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alla cultura
■ I mezzi di comunicazione e l’economia della cultura
■ Gli studi sulla comunicazione di matrice liberal–pluralistica
■ Gli approcci dell’economia politica
■ Quale economia politica?
Contraddizioni
Le condizioni specifiche delle industrie culturali
Tensioni fra produzione e consumo
Creatori di testi
Informazione e intrattenimento
Variazioni storiche nei rapporti sociali di produzione culturale
■ La sociologia della cultura e gli studi sull’organizzazione e il management
■ La sociologia radicale e gli studi sui media
■ Il problema del significato: riflettere sui testi
■ Gli studi culturali
■ Oltre il conflitto studi culturali–economia politica
Produzione vs. consumo
Testi, informazione e intrattenimento
Problemi epistemologici
Politica e politiche
Problemi di determinazione e riduzionismo
Quali sono stati gli approcci degli studiosi alle industrie culturali? Compito del capitolo è indi-
viduare quei filoni di ricerca che hanno fornito gli strumenti più utili per affrontare i temi cen-
trali del libro – la spiegazione e la valutazione delle modalità di cambiamento/continuità nelle
industrie culturali a partire dai tardi Settanta. Ci si concentrerà quindi sugli approcci che affron-
tano i temi principali delineati nella seconda sezione dell’Introduzione (Perché le industrie
culturali sono importanti?). Sono necessari approcci di studio sensibili al potere delle indu-
strie culturali come potenziali produttrici di testi, come sistemi per l’organizzazione e il mar-
keting del lavoro creativo e come agenti di cambiamento. Si partirà dalle due tradizioni che
a prima vista promettono di fornire importanti contributi a tale analisi, ma che sono in realtà
compromesse dalla loro disattenzione nei confronti degli aspetti di potere.
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1
L’esempio attuale più notevole è quello di Caves 2000 e 2005. Tra gli altri, Doyle 2002, pp. 11-
15 e Picard 2002, pp. 9-18.
APPROCCI ALLA CULTURA 31
2
Buoni spunti critici si trovano nei seguenti testi, ordinati secondo la difficoltà tecnica: Grant e
Wood 2004, pp. 56-61; Gandy 1992; Garnham 2000, pp. 45-54; Baker 2002. Nessuno degli
autori è un economista, ma tutti usano utili concetti economici per criticare una pessima scien-
za economica. Mentre alcuni economisti riconoscono le limitazioni del modello neoclassicoi di
un attore razionale che persegue la massimizzazione dell’utilità, molti manuali di economia dei
media e della cultura restano insensibili a tali sviluppi.8.
32 CULTURAL INDUSTRIES
teri secondari, residuali dei sistemi di mercato (per la critica all’uso del concetto di
«fallimento del mercato» il riferimento è a Hardy 2004a).
I concetti economici forniscono quindi una lente importante per l’osservazione
della cultura e delle industrie culturali, ma la natura dell’economia come discipli-
na accademica e come forma di intervento politico implica una serie di cautele nel
suo impiego.
A partire dagli anni Trenta, i ricercatori hanno iniziato a studiare i mezzi di comu-
nicazione di massa con un approccio sociologico. Già negli anni Cinquanta, negli
Stati Uniti, esisteva una tradizione consolidata di studi sulla comunicazione.
Questo approccio ha continuato a prosperare, e si è diffuso in Europa come altro-
ve. Per molti anni, la preoccupazione dominante è stata rappresentata dagli «effet-
ti» dei messaggi dei media sull’audience, con la tendenza a concepire tali effetti
come limitati e difficili da provare (Lowery e DeFleur 1995). Tale tradizione fu
potentemente influenzata dal behaviorismo, dall’assunto cioè che la società possa
essere meglio indagata mediante l’osservazione del comportamento esterno degli
individui, piuttosto che mediante tentativi di comprendere processi ed eventi
mentali (con la psicologia o la filosofia) o questioni di potere e status (con la socio-
logia). Inoltre, l’analisi del consumo dei messaggi era separata da qualsiasi consi-
derazione sulla produzione e l’organizzazione culturale.
Opere più recenti d’impianto liberal-pluralistico si sono maggiormente occupate
dei temi del potere e della giustizia sociale in rapporto alla produzione culturale –
ossia dei fondamentali nuclei d’interesse di questo libro. Un filone importante guar-
da al modo in cui l’impatto dei media ha trasformato la comunicazione politica,
ponendo un forte accento sui pericoli sociali insiti nella crescente influenza sul pro-
cesso democratico esercitata da parte del broadcasting e dei media a stampa. Jay
Blumler e Michael Gurevitch (1995), per esempio, hanno parlato in modo convin-
cente di «crisi della comunicazione civica», e delle difficoltà di sostenere una citta-
dinanza partecipativa in una società in cui molti conoscono la politica solo attraver-
so la televisione. Altri autori della medesima corrente hanno tentato di sviluppare
modelli normativi finalizzati a valutare quanto (o quanto poco) i mezzi di comuni-
cazione di massa alimentino la democrazia (McQuail 1992). Il lavoro
dell’Euromedia Research Group (per esempio, 1997; McQuail e Siune 1998) e di
alcuni suoi importanti collaboratori (come il prolifico Jeremy Tunstall) ha fornito
significative informazioni sui cambiamenti nella politica culturale e nelle organizza-
zioni dell’industria culturale. Un’importante preoccupazione per il modo in cui le
industrie culturali modificano i processi democratici e la vita pubblica attraversa
questa messe di studi sulla comunicazione e di lavoro sociologico, condotti da una
prospettiva politica che si potrebbe in ultima istanza definire liberal-pluralistica.
A dispetto dell’importanza di questi contributi, vi sono limitazioni effettive nel
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filone degli studi liberal-pluralistici sulla comunicazione. In primo luogo, essi non
riescono a offrire alcun resoconto sistematico su come le industrie culturali si rap-
portino ai più generali processi economici, politici e socioculturali. Ciò discende dai
problemi del liberalismo pluralistico in quanto ideologia politica. Forme struttura-
te di disuguaglianza e di potere sono sottovalutate in favore di una nozione di
società implicitamente ottimistica, pensata come un’arena in cui diversi gruppi di
interesse lottano per affermare il proprio (per un’utile critica di tale forma di pen-
siero politico si veda Marsh 2002).
In secondo luogo, gli studi liberal-pluralistici sulla comunicazione tendono a
concepire il rapporto cultura-società essenzialmente sulla falsariga della formale
prassi democratica. In ultima istanza, per molti teorici della corrente, è determi-
nante l’informazione – l’idea cioè che ai cittadini partecipi debbano essere dati
strumenti di scelta razionale circa il miglior funzionamento delle istituzioni demo-
cratiche. L’informazione in vista di una cittadinanza e di una prassi democratica è
certamente importante: oggi però viviamo in società sempre più sature di intratte-
nimento. Non è sufficiente liquidare i piaceri dell’intrattenimento come una
distrazione dalla politica «reale». Alla luce della massiccia presenza dell’intratteni-
mento nella vita quotidiana dobbiamo ripensare la nostra concezione del modo in
cui la democrazia funziona, così come le nostre convinzioni su altri aspetti dell’esi-
stenza, inclusi noi stessi come esseri dotati di sentimenti ed emozioni e orientati
alla ricerca del piacere. Più avanti nel capitolo verrà suggerito come alcune corren-
ti della teoria della cultura e dei media – in particolare, gli approcci ispirati agli
studi culturali – possano fornire elementi utili ad affrontare questi temi nella cor-
retta direzione. Nel loro complesso, gli studi liberal–pluralistici sulla comunicazio-
ne sono rimasti in qualche modo ostili a tali ripensamenti.
Gli approcci dell’economia politica hanno assai più da offrire agli studi sulla comu-
nicazione di quelli basati sull’economia della cultura e dei media o di quelli di tipo
liberal-pluralistico. Economia politica è un termine generico per tutta una tradizio-
ne di analisi in disaccordo con la vulgata economica, in quanto conferisce maggior
rilievo alle questioni etiche e normative. Il termine non è stato rivendicato soltan-
to dalle componenti di sinistra che criticano l’emarginazione dei problemi di pote-
re e conflitto dall’economia mainstream: esistono anche vigorose tradizioni di
ricerca conservatrici. Pertanto, alcuni autori usano il termine economia politica
critica per distinguere le loro prospettive dall’elaborazione di economisti politici
classici come Adam Smith e David Ricardo, nonché dei loro eredi novecenteschi.3
3
Si veda Mosco (1995, pp. 22-65) per un’analisi dettagliata e ricca di informazioni degli approc-
ci di tipo economico-politico come base per la comprensione dell’economia politica della comu-
nicazione.
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Gli approcci alla cultura (o ai media o alla comunicazione: termini usati spesso
come intercambiabili nell’etichettare questo approccio) dell’economia politica cri-
tica si sono sviluppati nei tardi anni Sessanta fra sociologi universitari e analisti
politici interessati a valutare il crescente peso degli interessi privati nella produzio-
ne culturale. Gli approcci alla cultura propri dell’economia politica critica sono
spesso fraintesi, semplificati o liquidati. Poiché tali approcci sono fortemente criti-
ci nei confronti dei mass media e delle corporation della cultura, non sorprendo-
no né l’ostilità né l’indifferenza di molti fra quanti lavorano nelle istituzioni della
comunicazione. Forse sorprende di più l’animosità nei confronti dell’economia
politica di molti studiosi per altri versi orientati a sinistra.
Un fraintendimento comune consiste nel considerare gli approcci ispirati
all’economia politica come una versione dell’economia ortodossa della cultura e
dei media. In realtà, l’economia politica mira esplicitamente a sfidare l’assenza di
prospettiva etica nel paradigma neoliberista discusso più sopra. Peter Golding e
Graham Murdock (2005, pp. 61-65) distinguono gli approcci ai mezzi di comuni-
cazione ispirati all’economia politica da quelli basati sulla vulgata economica in
relazione a quattro aspetti:
• Gli approcci ispirati all’economia politica considerano il fatto che, nel modo di
produzione capitalistico, la produzione e il consumo di cultura sono un aspetto
fondamentale nella spiegazione delle disuguaglianze di potere, prestigio e pro-
fitto. Un simile rilievo posto sul capitalismo e i suoi effetti negativi dovrebbe
render chiaro che, sebbene non sia necessario essere marxisti per appartenere
alla corrente, di fatto tale visione può essere utile.
• Un contributo estremamente importante proveniente dall’economia politica è
consistito nel porre all’ordine del giorno dell’agenda intellettuale la discussione
relativa alla misura in cui le industrie culturali sono al servizio dei ricchi e dei
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potenti. Come risultato, un tema cruciale per gli approcci che si rifanno all’eco-
nomia politica è stato quello della proprietà e del controllo delle industrie cul-
turali (Capitoli 2 e 6). Si può sostenere che la proprietà delle industrie cultura-
li da parte di soggetti ricchi e potenti conduca in ultima istanza, grazie al con-
trollo delle organizzazioni dell’industria culturale, alla circolazione di testi che
servono gli interessi dei proprietari ricchi e potenti, e dei loro alleati politici ed
economici? Si è trattato di un dibattito talmente importante che studiosi, acca-
demici e studenti tendono, erroneamente, a riassumere gli approcci ispirati
all’economia politica nella considerazione che le organizzazioni operanti nel-
l’industria culturale servano effettivamente gli interessi dei loro proprietari lad-
dove, in realtà, molti autori sono impegnati proprio nel valutare le difficoltà e
le complessità inerenti a tale aspetto.
Dovrebbe essere ormai chiaro che la tematizzazione delle questioni etiche e politi-
che operata dagli approcci di studio che si rifanno all’economia politica reca al
nostro studio un apporto significativo, in particolare in relazione alle preoccupa-
zioni delineate nell’Introduzione. Tuttavia, alcune visioni dell’economia politica
della cultura hanno maggior portata ai fini della comprensione di ciò che produce
cambiamento/continuità nelle industrie culturali. Si impone quindi un’esposizio-
ne più dettagliata dell’economia politica, che contribuirà a contrastare semplifica-
zioni e fraintendimenti sorti intorno al termine.
Fautori e oppositori di un’economia politica della cultura tratteggiano spesso il
campo come se esso costituisse un approccio unificato. Vincent Mosco (1995, pp.
82-134) ha fornito un accurato resoconto delle differenze tra le elaborazioni del-
l’economia politica in tre aree geo-politiche: il Nordamerica, l’Europa e il «Terzo
mondo» – vale a dire i paesi in via di sviluppo dell’Asia, dell’America Latina e
dell’Africa. Nel capitolo 8 ci occuperemo dell’importante contributo di quest’ulti-
mo blocco, in relazione alla dipendenza culturale e all’imperialismo dei mezzi di
comunicazione,. Qui, tuttavia, si intende seguire l’efficace ripartizione di Mosco
discutendo le tensioni fra due particolari linee-guida degli approcci nordamericani
ed europei.
europei e non (Straw 1990; Ryan 1992; Aksoy e Robins 1992; Driver e Gillespie
1993; Toynbee 2000; Bolaño, Mastrini e Sierra 2004).4
• contraddizioni
• condizioni specifiche delle industrie culturali
• tensioni fra produzione e consumo
• creatori di testi
• informazione e intrattenimento
• variazioni storiche nei rapporti sociali di produzione culturale.
Contraddizioni
Il filone di Schiller-McChesney accentua gli usi strategici del potere. Non v’è dub-
bio che tali usi strategici da parte dell’industria siano comuni, ed è errato liquida-
re l’approccio di Schiller e altri come «teoria della cospirazione» (accusa talvolta
estesa all’approccio basato sull’economia politica in generale). Ma, enfatizzando
la scelta strategica deliberata, il filone sottovaluta le contraddizioni interne al
sistema. L’accento posto dall’approccio delle industrie culturali sui problemi e le
contraddizioni insiti nel parziale, incompleto processo di mercificazione della cul-
tura, fornisce una rappresentazione più accurata della produzione culturale. Esso
tiene conto delle contraddizioni interne alla produzione culturale di tipo industria-
le e commerciale, anziché postulare un’opposizione semplicistica fra corporation
e produttori «alternativi», non-profit, come nel filone di Schiller-McChesney.
4
Tale divisione trascura molti importanti contributi all’economia politica critica, come quelli di
James Curran, Michael Curtin, Peter Golding, Armand Mattelart, Vincent Mosco, Graham
Murdock e Thomas Streeter. Le migliori opere di questi autori, citate ripetutamente nel libro,
condividono molti dei punti di forza dell’approccio incentrato sulle industrie culturali, pur
seguendo un’impostazione specifica.
5
Certi docenti e studenti tendono a equiparare il pessimismo culturale di Adorno, Horkheimer e
altri membri della Scuola di Francoforte con l’economia politica, definendo l’uno nei termini
dell’altra. Tuttavia, come visto nell’Introduzione, Miège basa il suo peculiare approccio su una
critica di Adorno e Horkheimer. Per molti esponenti del filone Schiller-McChesney, i presuppo-
sti teoretici della Scuola di Francoforte sembrano pressoché irrilevanti.
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Creatori di testi
I processi di concentrazione, conglomerazione e integrazione, classificati esaustiva-
mente dal filone di Schiller-McChesney sono importanti (si veda il Capitolo 6 per
un’ulteriore discussione), ma Schiller, McChesney e altri studiano solo di rado
come tali aspetti della struttura del mercato modifichino l’organizzazione della pro-
duzione culturale e la produzione di testi a livello corrente, quotidiano.
L’approccio delle industrie culturali inserisce nel quadro i creatori di testi – coloro,
cioè, che sono responsabili dell’input creativo nei testi: scrittori, registi, produtto-
ri, interpreti – che erano quasi completamente assenti nella tradizione di ricerca di
Schiller-McChesney. L’approccio delle industrie culturali ha sottolineato le condi-
zioni entro cui operano i lavoratori culturali come risultante di suddetti processi.6
L’attenzione nei riguardi di tale importante aspetto rende l’approccio delle indu-
strie culturali più adeguato rispetto a quello di Schiller-McChesney per valutare il
grado di organizzazione della produzione culturale secondo criteri socialmente
equi (Capitolo 2).
Informazione e intrattenimento
Nella tradizione di ricerca di Schiller-McChesney, così come negli studi sulla comu-
nicazione di impostazione liberal-pluralistica, la preoccupazione principale va ai
6
Il fatto che Miège (1989), Garnham (1990) e Ryan (1992) abbiano prestato seria attenzione a que-
sto aspetto ha costituito per molti anni un’eccezione. Più di recente, autori nella tradizione degli
studi culturali, come Mc Robbie (1998) e Ross (1998), hanno iniziato a considerare il problema.
38 CULTURAL INDUSTRIES
Nella sociologia radicale dei mezzi di comunicazione e negli studi sui media sono
reperibili studi empirici sulle organizzazioni dell’industria culturale più sensibili di
quelli fin qui considerati nei confronti dei temi del potere. Il termine «radicale» è
usato qui nell’accezione per cui tali approcci vedono pericolose forme di potere e
7
Lo stesso Hirsch riflette sull’influsso esercitato dal suo articolo in Hirsch 2000
40 CULTURAL INDUSTRIES
8
Non è questa la sede per una valutazione adeguata del lavoro di Bourdieu sulla produzione cul-
turale. Per un’ulteriore discussione si rimanda a Hesmondhalgh 2006a.
APPROCCI ALLA CULTURA 41
empirici sulle organizzazioni dell’industria culturale non sono stati centrali in tale
tradizione. L’importante effetto della sociologia radicale è che, nei casi migliori,
essa connette le dinamiche di potere nelle industrie culturali con problemi di signi-
ficato – problemi circa i tipi di testi prodotti dalle organizzazioni dell’industria cul-
turale. Nella prossima sezione si esaminerà nello specifico il problema dei testi e
dei loro significati.
Sin qui, ci si è dedicati a quegli approcci alle industrie culturali che trattano più
adeguatamente dei problemi di potere in rapporto alle organizzazioni dell’industria
culturale. In quale modo questi diversi approcci considerano l’altra dimensione
identificata come cruciale delle industrie culturali – vale a dire il significato? Gli
studi sulla comunicazione di matrice liberal-pluralistica hanno operato, nella mag-
gioranza dei casi, con una concezione manchevole dei testi. Esiste un ramo di que-
sta tradizione che esamina i prodotti culturali con i metodi dell’analisi quantitati-
va del contenuto, con il fine di produrre una misurazione obiettiva e verificabile
del significato. Come rileva John Fiske, «essa può costituire un’utile verifica del
modo più soggettivo e selettivo in cui normalmente riceviamo i messaggi» (1990,
p. 137). Tuttavia, nella ricerca sugli effetti, c’è una nozione del contenuto come
messaggio che ha dominato tale tradizione di ricerca. È necessario introdurre una
nozione più complessa di significato, che riconosca la polisemia – vale a dire la capa-
cità dei testi di essere interpretati in una pluralità di modi. Ciò richiede la conside-
razione sia di problemi di forma, sia di problemi di contenuto (in realtà, i due non
sono mai separati, poiché l’uno agisce sempre sull’altro).
Laddove gli studi sulla comunicazione di matrice liberal-pluralistica mostrano in
genere una comprensione gravemente parziale dei testi come «contenuto» o «mes-
saggio», la prospettiva della produzione culturale, almeno fino a poco tempo fa
(Peterson 1997), ha spesso scelto di ignorare l’aspetto del significato testuale.
Richard A. Peterson, per esempio, nel sintetizzare l’elaborazione complessiva di
questa prospettiva, è stato estremamente sincero nell’ammettere l’assenza di inte-
resse per la forma e il contenuto dei manufatti culturali, benché abbia sostenuto che
l’interesse per la produzione può far da complemento a tali preoccupazioni (1976,
p. 10). Ciò suggerisce che lo studio della produzione non abbia effetto sullo studio
dei testi e che i due domini di analisi siano separati e autonomi. Se le tesi avanzate
nell’Introduzione sono corrette, tuttavia, la sfida dell’approccio delle industrie cul-
turali consiste nel riflettere su tali rapporti, anziché ignorarli. È infatti necessario
riflettere, per esempio, sul modo in cui trasformazioni storiche nei modi di produ-
zione e consumo di cultura sono in relazione con i cambiamenti nei testi.
Anche negli autori orientati verso un approccio alla cultura basato sull’econo-
mia politica si rileva la mancanza di attenzione per l’analisi testuale e il significa-
to. A dispetto dei suoi punti di forza, il lavoro di Miège menziona solo di sfuggita
42 CULTURAL INDUSTRIES
il problema del significato testuale. Molti dei saggi contenuti in Capitalism and
Communication di Garnham (1990) criticano la tendenza diffusa negli studi sulla
comunicazione di massa a «privilegiare il testo» e a «concentrarsi su problemi di
rappresentazione e ideologia» (p. 1).9 Nel filone di Schiller-McChesney opera la
convinzione fondamentale che la maggior parte dei testi prodotti dalle industrie
culturali siano conformisti e conservatori, ma non v’è alcuna prova citata a soste-
gno di tale convinzione che, per di più, è raramente esplicitata.
9
Nel libro Emancipation, the Media and Modernity (2000) Garnham si dedica allo studio dei testi e
delle forme simboliche molto più in dettaglio di quanto non facessero i suoi lavori degli anni
Ottanta e Novanta.
10
Nonostante ciò ci possono essere autori che talvolta indulgono in un «acritico populismo cul-
turale» (McGuigan 1992).
APPROCCI ALLA CULTURA 43
ragione, i migliori approcci dovuti agli studi culturali si possono concepire come
un affinamento considerevole dell’atteggiamento spesso sprezzante che si può
ritrovare in alcuni lavori dei filoni ispirati all’economia politica e agli studi sulla
comunicazione liberal-pluralistici, nei confronti della cultura popolare o non occi-
dentale. I migliori contributi degli studi culturali sono pervenuti a una considera-
zione approfondita e seria di una gamma molto più vasta di esperienze culturali di
quella riconosciuta nelle altre tradizioni di ricerca sulla cultura. Altri approcci
antropologici e sociologici (inclusa la sociologia empirica della cultura) hanno
avuto analogo impulso democratizzante, ma gli studi culturali hanno trattato in
modo più completo i problemi del potere simbolico.
Secondo: gli studi culturali hanno fornito un notevole affinamento di quel che
possiamo intendere con il difficile termine «cultura». In particolare, essi hanno
elaborato una potente critica dei concetti essenzialisti di cultura che vedevano la
cultura di un determinato luogo e/o popolazione come «cultura unica e condivi-
sa» (Hall 1994, p. 323), come qualche cosa di limitato e fisso, piuttosto che come
spazio complesso in cui molte diverse influenze si combinano e si oppongono.
Ancora una volta, il lavoro di autori esterni al centro metropolitano euro-ameri-
cano e di migranti da ex-colonie verso tale centro è stato importante nello svilup-
po di questa concezione. Simili sfide ai modi tradizionali di pensare la cultura
hanno importanti implicazioni su quanto segue. Grazie alla sua più ricca compren-
sione del concetto di cultura, infatti, la tradizione degli studi culturali ha promos-
so significativamente la riflessione sulla politica dei testi. Gli autori ispirati all’eco-
nomia politica e i loro alleati negli studi sui media e nella sociologia radicale dei
media sono stati toccati dal problema relativo a quali interessi potevano essere ser-
viti dai testi prodotti dalle industrie culturali. Gli studi culturali hanno esteso tale
concezione di interessi dominanti oltre quelli economici e politici, fino a include-
re una forte percezione della politica implicata negli aspetti di riconoscimento e
identità. Gli studi culturali hanno inoltre rimarcato come certi testi, in apparenza
innocui, servano invece a escludere ed emarginare (ulteriormente) soggetti relati-
vamente privi di potere.
Terzo, gli studi culturali hanno sollevato problemi politici vitali sul «chi parla?», su
chi detiene cioè l’autorità per formulare asserzioni sulla cultura. Ancora più rilevan-
te, è che tali domande sono rivolte con uguale vigore sia a chi tenta di criticare il
capitalismo, il patriarcato, l’eterossessismo, la supremazia dei bianchi, l’imperialismo
ecc., sia a chi difende tali strutture. In tutta la migliore produzione degli studi cultu-
rali è rintracciabile l’incessante messa in questione dell’autorità culturale. Gli antro-
pologi attivi negli studi culturali, per esempio, hanno attentamente vagliato l’appa-
rente obiettività dell’etnografo tradizionale, che osserva la cultura di popolazioni
«primitive», indigene, da una posizione relativamente privilegiata (Clifford 1988). In
un certo senso, ciò risponde alla critica indirizzata al positivismo e all’oggettivismo in
seguito alla «svolta ermeneutica» nelle scienze sociali dell’ultimo trentennio. Nei casi
meno felici, ciò implica un costruttivismo ingenuo e il sospetto sul diritto di dire
qualsiasi cosa relativo a un gruppo sociale meno potente. Discipline emergenti come
44 CULTURAL INDUSTRIES
i black studies, i queer studies e gli studi femministi hanno apportato nuove voci negli
studi culturali e sollevato seri, importanti interrogativi sulla politica del parlare delle
pratiche culturali di altri da una particolare posizione soggettiva (per esempio, quel-
la del maschio bianco, che ha studiato in una scuola privata).
Quarto, gli studi culturali hanno affrontato i temi della testualità, della sogget-
tività, dell’identità, del discorso e del piacere in relazione alla cultura. Ciò ha enor-
memente arricchito la nostra comprensione del modo in cui i giudizi di valore cul-
turale si possano rapportare alle politiche dell’identità sociale, specialmente in ter-
mini di classe, genere, etnia e sessualità. Non si tratta solamente di sostenere che
il gusto è un prodotto del retroterra sociale (approccio che la sociologia empirica
della cultura è stata incline a far proprio). Piuttosto, gli studi culturali indagano i
modi complessi in cui i sistemi di valori estetici si alimentano del potere culturale.
Quali voci trovano ascolto in una data cultura, e quali vengono emarginate? Quali
forme di piacere (e proprie di chi) sono approvate, e quali, sono avvertite come
rozze, stupide e persino pericolose? Sono tutti problemi che toccano il discorso,
cioè il modo in cui significati e testi circolano in una società. Essi riguardano anche
la soggettività e l’identità, e dunque i processi spesso irrazionali e inconsci median-
te i quali diventiamo quel che siamo. Tali problemi – secondari in molti degli
approcci alle industrie culturali discussi sopra – sono stati studiati con grande
determinazione dagli studi culturali, i cui autori hanno notato come le forme di
cultura più svalutate e oltraggiate risultano essere ancora quelle consumate da
gruppi sociali relativamente privi di potere. I lavori femministi su forme quali le
soap opera (Geraghty 1991) e i periodici femminili (Hermes 1995) sono stati estre-
mamente importanti a tale proposito.
Pertanto, gli studi culturali offrono strumenti potenzialmente preziosi per l’ana-
lisi delle industrie culturali. Tuttavia, l’applicazione di un tale approccio a quelle
industrie, o alla produzione culturale, è stata relativamente occasionale (si veda il
Box 1.1 per una discussione del concetto di «economia culturale»). Non mancano
importanti eccezioni e si nota una tendenza pronunciata a sottolineare il rapporto
reciproco tra industrie culturali e più vaste correnti culturali in una determinata
società. Keith Negus (1999, p. 14), per esempio, scrive che «un’industria produce
cultura», ma anche che «la cultura produce un’industria». Oppure, con le parole
di Simon Frith (2000, p. 27):
Howard Becker; con una maggior enfasi posta, tuttavia, sui problemi del potere e
della disuguaglianza, anche etnici e di genere. Gli approcci ispirati agli studi cultu-
rali completano quelli delle industrie culturali, poiché richiedono di considerare
più attentamente come ciò che i consumatori chiedono e ottengono dalla cultura
strutturi le condizioni entro cui le industrie devono operare. Un esempio può esse-
re come la capacità della musica di negoziare le relazioni fra il nostro sé pubblico
e privato ha strutturato il modo in cui l’industria musicale ha offerto merci musi-
cali da possedere proprio come altre merci. Gli approcci alla produzione propri
degli studi culturali sottovalutano forse il problema di come, a loro volta, le indu-
strie culturali agiscano sulla capacità della musica di operare una mediazione fra
privato e pubblico, ma nondimeno sollevano problemi interessanti e importanti,
che si possono integrare con le questioni poste da altri approcci.
Un’interessante prospettiva degli studi culturali sulla vita economica, nota come «economia cul-
turale» (Amin e Thrift 2004, du Gay e Pryke 2002) è interpretata talora come un’analisi delle
industrie culturali. Di fatto, la maggioranza degli studiosi che impiegano il termine nutre ambi-
zioni più vaste. Il loro scopo è quello di applicare intuizioni derivanti dalla tradizione post-strut-
turalista degli studi culturali alla produzione e alla vita economica in generale. L’economia cultu-
rale, in questa ottica, concepisce il dominio della pratica economica – nelle sue varie forme,
quali mercati e relazioni economiche e organizzative – come modellato e strutturato da discor-
si economici (du Gay e Pryke 2002). Da qui, si apre un nuovo punto di partenza per l’analisi,
piuttosto che un supplemento dell’analisi esistente, economica o politico-economica.
Ciò non preclude affatto l’analisi delle industrie culturali, come testimoniano alcuni lavori pubbli-
cati, benché attualmente tali lavori siano quantitativamente insufficienti a costituire un approccio
specifico alle industrie culturali (anziché un approccio alla produzione e all’economia in genera-
le). Comunque, l’economia culturale solleva temi circa le basi della critica degli sviluppi delle
industrie culturali. Tale approccio invita a porre in questione le facili dicotomie che certi econo-
misti politici e sociologi della cultura allestiscono fra il dominio della cultura e la crescente inva-
sione di tale dominio da parte dell’economia. La decostruzione di tali opposizioni binarie può
lasciare inevasi importanti problemi politici ed etici pertinenti ai rapporti cultura-commercio. Per
esempio, la mercificazione crea effetti potenzialmente nocivi? Ogni società esclude dalla merci-
ficazione alcuni aspetti del mondo – ad esempio, la natura, la personalità o la cultura. Nelle
società contemporanee, quali aspetti della cultura potrebbero essere preservati dallo scambio e
dalla proprietà privata, e per quali ragioni? (Questi temi sono indagati, per esempio, da John
Fraw, 1997, egli stesso un esponente degli studi culturali. Su ciò si tornerà nel Capitolo 2, in rap-
porto alla produzione culturale.)
ca dei concetti di cultura e dei problemi dell’identità culturale. C’è una certa iro-
nia nel fatto che, benché gran parte di tali elaborazioni siano risultate preziose, la
tradizione degli studi culturali abbia prodotto troppo pochi, e non già troppi, studi
empirici sul consumo e la ricezione.
Per quanto detto sopra, e per altri motivi, gli studi culturali hanno costituito un
contributo enorme alla nostra comprensione della cultura e del potere. Dato il loro
interesse nel mettere in questione le relazioni di potere vigenti, era prevedibile la
reazione virulenta da parte dei conservatori, che ritengono non problematiche,
oppure immutabili, le questioni di giustizia sociale. Ma l’approccio degli studi cul-
turali è stato simultaneamente attaccato anche dai suoi potenziali alleati liberali e
radicali. Gli attacchi più violenti sono venuti spesso da compagni di strada di sini-
stra, appartenenti alla tradizione dell’economia politica e della sociologia radicale
dei media, che spesso li accusano di latente complicità con il conservatorismo (per
esempio, Gitlin 1998; Miller e Philo 2000 e altri). Tuttavia, i sostenitori dell’ap-
proccio degli studi culturali hanno risposto per le rime e, di nuovo, i principali ber-
sagli sono stati i potenziali alleati della sinistra politica.
Forse a causa di tali battibecchi fra compagni di strada radicali con diverse con-
cezioni di come affrontare e combattere la disuguaglianza sociale, è sorta l’idea che
il campo degli studi sui media e la cultura popolare sia equamente suddiviso in due
opposti schieramenti – l’economia politica e gli studi culturali. L’idea non è riporta-
ta soltanto in libri e articoli, ma viene incessantemente ripresa anche durante semi-
nari, conferenze ecc., secondo lo schema: «L’economia politica dice bianco, gli studi
culturali nero». Anche quando alcuni studiosi sostengono di voler superare la frat-
tura, essi in realtà partono all’attacco di una versione caricaturale della posizione
contraria alla loro, con il risultato di riprodurre la leggenda (così Grossberg 1995).
Ma il conflitto economia politica–studi culturali è un modo impreciso e infrut-
tuoso di rappresentare gli approcci di studio ai mezzi di comunicazione e alla cul-
tura popolare. Esso semplifica un complesso intreccio di disaccordi e conflitti tra i
vari approcci discussi in questo capitolo riducendolo a due contendenti. La que-
stione, dunque, non è quella del conflitto tra studi culturali ed economia politica
– come se il campo della ricerca potesse essere diviso nettamente tra i due approc-
ci. E non è neppure quella del conflitto fra gli studi culturali, magari dipinti con i
tratti caricaturali che alcuni vagheggiano, e il resto. Il vero obiettivo consiste piut-
tosto nel trovare una maniera di comprendere le tensioni esistenti fra il numero
complessivo degli approcci alla cultura. In tale contesto, il problema cruciale è
quello di sintetizzare gli aspetti migliori degli approcci fin qui riassunti al fine di
produrre una spiegazione fruttuosa del cambiamento e della continuità nelle indu-
strie culturali. In questa sezione verrà delineata la prospettiva che ispira il libro
sulle più importanti controversie tra gli approcci più significativi.
APPROCCI ALLA CULTURA 47
l’abuso di potere. Tali approcci, tuttavia, hanno posto un accento fortissimo sul
contenuto informativo a scapito della forma, e hanno mostrato la tendenza a valu-
tare i contenuti cognitivi e i modi di pensiero razionali più di quelli estetici, emo-
tivi e affettivi (un’argomentazione analoga è presente in McGuigan 1998).
Giudicati nel loro complesso, a dispetto dei loro punti di forza, questi approcci pos-
sono forse essere rimproverati di trattare l’intrattenimento come semplice distrazio-
ne, un diversivo dal più auspicabile obiettivo della comunicazione di massa, vale a
dire l’attività del cittadino interessato, razionale e partecipativo. Le forme migliori
di analisi testuale e gli studi culturali vengono allora in soccorso nel contrastare
tale polarizzazione.
Problemi epistemologici
La leggenda del conflitto fra economia politica e studi culturali esagera il dissidio
tra i due approcci e sottostima le loro differenze nei confronti di altre metodologie
di studio. Alcune versioni degli studi culturali e dell’economia politica, preoccupa-
te di fondare la comprensione su una teoria del potere culturale, hanno più affini-
tà reciproche di quante ne abbiano con ricerche più orientate empiricamente (la
sociologia empirica della cultura, gli studi liberal-pluralistici sulla comunicazione).
Nondimeno, tra economia politica e studi culturali permangono gravi tensioni teo-
retiche ed epistemologiche. Gli autori della prima tradizione sono orientati verso il
realismo epistemologico – la «credenza in un mondo materiale esterno ai nostri
processi cognitivi, e dotato di certe proprietà specifiche, accessibili in definitiva alla
nostra conoscenza» (Garnham 1990, p. 3). Tale concezione è legata in modo cru-
ciale all’altra, secondo cui possiamo ottenere una conoscenza obiettiva di tale real-
tà indipendente. Gli studiosi vicini all’ambito degli studi culturali assumono inve-
ce una molteplicità di orientamenti epistemologici di tipo costruttivista e soggetti-
vista, nell’intento di raggiungere una maggior obiettività grazie al riconoscimento
dell’influsso dell’osservatore sull’osservato (sull’epistemologia femminista si veda
Couldry 2000b, pp. 12-14). In altri casi, essi mostrano un radicale scetticismo nei
confronti di ogni pretesa di verificabilità: ciò è vero in particolare per gli approcci
post-strutturalisti e post-modernisti. Ancora una volta, non si tratta del conflitto
fra economia politica e studi culturali. L’ala radicale, costruttivista e post-moderni-
sta, degli studi culturali è in disaccordo con tutti gli approcci alle industrie cultura-
li delineati nei primissimi paragrafi di questo capitolo, e non solo con l’economia
politica. Il positivismo tipico degli studi sulla comunicazione e della sociologia della
cultura non è meno distante dalla posizione critico-realistica dell’economia politi-
ca del post-modernismo degli studi culturali.
mettere a fuoco i temi dell’identità sociale (quali gender, etnicità e sessualità) anzi-
ché i temi dell’economia e della ridistribuzione delle risorse.11 Per alcuni, la preoc-
cupazione per l’identità sociale rappresenta un abbandono del progetto di formare
aggregazioni capaci di opporsi alle forze politiche ed economiche direttamente
responsabili dell’oppressione. Ecco perché alcuni studiosi che condividono l’approc-
cio dell’economia politica ritengono, come si è detto, che gli studi culturali siano
implicitamente conservatori. Secondo loro, infatti, gli studi culturali fraintendono il
potere (per esempio, Garnham 1990). Questa posizione non appartiene solo a que-
sta categoria di studiosi: certi sociologi radicali dei mezzi di comunicazione (come
Gitlin 1998, Miller e Philo 2000), così come certi studiosi dei media e coloro che si
rifanno alla sociologia empirica, ne condividono infatti la prospettiva. (Va ripetuto
comunque che l’idea complessiva del dissidio economia politica/studi culturali è un
modo troppo rozzo di rappresentare le posizioni in campo).
Alcune repliche alle considerazioni operate nell’ambito degli studi culturali
rispecchiano temi importanti. Costruire una pratica politica esclusivamente sul-
l’oppressione e l’ingiustizia subite dal gruppo cui si ritiene di appartenere rischia di
far abbandonare ogni idea di solidarietà e di empatia. Vi sono certo delle differen-
ze effettive tra il modo in cui il filone post-strutturalista degli studi culturali fonda
la critica delle relazioni sociali esistenti e il modo in cui essa è fondata dagli auto-
ri, marxisti, che si rifanno all’economia politica. Tuttavia, le incuranti polemiche di
alcuni commentatori radicali servono assai a poco. Anziché impegnarsi nel dialo-
go con nuovi e importanti modi di pensare la politica e la cultura, trovando una
unità d’intenti contro il neoconservatorismo, certi critici sembrano più interessati
a lanciare attacchi settari da entrambe le parti.
Le industrie culturali hanno un doppio ruolo: sono sistemi «economici» di pro-
duzione e produttori «culturali» di testi. La produzione è profondamente cultura-
le, e i testi sono determinati (benché non esclusivamente) da fattori economici. Se
intendiamo criticare le forme di cultura prodotte dalle industrie culturali, e i modi
in cui esse sono prodotte, dobbiamo tenere in considerazione sia la politica della
ridistribuzione, centrata su temi di economia politica, sia la politica del riconoscimen-
to, centrata su problemi di identità culturale (Fraser 1997).
11
Hall 1992 offre un resoconto degli studi culturali presentandoli come una reazione della sini-
stra ad alcune forme di marxismo, specialmente a quelle influenzate dallo stalinismo.
50 CULTURAL INDUSTRIES
sono essere riscontrate negli interessi della classe sociale che controlla i mezzi di
produzione, o negli imperativi capitalistici di profitto della proprietà. Benché si
tratti, appunto, di spiegazioni riduzionistiche, incapaci di rendere conto dell’inte-
razione complessa tra i diversi fattori implicati nella cultura, il fatto che alcune let-
ture di tipo politico-economico siano riduzioniste non è un valido argomento con-
tro la prospettiva di analisi politico-economia in quanto tali.
Un concetto indispensabile è qui quello di determinazione, nel senso di porre
limiti ed esercitare pressioni, piuttosto che nel senso di una forza esterna che causa
inevitabilmente un effetto (per un’esposizione di questa differenza si veda
Williams 1979, pp. 110-118). Una buona analisi interpolerà i processi di determi-
nazione economica con altri processi e pressioni culturali, e rifletterà sulle recipro-
che interazioni.12
Altri fattori importanti da sottolineare nell’esame di un momento, di un feno-
meno o di un processo culturale sono:
Certo, non tutte le spiegazioni potranno tener conto in ogni caso della com-
plessa combinazione delle forze in gioco. Quali elementi vengano accentuati
dipende «dai nostri propositi soggettivi, dalla conoscenza che pensiamo di potere
supporre nel nostro pubblico, o dall’identificazione di alcuni nuovi pezzi del puz-
zle storico sul quale desideriamo attirare l’attenzione dei lettori» (Rigby 1998, p.
XIII). Tale eclettismo non deve tuttavia comportare l’abbandono di priorità e pre-
occupazioni politiche ed etiche. I «propositi soggettivi» su cui Rigby richiama l’at-
tenzione potrebbero includere l’individuazione di determinati punti di pressione
per ottenere il mutamento sociale. Il pluralismo metodologico non deve significa-
re l’adozione di un’etica relativista e di un modello liberal-pluralistico di politica,
nel quale gli attuali sistemi democratici siano postulati come più o meno effetti-
vamente funzionanti.
Nel tentativo di risolvere un complesso di dibattiti espressi in termini spavento-
samente astratti si è speso ormai troppo tempo. Andrebbero abbandonate le intri-
cate dimostrazioni su ciò che Marx intendeva dire, e sul fatto che egli sia stato
frainteso o meno. Al contrario, è necessario impegnarsi a pensare la complessa
interazione di molteplici determinazioni in ogni situazione, al fine di capire quan-
to possa essere difficile ottenere il cambiamento sociale e dove esso potrebbe aver
12
Molti eminenti esponenti neomarxisti degli studi culturali hanno reiteratamente sottolineato
l’importanza della determinazione multipla o surdeterminazione, pur conservando l’idea di
determinazione in ultima istanza (così Grossberg 1995). Tuttavia, in gran parte della bibliogra-
fia degli studi culturali, è difficile trovare indicazioni davvero esplicite di fattori economico-poli-
tici, al di là dell’evocazione del termine «capitalismo».
APPROCCI ALLA CULTURA 51
APPROFONDIMENTI14
Poiché il capitolo ha commentato una grande quantità di testi sulle industrie cul-
turali, ci si limiterà qui a discutere opere di carattere generale.
13
Se il marxismo sia in sé riduzionista è un ambito di discussione enormemente difficile, e non è
questo il luogo per affrontarlo. Le argomentazioni di Rigby 1998 chiariscono la concezione
secondo cui il marxismo non è necessariamente riduzionista ma, laddove evita il riduzionismo,
sfocerebbe in un pluralismo che lo rende indiscernibile dalle sociologie pluralistiche.
14
Le informazioni bibliografiche complete sulle opere indicate nelle sezioni “Approfondimenti”
poste al termine dei principali capitoli si possono trovare nella bibliografia in coda al libro.
52 CULTURAL INDUSTRIES
Sociologia dei media di McQuail è l’opera d’insieme più autorevole nel campo
della comunicazione di massa, dal punto di vista degli studi sulla comunicazione
di impostazione liberal-pluralistica.
Storia delle teorie della comunicazione di Armand e Michèle Mattelart getta un’om-
bra sul provincialismo di molti lavori anglo-americani.
La tradizione di ricerca di Schiller-McChesney ha dimostrato minor interesse
per la teoria che per la pratica militante, ma Theorizing Communication di Dan
Schiller (1997) narra la vicenda degli sviluppi nella ricerca sulla comunicazione in
un modo singolare e innovativo.
Il miglior manuale, per chi scrive, è Media/Society di Croteau e Hoynes (2002).
Una collana della Open University, Understanding Media, fornisce un’introduzio-
ne allo studio dei mezzi di comunicazione: ne fanno parte Media Audiences di Marie
Gillespie (edizione italiana a cura di Michele Sorice, 2007), Analysing Media Texts di
Gillespie e Toynbee (2006) e Media Production di Hesmondhalgh (2006).
Approcci specifici
Gli studi migliori consacrati all’approccio basato sull’economia politica sono The
Political Economy of Communication di Vincent Mosco (1995) e la poco nota raccolta
di saggi Culture Works di Richard Maxwell (2001). Mosco offre una buona discus-
sione dei limiti della vulgata dell’economia ortodossa; il che vale anche per il capi-
tolo sulle industrie culturali di Emancipation, the Media and Modernity di Nicholas
Garnham (2000).
Peter Golding e Graham Murdock hanno fornito una serie di contributi impor-
tanti sull’approccio dell’economia politica critica ai media e alla cultura, a partire
da un saggio del 1974 (Murdock e Golding 1974), e da un’opera d’insieme sul
campo in fieri delle comunicazioni nel 1977 (Murdock e Golding 1977). Nel 1991
ne hanno pubblicato una versione sostanzialmente rinnovata (Culture, communica-
tions and political economy), che è stato rivista tre volte nel 1996, 2000 e 2005
(Golding e Murdock 2005). Nelle tre versioni, è possibile rintracciare alcuni muta-
menti interni alla tradizione dell’economia politica critica.
Gli studi culturali sembrano essere o in crisi o in declino. La miglior opera d’in-
sieme resta Inside Culture di Nick Couldry (2000), che copre un rimarchevole ambi-
to internazionale. Il saggio di Simon Frith, “The popular music industry” (2000) è
un modello di applicazione delle intuizioni degli studi culturali alle industrie cul-
turali. Anche il lavoro di Keith Negus è importante sotto questo profilo – ad esem-
pio Music Genres and Corporate Culture (1999) – benché, come molti studiosi, anche
Negus sia con il tempo divenuto critico nei confronti degli studi culturali. Benché
gran parte della bibliografia relativa agli studi culturali sia reperibile solo in ingle-
se, al lettore interessato ad approfondire questo approccio si suggerisce la lettura
del recente volume curato da Cristina Demaria e Siri Nergaard, Studi culturali. Temi
e prospettive a confronto (2008)