, i linguaggi espressivi precedenti alle forme estetiche di massa che, sempre
più tecnologiche e commerciali, si fanno avanti: dunque il teatro rispetto allo
sviluppo del cinema, il libro e il cinema rispetto allo sviluppo della TV.
Si può dire che è pur esistito un momento in cui una parte del ceto intellettuale, quella
meno politicizzata o militante ma più nobile sul piano letterario, è coesistita senza
troppi traumi o comunque silenziosamente dentro l'industria culturale dei media,
forse perchè ancora consapevole che quella fosse un'industria sostanzialmente diversa
da quella editoriale, forse per l'idea forte di un'unificazione culturale di tutti i
linguaggi espressivi, ivi compresi quelli radiofonici e televisivi, in una sola grande
istituzione nazionale.
Le cronache e le storie della RAI ci mostrano un quadro di intellettuali che ha
edificato la grandezza e poi l'effettiva miseria finale della TV pubblica, passaggi che
si sono intrecciati anche con la storia della TV privata.
Prima è stato il risultato di una felice ibridazione fra funzionari di Stato, quadri di
partito, manager e interpreti dei fenomeni culturali: un intellettuale “medio”, in cui
comunque alla carenza culturale potesse fare la contrappeso la capacità di governare
un lavoro di gruppo complesso e delicato sotto ogni profilo.
Poi, in ultimo, queste stesse qualità si sono rovesciate nel profondo danno dello
scellerato uso di una lottizzazione priva di una cultura professionale.
Di quella fase bisogna ricordare soprattutto un passaggio: l'ingresso fugace
nell'apparato radiotelevisivo di giovani intellettuali come Umberto Eco e Furio
Colombo che, invece di diventare dirigenti della costituente forza comunicativa della
nazione, preferirono prendere altre strade, meno innovative ma più consone alla
definizione e al ruolo di un intellettuale storico e dunque l'editoria e l'accademia.
4.2.3 L'INTEGRAZIONE APPARENTE
Da un certo punto di vista, i salti di qualità degli uomini di cultura e degli intellettuali
furono compiuti entro alcuni specifici confini estetici: nel campo delle arti è stato il
caso di Argan, che riuscì a entrare nell'allora proibito territorio delle avanguardie
storiche, oppure di Dorfles, che riuscì a cogliere il senso non necessariamente anti-

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estetico del processo di contaminazione industriale dell'arte.
Ma anche in casi di grande intelligenza come questi, il loro discorso non si spingeva
fino a trascinare di netto nel loro positivo quadro valutativo tutta l'esperienza
quotidiana dell'industria culturale e tantomeno la TV.
Va detto dunque che si trattò di integrazione mancata o difettosa ma anche apparente,
poiché quella generazione di intellettuali avrebbe revocato la sua pur tiepida
partecipazione; un'eccezione è rappresentata da Zolla, tra i più convinti assertori del
valore culturale dei linguaggi virtuali della cibernetica.
4.2.4 LA SECONDA ONDATA: ANNI '70 E '80
Le conseguenze di quella integrazione apparente sono state gravi: già con il '68
emergono le responsabilità di una cultura che non comprende i valori emancipativi
dell'industria culturale; oppure, per rispondere all'aggressività della contestazione
giovanile si sviluppa una versione colta della più rozza controcultura di base, che per
ovvi motivi attecchisce nei gruppi intellettuali della sinistra storica e non.
Si pensi alla guerriglia semiotica suggerita da Eco in chiave di educazione critica del
pubblico di massa, dei consumatori delle merci e dei testi dell'industria culturale.
Si tratta di anni comunque ricchissimi di esperienze, seppure drammatiche, in cui
l'innovazione si fa strada e anticipa il nostro presente pur restando legata ad
esperienze espressive locali: esperienze che si collegano alle avanguardie storiche ma
anche all'industria culturale americana e alle subculture dei conflitti metropolitani.
Nasce qualche rivista interessante, come “Analfabeta” (1979-88), orientata a
comprendere i mondi dell'immaginario collettivo prodotto dall'industria culturale.
Dagli anni '60 alla fine degli anni '80 si è andata sviluppando una progressiva
erosione delle agenzie di socializzazione classiche (patria, famiglia, chiesa, stato,
partiti, scuola), che culmina con la progressiva crisi delle ideologie.
In tutti questi anni una sola figura di letterato italiano riprende la professionalità
ancora ottocentesca di Moravia e la realizza con contenuti e forme
tardonovecentesche, tendenzialmente astratte o surreali: si tratta di Calvino, che
affianca al suo lavoro di scrittore una straordinaria capacità di saggista, tanto nel
riconoscimento della crisi dello statuto di autore nella società dell'informazione,
quanto nella descrizione di apparati narratologici complessi, ma dotati di una
leggerezza che, sul piano del mercato letterario, equivale a quella eccezionale
mappatura di figure e racconti che l'industria culturale è andata raffinando nel tempo
e nello spazio.
4.2.5 INTEGRAZIONE REALE: GLI ANNI '90
La spaccatura culturale del paese emersa nel 1994 ha messo in luce una
disomogeneità di lunga durata tra il tipo di rapporto degli intellettuali con l'industria
dei consumi e con la sua più grande messa in scena pubblica, quella della pubblicità.
Se è vero che non c'è nella nostra industria culturale il funzionamento globale delle
sue componenti, è sicuramente vero che una forte omogeneità si è creata nella vasta
piattaforma mediale che la comanda e la valuta: si pensi al ristagno di una
permanente classe dirigente culturale che circola di settore in settore, dall'editoria,
alla TV, al cinema.
In questa area si inserisce un tipo di giornalismo tra stupidità e menzogna, così come
un certo accademismo, in cui lo statuto del docente si presenta come delirio di

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potenza o reliquiario di inettitudine: in questo raggio vengono assorbite quelle figure
di intellettuali che hanno mostrato di capire la natura dei media sino in fondo e spesso
in modi geniali, come ad esempio Ferrara e Sgarbi.
Significativa la letteratura sulla crisi della democrazia e dei partiti, e ancor più la
recente ripresa degli studi sull'unità nazionale.
4.2.6 LA RIPRESA DEI NEW MEDIA
Se si esclude la piatta riproposizione delle culture antitecnologiche (con la
conseguente evocazione dei soliti rischi di alienazione, violenza, disgregazione
sociale, perdita dei valori ecc.) sono prevalsi certamente i paradigmi di quegli
intellettuali che vedono nei new media non tanto la punta di diamante di un attacco
frontale contro i linguaggi generalisti, ma piuttosto uno strumento assai utile per
riorganizzare la memoria e la scrittura o la ricerca.
4.3 Corpi e pensiero
Da Totò a Sordi, da Tognazzi a Fantozzi, da Troisi a Benigni: la presenza corporea
dell'attore comico si è imposta sulla testualità spaziotemporale del cinema, ma anche
i divi e i generi italiani hanno funzionato sempre in chiave comica, prevaricando con
la propria forza espressiva la debolezza delle strutture di produzione e di consumo
degli apparati audiovisivi.
Nel campo cinematografico il ciclo della “commedia all'italiana” ha dato il meglio di
sé nella congiunzione fra la bravura mimetica dei suoi attori e le battute dei suoi
dialoghi, a cui era affidata sia la riuscita psicologica ed emotiva dei personaggi, sia la
loro credibilità sociale presso il grande pubblico.
Anche i generi e le figure che hanno avuto più successo in TV ricalcano spesso
l'azione comica piuttosto che quella drammatica, le risorse del corpo piuttosto che
quelle dell'apparato.
La sovranità del comico nell'industria cinematografica e televisiva italiana dimostra
l'arretratezza storica del lavoro intellettuale degli apparati nell'operare interventi
produttivi dentro la testualità “non scritta” dei media e dei consumi: il personaggio o
l'evento compensano le carenze dell'imprenditoria cinematografica e della serialità
televisiva.
Le figure autoriali dell'intellettuale hanno ridotto a misura dei propri tradizionali
strumenti critici l'industria culturale, e dunque avendola resa oggetto di indagine
invece che di esperienza, hanno mancato l'occasione di riqualificare in direzione più
moderna tanto gli apparati dell'industria culturale quanto noi stessi.
Tuttavia ai margini di questo quadro si può trovare il filo rosso di alcune esperienze
estreme che sono le sole a uscire dai limiti endogeni della nostra industria culturale,
ovvero nei casi della sovranità dell'azione comica sull'azione drammatica, del corpo
dal vivo sul corpo deterritorializzato dallo schermo, del personaggio e dell'esperienza
familiare sul mito.
Si pensi ad esempio allo sguardo femminista con cui Michi Staderini (1998) ha
saputo leggere l'esperienza pornografica, fondamentale strato corporeo dei linguaggi
dell'industria culturale d'élite e di massa; a Carmelo Bene, corpo di artista che
rielabora i mondo dell'industria culturale facendosene trafiggere per distruggerlo in
frammenti della sua presenza carismatica; all'eccezionalità integrale di Oliviero
Toscani che, grazie alla fotografia, è riuscito recuperare la fragranza dell'evento

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comunicativo e a toccare l'esperienza vissuta dei corpi senza mediazioni culturali che
non siano quelle pure e semplici dell'ambiente, dei suoi soggetti e dei loro conflitti di
potere.
Questi esempi sono tra quelli che possono introdurci alle sensibilità anti-industriali e
anti-generaliste dei new media; se prima la sfera comica era quella in cui l'autore e il
pubblico si potevano ritrovare in un “clima” italiano di reciproca appartenenza, ora
oltre la linea di frattura dei linguaggi generalisti, del loro narcisismo e protagonismo
di massa, sono gli spettatori a volere assumere in proprio i corpi cinetelevisivi in cui
si sono proiettati.
La scena odierna delle dimensioni post-industriali, post-fordiste e post-moderne non
ci consente più di usare il termine “industria culturale” senza equivoci: ora questo
termine deve essere inteso in modo rovesciato rispetto alla sua tradizione (le culture
della produzione) e cioè come dimensione in cui la soggettività emergente è quella
della cultura antropologica dei consumatori e delle pratiche del consumo produttivo
consentite dal personal computer.
Il vecchio quadro di riferimenti, contenuti e definizioni risulta completamente
sconvolto dalle strategie di globalizzazione e di localizzazione che caratterizzano
l'uso strategico della cibernetica in ogni settore della vita sociale: si pensi alla sempre
più forte partecipazione dal basso con cui la telefonia mobile mostra in Italia uno
straordinario salto in avanti rispetto ai ritmi lenti con i quali assorbe le culture del
computer, in questa fase ancora incardinate in quelle della scrittura.
CAPITOLO 5: CLASSICI RESISTENTI AL TEMPO – IL DIBATTITO E
LE TEORIE SULL'INDUSTRIA CULTURALE
Generalmente parlando, si ritiene che esista un'industria culturale quando beni e
servizi culturali sono prodotti e riprodotti, immagazzinati e distribuiti con criteri
industriali e commerciali, cioè su larga scala e in conformità e strategie basate su
considerazioni economiche piuttosto che strategie concernenti lo sviluppo culturale.
Potremmo forse definire abbastanza semplicemente industrie culturali “quelle
industrie che producono beni culturali”, ma l'uso del singolare e dell'articolo
determinativo implica l'esistenza di un unico oggetto, che può essere indagato solo
come sistema.
Se allora la resistenza dell'aggettivo “culturale” nel descrivere le industrie
cinematografiche, musicali, editoriali, televisive, implica questioni critiche sia
intorno alle loro pratiche creative (il ciclo produttivo industriale deve incorporare
forti quote di lavoro creativo, individuale, complesso, se vuole assicurarsi le esigenze
di novità e di individualizzazione poste dal consumo, quindi convivono 2 forme di
lavoro, intellettuale e manuale, astratto e concreto) che ai loro effetti sociali
(“colonizzazione dell'anima” e “industrializzazione dello spirito”, in cui la tecnica e
l'organizzazione produttiva riguardano non soltanto il dominio dell'ambiente esterno,
ma anche l'interno dell'umano), la difficoltà ad includerlo effettivamente nella loro
definizione potrebbe risiedere nell'insufficienza degli strumenti di analisi, dei metodi
e della teorie fino ad oggi disponibili, nella settorialità delle discipline.
Nel caso invece si intenda parlare dell'industria culturale, si tratta allora di
“riconoscere” il suo carattere sistemico, organizzato: evidentemente in entrambi i casi
le nostre definizioni derivano in larga misura dagli strumenti d'analisi, dai metodi e

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dalle teorie storicamente applicati all'oggetto.
L'industria culturale è un fenomeno recente che va inquadrato nella società
occidentale e capitalistica e nei processi di industrializzazione, modernizzazione,
metropolizzazione, massificazione, espansione dei ceti medi, del mercato e
intensificazione del ritmo dell'innovazione tecnologica e di tecnologizzazione.
È l'orizzonte tratteggiato da Benjamin della Parigi del XIX secolo, in cui sistemi
urbanistici, economici, commerciali e culturali si integravano, sostenevano e
modellavano a vicenda: un sistema in cui è in atto quell'imponente processo di
estetizzazione della merce e mercificazione dell'arte, che è alla base delle forme più
piene dell'industria culturale.
Il primo uso sistematico e analitico del termine “industria culturale” può essere
rinvenuto nella critica della cultura di massa della Scuola di Francoforte: la
definizione viene usata per la prima volta da Adorno e Horkheimer in “Dialettica
dell'illuminismo” del 1947 in sostituzione di cultura di massa, per evitare che essa
venisse confusa con una “forma contemporanea di arte popolare”.
Il testo vede la luce nelle strettoie della delusione nei confronti dell'Unione Sovietica,
ha sullo sfondo un'Europa in cui il totalitarismo è in piena affermazione, si radica in
un periodo e in un contesto geografico in cui le prime manifestazioni massicce dei
media power coincidono con l'ascesa del capitalismo monopolistico.
Le posizioni dei francofortesi sono note: l'uso del termine “industria culturale”
implica che la critica marxista alla produzione di beni può essere applicata anche alla
produzione di beni simbolici, il cui valore d'uso è estetico, ludico e ideologico; al pari
delle altre industrie capitalistiche, quelle culturali utilizzano lavoro alienato,
perseguono il profitto, guardano alla tecnologia per provvedersi di un vantaggio
competitivo.
Il significato analitico del termine “industria culturale” descrive un sistema
produttivo in cui le forme culturali sono determinate dalla logica dell'accumulazione
del capitale e non da particolari decisioni creative o politiche prese da singoli artisti o
imprenditori: sono i modi di produzione a determinare il valore culturale.
5.1 Letture francofortesi
Innanzitutto l'industria culturale è un sistema in cui persiste un'unità di fondo, e il
sistema di industria culturale è un comparto di quello industriale: contenuti e
modalità singole non possono essere isolate dal funzionamento complessivo del
sistema industriale.
Il sistema di industria culturale è un sistema di un sistema, in cui i singoli elementi
sono in stretta relazione con il tutto, e il loro significato, le possibilità, il
funzionamento, la posizione nascono dalle relazioni e dai rapporti che intrattengono
tra loro nel sistema di industria culturale e con i sistemi industriale e sociale.
Il sistema di industria culturale è orientato alla promozione del consumo delle merci
(culturali e non) e il suo business primario è quello di produrre consumatori: la sua
legge impone di presentare al consumatore “tutti i bisogni come suscettibili di essere
soddisfatti dall'industria culturale, ma d'altra parte, di predisporre in anticipo quei
bisogni in modo che egli debba apprendersi in essi sempre e solo come un eterno
consumatore, come un oggetto dell'industria culturale”.
Il prodotto dell'industria culturale “finisce per coincidere, da ultimo, con la pubblicità

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di cui ha bisogno per compensare la propria incapacità di procurare un godimento
effettivo”: i prodotti dell'industria culturali non sono legati alla bontà delle merci
culturali che essa vende, quanto alla pubblicità delle merci che fa vendere, e più in
generale all'aumento dei consumi.
Horkheimer e Adorno affermano che “più le posizioni dell'industria culturali
diventano solide e inattaccabili, più essa può permettersi di procedere in modo brutale
e sommario coi bisogni del consumatore, di produrli, di controllarli, disciplinarli e di
ritirare persino il divertimento.
D'altro canto però sono costretti ad ammettere che la domanda non è ancora sostituita
dalla semplice obbedienza alle disposizioni provenienti dall'alto: la grande
riorganizzazione del cinema che ha avuto luogo alla vigilia della prima guerra
mondiale non è stata altro che un adattamento deliberato e conseguente ai bisogni del
pubblico registrati dagli introiti di cassa, bisogni che ai tempi dei pionieri dello
schermo non ci si immaginava nemmeno di dover prendere in considerazione.
Inoltre la Scuola di Francoforte ha posto questioni significative sia sulla qualità di
sistema dell'industria culturale sia sulla qualità dei prodotti in relazione al processo di
fruizione.
Per i francofortesi il ricercatore è sempre parte dell'oggetto sociale che intende
studiare e la sua percezione è necessariamente mediata dalle categorie sociali al di
sopra delle quali non può sollevarsi; la scuola di Francoforte, pur ritenendo necessaria
la ricerca empirica e anzi, affidandole una funzione correttiva nei confronti delle
categorie e delle teorie, ebbe sempre difficoltà nel praticarla, sia nell'ambito del
lavoro dell'Istituto sia nelle collaborazioni esterne dei suoi membri: i primi tentativi
di Adorno di inserirsi nella società e nella comunità scientifica americane sono
appunto nella ricerca empirica, nel progetto di ricerca sulla radio di Lazarsfeld.
Adorno formula ipotesi di ricerca che hanno al loro centro le trasformazioni
qualitative nella musica radiotrasmessa, la qualità dei fenomeni musicali radiofonici
come chiave della loro importanza sociale e la correlazione fra le modalità del
consumo, gli ascoltatori e “il carattere immaginifico della musica trasmessa per
radio”.
Quando Adorno scriverà “Tipi di comportamento musicale” delineerà 2 sistemi,
ovvero dell'offerta della musica in radio e del consumo radiofonico: essi si
determinano in maniera chiaramente antagonista, attraverso attrazioni e repulsioni,
scelte e rifiuti, adesioni e inadeguatezze.
5.2 Benjamin, Adorno e la promesse de bonheur del consumo
Un autore che intrattenne con l'Istituto rapporti non facili ma profondi è Waltern
Benjamin: egli afferma il potenziale liberatorio e rivoluzionario della riproducibilità
tecnica dell'arte, che permette di avvicinare l'arte a coloro i quali fino a quel momento
era stata negata.
La riproduzione può introdursi in situazioni che all'originale non sono accessibili,
grazie ad essa l'opera d'arte può andare incontro al fruitore: “la cattedrale abbandona
la sua ubicazione per essere accolta nello studio di un amatore d'arte, il coro che è
stato eseguito in un auditorio o all'aria aperta può essere ascoltato in una camera”.
La riproducibilità tecnica cambia tutta la fruizione dell'arte, che entra nel processo di
produzione, di scambio e di consumo, nel quale si può e si deve agire promuovendo il

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potenziale progressivo dell'arte politicizzata e collettivizzata.
Le caratteristiche che Benjamin attribuisce alla riproduzione tecnica sono varie:
innanzitutto non esiste un “originale” di una fotografia, perchè ogni riproduzione è
vera quanto un'altra; inoltre la riproduzione tecnica può rilevare aspetti dell'originale
che sono accessibili soltanto all'obiettivo che, al contrario dell'occhio, è in grado di
scegliere a piacimento il suo punto di vista, e si può avvalere di procedimenti come
l'ingrandimento e la ripresa al rallentatore, con i quali coglie immagini che si
sottraggono interamente all'ottica naturale.
Ciò che invece viene meno con la riproducibilità tecnica è l'aura, l'atmosfera unica
che circonda l'opera d'arte originale: essa è nel senso dell'hic et nunc e, nello stesso
tempo, di inavvicinabilità che fondano il valore unico dell'opera d'arte autentica.
L'aura si sprigiona dall'opera d'arte unica, autentica, integrata nella sua tradizione, ma
anche gli oggetti naturali hanno un'aura.
Le immagini riprodotte non subiscono soltanto la perdita dell'aura, ma esigono già la
ricezione in un senso determinato; ad esse viene apposta una segnaletica, “le direttive
che colui che osserva le immagini in un giornale illustrato si vede impartite attraverso
la didascalia diventeranno ben presto più precise e impellenti nel film, dove
l'interpretazione di ogni singola immagine appare prescritta dalla successione di tutte
quelle già trascorse”: la riproducibilità tecnica dialetticamente offre possibilità di
esperienza e la nega, affranca e asserve.
Quello che però ci sembra maggiormente importante è che nel pensiero di Benjamin
la messa in luce della rilevanza epocale della riproducibilità tecnica è unita alla
considerazione che l'avvento di tale riproducibilità era strettamente legato alle
caratteristiche, ai desideri, ai corpi (mani, occhi, parole) degli uomini: egli sembra
considerare l'innovazione tecnologica e il suo uso strettamente connessi con le
potenzialità del corpo umano (es. nella fotografia l'occhio è più rapido ad afferrare
che non la mano a disegnare).
Le opere dadaiste erano inutilizzabili come oggetti di rapimento contemplativo,
infatti i loro autori avevano iniziato con i mezzi della produzione quel processo di
annientamento dell'aura che si compirà con l'avvento della riproduzione: “il
Dadaismo cercava di ottenere con i mezzi tecnici della pittura o della letteratura
quegli effetti che oggi il pubblico cerca nel cinema”.
L'altro saggio di Benjamin che vale la pena citare è “L'autore come produttore”,
che invita a riflettere sulla posizione dell'opera e dell'autore nei rapporti di
produzione: la posizione dell'autore nei processi produttivi muta in relazione alla sua
capacità di comprendere il suo rapporto con i mezzi di produzione, di rielaborare e
ripensare il suo lavoro e la sua tecnica, e di intraprendere azioni miranti a sottrarli alla
classe dominante.
Opere e autori vanno considerati a partire da quanto e come essi abbiano contribuito
alla “produzione di altri produttori” e al mutare degli apparati: Benjamin considera
questi ultimi tanto migliori quanto più sono in grado di operare la “trasformazione di
lettori o spettatori in collaboratori”, processo che si svolge abitualmente all'interno
dell'industria culturale.
“L'impazienza del lettore”, che per Benjamin è quella dell'escluso che crede di aver
diritto a prendere la parola in difesa dei propri interessi, viene sfruttata dalle redazioni

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dedicando sempre nuove colonne alle sue domande, opinioni, proteste; e in verità il
lettore è sempre pronto a diventare scrittore, e cioè a descrivere o anche a prescrivere,
e la sua competenza gli consente di diventare autore, il giornale dunque ha avviato il
processo di presa di parola dei lettori.
Si precorreva e si preparava così quell'interattività, quella capacità di intervento del
consumatore messe oggi definitivamente in luce dalle innovazioni dell'elettronica,
dell'informazione, della telematica, che richiedono esplicitamente la cooperazione
dell'utente e gli permettono una reale interazione con la fonte: mutamento qualitativo
e non soltanto quantitativo dell'interazione che ha portato alla ribalta degli studi un
fenomeno che sembrava cancellato dall'unidirezionalità dei media storici.
Per l'Istituto, e specialmente per Adorno, l'arte è una promesse de bonheur,
l'espressione dell'interesse legittimo dell'uomo per la propria felicità futura; essa è
sempre in qualche modo negativa, critica verso lo stato di cose presente.
L'arte è una promessa di felicità che rimanda a un Altro, l'esigenza di felicità che
rivela e risveglia è un'esigenza critica nei confronti della società: nella cultura di
massa la promesse de bonheur, la prospettiva dell'Altro, è sistematicamente eliminata,
l'elemento negativo e critico della vera arte è scomparso, la cultura prodotta
nell'industria culturale è una cultura affermativa.
5.3 Un sistema uno e molteplice: Edgar Morin
In Morin il tema della ricerca della felicità nella cultura di massa è fortemente
presente: “la cultura di massa traccia una figura particolare e complessa della felicità
insieme proiettiva e di identificazione. In essa la felicità è è mito, ossia proiezione
immaginaria di archetipi di felicità, ma nello stesso tempo è idea-forza, ricerca
vissuta da milioni di adepti”.
Una generalizzata condizione di ricerca della felicità che implica, ancora una volta,
una componente sociale: “la vita non può consumare tutto, né la società dei consumi
può né potrà dare tutto. Anzi, essa toglie mentre dà”.
Lo sviluppo dei consumi immaginari provoca un accrescimento dei bisogni reali,
della domanda di beni e sviluppa nuovi comportamenti.
La “dialettica circolare” della cultura di massa soddisfa per procura immaginaria i
bisogni della vita, ma nello stesso tempo li stimola; mentre rende fittizia una parte
della vita dei consumatori, procura in forme fittizie ciò che non può essere consumato
praticamente, e nello stesso tempo i bisogni insoddisfatti “irrigano i grandi voli
immaginari dell'azione e dell'avventura”.
Se la cultura di massa integra un gran numero di individui, là dove gli sviluppi
economici e sociali le forniscono un terreno fertile, da questa integrazione sono
inevitabilmente esclusi tutti quelli che sono materialmente troppo poveri o
oniricamente e spiritualmente troppo ricchi, tutti coloro insomma che non possono
adattare una parte dei loro sogni alla realtà, una parte della realtà ai loro sogni.
Ovviamente intercorrono fra i francofortesi e l'autore francese importanti differenze:
se per i primi nel sistema di industria culturale si sviluppa una dialettica fra essenza e
apparenza per cui persiste un'unità di fondo, per Morin esso è realmente “uno e
molteplice”, “uno e diverso”: il sistema vive, cresce, si difende e cambia grazie alla
compresenza di principi opposti, grazie agli antagonismi, e alle forze del disordine
che turbano e allo stesso tempo stimolano le capacità auto-organizzative.

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Morin ne “Il cinema o l'uomo immaginario” afferma che da una parte il cinema è
un'industria, cosa che esclude l'arte, e da una parte è un'arte, cosa che esclude
l'industria: arte e industria sono nel cinema in relazioni definibili di
complementarietà, ma anche di concorrenza e antagonismo, perchè per il
necessario mantenimento delle differenze fra un elemento e l'altro, ogni relazione
organizzazionale produce antagonismo e concorrenza.
In linguaggio moriniano che la cultura di massa rappresenta un'emergenza del
sistema di industria culturale, non riconducibile strettamente a nessuno dei suoi
comparti o settori, ma soltanto alla sua unità e diversità, complessità e
organizzazione.
E per Morin la cultura di massa è una cultura nel senso forte del termine, “costituisce
un corpo di simboli, di miti e immagini concernenti la vita pratica e la vita
immaginaria, un sistema di proiezioni e identificazioni specifiche, e si aggiunge alla
cultura nazionale, alla cultura umanistica, entrando in concorrenza con loro”..
“La cultura di massa integra e al tempo stesso si integra in una realtà policulturale, si
fa contenere, controllare, censurare (dallo Stato, dalla Chiesa) e nello stesso tempo
tende a corrodere e disgregare le altre culture”.
Quello che soprattutto ci interessa mettere in evidenza è il metodo che, seppure
inconsapevole, emerge abbastanza distintamente ne “Il cinema o l'uomo
immaginario”, ne “I divi” e ne “L'esprit du monde” e che trova il suo “naturale”
compimento nelle sue opere più tarde: è un metodo autocritico e globale, in quanto il
metodo della totalità ingloba in sé il metodo autocritico, perchè tende non soltanto a
cogliere un fenomeno nelle sue interdipendenze, ma anche a cogliere l'osservatore
stesso nel sistema delle relazioni; così il metodo autocritico sfocia naturalmente nel
metodo della totalità: solo il ricercatore tagliato fuori dalla sua ricerca tende a
isolarne l'oggetto, senza cercare di scorgere le interconnessioni che lo legano ad altri
settori, alla complessità della struttura sociale e culturale.
Per Morin il ricercatore rientra nell'ambito del fenomeno osservato e deve divenire
egli stesso oggetto di osservazione: “l'uomo conosce il mondo non per ciò che vi
sottrae, ma per ciò che lui stesso vi aggiunge”.
C'è inoltre un altro aspetto rilevante che Morin evidenza ne “L'industria culturale”: la
necessità di fare e sentirsi parte del fenomeno osservato, infatti così come il sociologo
è parte integrante della società che osserva, lo studioso dell'industria culturale e della
cultura di massa è parte dell'industria culturale e partecipa alla cultura di massa.
5.4 Questioni di metodo
Per i francofortesi la realtà deve essere giudicata al “tribunale della ragione”, ma la
ragione non esiste al di sopra della storia, e la stessa verità non è immutabile: ogni
epoca ha la sua, e nessuna di esse è al di sopra di ogni tempo, e contemporaneamente
negare l'assolutezza della verità significa cadere in un relativismo epistemologico e
etico; una verità oggettiva esiste ed è conoscibile.
Ma a questo punto nasce ancora una volta il problema di che cosa si debba intendere
per ragione.
Morin ne “Il metodo” scrive che “l'osservatore deve osservare se stesso osservando i
sistemi e deve sforzarsi di conoscere la propria conoscenza alla ricerca
dell'articolazione fra l'organizzazione della conoscenza e la conoscenza

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dell'organizzazione”.
Per affrontare una “conoscenza della conoscenza” occorre rinchiudere le relazioni fra
i diversi sistemi e tradurle in termini sistemici, e non esiste un meta-punto di vista dal
quale osservare la nuova totalità che si costituisce: la mente dell'osservatore, la sua
teoria, la sua cultura e la sua società vengono intese come tanti involucri ecosistemici
del sistema studiato.
“Le frontiere fra un sistema e l'altro variano a seconda dell'inquadratura, del taglio
metodologico, dell'angolo della presa di visione che l'osservatore effettua sulla realtà
sistemica considerata e della sua partecipazione all'oggetto”.
Un sistema è in definitiva un'astrazione della mente: dipende dalla realtà fisica,
rimanda ad essa, ma dipende altrettanto dalle strutture della mente umana, è elaborato
attraverso categorie mentali e logiche, dipende dal contesto sociale e culturale in cui
il ricercatore si è formato, in cui effettua la sua osservazione.
Il problema dell'unità e della diversità viene generalmente affrontato dando rilievo ai
vincoli che un sistema impone alle sue componenti, ma se ogni organizzazione
presenta diversi gradi di subordinazione per le sue componenti, i progressi della
complessità dell'organizzazione si fondano sulle “libertà” degli individui che
costituiscono il sistema; l'organizzazione non impone soltanto vincoli, essa crea
altrettante emergenze.
Anche lo studio dell'industria culturale non può non tenere conto dei vincoli e delle
emergenze che si impongono e si creano nei diversi sistemi che compongono la sua
unità nelle relazioni complementari, concorrenti e antagonistiche che intrattengono.
Vincoli ed emergenze che impediscono un procedimento sommatorio (letteratura più
cinema più radio più televisione ecc.) e che rendono difficile la scomposizione del
sistema: il paradosso del sistema è che può essere scomposto in elementi separati, ma
allora la sua esistenza di scompagina, ma tuttavia per essere indagato il sistema va
scomposto, un po' come l'anatomia e la medicina.
Morin chiama in campo a questo fine la sensibilità sistemica, che è in definitiva
qualcosa di analogo “all'orecchio musicale che percepisce le competizioni, le
simbiosi, le interferenze, la sovrapposizione dei temi nella stessa funzione sinfonica,
laddove una mente non educata riconoscerà un solo tema circondato da rumore”.
In ultima istanza allora ciò che definiremo industria culturale dipenderà dalla
sensibilità sistemica che saremo capaci di mettere in campo: essa a sua volta sarà
direttamente proporzionale al talento e alle motivazioni, all'utilizzazione delle
capacità e delle esperienze personali, alla consapevolezza di fare parte del sistema
indagato.
La ricerca sull'industria culturale va immaginata come la messa in atto delle
condizioni ideali per quelli che Morin chiamerebbe brodi di coltura: “ambienti di
fermentazione intellettuale dotati di un'autonomia relativi, nei quali si ha
un'accettazione delle devianze e delle trasgressioni nel dialogo e nell'antagonismo
delle idee” che si creano “in condizioni di calore culturale e di crisi, con disgelo delle
dottrine, libero esame, libera discussione, influenze multiple e grandi dispendi,
sprechi, pasticci, chiacchiere.
L'azione delle differenze, delle opposizioni, degli antagonismi è il lievito di ogni
sistema.

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CAPITOLO 6: ITALIANI DI MEZZO – STORIA CIVILE E IDENTITÀ
NAZIONALE
6.1 Le convergenze parallele
La produzione culturale di massa può benissimo essere considerata anche come
un'interpretazione “viscerale” e popolare della storia del nostro paese, così come non
è possibile comprendere lo sviluppo dell'industria culturale senza invocare
massicciamente la cornice sociale, che non si limita ad “ospitarla” ma continuamente
la plasma, arrivando spesso al tentativo di condizionarla.
Ognuno deve certamente continuare a fare il proprio mestiere: “La commedia
all'italiana” non sostituisce e non spiega i fatti di piazza Statuto, il varo del
centrosinistra o il “tintinnio di sciabole” adombrato da Nenni; i legami sono più
sottili, ma non per questo meno robusti o importanti.
È sulla base di questa convinzione che ci sentiamo autorizzati ad affermare che,
anche nell'evoluzione del consumo culturale, possono ricoprire un ruolo non solo
esplicativo, ma addirittura descrittivo e ricostruttivo di alcuni tratti di quello che con
espressione criticata e criticabile viene chiamato “il carattere degli italiani”, e che a
sua volta questo carattere e le vicende di storia civile che gli sono connesse possono
aver subito profonde influenze provenienti dal sistema dell'industria culturale.
L'approccio degli studiosi della comunicazione spesso è propenso a risolvere ogni
atteggiamento concreto, ogni ispirazione e modello nell'abbraccio soffocante dei
“dati”: il consumo culturale non è solo numeri o individui, ma anche pensieri ed
emozioni, espressione di mentalità profonde e sentimenti collettivi non sempre chiari
e manifesti.
Nella storia della televisione italiana ad esempio non incidono solo quei particolari
indirizzi politici o progetti culturali, né solo quegli elementi che ne descrivono la
dimensione oggettiva, quali l'incremento del numero degli abbonamenti e i dati
relativi agli ascolti, né solo l'evoluzione dei contenuti e l'emergere del divismo: la
storia della televisione italiana è fatta anche dalla relazione degli italiani (non intesi
come pubblico indifferenziato) con il mezzo e con tutto ciò che vi è connesso.
Appare infatti ancora molto stereotipata un'idea specializzata del consumatore
televisivo, che si differenzia dagli altri consumatori specializzati (cinema, teatro ecc.)
in virtù delle caratteristiche peculiari del mezzo e delle modalità d'approccio.
Chi consuma, ma anche chi produce, è consapevole anzitutto dell'aspetto concreto ed
emotivo del contatto con il mezzo: non sa di fare la storia (seppure dell'industria
culturale) né di essere inserito in un certo trend: sa solo che si sa divertendo, o
annoiando, attraverso precise attività, come leggere libri, guardare la televisione,
andare al cinema, ascoltare la radio ecc.
I dati di audience raccontano quanto, pur dentro un quadro ricco di sfumature, la
televisione sia stata trionfalmente accolta dagli italiani, ma si tratta di evidenze
superficiali, che meriterebbero di essere integrate con indagini diverse e più sensibili:
non possiamo avere infatti la certezza che al rispetto e all'ammirazione per la
televisione come prodigio tecnico e come status symbol gli italiani abbiano sempre
automaticamente associato la stessa adorazione per i suoi contenuti o per il suo
significato complessivo.
Sotto questo profilo invece possono aver nutrito atteggiamenti di sufficienza, a metà

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fra la diffidente furbizia del contadino e lo snobismo del piccolo-borghese, sospetti
nei confronti di un mezzo nuovo e invadente ed eventuali disillusioni, interesse
discontinuo o stanchezza di fronte alla ripetitività dei contenuti., nei confronti dei
quali però non si sono rivelati particolarmente esigenti.
Il prestigio di cui la televisione ha goduto in Italia non è solo un puro dato di fatto,
ma anche un forte elemento di presenza sociale: quel prestigio conteneva dentro un
consistente sconvolgimento degli stili di vita, ma soprattutto delle mentalità e delle
mappe cognitive, e di certo non può essere limitato ad esprimere la docilità di un
popolo che si lasciava plasmare e modernizzare senza colpo ferire.
La stessa modernizzazione del resto è stata appaltata per alcuni tratti proprio alla
televisione.
I contenuti delle televisioni locali sono stati a lungo inenarrabilmente dilettanteschi e
sgraziati; il loro stile conteneva elementi di cui è stata messa in evidenza la forte
carica di novità, ma l'impressione è che in un paese davvero civile il pubblico, in un
momento di incertezza, si sarebbe raccolto intorno alla TV pubblica, che a sua volta
avrebbe ritrovato il suo spirito fiaccato dalla lunga crisi degli anni '70, magari
aggiornandolo ai tempi che maturavano,
Ma questo non è avvenuto: invece si è inaugurata una rincorsa verso il peggio, uno
speco incredibile di patrimoni economici ma anche intellettuali; sono stati forse gli
anni peggiori della nostra vita, in cui il cinema italiano dilapidò nella sguaiatezza
quel miracolo fatto di incredibili complicità fra il mezzo e gli spettatori durato 30
anni, dal varietà al neorealismo rosa, alla commedia italiana, dal “peplum” allo
“spaghetti western”.
Fenomeni come questi non possono essere spiegati soltanto con le oscillazioni del
gusto: devono esistere ed esistono cause più sottili, legate al lento respiro delle
mentalità diffuse; guardando alle cifre, alla dislocazione e all'articolazione dei
consumi, si deve concludere che il paese si modernizza, ed è un dato di fatto, ma tutto
il resto è ancora da studiare.
6.2 Magnifiche sorti. E regressive?
La fine del secondo conflitto mondiale propone ad un'Italia frastornata, abbruttita
dalle lotte fratricide e dalla miseria, accesa dai palpiti della liberazione, una serie di
questioni importanti con ampie ripercussioni sulla sua fibra morale e sulla sua storia
civile: anzitutto il problema di un'identità nazionale scossa e divisa, e poi la
restaurazione delle perdite, di quelle materiali come di quelle spirituali.
Le ferite morali continueranno a restare invisibili, destinate senza cura a non guarire
mai, e non tanto per il superamento frettoloso ma obbligato dalla divisione ideologica
fra nord partigiano e sud monarchico, quanto per la frustrazione e il disorientamento
di un popolo che era entrato nella nottata eduardiana vestito d'orbace e masticando
lupini e ne era uscito con il nylon e il chewing gum: i conti con il passato sono stati
chiusi presto e male, con qualche eccesso e qualche indulgenza di troppo.
La presa del regime fascista improvvisamente non c'è più, né sul paese né sulla
produzione culturale, cade la sua forte connotazione ideologica, ma presto ne
subentra un'altra: maturano linguaggi nuovi e poetiche neorealiste, e proprio la
parabola del neorealismo cinematografico appare illuminante.
Non fu un prodotto dell'industria culturale, perchè era troppo elitaria la sua matrice,

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ermetica e poco spettacolare; non fu un prodotto della cultura, perchè era troppo
frivolo il mezzo tecnico con il quale si esprimeva; non fu di destra, perchè era troppo
indulgente nell'ambientazione verso il mondo degli umili e dei sottoproletari; non fu
di sinistra, perchè era troppo incline alla poesia, all'estetica, e poco attento
all'ortodossia e agli ambienti operai; commercialmente ebbe un successo di pubblico
complessivamente modesto.
Cade la monumentalità, ma anche la progettualità; cade l'oppressione, ma anche il
senso della nazione e dell'appartenenza comune.
Il clima delle elezioni del 1948, della contrapposizione in blocchi e
dell'internazionalismo obbligato causati dalla guerra fredda, è tutto simboleggiato
nella saga di Peppone e Don Camillo, che superano l'odio iniettato dalle circostanze
appellandosi a valori minimi, legati alla terra e un'italianità pacioccona e umile,
bonaria e sorridente.
Il luogo dell'industria culturale dove appare più evidente la tempestiva ricucitura
degli strappi provocati dalla guerra è il settore dell'informazione: l'ente pubblico
radiofonico sopravvive quasi indenne agli scossoni e il segnale di novità più radicale
probabilmente è il cambiamento della sigla da EIAR a RAI; i grandi quotidiani
invece dopo qualche anno si convertono quasi tutti.
L'incidenza fortissima delle questioni e delle scelte politiche di quel periodo non può
non influenzare in modo decisivo la ricostruzione di un sistema informativo libero
dopo la “parentesi” fascista.
La stessa voglia di ricominciare che conduce alla sopportazione di un quadro politico,
informativo e culturale piuttosto semplificato è alla base di alcune importanti
evoluzioni dell'industria culturale italiana: da un lato favorisce la nascita e lo sviluppo
rigoglioso della stampa popolare, che contribuirà ad ingessare più del lecito la stampa
d'opinione rappresentata dai grandi quotidiani; questa produzione culturale “di basso
livello” è rappresentata dai settimanali più diffusi, dai fotoromanzi, che mettono in
scena un'Italia minima e sdolcinata, insensibile al progresso, e dai più noti personaggi
dei fumetti.
Dall'altro lato, la voglia di ricominciare produce il rigonfiarsi della domanda di
divertimento, che a sua volta spalanca i nostri schemi all'irruzione del cinema
americano: si riempie un vuoto durato troppi anni, ma comincia anche una dialettica
agrodolce con l'imperialismo culturale statunitense, che perdura ancora oggi e
all'ombra del quale si consumeranno eventi fatali per l'industria culturale italiana e
per l'autonomia del suo sviluppo.
Ci sono poi le cose nuove: l'elogio della Resistenza perde la sua eco, infatti non si ha
voglia di parlare della guerra e neppure della Resistenza, prevale la voglia di troncare
con il recente passato e tornare alle proprie faccende.
L'Italia del dopoguerra non vuole più essere quella vecchia e non riesce naturalmente
a diventare subito un'altra nuova, restando in un limbo ideologico, culturale e morale
che faciliterà il suo cammino materiale, ma renderà più pesante ogni tentativo di
fondazione, di radicamento, di ancoraggio a valori condivisi.
Sul tronco di questa riflessione s'innestano alcuni nodi problematici legati a:
– capacità mitopoietica e consapevolezza progettuale delle classi dirigenti
rispetto ai modelli culturali e alle mentalità correnti, nonché alla quantità e alla

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qualità dell'attenzione che viene prestata agli strumenti della “riproduzione”
culturale
– capacità di intervento e di mediazione degli intellettuali, nel sostegno ai
progetti di natura politica, nella “sintonia” con le masse
– affidabilità dei mezzi di comunicazione, che al di là degli aspetti tecnici e
organizzativi, possiedono una propria filosofia, dei contenuti preferiti,
procedure operative e necessità commerciali che possono renderli meno docili
– autonomia del pubblico, alle sue capacità di proiettarsi nel testo mediale
Il telaio sul quale misurare le forze che convergono sull'identificazione, la creazione,
la riconoscibilità, la consapevolezza, la forza e la circolazione di modelli e valori di
orientamento e progetti culturali, ha quindi almeno 3 facce:
1) la forza propositiva dei ceti dirigenziali
2) la capacità di modellamento dell'ambiente simbolico da parte dei mezzi di
comunicazione di massa, inclusa la specificità dei loro effetti
3) il pubblico
La legittimazione non è per niente automatica: la progettualità delle élite può essere
evanescente o nulla, i mass media non svolgono sempre il ruolo di fedele cinghia di
trasmissione, e anzi possono sortire gli effetti più diversi, “devianti” sia rispetto alle
attese della classe politica che alla consapevolezza dei consumatori.
Le dimensioni da valutare riguardano le concrete istanze progettuali, i modelli
culturali di riferimento, lo sviluppo del mercato e del consumo e l'evoluzione degli
atteggiamenti e delle mentalità: l'insieme di questi fattori smantellano una visione
verticistica che sopravvaluta il ruolo delle élite intellettuali, dei ceti dirigenti e della
classe politica.
Dietro questo rapporto sbilanciato fra primo e secondo popolo e dietro la devozione
per i prodotti americani si consuma un evento fatale ma curiosamente rimosso, forse
perchè a lungo scambiato come sintomo inevitabile della modernizzazione: il
rinnegamento della cultura popolare italiana; molte fonti di produzione culturale
popolare sono state interrotte e prosciugate, trasformate in insopportabile folklore di
cui anche vergognarsi un po'.
Intanto scomparivano dalle trafile produttive “alte” la musica melodica, la canzone
napoletana, la rivista di varietà, costretti a incontrare l'incontenibile domanda del
pubblico nel circuito semi-clandestino delle balere e delle sagre paesane; al cinema lo
stesso, consumando poi anche tanta TV spazzatura.
Il passo del paese reale è diverso, più veloce, ma non può che dar luogo ad una
modernizzazione imperfetta, nella quale anziché germogliare una vera etica civile,
si afferma la grande commedia all'italiana, che denuncia e avverte con lucidità
eccessiva i disagi e i vizi della modernità.
Il salto dall'immaginario fondato sui sentimenti di una cultura agricola a quello
proprio di una civiltà industriale e protoindustriale è troppo breve, perchè compiuto in
pochissimi anni, ma è troppo lungo per non generare dislivelli insanabili e
“insicurezze” di vario genere: è una crescita senza radici.
La padronanza della lingua migliora molto, ma come evitare le ricadute se la
piattaforma di lancio è stata la televisione e non la crescita di una scrittura di massa?

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CAPITOLO 7: LA COMUNICAZIONE COME CULTURA – MEDIA E
DINAMICHE DI CIVILIZZAZIONE
7.1 Industria culturale e civiltà della comunicazione
Le ricostruzioni storiche nell'ambito dei media studies nel caso italiano si sono spesso
concentrate sullo sviluppo dei singoli apparati della comunicazione, più raramemente
hanno preso in considerazione le vicende del sistema dell'industria culturale.
L'handicap rappresentato da una certa reticenza a occuparsi dell'industria culturale
come sistema integrato, e la concentrazione su un oggetto di ricerca identificato nei
media come “sistemi a parte” hanno reso estremamente difficile la sedimentazione di
una tradizione di studi attenta a sviluppare le connessioni tra cultura comunicativa e
industria culturale, concetto che fin dalla sua comparsa nella Scuola di Francoforte ha
indirizzato il fuoco della ricerca sugli effetti prodotti dalla cultura di massa.
La storia dell'industria culturale è una storia di apparati e di effetti prodotti dall'offerta
di beni, ma è anche una storia di uomini, di abitudini, di immagini, che generano
effetti reali e consistenti sul mercato di questi prodotti: l'ipotesi centrale è che ogni
fase storica, oltre a essere segnata dall'evoluzione tecnologica, sia caratterizzata non
solo da un differente nucleo di valori, credenze, miti e ritualità collettive, ma anche
da specifiche immagini dell'uomo e del suo modo di entrare in relazione con gli altri
e con l'ambiente circostante.
Attingendo ad alcune tesi elaborate da Elias, potremmo leggere la civilizzazione
come un lungo processo di trasformazione delle strutture sociali, psichiche e culturali,
che si afferma contestualmente alla formazione dello Stato moderno: dal punto di vita
dell'habitus si assiste in quel periodo all'interiorizzazione di inedite capacità di
riflessione, introspezione, distanziazione, autoconsapevolezza.
La formazione dello Stato moderno e la relativa concentrazione delle risorse materiali
e simboliche in un unico centro di potere rappresenta uno dei presupposti per
l'affermarsi in Europa del processo di civilizzazione.
Uno sviluppo è stato progressivamente realizzato dagli apparati della comunicazione:
è importante sottolineare che quando parliamo di sviluppo intendiamo riferirci a
un'evoluzione del sistema comunicativo nel senso di una maggiore integrazione e
differenziazione; si tratta in qualche modo delle stesse dinamiche che Elias e altri
studiosi associano al processo di modernizzazione.
Il mercato dei beni culturali va incluso nei settori implicati nella modernizzazione,
non soltanto in merito alle innovazioni tecnologiche e culturali, ma anche in relazione
ai cambiamenti che l'aumento della complessità delle catene di interdipendenza fra
diversi apparati della società determina nelle modalità di produzione e accesso alle
risorse comunicative.
La comunicazione rappresenta, in definitiva, un ambiente formativo all'interno del
quale gli individui si pongono in relazione con se stessi, con gli altri e con il mondo
circostante, riposizionandosi continuamente sull'asse bisogni/valori e su nuove3
coordinate spazio-temporali.
Un primo importante significato attribuibile al termine civilizzazione, in relazione
alle dinamiche di sviluppo dell'industria culturale, riguarda senz'altro il rispetto per le
modalità di trasformazione dei beni culturali e comunicativi in emozione e in
memoria collettiva: ogni stadio di sviluppo della sfera comunicativa entra dunque in

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un rapporto di reciproca fecondazione con le strutture storiche dell'industria della
cultura, modellando i rapporti tra pubblico ed emittenti e generando relazioni tra
produzione e consumo, connotate da un minore o maggiore grado di civiltà.
Per lunghi anni la storia delle idee è stata essenzialmente storia di testi e di scrittori,
di autori e di prodotti “alti”, in grado di rappresentare lo specifico della cultura
nazionale: ma le trasformazioni dei comportamenti di consumo risultano fortemente
correlate ai differenti livelli di civiltà e cultura comunicativa.
In questa prospettiva una storia integrata sull'industria culturale è ancora in parte da
scrivere e soprattutto non è detto che le relazioni tra gli attori di questo sistema
procedano congiuntamente su una linea di progressiva civiltà; possiamo prendere in
esame 2 momenti e 2 nodi cruciali di questa storia, entrambi legati al medium
televisivo:
1) irruzione sulla scena sociale della televisione, contributo decisivo in favore del
processo di alfabetizzazione del paese, ma l'effetto di questa modernizzazione è
da un lato talmente brusco, e dall'altro talmente condizionato dai partiti politici
da lasciare aperti ampi spazi di de-civilizzazione
2) un altro momento decisivo sono gli anni '80, che per alcuni studiosi sono uno
spartiacque decisivo per la formazione di una vera e propria industria culturale
italiana: in questa lettura la liberalizzazione dell'etere e la moltiplicazione
dell'offerta radiotelevisiva hanno rappresentato un potente vettore di
modernizzazione, alimentando dinamiche di personalizzazione dei percorsi di
fruizione
Un interessante contributo del sociologo tedesco Elias riguarda la messa in
prospettiva dell'oggetto in analisi: in generale la civilizzazione “riassume tutto il
progresso che la società occidentale degli ultimi 2 o 3 secoli ritiene di aver compiuto
rispetto a società precedenti o a società più primitive”; in questo senso il concetto di
civiltà si riferisce a dati assai differenti, come il livello raggiunto dalla tecnica, le
maniere in uso, lo sviluppo delle conoscenze scientifiche, le idee e usanze religiose.
La civilizzazione viene innanzitutto intesa come processo e allude a un insieme di
fattori in perenne movimento, proprio perchè rappresenta non soltanto le realizzazioni
materiali attraverso le quali si esprime una società, ma anche il modo di rapportarsi
agli altri e di interagire con l'ambiente circostante, che si tratti di lavoro, tempo,
spazio, corpo, ambiente, relazioni fra generi.
Nel dibattito sulla cultura di massa vanno allora considerati i molteplici aspetti
connessi alle dinamiche di civilizzazione che, invece di fermarsi alla
contrapposizione tra produzione di beni di alta o bassa qualità, ricostruiscono le
forme “storiche” di interazione fra consumatori, produttori e oggetti della
comunicazione: dalla configurazione di rapporti più o meno civili dipende, ad
esempio, il fatto che testi, autori, ma anche modelli di relazione che in una certa fase
sono considerati anomici e dunque minoritari, ma in grado di dare voce ad alcuni
aspetti della realtà, riescano ad acquistare visibilità nel corso del tempo.
Tutte le trasformazioni provenienti dal basso, come l'evoluzione dei consumi, le
metamorfosi dei bisogni sociali, l'avvicendamento dei desideri, esercitano un forte
influsso sul mercato culturale, ma il modo in cui le fonti gestiscono le risorse reali e
simboliche della comunicazione è anche indicativo di differenti livelli di civiltà.

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La televisione si rivela ancora una volta uno straordinario termometro di misurazione
di certe dinamiche: non è raro infatti che ingenti risorse vengano mobilitate per
studiare fenomeni di disaffezione del pubblico a questo o a quel programma, o che un
calo di audience faccia immediatamente gridare alla crisi di un genere, ma più
raramente ci si impegna ad analizzare le motivazioni profonde di certe preferenze o di
quelle che appaiono fughe impreviste.
Quando un format ha successo è piuttosto scontato che venga clonato, ripetuto,
copiato dalla concorrenza, ma poi non ci si spiega come mai quella stessa formula
possa ad un certo punto come per magia non funzionare più: uno scarso rispetto per il
pubblico induce spesso a sottovalutare l'esigenza di innovare attingendo alla fucina di
sogni, aspirazioni, desideri che si nasconde nel fondo della società, e non consente di
percepire l'investimento ideativo come uno degli elementi fondanti del patto
comunicativo, rivelandosi un forte agente di decivilizzazione.
In definitiva, si tende ancora troppo spesso a tracciare un'ideale linea di separazione
fra comunicazione e industria culturale, come se la prima fosse costituita da
un'ineffabile produzione di flussi immateriali, e la seconda fosse invece identificabile
essenzialmente attraverso la “catalogazione” dei suoi prodotti materiali.
7.2 Figurazioni sociali, habitus nazionale e cultura di massa
Nella sua acutissima “Critica sociale del gusto” Bourdieu si esprime in questi termini:
“L'habitus è contemporaneamente principio generatore di pratiche oggettivamente
classificabili e sistema di classificazione di queste pratiche: è proprio nel rapporto
fra queste 2 capacità che definiscono l'habitus che si costituisce l'immagine del
mondo sociale, cioè lo spazio degli stili di vita”.
Si può ipotizzare che l'habitus nazionale sia in primo luogo condizionato
dall'intreccio incessante degli eventi e dalla stratificazione delle esperienze di vita che
disegnano la storia di un popolo: tali disposizioni si tramandano di generazione in
generazione e si modificano lentamente attraverso la successione di altri eventi ed
esperienze, costituendo pertanto un elemento in grado di condizionare le situazioni
storiche.
Pensando alla relazione fra habitus nazionale e cultura di massa, si possono tracciare
idealmente 2 rette che si incrociano: la prima riguarda il rapporto tra le generazioni,
osservate nella loro natura di classi sociali, la seconda riguarda invece vede le
egemonie culturali da un lato e il pubblico “reale” dall'altro.
Il legame tra generazioni e tradizione è una delle chiavi di lettura per comprendere le
basi sociali e nazionali della civilizzazione: la memoria rappresenta infatti una delle
componenti principali della civiltà della comunicazione, perchè il passato può essere
vissuto con imbarazzo, consapevolezza, compiacimento oppure banalizzato.
In questo senso si può provare a seguire lo sviluppo di una comunità nazionale
attraverso i miti fondanti vissuti dalle “avanguardie generazionali” intese come quel
gruppo sociale che con le proprie illusioni e utopie imprime un carattere
riconoscibile a una certa fase storica: a fasi di mutamento troppo veloce o caotico
possono corrispondere fasi di decivilizzazione caratterizzate da un impoverimento
dell'immaginario collettivo intergenerazionale e della friabilità del legame fra senso
del presente, concezione del passato e visione del futuro.
Nello specifico proprio questo tipo di cortocircuito si innesca nel nostro paese

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generando un'esplosione di contraddizioni quando negli anni '60 uno sviluppo
economico convulso e accelerato travolge un sistema sociale e culturale gracile e
poco dinamico.
In quel frangente la generazione di italiani che ha vissuto l'esperienza della guerra
lascia dietro di sé un peso insostenibile e si limita a subire il processo di
modernizzazione, e si crea una frattura incolmabile fra giovani e adulti; da questo
momento in poi si produrrà una sostanziale scissione tra quelle che nel tempo saranno
sempre più distinguibili come 2 vere e proprie “classi sociali”.
La frammentazione dell'universo valoriale coincide con la progressiva incapacità di
elaborare un progetto comune per affrontare i problemi indotti da questo rapido e
convulso movimento (l'immoralità del consumismo, l'imprevista secolarizzazione, il
degrado ambientale ecc.): lo sviluppo non avviene in maniera omogenea e lineare, e
mentre per alcuni aspetti, legati soprattutto alla rivendicazione dei diritti da parte
della società civile, il paese si avvia a una crescita, altri settori sono pericolosamente
avviati verso traiettorie di decivilizzazione.
Un elemento di fondamentale interesse per cogliere le interconnessioni tra sistema
sociale, politico e culturale, riguarda senz'altro le caratteristiche meno visibili del
processo di modernizzazione, inteso come insieme di fenomeni che non coinvolgono
solo lo sviluppo produttivo, ma anche le trasformazioni cognitive, sociali e culturali
dell'habitus nazionale: perciò è realistico credere che il successo0 di alcuni prodotti
culturali (la commedia all'italiana degli anni '60, il western negli anni '70, la fiction
negli anni '90) sia dovuto al fatto che in una certa fase un medium o un genere riesca
a cogliere e a fondere in un modello, in una maschera, in uno stereotipo, tratti
culturali, psichici e antropologici di una figurazione sociale costituita dagli individui
in carne e ossa che abitano un determinato luogo fisico e un altrettanto determinato
momento storico.
7.3 Storia sociale e produzione dell'immaginario
Nel racconto della nostra storia si ha la costante sensazione di un contrasto quasi
originario fra una scarsa affezione alla cosa pubblica e una vocazione più sentita alla
costruzione del sé individuale: il gusto degli italiani ad esempio si dibatte fra
provincialismo ed esterofilia, a sostegno della tesi che le vicende che hanno condotto
alla formazione di un carattere nazionale hanno anche prodotto un'insolita saldatura
tra localismo e cosmopolitismo, lasciando al centro un vuoto costituito dalla difficoltà
a coltivare il senso dello Stato.
Ma se dal punto di vista dell'io sociale questa diffidenza verso la cosa pubblica si è
rivelata disastrosa per la formazione di una coscienza civile, dal punto di vista dell'io
individuale, un atteggiamento per lo più disincantato e tendente alla difesa del
proprio spazio privato si è tradotto non solo in una capacità di adattamento, ma anche
nella propensione a creare legami reticolari che hanno prodotto familismo, ma anche
solidarietà sociale e contagio culturale.
Appena usciti dal dopoguerra comunque gli italiani si ritrovano a transitare da un
immaginario sentimentale appartenente a una cultura agricola a un immaginario che
si costruisce sulla rapida e caotica crescita della civiltà industriale e sulla
riorganizzazione più lenta di equilibri fra classi, generi, poteri, generazioni.
I valori civili e morali di ricostruzione espressi dal neorealismo iniziano molto presto

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a perdere terreno, non risultando più in sintonia con l'immagine dell'Italia che le
classi dirigenti volevano proporre, e i produttori sono presto costretti ad abbandonare
questa strada: un immaginario di povertà e sofferenza, ma comunque eroico, viene
soppiantato da una mitologia “municipale” fatta di personaggi bucolici, pieni di buoni
sentimenti (Pane, amore e...), fortemente tributari delle mode che arrivano dagli Stati
Uniti (Poveri ma belli).
Un'etica della formica, ispirata a principi “sani” e “minimalisti” inizia lentamente a
lasciare il posto a un'estetica della cicala, improntata alla ricerca spasmodica del
benessere materiale, favorita da un'inedita mobilità sociale: se la necessità di
sollevarsi dalle macerie rendeva indispensabile la repressione dei desideri, il controllo
dei sentimenti, ora il paesaggio che si profila in lontananza induce ad allentare il
freno, ponendo le premesse per la formazione di un habitus sempre meno disposto al
rinvio delle gratificazioni, come richiesto dal pauperismo degli anni appena trascorsi.
Dal punto di vista della struttura psichica collettiva degli italiani si passa
dall'archetipo del senex a quello del puer: questi individui poco inclini ad adeguarsi
ai tempi “adulti” della crescita civile vengono amabilmente rappresentati dai tipi della
commedia all'italiana, con pochi pudori nel mostrare debolezze e vigliaccherie.
Nel panorama politico appare chiaro che sia cattolici che comunisti si cimentano
nell'impresa di civilizzazione di un paese ancora agricolo e analfabeta, pensando alla
comunicazione come a un fattore da inserire in un più ampio progetto pedagogico.
Si assiste per lo più a un processo di emancipazione indotto dall'alto e fatto confluire
in un debole sistema dell'industria culturale che si limita a produrre beni materiali e
immateriali in un mercato dei consumi di massa a macchia di leopardo.
Una certa arretratezza nelle analisi sulle interazioni tra società e comunicazione ha
creato un vuoto di razionalità storica e di approfondimento, sedimentando un
sentimento di diffidenza nei confronti dei moderni mass media, costringendo la
cultura della comunicazione all'interno della dicotomia emancipazione-
massificazione.
Nonostante il decisivo ruolo di unificazione linguistica e culturale svolto dalla
televisione (il neoitaliano di Pasolini), la debolezza della coscienza civile non
permette la formazione di un'opinione pubblica consapevole e di una politica
culturale che colmi il divario tra comunicazione di massa e cultura alta: negli anni
immediatamente successivi il paese continua a procedere tra civilizzazione e
decivilizzazione.
Procedendo per grandi linee, possiamo individuare nella metà degli anni '70 uno
spartiacque fondamentale: in un'Italia che si è modernizzata lasciando dietro di sé
sacche di “inciviltà” e spiccando il salto verso l'ultramodernizzazione, la TV
mantiene il ruolo di principale agente di socializzazione e, tutto sommato, di
democratizzazione.
In questi anni si verifica una circostanza, ovvero mentre la società civile è percorsa da
una corrente di cambiamento che emerge nei comportamenti quotidiani e nella
cultura materiale, scuotendo gli equilibri di potere fra uomo e donna, giovani e adulti,
a questi fermenti non corrisponde una trasformazione dello stesso spessore nella
cultura politica; se nel breve periodo del boom la distribuzione della rappresentazione
politica tra democristiani e comunisti riesce ancora a fare da calmiere a un

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mutamento repentino e difficile da gestire, questa strategia di contenimento e
rallentamento delle trasformazioni nel '68 perde totalmente di efficacia.
La spinta al cambiamento proviene da una generazione che si era emancipata da uno
Stato-chioccia non tanto in conseguenza di un naturale processo di crescita civile e di
autoconsapevolezza, quanto grazie al contagio extraterritoriale con culture diverse e
nuovi consumi mediali dotati di un forte potere di aggregazione (es. musica rock).
L'emergenza politico-culturale provocata dai tragici fatti di terrorismo degli anni '70
procede parallelamente a un'evoluzione tecnologica che entra sempre più
prepotentemente a cambiare i luoghi della vita quotidiana, moltiplicando consumi e
desideri e accelerando il processo di smaterializzazione dei mezzi di scambio e
comunicazione.
Per quanto riguarda i media generalisti, il cinema italiano dopo gli anni '70 appare in
difficoltà nell'alimentare l'immaginario del pubblico: l'ipotesi è quella di una società
che si ripiega in sé stessa, sempre più difficile da fotografare.
L'immaginario sociale è sempre più condensato attorno allo schermo televisivo: la
televisione infatti riesce a “mobilizzare” risorse culturali fino ad allora abbandonate a
se stesse; è innegabile che dal momento in cui la televisione sostituisce il cinema
nell'immaginario di massa, il costume sociale e le strutture psichiche dell'individuo
subiscono trasformazioni profonde, ma si tratta comunque di fenomeni complessi che
possono leggersi soltanto attraverso l'interconnessione di molteplici dimensioni.
Nella fase della standardizzazione educativa i media hanno rappresentato un bacino
semantico da cui sono germogliati modelli culturali, visioni della realtà, stili di vita;
in quel momento però era ancora difficile cogliere nel consumatore quella capacità di
distanziamento e autopercezione che potesse condurlo a percepirsi come pubblico,
come legittimo produttore di bisogni comunicativi: questo processo di
autoconsapevolezza avviene lentamente, infatti soltanto quando il panorama
dell'offerta si complessifica si creano le basi per l'individualizzazione del consumo.
A partire dagli anni '80 la comunicazione e il consumo di massa assumono un ruolo
preponderante nel possesso e nella distribuzione del capitale simbolico e culturale
degli individui: il consumo rappresenta in molti settori un potente collante capace di
di creare connessioni tra le “minime” esperienze del quotidiano e la produzione
culturale di massa.
CAPITOLO 8: PROTOSTORIA DELL'INDUSTRIA CULTURALE
Quando nasce l'industria culturale in Italia? Dare una risposta adeguata a questa
domanda non è facile, innanzitutto perchè non esiste una definizione esatta e
universalmente accettata di “industria culturale”, e poi perchè manca un consenso tra
storici sui caratteri e i tempi dell'industrializzazione in Italia.
Qui vogliamo proporre una definizione larga di industria culturale e uno sviluppo non
lineare, diseguale, in cui da una parte alcuni elementi di cultura industriale sono già
presenti in Italia prima della rivoluzione industriale mentre, dall'altra, molte forme di
cultura non industriale permangono oltre la soglia dell'industrializzazione vera e
propria.
8.1 Industria cultuale o industrie culturali?
Se una data di nascita precisa dell'industria culturale come entità storica è difficile da
fissare, non è altrettanto difficile risalire all'origine del termine: fu usato per la prima

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volta nel saggio “Industria della cultura: illuminismo come inganno di massa”
scritto da Adorno e Horkheimer nel 1947.
Nelle loro prime stesure Adorno e Horkheimer avevano parlato non di “industria
culturale”, ma di “cultura di massa”; decisero di sostituirlo in un secondo momento in
parte per rendere esplicito che si trattava a loro parere di una forma di cultura che
faceva tutt'uno con un'economia capitalistica avanzata, e in parte per motivi polemici,
per escludere fin dall'inizio un'interpretazione che sarebbe piaciuta ai sostenitori del
termine “cultura di massa”, cioè che questa sorgesse dalle masse stesse, che fosse la
forma contemporanea dell'arte popolare.
Per Adorno e Horkheimer le caratteristiche principali dell'industria culturale
derivavano appunto dal fatto che si impone dall'alto: sono la standardizzazione dei
prodotti, la razionalizzazione della distribuzione e l'integrazione dei consumi
nell'ideologia capitalistica.
E proprio qui sta per loro l'inganno di massa: nell'illusione di una cultura libera,
limpida, facile e accessibile a tutti.
Il termine al singolare ha anche un effetto mistificatorio, perchè tende a suggerire un
“sistema” anonimo e totalizzante implicato in modo occulto col potere politico.
L'inglese Garnham tenta di correggere alcuni dei limiti della definizione adorniana, e
sono significativi sia l'uso del termine al plurale anziché al singolare, sia la maggiore
precisione nel caratterizzare l'oggetto stesso, che quando si trova a operare in un
mercato capitalistico è caratterizzato da:
1) una particolare struttura di costi: da una parte costi molto elevati di ricerca e
sviluppo, di capitali fissi (impianti, macchinari ecc.) di pagamento di forfait e/o
acquisto di diritti d'autore per la prima copia di ciascun prodotto; dall'altra costi
bassi, se non bassissimi, per le copie successive. Questa struttura di costi
spinge le industrie culturali a vendere grandi quantità di prodotti per
ammortizzare le spese iniziali, e così viene data molta importanza alla
distribuzione.
2) L'elasticità e l'imprevedibilità della domanda: essa crea per le industrie
culturali un alto tasso di rischio, perchè fa sì che le industrie culturali tendano
a dare molta importanza alla pianificazione, a fare estese ricerche di mercato e
product testing per minimizzare i rischi, ma anche a dividere i rischi
attraverso una gamma di prodotti, a calcolare forse 6/7 insuccessi o successi
modesti su ogni 10 prodotti lanciati sul mercato
3) La natura peculiare del prodotto culturale stesso: da una parte si tratta di un
atto creativo-intellettuale, e dall'altra di un prodotto fisico in cui sbocca
quest'atto creativo-intellettuale, che prende la forma di una merce venduta sul
mercato: ad esempio si ha da una parte un libro quando viene ideato e scritto
dal romanziere, e dall'altra lo stesso libro pubblicato, rilegato, con una certa
veste tipografica, una copertina attraente, e tutta una campagna promozionale e
pubblicitaria attorno, che lo fa diventare la novità della stagione
Ora, se per Adorno e Horkheimer il concetto di industria culturale al singolare era in
realtà sovrapposto a quello di cultura di massa ed era intimamente legato alle strutture
tipiche della modernità (capitalismo maturo, fordismo, tendenza alla politica
totalitaria), il termine al plurale usato da Garnham e altri non presuppone

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necessariamente né una cultura massificata né un particolare stadio di sviluppo
industriale, poiché si limita a descrivere un certo modo di produrre e distribuire beni e
servizi culturali: questo rende possibile uno sganciamento del concetto di industria
culturale da quello di cultura di massa e lascia aperta la possibilità di cercare
forme di industria culturale ad altri momenti storici.
8.2 Rivoluzione industriale e protoindustrializzazione
Gli studiosi degli anni '50 e '60 tendevano a concepire l'industrializzazione secondo il
modello di un processo a fasi o stadi attraverso i quali ciascun paese doveva passare,
con una cronologia differita, nel corso del suo sviluppo, e nell'analisi classica di
Rostow gli stadi erano 5: società tradizionale, precondizioni del decollo, decollo,
maturità, raggiungimento di un alto livello del consumo di massa.
Secondo questo modello l'Inghilterra decollò intorno al 1750, seguita da Belgio,
Francia, Stati Uniti e Germania, mentre l'Italia era, insieme a Russia e Giappone, tra i
latecomers (tardi arrivati) che ebbero il loro decollo nel periodo a cavallo fra il XIX
e il XX secolo.
In Italia la prima grande impennata della rivoluzione industriale si sarebbe avuta nel
decennio 1896-1906, con la nascita tra l'altro dei primi importanti impianti
idroelettrici, siderurgici e automobilistici; in Italia, a differenza dell'Inghilterra e
dell'America, si è arrivati alla rivoluzione industriale senza una precedente
trasformazione comprensiva dell'economia agraria in senso capitalistico e quindi
senza l'accumulazione di surplus di capitale e di manodopera nelle campagne che
potesse essere assorbito nelle città dalle aziende industriali in espansione, e questo ha
fatto sì che le condizioni per il decollo industriale dovessero essere create
“artificiosamente” tramite l'intervento dello Stato e un'iniezione di capitale bancario,
secondo il cosiddetto “modello prussiano”.
È a questo punto che sarebbe cominciata l'industrializzazione della cultura, stimolata
anch'essa da iniezioni di capitali (ad esempio per la meccanizzazione dell'industria
poligrafica per la produzione di libri e giornali) prima ancora che esistesse un
mercato di massa.
Uno dei dibattiti fondamentali fra storici dell'economia riguarda il passaggio da
forme di industria artigianale a forme di industria moderna, caratterizzate da un uso
intensivo di macchine, dalla concentrazione di un gran numero di lavoratori e di
diverse fasi del processo produttivo in un unico impianto, e dalla produzione di beni
in quantità sufficienti da permettere la distribuzione anche su mercati lontani.
Invece di pensare ad un salto improvviso dall'artigianato alla grande industria si tende
ormai a concepire la trasformazione come un passaggio attraverso una serie di fasi
intermedie, una delle quali è stata appunto chiamata “protoindustrializzazione”:
questo termine, introdotto da Mendels nel 1972, indica una fase di transizione da
un'economia tradizionale ad una caratterizzata dall'espansione di manifatture al
domicilio, spesso ma non sempre situate nelle campagne, che producevano beni
destinati a mercati finali lontani.
Per Mendels queste forme di protoindustria trasformarono non solo l'economia
europea, gettando le basi dell'industrializzazione matura, ma anche il comportamento
demografico, creando quell'espansione della popolazione necessaria per la crescita
urbana e la formazione di un proletariato di fabbrica.

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8.3 Protoindustrie culturali
Anche nel caso della cultura si può parlare di protoindustria o di industrializzazione
prima dell'industrializzazione: facciamone 2 esempi.
Il primo esempio è l'opera lirica nel periodo della sua maggiore fioritura in Italia, fra
il tardo '700 e l'Unità: l'industria dipendeva da una produzione costante di lavori
nuovi in cui gli artisti e i divi (musicisti, librettisti, cantanti) erano scritturati ed
impegnati a produrre o recitare un certo numero di opere secondo scadenze stabilite
nel contratto con l'impresario.
Inoltre l'industria operistica dispone di una rete distributiva, cioè di un circuito di
viaggi, nazionale e internazionale, anche se non c'erano basi di produzione fisse come
erano ad esempio gli studios di Hollywood, perchè l'impresario d'opera non gestiva
teatri in proprio e quasi tutte le compagnie erano viaggianti.
Inoltre prima della fine dell'800 mancavano i mezzi di riproduzione tecnologica,
perchè le prime registrazioni musicali in Italia avvennero intorno al 1900, quando
l'industria operistica era già in declino; dunque il pubblico di massa non poteva
accedervi, essendo una forma di spettacolo costoso e sfarzoso, riservato ad un
pubblico ristretto di élite.
Nell'opera abbiamo un caso interessante e forse unico di una forma culturale che si
industrializza e poi comincia a deindustrializzarsi prima che nascano i mezzi della
sua riproduzione tecnica.
Il secondo esempio è quello della produzione libraria in Italia nello stesso periodo:
l'Italia, e soprattutto Venezia, aveva dominato il mercato europeo del libro stampato
dalla fine del '400 alla prima metà del '600, dopo di che con la contrazione di alcuni
mercati chiave di esportazione (Spagna e Portogallo), la concorrenza di altri centri
europei di produzione libraria (Lione, Parigi, Anversa ecc.) e il declino dell'uso del
latino, cominciò a perdere la sua posizione egemone.
Fu proprio durante questa fase di crisi che la ditta Remondini di Bassano e altri
editori-stampatori del Veneto adottarono un sistema di fabbrica, una meccanizzazione
parziale del processo produttivo con torchi a vapore, un'integrazione verticale tra
produzione di carta, tipografia, rilegatura ed editoria, e una distribuzione a livello
europeo: tutti attributi caratteristici della protoindustrializzazione.
Poi nel corso del XIX secolo si ebbe una meccanizzazione parziale dell'industria
italiana del libro grazie a Giuseppe Pomba, che a Torino nel 1830 importò
dall'Inghilterra una macchina capace di stampare 10 fogli al minuto, e così la sua ditta
divenne la prima tipografia pienamente meccanizzata in Italia.
Anche questa era un'industria che produceva ancora per certe nicchie ben definite di
mercato, per una rete di clienti con una collocazione sociale ed economica definita.
8.4 Una industrializzazione a singhiozzo
In entrambi questi casi si trova la stessa contraddizione tra modo di produzione
industriale o protoindustriale e mercato non ancora di massa: questa contraddizione
rimarrà lungo tutto l'arco dello sviluppo dell'industria culturale in Italia e ne costituirà
una delle caratteristiche più tipiche.
È una contraddizione intimamente collegata alle disuguaglianze strutturali del paese:
tra centro-nord e sud, grande città, cittadina di provincia e campagna, grazie industria
e piccola industria o artigianato.

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Non ha nessun vero fondamento scientifico l'idea di un'industria culturale che nasca
in Italia già bella e formata ad un momento preciso: l'industrializzazione delle singole
attività culturali in Italia è al contrario un processo complesso, differito e dislocato,
un'industrializzazione per così dire “a singhiozzo”, fatta di anticipi e anche di ritardi,
che per essere realmente capita va scomposta e analizzata nelle sue varie fasi.
CAPITOLO 9: IL CINEMA
9.1 Dalle origini agli anni '30
Fregoli, ingegnoso performatore del cinema, comprende presto le potenzialità della
nuova tecnologia audiovisiva, di cui sa esibire la fantasmagoria, la seduttiva
macchinosità, i trucchi fantastici; nei suoi brevi film egli trova il modo di esprimere
la complessa, problematica continuità tra le vecchie forme spettacolari e le potenze
dispiegate dal nuovo mezzo.
Nelle sue performance il “Mélès italiano” rappresenta molte delle qualità specifiche
degli apparati filmici nazionali: intraprendente, vivace e profonda, esaltante,
magniloquente e lungimirante nelle prospettive fantastiche e narrative messe in gioco,
eppure provvisoria, imprevedibile, assai poco stabile nelle sue manifestazioni.
Questi in sintesi sono i tratti di un'industria che vivrà in un'oscillazione permanente:
da un lato premesse e potenzialità di un'organizzazione spettacolare unica nel suo
genere, e dall'altro precarietà e disomogeneità degli esiti che volta per volta saranno
condizionati da dinamiche sia interne sia internazionali, alla fine predominanti.
Gli assetti industriali del cinema italiano sorgono per l'intelligenza capitalistica di
pionieri come Arturo Ambrosio a Torino, la ditta Alberini Santoni a Roma, i fratelli
Troncone a Napoli, Luca Comerio e la S.A. Baratti a Milano; già dal 1907 il
panorama nazionale vede una certa intraprendenza produttiva, ma è solo dal 1910,
grazie all'iniziativa di Gustavo Lombardo, poi titolare e fondatore della Titanus, che
iniziano a configurarsi le necessarie interfacce tra la produzione e i piani della
distribuzione e dell'esercizio.
La nostra industria del cinema appare subito caratterizzata da elementi di
disorganicità e instabilità: al policentrismo delle strutture produttive (Roma, Torino,
Napoli, Milano), corrisponde la difficoltà di concepire e strutturare un'industria
matura, composta sia da imprese solide che da unioni e associazioni delle diverse
realtà imprenditoriali (produzione, noleggio, esercizio) in grado di reggere le sfide del
mercato internazionale.
Alle realtà radicate nel mercato si contrappone la persistenza di avventure
imprenditoriali a breve termine e una difficoltà a stabilizzare le risorse finanziarie
necessarie a far decollare i progetti su un mercato in costante cambiamento.
Tranne che nel periodo 1912-14, il nostro cinema è attraversato nel primo ventennio
del secolo da carenze endemiche che, a fronte di eclatanti successi al box office, non
consentono lo strutturarsi di un'industria dagli obiettivi a lungo termine.
Per quanto riguarda la sua collocazione in Europa e negli altri paesi (compresi gli
USA), il film italiano si caratterizza fino alla prima guerra mondiale per la sua
capacità di proporre articolate figure di divi, compresi gli “uomini forti” derivati dal
film storico e poi divenuti dispositivo trasversale ai generi, e per
l'annunciata/confermata qualità dei prodotti, che rimandano alla tradizione culturale
italiana (storia, arte, letteratura antica e moderna).

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La tenuta di questo “sistema” dell'economia nazionale è minata alla base da tensioni
interne e esterne: dall'interno, le tentazioni di oligopolio che rendono difficile la
coesione contro i concorrenti stranieri, perchè predomina l'aggressività del più forte
verso il più debole; dall'esterno, la dipendenza dalle industrie estere fornitrici dei
materiali primari, anzitutto la pellicola, rende poco autonoma l'economia
cinematografica nazionale.
La crisi strutturale scoppia dopo la Grande Guerra, come dimostra la breve vita
dell'Unione Cinematografica Italiana, fallito tentativo di trust che chiude per l'assenza
di sbocchi distributivi; rinnovo delle forme dei prodotti; strategie di affermazione sui
mercati esteri che rispondano a dovere alla concorrenza dei più forti prodotti
americani e stranieri.
Si punta alla recettività sul mercato interno, che si rivela scarsa, e si improvvisa sul
piano del mercato internazionale, che invece vede una profonda ristrutturazione di
spazi ed egemonie.
La faticosa ripresa nel corso degli anni '20 sotto il segno della solidità imprenditoriale
di Pittaluga, capo della Cines, si connette alle politiche di sostegno del governo
fascista: oggi si comprende come quella situazione, nonostante le pretese del regime,
non fosse del tutto penalizzante, lasciando in ogni caso significativi spazi a un
rilancio che si attesterà su una variegata produzione nel corso degli anni '30.
All'avvio del cinema sonoro (1927), la costruzione di Cinecittà dà vita a uno
strumento infrastrutturale necessario, motore e condizione di partenza per la
risorgente industria.
In parallelo si consolidano carriere artistiche di forte livello (es. registi già affermati
nel periodo muto come Guazzoni e Genina), si posizionano gruppi e personalità
produttive, come Amato e Cecchi, si affermano nuovi autori del livello di Blasetti,
Camerini e Poggioli, e divi come De Sica e Nazzari, che danno fisionomia e attrattiva
a un cinema di genere funzionale a un pubblico eclettico quanto adulto nelle scelte e
nei comportamenti.
Inoltre, se le potenzialità di un'industria tendenzialmente matura sono in parte
soffocate dal regime fascista e dalle sue ideologie, tuttavia il nostro cinema soffre
ancora di un rapporto schizofrenico con il concorrente principale, il film statunitense,
verso cui mantiene una linea di prodotto alternativo.
Nell'ultimo decennio fascista una politica di chiusura proibisce la visione di pellicole
provenienti dall'estero, specie quelle angloamericane: se per un verso fa mancare
un'identità agguerrita sul piano industriale e internazionale, tuttavia l'autarchia del
regime non controlla interamente le dinamiche e i soggetti attivi in questo campo, che
daranno i loro frutti dopo la fine del conflitto.
9.2 Il secondo dopoguerra
I film nordamericani tornano massicciamente sul nostro mercato al termine della
guerra, apprezzati da un pubblico che tuttavia non li vive in contrapposizione al
prodotto nazionale.
A Cinecittà restano le competenze necessarie a riassemblare il principale apparato del
sistema comunicativo italiano, ma il contesto di riferimento (politico, economico,
legislativo) è capovolto: favorito dagli accordi tra ANICA (associazione dei
noleggiatori) e MPEAA (Motion Pictures Export Association of America), il film

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statunitense gode di accordi distributivi come il dumping, ovvero una vendita di
pacchetti-film ai distributori, che lo avvantaggiano nelle sale.
L'egemonia del cinema americano è aiutato dalla mancanza strutturale del nostro
sistema, che vede una rete distributiva disorganizzata e le diverse case di produzione
incapaci di accordarsi per orientare le loro strategie.
In queste condizioni favorevoli all'affermazione degli interessi americani che il
cinema italiano affronta le strategie della ricostruzione: l'elemento di novità è dato
dall'esperienza di una modalità produttiva indipendente, capace di intervenire anche
sul piano internazionale, che tuttavia non è vista di buon occhio dalle istituzioni
governative.
Durante questa dinamica di ristrutturazione il sistema assume caratteri ambigui di cui
non riuscirà mai a liberarsi del tutto: il successo internazionale del neorealismo, per
esempio, è dovuto sia alla sua rivoluzione espressiva, tesa a cogliere il senso della
trasformazione sociali in atto, sia all'indipendenza dalle tradizionali logiche
produttive.
Questi film vengono associati a un radicalismo sociale e culturale che ne collega
l'esperienza a uno schieramento politico antagonista, producendo uno scontro che
penalizza la possibilità di una sua futura integrazione strategica nello sviluppo del
sistema: in questo conflitto il cinema neorealista ha la peggio, sia perchè il pubblico
dimostra di gradire tipologie più spettacolari, sia perchè si persegue una linea
governativa di emarginazione e controllo dell'imprenditoria nazionale.
Negli anni '50 e '60 sono ormai chiari i caratteri semindustriali del nostro cinema, né
in quel periodo si avverte da parte della politica la coscienza di dover intervenire con
misure di programmazione e di sostegno; bisogna attendere il 1965, quando gli
equilibri sono ormai assestati, per vedere approvata una vera legge sul cinema.
I rapporti con il mondo politico sono difficili: la polemica tra Andreotti
(sottosegretario alla Cultura nel governo De Gasperi) e De Sica su “Umberto D.” ha
luogo non tanto per le oggettive divergenze estetico-ideologiche, quanto per ciò che
sottende, infatti De Sica è il capro espiatorio di complessi conflitti economici e
politici.
Il sostenitori del neorealismo e i suoi censori si scontrano sul progetto di
razionalizzazione del nostro cinema; il sistema degli anni '50, così lacerato, vive aql
di fuori di ogni ipotesi di programmazione, presentandosi squilibrato tra
l'immobilismo di un sistema bloccato anche sul piano giuridico e, per contro,
l'attivismo anomico.
Una realtà frammentata e disorganica, distante da un vero modello industriale, che
subisce la concorrenza della cinematografia nordamericana, sempre capace di
condizionare le potenzialità e le direzioni evolutive del nostro cinema.
Fin dai primi anni '50 le 3 componenti del sistema filmico italiano si rivelano
sconnesse: mancano soggetti forti nella produzione come nella distribuzione e
nell'esercizio, e le realtà più affermate (Cines, Lux, Cineriz, Titanus) non riescono a
mettere a punto moderne strategie complessive di tipo hollywoodiano: il risultato è
un sistema sregolato e dalla progettualità imprevedibile, ma con risvolti positivi,
come la flessibilità economica, una decisa capacità di rispecchiare il sociale e i suoi
mutamenti, la vocazione a intraprendere linee espressive innovativa, anche se questi

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risvolti hanno un carattere di provvisorietà che impedisce la pianificazione
economica e produttiva.
Alla mancanza di un “cinema dei generi” si contrappone l'emergere ciclico di filoni
come il peplum, il western spaghetti o l'erotico boccaccesco, modellati su impianti di
genere ma basati su uno sfruttamento a oltranza che non prevede investimenti sul
futuro; a parte la commedia, che in Italia ha funzionato come una sorta di
supergenere, i filoni si rivelano incapaci di produrre standard qualitativi durevoli.
Tra il 1945 e il 1960 la ricerca di filoni di film, mediani tra basso costo e alta resa
espressiva, è finalizzata all'individuazione di prototipi da serializzare, il che non
consente a tali prodotti di reggere durevolmente le tensioni del mercato: la durata
media di un filone in genere non supera il lustro.
Filoni come il western sono cartine al tornasole di processi che restano sospesi,
incompiuti dal punto di vista di una configurazione industriale del sistema che
avrebbe potuto meglio e opportunamente dialogare con le culture e le forme di
comunicazione extra cinematografiche.
Ma negli anni '60 (caratterizzati dall'incidenza sulle forme espressive del boom dei
consumi) assistiamo anche a un fenomeno divergente, quello del rapporto tra cinema
d'autore e il supergenere della commedia, che maturano una sostanziale identità sul
piano produttivo: la commedia è il luogo dove il sistema nazionale si interfaccia
meglio con i dispositivi sovranazionali di genere, sviluppando al massimo grado il
potenziale creativo a disposizione.
La commedia conquista il mercato fin dal tramonto degli anni '50 mettendo a punto la
determinazione di alcuni nodi strategici: l'intreccio tra competenze professionali e
risorse finanziarie; la messa a punto di una sofisticata serialità; il rapporto di
fidelizzazione tra pubblico e attori; l'allestimento di équipe tecniche collaudate; una
maggiore sinergia con la distribuzione: tutto ciò la rende il polo magnetico del
cinema italiano fino ai primi anni '70, e consente in raggiungimento di standard
qualitativi che porteranno finalmente il nostro sistema produttivo su un livello di
possibile agibilità internazionale.
Nella seconda metà degli anni '70, mentre mutavano gli assetti sistemici nazionali e
internazionali, il cinema italiano si è rivelato incapace di modernizzare le competenze
produttive e creative in direzione dei nuovi equilibri tra media (come la televisione) e
pubblico: in virtù di ciò esso ha perso la capacità concorrenziale acquisita negli anni
precedenti, e i suoi apparati vivono il nesso cinema/televisione come distanza,
alterità, e non come l'occasione di una fruttuosa integrazione tra media audiovisivi.
Tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80, mentre si avvia il sistema televisivo
misto, ritroviamo il prevalere di logiche tipiche di apparati in crisi e inadeguati alla
contemporaneità, logiche che il nostro cinema aveva già conosciuto e che
determinano una pesante congiuntura: come era avvenuto in passato si affermano
oligopoli e nuovi equilibri tra produzione, distribuzione ed esercizio.
Le ripercussioni sul numero delle sale saranno gravi, depauperando un patrimonio
sociale importante nella definizione della qualità della vita sul territorio nazionale.
Il declino della forma classica del consumo di cinema coincide con la chiusura delle
sale, soprattutto nelle periferie, e con l'emergere nei primi anni '80 di nuovi
dispositivi che individuano forme alternative di consumo, tra cui il satellite, la pay

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TV e il videoregistratore.
9.3 Dagli autori alla fiction
Tra il 1955 e il 1965 il cinema italiano è troppo debole per replicare le trasformazioni
del sistema audiovisivo internazionale: a fronte di una buona qualità media dei
prodotti persiste la tendenza alle iniziative sporadiche e disintegrate, ma resta in
forse, sempre sul bilico di una non raggiunta autonomia organizzativa, la coesione
propria di un sistema mediale compiuto.
Cinecittà offre le competenze dei propri quadri tecnici alle grandi produzioni
statunitensi, tuttavia l'offerta del cinema italiano si assesta su tipologie riconoscibili:
lo stabile film comico, il cosiddetto neorealismo rosa, che sposta verso la commedia
l'esperienza del dopoguerra, il film mitologico e quello variamente avventuroso.
Poi subentra una variabile imprevista che sottolinea l'aleatorietà sistemica di questo
quadro: nel 1954 la RAI avvia le trasmissioni televisive, un evento che gradualmente
svuota le sale; ma mentre cala gradualmente, ma costantemente, il consumo in sala,
cresce con forza il livello quantitativo e qualitativo dei consumi.
La commedia diventa il più sensibile terreno d'incontro tra l'immaginario del
pubblico e le politiche di produzione, confermandosi per tutti gli anni '70 grazie alla
capacità “critica” di restituire i mutamenti sociali e di costume della nazione.
Dal canto suo, la televisione riprende dal cinema la capacità di giocare con l'attitudine
autopoietica del pubblico, ma in modo più pervasivo grazie ai propri caratteri
tecnologici e alla maggiore forza del suo sistema; avvertendo questo gap come un
peso, il cinema assume misure protezionistiche nei riguardi della propria identità
linguistica, ma solo attraverso operazioni ideologiche che non toccano la sostanza
strutturale del problema.
Subisce l'integrazione mediale con la TV e crede di trovare nelle sperimentazioni del
cinema d'autore definitivi statuti di legittimità e nuovi pubblici: saranno proprio
questi film tuttavia a rendere permanente la disomogeneità delle strutture produttive e
delle professionalità creative, stazionando nella dimensione del prototipo.
Nei primi anni '80 l'industria cinematografica italiana è sollecitata dalle rapidissime
mutazioni dello scenario mediale: l'intervento della politica si rivela inadeguato a
soccorrere il cinema, privilegiando l'ambito televisivo in cui si gioca una partita che
coinvolge interessi molto più grandi e strategicamente urgenti.
Nei palinsesti del sistema televisivo misto, il cinema esplode come formato dal
fortissimo appeal: soprattutto nei primi anni, la televisione offre un numero
incredibile di film, sbilanciando a proprio favore la domanda del grande pubblico e
ridisegnando la geografia dei consumi culturali.
Il cinema tuttavia ha perso da tempo la capacità di lettura del presente, si arrocca in
attardamenti ideologici, incapace di mettere in scena comportamenti generazionali e
modelli culturali differenti da quelli delle sue professionalità storiche, oppure segue
da lontano la scia delle trasformazioni sociali, in cui il rapporto tra territorio e sistema
dei media muta velocemente.
Al contrario le reti televisive e informatiche incidono fortemente sulla conformazione
dello spazio urbano, riformulando i termini di riferimento delle culture e delle
subculture, agendo sui linguaggi e sui comportamenti, sui consumi, sui conflitti
sociali, sulle agenzie del consenso e sullo spostamento dei poteri diffusi: il vecchio e

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il nuovo si oppongono sul piano economico e su quello delle strutture cognitive, e lo
scenario sociale oscilla tra vecchi bisogni e nuovi desideri.
La situazione di crisi strutturale non riesce a sollecitare una reazione progettuale in
grado di rispondere, anche parzialmente, ai rinnovati livelli di socializzazione che il
contemporaneo sistema dei media richiede, magari ricorrendo a un rapporto integrato
cinema-televisione.
La consapevolezza di questo strategico snodo si farà strada all'interno del cinema
italiano non prima della metà degli anni '90, dopo che irreversibili cambiamenti negli
assetti organizzativi e imprenditoriali ne hanno ormai radicalmente ridotta e
ridisegnata la fisionomia.
9.4 Il cinema protoindustriale
Gli anni '90 vedono il cinema italiano ed europeo impegnati in un'attività interstiziale
rispetto alla crescente potenza del cinema statunitense, giunto a maturare dimensioni
imprenditoriali e industriali senza precedenti.
Di fronte a questa realtà fortemente concorrenziale, il cinema italiano vede
evidenziati i propri caratteri semindustriali e asistemici, ormai sempre più inadeguati
a reggere la sfida della comunicazione multimediale.
Dopo la fase critica del 1995, che ha visto una forte riduzione del consumo in sala e
della produzione, in nostro cinema ha vissuto un biennio di significativa ripresa, con
una lieve crescita dei film prodotti e degli spettatori.
Spesso, all'aumentare del numero di pellicole prodotte, corrisponde un paradossale
abbassamento degli investimenti finanziari complessivi; anche l'emergere di elementi
innovativi non si compie mai all'interno di una strategia funzionale, perchè anche se
stiamo assistendo a una crescita del numero delle sale e al lavoro rinnovamento
tecnologico, è anche vero che il sistema distributivo resta quasi interamente nelle
mani delle filiali delle major americane (tra gli italiani solo il Gruppo Cecchi Gori
rientra nel novero dei grandi distributori).
Tutto questo coincide con una debolezza produttiva che ha alcune ragioni essenziali:
una persistente diffidenza verso l'innovazione tecnologica; l'attardamento degli
apparati e dei soggetti imprenditoriali solo sul versante della produzione a danno del
marketing, degli effetti speciali, del merchandising; la scarsa rilevanza di
investimenti nazionali sul circuito delle multiplex, che costituiscono il futuro del
consumo in sala; lo scarso rapporto fra industrie dei media e ricerca scientifica.
Negli ultimi anni il primo posto degli incassi è stato appannaggio di produzioni
italiane basate sul corpo di comici come Benigni, Verdone, Pieraccioni, quasi sempre
partoriti dalla televisione: tuttavia a questi exploit non ha mai fatto da corollario un
rilancio generale del nostro cinema, come conferma della debolezza dell'offerta sul
mercato estero.
È possibile ipotizzare un recupero della situazione? Bisogna considerare 2 cose: la
prima è che le dimensioni reali del cinema americano risiedono in una scienza
imprenditoriale che ottimizza da sempre il rapporto tra risorse e mercato; la seconda è
che la digitalizzazione delle tecnologie consente di rimodellare competenze e bisogni
del fare cinematografico, offrendoci un orizzonte mobile in cui è necessario avere il
coraggio di praticare i sentieri sconosciuti dell'innovazione.

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