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Approcci 1

alla cultura
■ I mezzi di comunicazione e l’economia della cultura
■ Gli studi sulla comunicazione di matrice liberal–pluralistica
■ Gli approcci dell’economia politica
■ Quale economia politica?
Contraddizioni
Le condizioni specifiche delle industrie culturali
Tensioni fra produzione e consumo
Creatori di testi
Informazione e intrattenimento
Variazioni storiche nei rapporti sociali di produzione culturale
■ La sociologia della cultura e gli studi sull’organizzazione e il management
■ La sociologia radicale e gli studi sui media
■ Il problema del significato: riflettere sui testi
■ Gli studi culturali
■ Oltre il conflitto studi culturali–economia politica
Produzione vs. consumo
Testi, informazione e intrattenimento
Problemi epistemologici
Politica e politiche
Problemi di determinazione e riduzionismo

Quali sono stati gli approcci degli studiosi alle industrie culturali? Compito del capitolo è indi-
viduare quei filoni di ricerca che hanno fornito gli strumenti più utili per affrontare i temi cen-
trali del libro – la spiegazione e la valutazione delle modalità di cambiamento/continuità nelle
industrie culturali a partire dai tardi Settanta. Ci si concentrerà quindi sugli approcci che affron-
tano i temi principali delineati nella seconda sezione dell’Introduzione (Perché le industrie
culturali sono importanti?). Sono necessari approcci di studio sensibili al potere delle indu-
strie culturali come potenziali produttrici di testi, come sistemi per l’organizzazione e il mar-
keting del lavoro creativo e come agenti di cambiamento. Si partirà dalle due tradizioni che
a prima vista promettono di fornire importanti contributi a tale analisi, ma che sono in realtà
compromesse dalla loro disattenzione nei confronti degli aspetti di potere.
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I mezzi di comunicazione e l’economia della cultura

L’economia della cultura è la branca dell’economia specificamente rivolta alla cul-


tura e alle arti; l’economia dei media, da parte sua, utilizza concetti economici nel-
l’analisi dei mezzi di comunicazione. Entrambe sono state per lungo tempo margi-
nali nel campo degli studi economici, ma in anni recenti hanno conosciuto una
sorta di boom, in particolare l’economia dei media (si vedano, per esempio, Doyle
2002; Hoskins et alii 2004). Ciò si può spiegare, almeno in parte, con il profondo
influsso esercitato dall’austera scienza economica sui mezzi di comunicazione e
sulle politiche culturali (come si vedrà nel Capitolo 4).
Da quando si è sviluppata nella sua forma moderna, vale a dire dal XIX secolo,
l’economia è stata dominata da specifiche concezioni dei propri assunti e dei pro-
pri confini, che si possono definire «neoclassiche» onde distinguerle dagli assunti
dell’economia «classica» del XVIII secolo. L’economia neoclassica non è interessa-
ta né all’individuazione dei bisogni e dei diritti umani, né all’intervento in proble-
mi di giustizia sociale, si concentra invece sul modo in cui i bisogni individuali tro-
vano la soddisfazione più efficace. Anche se il linguaggio e i metodi dell’economia
neoclassica sono spesso molto specialistici ed esoterici, essa pretende di essere una
scienza sociale pragmatica, volta a determinare come e in quali condizioni i mer-
cati consentano un’allocazione ottima delle risorse tra i soggetti. L’economia neo-
classica identifica il benessere individuale con la capacità di massimizzare la soddi-
sfazione e offre metodi per calcolarla, il che ne mostra le radici utilitaristiche –
posto che l’utilitarismo è la filosofia della massimizzazione della felicità (Mosco
1995, pp. 47-48). Date le preoccupazioni – richiamate nell’Introduzione – per il
modo in cui la vita pubblica e la quotidianità sono modificate dai prodotti dell’in-
dustria culturale, l’allontanamento dei problemi relativi a potere e giustizia suona
quanto meno riduttivo. L’equazione tra felicità umana e massimizzazione delle
soddisfazioni economiche, presupposto implicito dell’economia neoclassica eredi-
tato da molti studiosi dell’economia dei media e della cultura, offre una base meto-
dologica ristretta per la valutazione delle industrie culturali.
Nonostante ciò, sarebbe però un grave errore pensare che i concetti economi-
ci siano irrilevanti o inutili per l’analisi della produzione culturale che qui si con-
duce. Il problema cruciale è se gli economisti riconoscano o meno, e con quali
implicazioni, la specificità del dominio della cultura, dei simboli e dell’informazio-
ne, in opposizione ad altre forme di attività sociale. Gli economisti dei mezzi di
comunicazione e della cultura hanno riconosciuto la specifica natura dei media e
della cultura, includendola nelle loro analisi.1 Contributi di questo tipo hanno
influenzato il modo in cui altre e più critiche correnti di analisi hanno colto la
natura specifica delle industrie culturali (soprattutto Miège 1989, e Garnham

1
L’esempio attuale più notevole è quello di Caves 2000 e 2005. Tra gli altri, Doyle 2002, pp. 11-
15 e Picard 2002, pp. 9-18.
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1990 –infra). L’analisi dei tratti distintivi delineata nell’Introduzione dipendeva a


sua volta da tali contributi, e impiegava concetti economici quali la distinzione
beni privati/beni pubblici, il rapporto fra costi di produzione e di riproduzione, e
la creazione di scarsità artificiale.
Il problema è che anche economisti attenti all’analisi delle specificità dei mezzi
di comunicazione e dei prodotti culturali omettono sovente di riconoscere le con-
seguenze di tali specificità, e i limiti dei concetti economici fondamentali che sot-
tendono i loro approcci. Non è questa la sede per rendere conto di tali limiti.2 Il
punto cruciale verte sul modo in cui l’economia come disciplina abbia giocato un
ruolo strategico nel generare forme di intervento pubblico. Nelle sue forme più
impopolari, la scienza economica dominante ha contribuito ad alimentare un
approccio neoliberista alla cultura, che svolge una parte importante nella vicenda
di cambiamento e continuità narrata in questo libro (in particolare il Capitolo 3).
Presupposto dell’approccio neoliberista alla cultura è l’idea, di matrice neoclas-
sica, che una concorrenza «libera» e non regolamentata produrrà mercati efficien-
ti. Il neoliberismo compie un ulteriore passo, assumendo che la formazione di mer-
cati efficienti debba essere l’obiettivo prioritario delle politiche pubbliche. In alcu-
ni casi, ciò ha comportato la sottovalutazione o l’emarginazione della specificità dei
mezzi di comunicazione e della cultura, e la difesa della tesi secondo cui i modelli
economici possono essere impiegati nell’analisi dei beni culturali (quali televisio-
ne, libri e giornali) allo stesso modo in cui lo sono nell’analisi di altri beni. Per cita-
re uno dei massimi economisti dei mezzi di comunicazione, Ronald Coase (1974,
p. 389), non v’è «differenza essenziale» tra «il mercato dei beni e quello delle
idee». Forse la più nota espressione di ciò è la considerazione di Mark Fowler, inse-
diato nel 1981 dall’ultraconservatore presidente americano Ronald Reagan a capo
della Commissione Federale per le Comunicazioni, secondo cui «la televisione è
un elettrodomestico come gli altri… un tostapane con immagini» (citato, per
esempio, da Baker 2002, p. 3). Questa posizione implica provocatoriamente che
non ci sia differenza tra televisione e tostapane, in quanto entrambi sarebbero meri
beni economici da comprare e vendere. Tuttavia, anche le analisi economiche che
riconoscono la specificità dei mezzi di comunicazione e della cultura, e insieme i
limiti dell’analisi economica tradizionale, tendono a sottovalutare l’importanza dei
problemi posti dai mercati culturali. I lavori di Richard Caves (2000 e 2005) sem-
brano indicativi di tale tendenza. Altri esempi si possono reperire nel modo in cui
il concetto economico di «fallimento del mercato» è stato invocato per giustificare
interventi pubblici continuativi nei mercati del broadcasting, al prezzo di relegare
obiettivi non-economici, quali la partecipazione democratica dei cittadini, a carat-

2
Buoni spunti critici si trovano nei seguenti testi, ordinati secondo la difficoltà tecnica: Grant e
Wood 2004, pp. 56-61; Gandy 1992; Garnham 2000, pp. 45-54; Baker 2002. Nessuno degli
autori è un economista, ma tutti usano utili concetti economici per criticare una pessima scien-
za economica. Mentre alcuni economisti riconoscono le limitazioni del modello neoclassicoi di
un attore razionale che persegue la massimizzazione dell’utilità, molti manuali di economia dei
media e della cultura restano insensibili a tali sviluppi.8.
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teri secondari, residuali dei sistemi di mercato (per la critica all’uso del concetto di
«fallimento del mercato» il riferimento è a Hardy 2004a).
I concetti economici forniscono quindi una lente importante per l’osservazione
della cultura e delle industrie culturali, ma la natura dell’economia come discipli-
na accademica e come forma di intervento politico implica una serie di cautele nel
suo impiego.

Gli studi sulla comunicazione di matrice liberal–pluralistica

A partire dagli anni Trenta, i ricercatori hanno iniziato a studiare i mezzi di comu-
nicazione di massa con un approccio sociologico. Già negli anni Cinquanta, negli
Stati Uniti, esisteva una tradizione consolidata di studi sulla comunicazione.
Questo approccio ha continuato a prosperare, e si è diffuso in Europa come altro-
ve. Per molti anni, la preoccupazione dominante è stata rappresentata dagli «effet-
ti» dei messaggi dei media sull’audience, con la tendenza a concepire tali effetti
come limitati e difficili da provare (Lowery e DeFleur 1995). Tale tradizione fu
potentemente influenzata dal behaviorismo, dall’assunto cioè che la società possa
essere meglio indagata mediante l’osservazione del comportamento esterno degli
individui, piuttosto che mediante tentativi di comprendere processi ed eventi
mentali (con la psicologia o la filosofia) o questioni di potere e status (con la socio-
logia). Inoltre, l’analisi del consumo dei messaggi era separata da qualsiasi consi-
derazione sulla produzione e l’organizzazione culturale.
Opere più recenti d’impianto liberal-pluralistico si sono maggiormente occupate
dei temi del potere e della giustizia sociale in rapporto alla produzione culturale –
ossia dei fondamentali nuclei d’interesse di questo libro. Un filone importante guar-
da al modo in cui l’impatto dei media ha trasformato la comunicazione politica,
ponendo un forte accento sui pericoli sociali insiti nella crescente influenza sul pro-
cesso democratico esercitata da parte del broadcasting e dei media a stampa. Jay
Blumler e Michael Gurevitch (1995), per esempio, hanno parlato in modo convin-
cente di «crisi della comunicazione civica», e delle difficoltà di sostenere una citta-
dinanza partecipativa in una società in cui molti conoscono la politica solo attraver-
so la televisione. Altri autori della medesima corrente hanno tentato di sviluppare
modelli normativi finalizzati a valutare quanto (o quanto poco) i mezzi di comuni-
cazione di massa alimentino la democrazia (McQuail 1992). Il lavoro
dell’Euromedia Research Group (per esempio, 1997; McQuail e Siune 1998) e di
alcuni suoi importanti collaboratori (come il prolifico Jeremy Tunstall) ha fornito
significative informazioni sui cambiamenti nella politica culturale e nelle organizza-
zioni dell’industria culturale. Un’importante preoccupazione per il modo in cui le
industrie culturali modificano i processi democratici e la vita pubblica attraversa
questa messe di studi sulla comunicazione e di lavoro sociologico, condotti da una
prospettiva politica che si potrebbe in ultima istanza definire liberal-pluralistica.
A dispetto dell’importanza di questi contributi, vi sono limitazioni effettive nel
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filone degli studi liberal-pluralistici sulla comunicazione. In primo luogo, essi non
riescono a offrire alcun resoconto sistematico su come le industrie culturali si rap-
portino ai più generali processi economici, politici e socioculturali. Ciò discende dai
problemi del liberalismo pluralistico in quanto ideologia politica. Forme struttura-
te di disuguaglianza e di potere sono sottovalutate in favore di una nozione di
società implicitamente ottimistica, pensata come un’arena in cui diversi gruppi di
interesse lottano per affermare il proprio (per un’utile critica di tale forma di pen-
siero politico si veda Marsh 2002).
In secondo luogo, gli studi liberal-pluralistici sulla comunicazione tendono a
concepire il rapporto cultura-società essenzialmente sulla falsariga della formale
prassi democratica. In ultima istanza, per molti teorici della corrente, è determi-
nante l’informazione – l’idea cioè che ai cittadini partecipi debbano essere dati
strumenti di scelta razionale circa il miglior funzionamento delle istituzioni demo-
cratiche. L’informazione in vista di una cittadinanza e di una prassi democratica è
certamente importante: oggi però viviamo in società sempre più sature di intratte-
nimento. Non è sufficiente liquidare i piaceri dell’intrattenimento come una
distrazione dalla politica «reale». Alla luce della massiccia presenza dell’intratteni-
mento nella vita quotidiana dobbiamo ripensare la nostra concezione del modo in
cui la democrazia funziona, così come le nostre convinzioni su altri aspetti dell’esi-
stenza, inclusi noi stessi come esseri dotati di sentimenti ed emozioni e orientati
alla ricerca del piacere. Più avanti nel capitolo verrà suggerito come alcune corren-
ti della teoria della cultura e dei media – in particolare, gli approcci ispirati agli
studi culturali – possano fornire elementi utili ad affrontare questi temi nella cor-
retta direzione. Nel loro complesso, gli studi liberal–pluralistici sulla comunicazio-
ne sono rimasti in qualche modo ostili a tali ripensamenti.

Gli approcci dell’economia politica

Gli approcci dell’economia politica hanno assai più da offrire agli studi sulla comu-
nicazione di quelli basati sull’economia della cultura e dei media o di quelli di tipo
liberal-pluralistico. Economia politica è un termine generico per tutta una tradizio-
ne di analisi in disaccordo con la vulgata economica, in quanto conferisce maggior
rilievo alle questioni etiche e normative. Il termine non è stato rivendicato soltan-
to dalle componenti di sinistra che criticano l’emarginazione dei problemi di pote-
re e conflitto dall’economia mainstream: esistono anche vigorose tradizioni di
ricerca conservatrici. Pertanto, alcuni autori usano il termine economia politica
critica per distinguere le loro prospettive dall’elaborazione di economisti politici
classici come Adam Smith e David Ricardo, nonché dei loro eredi novecenteschi.3

3
Si veda Mosco (1995, pp. 22-65) per un’analisi dettagliata e ricca di informazioni degli approc-
ci di tipo economico-politico come base per la comprensione dell’economia politica della comu-
nicazione.
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Gli approcci alla cultura (o ai media o alla comunicazione: termini usati spesso
come intercambiabili nell’etichettare questo approccio) dell’economia politica cri-
tica si sono sviluppati nei tardi anni Sessanta fra sociologi universitari e analisti
politici interessati a valutare il crescente peso degli interessi privati nella produzio-
ne culturale. Gli approcci alla cultura propri dell’economia politica critica sono
spesso fraintesi, semplificati o liquidati. Poiché tali approcci sono fortemente criti-
ci nei confronti dei mass media e delle corporation della cultura, non sorprendo-
no né l’ostilità né l’indifferenza di molti fra quanti lavorano nelle istituzioni della
comunicazione. Forse sorprende di più l’animosità nei confronti dell’economia
politica di molti studiosi per altri versi orientati a sinistra.
Un fraintendimento comune consiste nel considerare gli approcci ispirati
all’economia politica come una versione dell’economia ortodossa della cultura e
dei media. In realtà, l’economia politica mira esplicitamente a sfidare l’assenza di
prospettiva etica nel paradigma neoliberista discusso più sopra. Peter Golding e
Graham Murdock (2005, pp. 61-65) distinguono gli approcci ai mezzi di comuni-
cazione ispirati all’economia politica da quelli basati sulla vulgata economica in
relazione a quattro aspetti:

• gli approcci ai mezzi di comunicazione ispirati all’economia politica sono olisti-


ci, in quanto considerano l’economia nelle sue interrelazioni con la vita politi-
ca, sociale e culturale, e non come un dominio separato;
• sono storicizzati, in quanto estremamente attenti ai cambiamenti di lungo perio-
do nel ruolo culturale dello stato, delle corporation e dei mezzi di comunicazione;
• sono «essenzialmente interessati all’equilibrio tra impresa capitalistica e inter-
vento pubblico» (p. 61);
• infine, «e forse soprattutto», essi «superano le questioni tecniche di efficienza
per impegnarsi nei fondamentali problemi morali di giustizia, equità e interes-
se pubblico» (p. 61).

Quella di Golding e Murdock è un’importante definizione degli approcci ispirati


all’economia politica, e ne chiarisce indubbiamente la differenza rispetto agli approc-
ci ispirati dall’economia ortodossa della cultura e dei media. Due ulteriori elementi
aiuteranno a delineare ancor meglio la specificità di questa tradizione analitica:

• Gli approcci ispirati all’economia politica considerano il fatto che, nel modo di
produzione capitalistico, la produzione e il consumo di cultura sono un aspetto
fondamentale nella spiegazione delle disuguaglianze di potere, prestigio e pro-
fitto. Un simile rilievo posto sul capitalismo e i suoi effetti negativi dovrebbe
render chiaro che, sebbene non sia necessario essere marxisti per appartenere
alla corrente, di fatto tale visione può essere utile.
• Un contributo estremamente importante proveniente dall’economia politica è
consistito nel porre all’ordine del giorno dell’agenda intellettuale la discussione
relativa alla misura in cui le industrie culturali sono al servizio dei ricchi e dei
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potenti. Come risultato, un tema cruciale per gli approcci che si rifanno all’eco-
nomia politica è stato quello della proprietà e del controllo delle industrie cul-
turali (Capitoli 2 e 6). Si può sostenere che la proprietà delle industrie cultura-
li da parte di soggetti ricchi e potenti conduca in ultima istanza, grazie al con-
trollo delle organizzazioni dell’industria culturale, alla circolazione di testi che
servono gli interessi dei proprietari ricchi e potenti, e dei loro alleati politici ed
economici? Si è trattato di un dibattito talmente importante che studiosi, acca-
demici e studenti tendono, erroneamente, a riassumere gli approcci ispirati
all’economia politica nella considerazione che le organizzazioni operanti nel-
l’industria culturale servano effettivamente gli interessi dei loro proprietari lad-
dove, in realtà, molti autori sono impegnati proprio nel valutare le difficoltà e
le complessità inerenti a tale aspetto.

Quale economia politica?

Dovrebbe essere ormai chiaro che la tematizzazione delle questioni etiche e politi-
che operata dagli approcci di studio che si rifanno all’economia politica reca al
nostro studio un apporto significativo, in particolare in relazione alle preoccupa-
zioni delineate nell’Introduzione. Tuttavia, alcune visioni dell’economia politica
della cultura hanno maggior portata ai fini della comprensione di ciò che produce
cambiamento/continuità nelle industrie culturali. Si impone quindi un’esposizio-
ne più dettagliata dell’economia politica, che contribuirà a contrastare semplifica-
zioni e fraintendimenti sorti intorno al termine.
Fautori e oppositori di un’economia politica della cultura tratteggiano spesso il
campo come se esso costituisse un approccio unificato. Vincent Mosco (1995, pp.
82-134) ha fornito un accurato resoconto delle differenze tra le elaborazioni del-
l’economia politica in tre aree geo-politiche: il Nordamerica, l’Europa e il «Terzo
mondo» – vale a dire i paesi in via di sviluppo dell’Asia, dell’America Latina e
dell’Africa. Nel capitolo 8 ci occuperemo dell’importante contributo di quest’ulti-
mo blocco, in relazione alla dipendenza culturale e all’imperialismo dei mezzi di
comunicazione,. Qui, tuttavia, si intende seguire l’efficace ripartizione di Mosco
discutendo le tensioni fra due particolari linee-guida degli approcci nordamericani
ed europei.

• Un filone nordamericano di elaborazione, esemplificato dai lavori di Herbert


Schiller, Noam Chomsky, Edward Herman e Robert McChesney. Il filone
Schiller-McChesney è stato estremamente importante nel censire e documenta-
re la crescita delle industrie culturali in termini di ricchezza e potere, nonché i
loro legami con gli alleati politici ed economici.
• L’approccio incentrato sulle industrie culturali, inaugurato in Europa da
Bernard Miège (1989; si veda anche Miège 2000, per una messa a punto più
recente) e Nicholas Garnham (1990), fra gli altri, e continuato da altri autori,
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europei e non (Straw 1990; Ryan 1992; Aksoy e Robins 1992; Driver e Gillespie
1993; Toynbee 2000; Bolaño, Mastrini e Sierra 2004).4

Nell’Introduzione, si è fatto riferimento al lavoro di Bernard Miège, che ha con-


tribuito a divulgare il termine «industrie culturali» (opposto all’industria culturale di
Adorno e Horkheimer), come a un esempio di approccio che dava conto della com-
plessità, della conflittualità e dell’ambivalenza presenti nello studio della cultura.5
Come suggerito dall’apprezzamento per Miège e Garnham, si ritiene che l’approccio
delle industrie culturali sia più promettente del filone Schiller-McChesney, poiché
esso affronta meglio i seguenti aspetti, ciascuno dei quali sarà commentato più sotto:

• contraddizioni
• condizioni specifiche delle industrie culturali
• tensioni fra produzione e consumo
• creatori di testi
• informazione e intrattenimento
• variazioni storiche nei rapporti sociali di produzione culturale.

Contraddizioni
Il filone di Schiller-McChesney accentua gli usi strategici del potere. Non v’è dub-
bio che tali usi strategici da parte dell’industria siano comuni, ed è errato liquida-
re l’approccio di Schiller e altri come «teoria della cospirazione» (accusa talvolta
estesa all’approccio basato sull’economia politica in generale). Ma, enfatizzando
la scelta strategica deliberata, il filone sottovaluta le contraddizioni interne al
sistema. L’accento posto dall’approccio delle industrie culturali sui problemi e le
contraddizioni insiti nel parziale, incompleto processo di mercificazione della cul-
tura, fornisce una rappresentazione più accurata della produzione culturale. Esso
tiene conto delle contraddizioni interne alla produzione culturale di tipo industria-
le e commerciale, anziché postulare un’opposizione semplicistica fra corporation
e produttori «alternativi», non-profit, come nel filone di Schiller-McChesney.

Le condizioni specifiche delle industrie culturali


La maggior capacità di analizzare le contraddizioni propria dell’approccio delle
industrie culturali risulta da un altro, importante vantaggio comparativo: la sua

4
Tale divisione trascura molti importanti contributi all’economia politica critica, come quelli di
James Curran, Michael Curtin, Peter Golding, Armand Mattelart, Vincent Mosco, Graham
Murdock e Thomas Streeter. Le migliori opere di questi autori, citate ripetutamente nel libro,
condividono molti dei punti di forza dell’approccio incentrato sulle industrie culturali, pur
seguendo un’impostazione specifica.
5
Certi docenti e studenti tendono a equiparare il pessimismo culturale di Adorno, Horkheimer e
altri membri della Scuola di Francoforte con l’economia politica, definendo l’uno nei termini
dell’altra. Tuttavia, come visto nell’Introduzione, Miège basa il suo peculiare approccio su una
critica di Adorno e Horkheimer. Per molti esponenti del filone Schiller-McChesney, i presuppo-
sti teoretici della Scuola di Francoforte sembrano pressoché irrilevanti.
APPROCCI ALLA CULTURA 37

capacità di unire l’interesse per le relazioni tra l’economia in generale e le indu-


strie culturali (un importante tema del filone di Schiller–McChesney) e l’analisi di
quel che distingue la produzione delle industrie culturali da altre forme della pro-
duzione industriale, essenzialmente diverse dalle prime. Quanto delineato
nell’Introduzione circa le specifiche condizioni della produzione culturale dipende
dai lavori condotti nell’ambito dell’approccio delle industrie culturali.

Tensioni fra produzione e consumo


Benché l’approccio delle industrie culturali, come la denominazione suggerisce, si
concentri sul lato dell’offerta – sulla produzione e circolazione di cultura, e sui loro
contesti sociali e politici – esso non ignora l’attività delle audience, oggetto spesso sot-
tovalutato dagli approcci basati sull’economia politica e da certi filoni interni alla
sociologia dei media. L’approccio delle industrie culturali concepisce invece l’econo-
mia della produzione culturale come un ambito complesso, ambivalente e controver-
so, soprattutto a causa dei problemi derivanti dal comportamento delle audience.
Produzione e consumo non sono viste come entità separate, bensì come momenti
diversi di un processo unico. Le interrelazioni e le tensioni fra produzione e consumo
sono in linea di massima ignorate dal filone di studi che fa capo a Schiller-McChesney.

Creatori di testi
I processi di concentrazione, conglomerazione e integrazione, classificati esaustiva-
mente dal filone di Schiller-McChesney sono importanti (si veda il Capitolo 6 per
un’ulteriore discussione), ma Schiller, McChesney e altri studiano solo di rado
come tali aspetti della struttura del mercato modifichino l’organizzazione della pro-
duzione culturale e la produzione di testi a livello corrente, quotidiano.
L’approccio delle industrie culturali inserisce nel quadro i creatori di testi – coloro,
cioè, che sono responsabili dell’input creativo nei testi: scrittori, registi, produtto-
ri, interpreti – che erano quasi completamente assenti nella tradizione di ricerca di
Schiller-McChesney. L’approccio delle industrie culturali ha sottolineato le condi-
zioni entro cui operano i lavoratori culturali come risultante di suddetti processi.6
L’attenzione nei riguardi di tale importante aspetto rende l’approccio delle indu-
strie culturali più adeguato rispetto a quello di Schiller-McChesney per valutare il
grado di organizzazione della produzione culturale secondo criteri socialmente
equi (Capitolo 2).

Informazione e intrattenimento
Nella tradizione di ricerca di Schiller-McChesney, così come negli studi sulla comu-
nicazione di impostazione liberal-pluralistica, la preoccupazione principale va ai

6
Il fatto che Miège (1989), Garnham (1990) e Ryan (1992) abbiano prestato seria attenzione a que-
sto aspetto ha costituito per molti anni un’eccezione. Più di recente, autori nella tradizione degli
studi culturali, come Mc Robbie (1998) e Ross (1998), hanno iniziato a considerare il problema.
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mezzi di comunicazione dedicati all’informazione. L’approccio delle industrie cul-


turali ha conseguito maggiori risultati nel difficile compito di valutare sia l’infor-
mazione, sia l’intrattenimento.

Variazioni storiche nei rapporti sociali di produzione culturale


In conclusione, benché entrambi gli approcci si occupino moltissimo di storia (per
esempio, McChesney 1993), l’approccio delle industrie culturali si rivela spesso più
sensibile del filone Schiller-McChesney alle variazioni storiche nei rapporti sociali
di produzione e consumo culturale – sensibilità che alcuni autori ereditano dagli
interventi di Raymond Williams nell’ambito della sociologia storica della cultura.

La sociologia della cultura e gli studi sull’organizzazione


e il management

Dalle considerazioni svolte più sopra e dall’Introduzione al libro, dovrebbe risulta-


re ormai chiaro il riconoscimento della fecondità degli approcci alla cultura basati
sull’economia politica, in particolare dell’approccio delle industrie culturali.
Tuttavia, anche in quest’ultimo, che pure è molto più interessato alle dinamiche
organizzative della produzione culturale di quanto non lo fosse il filone Schiller-
McChesney, si rileva una carenza di attenzione empirica nei confronti di quanto
avviene all’interno delle organizzazioni dell’industria culturale. Una certa tradizio-
ne di studio nell’ambito della sociologia della cultura – attiva soprattutto negli Stati
Uniti, e che utilizza la tradizione analitica weberiana e interazionista –ha offerto
importanti contributi in materia: si tratta della prospettiva della «produzione di
cultura». Negli ultimi anni, si è assistito a una notevole crescita nei settori accade-
mici, fra loro collegati, degli studi sul management, il business e l’organizzazione
aziendale, e tali discipline in espansione hanno ereditato alcune convinzioni di
base e caratteristiche di quegli studi meno recenti.
Alcuni di questi lavori possono fornire un prezioso complemento alla produ-
zione dell’economia politica sulle industrie culturali. Uno dei più fecondi contri-
buti apportati dalla prospettiva della «produzione di cultura», è consistito nell’ar-
ricchire le nozioni correnti di creatività simbolica. Anziché interpretare la cultura
come prodotto di individualità dotate dei massimi talenti, autori come Howard
Becker (1982) e Richard Peterson (1976) hanno contribuito a chiarire che il risul-
tato creativo, culturale e artistico, è il prodotto della collaborazione e di una com-
plessa divisione del lavoro. Particolarmente utili, nel nostro contesto, le elabora-
zioni di Peterson e Berger (1971), Hirsch (1972) e DiMaggio (1977), sulle carat-
teristiche differenziali delle industrie culturali, dove si rileva un’importante con-
cordanza con i risultati dell’approccio delle industrie culturali in merito alle stra-
tegie peculiari delle imprese che producono testi. I lavori di Hirsch, per esempio,
hanno ispirato la classificazione dei tratti distintivi delle industrie culturali pre-
APPROCCI ALLA CULTURA 39

sentata nell’Introduzione. Altrettanto preziose sono le ricerche dettagliate su spe-


cifiche industrie, come quella sull’editoria condotta da Coser et alii (1982).
Il lavoro di questi sociologi statunitensi, sviluppato parallelamente a quello degli
autori francesi sulle industrie culturali, è stato seminale; ma solo se sintetizzata in
una visione più globale del come la produzione e il consumo culturale entrano in
contesti economici, politici e culturali più ampi, l’analisi delle specifiche condizio-
ni della produzione culturale raggiunge il massimo effetto esplicativo. Le industrie
culturali sono implicitamente trattate, da alcuni dei sociologi dell’organizzazione
statunitensi e dai loro eredi degli studi organizzativi, come sistemi isolati, tagliati
fuori dal conflitto politico e socio-culturale. I temi del potere e dei rapporti di
dominazione sono posti ai margini. Le condizioni dei lavoratori creativi sono a
malapena prese in considerazione, salvo il fatto, riconosciuto, che essi godono di
maggior autonomia rispetto ai lavoratori di altre industrie. Il mondo della frode,
gli affari loschi, la disparità fra le torri di vetro delle corporation multinazionali del-
l’intrattenimento e la lotta che giovani artisti e musicisti ingaggiano per sopravvi-
vere economicamente, sono assai poco considerate. È probabile che tali problemi,
come nel caso degli studi sulla comunicazione, dipendano dalle prospettive politi-
che soggiacenti alla ricerca condotta da tali autori. Indubbiamente, va qui ricono-
sciuta un’istanza autenticamente democratica. Lo scopo è quello di demistificare la
creatività, cogliendo e ponendo sotto analisi le gerarchie di gusto e valore. Negli
studi di Becker, in particolare, si rileva un forte accento sull’ingegnosità dei singo-
li nella vita quotidiana. Tuttavia, se ciò vale come prezioso contraltare alle sempli-
cistiche convinzioni sulla nostra impotenza di fronte alle gigantesche corporation
dell’industria culturale, gran parte della sociologia della cultura e degli studi orga-
nizzativi sembra talora, alla luce delle preoccupazioni riassunte nell’Introduzione,
troppo poco interessata ai problemi di potere. Come sottolineato da Paul Hirsch in
un articolo che ha fortemente influenzato i successivi studi sul management e l’or-
ganizzazione, l’approccio di tipo organizzativo «raramente indaga le funzioni svol-
te dall’organizzazione per il sistema sociale, ma si chiede piuttosto, assumendo
provvisoriamente un punto di vista di parte, come gli scopi dell’organizzazione
possano essere alterati dalla società» (Hirsch 1990/1972, p. 643).7 Porsi dal punto
di vista del partigiano dell’organizzazione dei mezzi di comunicazione sarebbe,
secondo l’approccio dell’economia politica, una forma di falsa obiettività.

La sociologia radicale e gli studi sui media

Nella sociologia radicale dei mezzi di comunicazione e negli studi sui media sono
reperibili studi empirici sulle organizzazioni dell’industria culturale più sensibili di
quelli fin qui considerati nei confronti dei temi del potere. Il termine «radicale» è
usato qui nell’accezione per cui tali approcci vedono pericolose forme di potere e

7
Lo stesso Hirsch riflette sull’influsso esercitato dal suo articolo in Hirsch 2000
40 CULTURAL INDUSTRIES

disuguaglianza radicate nella struttura «normale» delle società contemporanee,


piuttosto che in distorsioni emendabili, come è tipico delle prospettive liberal-plu-
ralistiche. Fin dai primi anni Settanta, la sociologia radicale dei media negli Stati
Uniti, e la disciplina emergente degli studi sui mezzi di comunicazioni in Europa,
hanno fornito approcci complementari alle elaborazioni dell’economia politica,
sviluppandosi in parallelo con esse.
Alcuni dei più importanti lavori prodotti negli Stati Uniti scaturivano dalla tra-
dizione sociologica weberiana, e si concentravano sul modo in cui i programmi di
informazione non riportavano tanto la realtà, quanto rispecchiavano gli imperati-
vi delle organizzazioni dell’informazione (per esempio Tuchman 1978 e Gans
1979). Secondo tale prospettiva, i giornalisti lavoravano autonomamente, ma il
loro lavoro era strutturato da esigenze e routine burocratiche. Tali routine porta-
vano alla produzione di testi che non riuscivano a valutare adeguatamente i rap-
porti vigenti di potere. L’impatto di tali elaborazioni ebbe un’eco in importanti
studi britannici sull’informazione (come in Schlesinger 1978). Gli studi sull’intrat-
tenimento erano all’epoca meno numerosi, ma nei casi migliori fornirono un’effi-
cace comprensione delle dinamiche dell’industria culturale. Il libro di Todd Gitlin
Inside Prime Time (1983) dimostrava per esempio, grazie a interviste con dirigenti
televisivi e ricostruzioni della storia di queste organizzazioni, come gli imperativi
commerciali dei network inducessero il conservatorismo nei testi prodotti.
Un contributo importante della sociologia radicale all’analisi della produzione
culturale è offerto da Pierre Bourdieu. Per l’analisi delle industrie culturali il suo
lavoro è prezioso sotto molti aspetti, tra i quali il resoconto dello sviluppo di ten-
sioni fra creatività e commercio, già segnalato nell’Introduzione. In Les règles de
l’art: genèse et structure du champ litteraire (1992), Bourdieu mostra come, nel XX
secolo, si sia diffusa l’idea che pittori e scrittori dovrebbero essere autonomi dal
potere politico e dagli imperativi commerciali. Secondo Bourdieu, ciò ha progres-
sivamente istituito una peculiare struttura della produzione culturale, divisa tra
produzione su larga scala, per prodotti commerciali essenzialmente a breve termi-
ne, e una produzione «ristretta» o su piccola scala, in cui il successo artistico era il
fine primario (e in cui, per l’industria, la speranza era che il successo artistico gene-
rasse benefici economici a lungo termine). Bourdieu omette però quasi completa-
mente la cultura popolare, e non riesce a mostrare come la nascita delle industrie
culturali abbia modificato la struttura di campo della produzione culturale nel XX
secolo; ciò nonostante, la sua opera ha costituito la più completa analisi disponibi-
le dell’importanza della coppia creatività/commercio nella produzione culturale.8
I lavori della sociologia radicale, come quelli di Gitlin e Bourdieu, sono in qual-
che misura compatibili con gli approcci alla cultura dell’economia politica critica.
Nondimeno, l’economia politica critica tenta una comprensione globale del ruolo
occupato dalla produzione culturale nel capitalismo contemporaneo, e gli studi

8
Non è questa la sede per una valutazione adeguata del lavoro di Bourdieu sulla produzione cul-
turale. Per un’ulteriore discussione si rimanda a Hesmondhalgh 2006a.
APPROCCI ALLA CULTURA 41

empirici sulle organizzazioni dell’industria culturale non sono stati centrali in tale
tradizione. L’importante effetto della sociologia radicale è che, nei casi migliori,
essa connette le dinamiche di potere nelle industrie culturali con problemi di signi-
ficato – problemi circa i tipi di testi prodotti dalle organizzazioni dell’industria cul-
turale. Nella prossima sezione si esaminerà nello specifico il problema dei testi e
dei loro significati.

Il problema del significato: riflettere sui testi

Sin qui, ci si è dedicati a quegli approcci alle industrie culturali che trattano più
adeguatamente dei problemi di potere in rapporto alle organizzazioni dell’industria
culturale. In quale modo questi diversi approcci considerano l’altra dimensione
identificata come cruciale delle industrie culturali – vale a dire il significato? Gli
studi sulla comunicazione di matrice liberal-pluralistica hanno operato, nella mag-
gioranza dei casi, con una concezione manchevole dei testi. Esiste un ramo di que-
sta tradizione che esamina i prodotti culturali con i metodi dell’analisi quantitati-
va del contenuto, con il fine di produrre una misurazione obiettiva e verificabile
del significato. Come rileva John Fiske, «essa può costituire un’utile verifica del
modo più soggettivo e selettivo in cui normalmente riceviamo i messaggi» (1990,
p. 137). Tuttavia, nella ricerca sugli effetti, c’è una nozione del contenuto come
messaggio che ha dominato tale tradizione di ricerca. È necessario introdurre una
nozione più complessa di significato, che riconosca la polisemia – vale a dire la capa-
cità dei testi di essere interpretati in una pluralità di modi. Ciò richiede la conside-
razione sia di problemi di forma, sia di problemi di contenuto (in realtà, i due non
sono mai separati, poiché l’uno agisce sempre sull’altro).
Laddove gli studi sulla comunicazione di matrice liberal-pluralistica mostrano in
genere una comprensione gravemente parziale dei testi come «contenuto» o «mes-
saggio», la prospettiva della produzione culturale, almeno fino a poco tempo fa
(Peterson 1997), ha spesso scelto di ignorare l’aspetto del significato testuale.
Richard A. Peterson, per esempio, nel sintetizzare l’elaborazione complessiva di
questa prospettiva, è stato estremamente sincero nell’ammettere l’assenza di inte-
resse per la forma e il contenuto dei manufatti culturali, benché abbia sostenuto che
l’interesse per la produzione può far da complemento a tali preoccupazioni (1976,
p. 10). Ciò suggerisce che lo studio della produzione non abbia effetto sullo studio
dei testi e che i due domini di analisi siano separati e autonomi. Se le tesi avanzate
nell’Introduzione sono corrette, tuttavia, la sfida dell’approccio delle industrie cul-
turali consiste nel riflettere su tali rapporti, anziché ignorarli. È infatti necessario
riflettere, per esempio, sul modo in cui trasformazioni storiche nei modi di produ-
zione e consumo di cultura sono in relazione con i cambiamenti nei testi.
Anche negli autori orientati verso un approccio alla cultura basato sull’econo-
mia politica si rileva la mancanza di attenzione per l’analisi testuale e il significa-
to. A dispetto dei suoi punti di forza, il lavoro di Miège menziona solo di sfuggita
42 CULTURAL INDUSTRIES

il problema del significato testuale. Molti dei saggi contenuti in Capitalism and
Communication di Garnham (1990) criticano la tendenza diffusa negli studi sulla
comunicazione di massa a «privilegiare il testo» e a «concentrarsi su problemi di
rappresentazione e ideologia» (p. 1).9 Nel filone di Schiller-McChesney opera la
convinzione fondamentale che la maggior parte dei testi prodotti dalle industrie
culturali siano conformisti e conservatori, ma non v’è alcuna prova citata a soste-
gno di tale convinzione che, per di più, è raramente esplicitata.

Gli studi culturali

Tracciando un’ipotetica linea di confine intellettuale e politica, gli studi culturali si


trovano sul versante opposto a quello degli approcci appena discussi. Si tratta di
un campo diversificato e frammentato in cui tuttavia è centrale il tentativo di esa-
minare e ripensare la cultura considerando il suo rapporto con il potere sociale.
Molti degli approcci appena considerati hanno manifestato notevole ostilità verso
questo campo interdisciplinare. A loro volta, alcuni studiosi nell’ambito degli studi
culturali sono stati estremamente ostili nei confronti di altri approcci, inclusi quel-
li basati sull’economia politica e la sociologia radicale dei mezzi di comunicazione.
In ogni caso, gli approcci derivanti dagli studi culturali hanno molto da offrire per
aiutare la comprensione del significato e del valore culturale, in modi che posso-
no concorrere a colmare le lacune dovute agli approcci alle industrie culturali.
Quali sono stati, sotto tale riguardo, i principali contributi degli studi culturali?
Primo: gli studi culturali hanno dimostrato in modo convincente che la cultura
comune, quotidiana, va presa sul serio, e ciò ha comportato la messa in questione
del modo gerarchico di intendere la cultura, individuabile nella discussione pub-
blica e nelle più consacrate discipline degli studi umanistici e delle scienze sociali.
Gli studi culturali si oppongono alla focalizzazione sui testi consacrati, sulla «cul-
tura alta», pur senza celebrare necessariamente la cultura popolare in modo acri-
tico.10 Si insiste invece sulla necessità di considerare grosso modo quasi tutti i mol-
teplici elementi di una cultura nelle loro reciproche relazioni, anziché decidere a
priori quali elementi debbano e quali non debbano essere analizzati. Questa più
vasta concezione di cultura ha egualmente una dimensione internazionale. Nel
processo di internazionalizzazione degli studi culturali, occorso essenzialmente
negli anni Ottanta e Novanta, autori provenienti da regioni esterne al centro
cosmopolitico euro-americano, tra cui intellettuali della diaspora come Edward
Said (1994) e Gayatri Spivak (1988) hanno creato uno spazio di riflessione sulla
cultura capace di riconoscere la complessa eredità del colonialismo. Per questa

9
Nel libro Emancipation, the Media and Modernity (2000) Garnham si dedica allo studio dei testi e
delle forme simboliche molto più in dettaglio di quanto non facessero i suoi lavori degli anni
Ottanta e Novanta.
10
Nonostante ciò ci possono essere autori che talvolta indulgono in un «acritico populismo cul-
turale» (McGuigan 1992).
APPROCCI ALLA CULTURA 43

ragione, i migliori approcci dovuti agli studi culturali si possono concepire come
un affinamento considerevole dell’atteggiamento spesso sprezzante che si può
ritrovare in alcuni lavori dei filoni ispirati all’economia politica e agli studi sulla
comunicazione liberal-pluralistici, nei confronti della cultura popolare o non occi-
dentale. I migliori contributi degli studi culturali sono pervenuti a una considera-
zione approfondita e seria di una gamma molto più vasta di esperienze culturali di
quella riconosciuta nelle altre tradizioni di ricerca sulla cultura. Altri approcci
antropologici e sociologici (inclusa la sociologia empirica della cultura) hanno
avuto analogo impulso democratizzante, ma gli studi culturali hanno trattato in
modo più completo i problemi del potere simbolico.
Secondo: gli studi culturali hanno fornito un notevole affinamento di quel che
possiamo intendere con il difficile termine «cultura». In particolare, essi hanno
elaborato una potente critica dei concetti essenzialisti di cultura che vedevano la
cultura di un determinato luogo e/o popolazione come «cultura unica e condivi-
sa» (Hall 1994, p. 323), come qualche cosa di limitato e fisso, piuttosto che come
spazio complesso in cui molte diverse influenze si combinano e si oppongono.
Ancora una volta, il lavoro di autori esterni al centro metropolitano euro-ameri-
cano e di migranti da ex-colonie verso tale centro è stato importante nello svilup-
po di questa concezione. Simili sfide ai modi tradizionali di pensare la cultura
hanno importanti implicazioni su quanto segue. Grazie alla sua più ricca compren-
sione del concetto di cultura, infatti, la tradizione degli studi culturali ha promos-
so significativamente la riflessione sulla politica dei testi. Gli autori ispirati all’eco-
nomia politica e i loro alleati negli studi sui media e nella sociologia radicale dei
media sono stati toccati dal problema relativo a quali interessi potevano essere ser-
viti dai testi prodotti dalle industrie culturali. Gli studi culturali hanno esteso tale
concezione di interessi dominanti oltre quelli economici e politici, fino a include-
re una forte percezione della politica implicata negli aspetti di riconoscimento e
identità. Gli studi culturali hanno inoltre rimarcato come certi testi, in apparenza
innocui, servano invece a escludere ed emarginare (ulteriormente) soggetti relati-
vamente privi di potere.
Terzo, gli studi culturali hanno sollevato problemi politici vitali sul «chi parla?», su
chi detiene cioè l’autorità per formulare asserzioni sulla cultura. Ancora più rilevan-
te, è che tali domande sono rivolte con uguale vigore sia a chi tenta di criticare il
capitalismo, il patriarcato, l’eterossessismo, la supremazia dei bianchi, l’imperialismo
ecc., sia a chi difende tali strutture. In tutta la migliore produzione degli studi cultu-
rali è rintracciabile l’incessante messa in questione dell’autorità culturale. Gli antro-
pologi attivi negli studi culturali, per esempio, hanno attentamente vagliato l’appa-
rente obiettività dell’etnografo tradizionale, che osserva la cultura di popolazioni
«primitive», indigene, da una posizione relativamente privilegiata (Clifford 1988). In
un certo senso, ciò risponde alla critica indirizzata al positivismo e all’oggettivismo in
seguito alla «svolta ermeneutica» nelle scienze sociali dell’ultimo trentennio. Nei casi
meno felici, ciò implica un costruttivismo ingenuo e il sospetto sul diritto di dire
qualsiasi cosa relativo a un gruppo sociale meno potente. Discipline emergenti come
44 CULTURAL INDUSTRIES

i black studies, i queer studies e gli studi femministi hanno apportato nuove voci negli
studi culturali e sollevato seri, importanti interrogativi sulla politica del parlare delle
pratiche culturali di altri da una particolare posizione soggettiva (per esempio, quel-
la del maschio bianco, che ha studiato in una scuola privata).
Quarto, gli studi culturali hanno affrontato i temi della testualità, della sogget-
tività, dell’identità, del discorso e del piacere in relazione alla cultura. Ciò ha enor-
memente arricchito la nostra comprensione del modo in cui i giudizi di valore cul-
turale si possano rapportare alle politiche dell’identità sociale, specialmente in ter-
mini di classe, genere, etnia e sessualità. Non si tratta solamente di sostenere che
il gusto è un prodotto del retroterra sociale (approccio che la sociologia empirica
della cultura è stata incline a far proprio). Piuttosto, gli studi culturali indagano i
modi complessi in cui i sistemi di valori estetici si alimentano del potere culturale.
Quali voci trovano ascolto in una data cultura, e quali vengono emarginate? Quali
forme di piacere (e proprie di chi) sono approvate, e quali, sono avvertite come
rozze, stupide e persino pericolose? Sono tutti problemi che toccano il discorso,
cioè il modo in cui significati e testi circolano in una società. Essi riguardano anche
la soggettività e l’identità, e dunque i processi spesso irrazionali e inconsci median-
te i quali diventiamo quel che siamo. Tali problemi – secondari in molti degli
approcci alle industrie culturali discussi sopra – sono stati studiati con grande
determinazione dagli studi culturali, i cui autori hanno notato come le forme di
cultura più svalutate e oltraggiate risultano essere ancora quelle consumate da
gruppi sociali relativamente privi di potere. I lavori femministi su forme quali le
soap opera (Geraghty 1991) e i periodici femminili (Hermes 1995) sono stati estre-
mamente importanti a tale proposito.
Pertanto, gli studi culturali offrono strumenti potenzialmente preziosi per l’ana-
lisi delle industrie culturali. Tuttavia, l’applicazione di un tale approccio a quelle
industrie, o alla produzione culturale, è stata relativamente occasionale (si veda il
Box 1.1 per una discussione del concetto di «economia culturale»). Non mancano
importanti eccezioni e si nota una tendenza pronunciata a sottolineare il rapporto
reciproco tra industrie culturali e più vaste correnti culturali in una determinata
società. Keith Negus (1999, p. 14), per esempio, scrive che «un’industria produce
cultura», ma anche che «la cultura produce un’industria». Oppure, con le parole
di Simon Frith (2000, p. 27):

la musica popolare non è l’effetto di un’industria della musica popolare; piuttosto,


l’industria musicale è un aspetto della cultura della musica popolare… L’industria
musicale non può essere considerata come alcunché di separato dalla sociologia
della vita quotidiana – le sue operazioni sono culturalmente determinate.

Un approccio ispirato agli studi culturali potrebbe quindi includere la ricerca


relativa a come i modelli di comportamento culturale prevalenti siano rispecchia-
ti nelle stesse industrie culturali. Si può qui rilevare una certa sovrapposizione con
certe elaborazioni della sociologia della cultura già discusse, per esempio quella di
APPROCCI ALLA CULTURA 45

Howard Becker; con una maggior enfasi posta, tuttavia, sui problemi del potere e
della disuguaglianza, anche etnici e di genere. Gli approcci ispirati agli studi cultu-
rali completano quelli delle industrie culturali, poiché richiedono di considerare
più attentamente come ciò che i consumatori chiedono e ottengono dalla cultura
strutturi le condizioni entro cui le industrie devono operare. Un esempio può esse-
re come la capacità della musica di negoziare le relazioni fra il nostro sé pubblico
e privato ha strutturato il modo in cui l’industria musicale ha offerto merci musi-
cali da possedere proprio come altre merci. Gli approcci alla produzione propri
degli studi culturali sottovalutano forse il problema di come, a loro volta, le indu-
strie culturali agiscano sulla capacità della musica di operare una mediazione fra
privato e pubblico, ma nondimeno sollevano problemi interessanti e importanti,
che si possono integrare con le questioni poste da altri approcci.

BOX 1.1 L’economia culturale

Un’interessante prospettiva degli studi culturali sulla vita economica, nota come «economia cul-
turale» (Amin e Thrift 2004, du Gay e Pryke 2002) è interpretata talora come un’analisi delle
industrie culturali. Di fatto, la maggioranza degli studiosi che impiegano il termine nutre ambi-
zioni più vaste. Il loro scopo è quello di applicare intuizioni derivanti dalla tradizione post-strut-
turalista degli studi culturali alla produzione e alla vita economica in generale. L’economia cultu-
rale, in questa ottica, concepisce il dominio della pratica economica – nelle sue varie forme,
quali mercati e relazioni economiche e organizzative – come modellato e strutturato da discor-
si economici (du Gay e Pryke 2002). Da qui, si apre un nuovo punto di partenza per l’analisi,
piuttosto che un supplemento dell’analisi esistente, economica o politico-economica.
Ciò non preclude affatto l’analisi delle industrie culturali, come testimoniano alcuni lavori pubbli-
cati, benché attualmente tali lavori siano quantitativamente insufficienti a costituire un approccio
specifico alle industrie culturali (anziché un approccio alla produzione e all’economia in genera-
le). Comunque, l’economia culturale solleva temi circa le basi della critica degli sviluppi delle
industrie culturali. Tale approccio invita a porre in questione le facili dicotomie che certi econo-
misti politici e sociologi della cultura allestiscono fra il dominio della cultura e la crescente inva-
sione di tale dominio da parte dell’economia. La decostruzione di tali opposizioni binarie può
lasciare inevasi importanti problemi politici ed etici pertinenti ai rapporti cultura-commercio. Per
esempio, la mercificazione crea effetti potenzialmente nocivi? Ogni società esclude dalla merci-
ficazione alcuni aspetti del mondo – ad esempio, la natura, la personalità o la cultura. Nelle
società contemporanee, quali aspetti della cultura potrebbero essere preservati dallo scambio e
dalla proprietà privata, e per quali ragioni? (Questi temi sono indagati, per esempio, da John
Fraw, 1997, egli stesso un esponente degli studi culturali. Su ciò si tornerà nel Capitolo 2, in rap-
porto alla produzione culturale.)

Un’osservazione finale in merito agli studi culturali: alcuni importanti contribu-


ti sono stati consacrati alla ricerca empirica sull’interazione tra le audience televi-
sive e la televisione. Di fatto, benché molto si sia scritto intorno a questi studi negli
anni Ottanta e nei primi Novanta, essi non furono particolarmente numerosi (i più
discussi sono quelli di Ang 1985 e Morley 1986). Di recente, sono pochi gli studi
importanti apparsi in questo filone, ad esempio Gillespie 1995 e Mankekar 1999.
La tendenza degli studi culturali si è orientata piuttosto verso l’elaborazione teori-
46 CULTURAL INDUSTRIES

ca dei concetti di cultura e dei problemi dell’identità culturale. C’è una certa iro-
nia nel fatto che, benché gran parte di tali elaborazioni siano risultate preziose, la
tradizione degli studi culturali abbia prodotto troppo pochi, e non già troppi, studi
empirici sul consumo e la ricezione.

Oltre il conflitto studi culturali–economia politica

Per quanto detto sopra, e per altri motivi, gli studi culturali hanno costituito un
contributo enorme alla nostra comprensione della cultura e del potere. Dato il loro
interesse nel mettere in questione le relazioni di potere vigenti, era prevedibile la
reazione virulenta da parte dei conservatori, che ritengono non problematiche,
oppure immutabili, le questioni di giustizia sociale. Ma l’approccio degli studi cul-
turali è stato simultaneamente attaccato anche dai suoi potenziali alleati liberali e
radicali. Gli attacchi più violenti sono venuti spesso da compagni di strada di sini-
stra, appartenenti alla tradizione dell’economia politica e della sociologia radicale
dei media, che spesso li accusano di latente complicità con il conservatorismo (per
esempio, Gitlin 1998; Miller e Philo 2000 e altri). Tuttavia, i sostenitori dell’ap-
proccio degli studi culturali hanno risposto per le rime e, di nuovo, i principali ber-
sagli sono stati i potenziali alleati della sinistra politica.
Forse a causa di tali battibecchi fra compagni di strada radicali con diverse con-
cezioni di come affrontare e combattere la disuguaglianza sociale, è sorta l’idea che
il campo degli studi sui media e la cultura popolare sia equamente suddiviso in due
opposti schieramenti – l’economia politica e gli studi culturali. L’idea non è riporta-
ta soltanto in libri e articoli, ma viene incessantemente ripresa anche durante semi-
nari, conferenze ecc., secondo lo schema: «L’economia politica dice bianco, gli studi
culturali nero». Anche quando alcuni studiosi sostengono di voler superare la frat-
tura, essi in realtà partono all’attacco di una versione caricaturale della posizione
contraria alla loro, con il risultato di riprodurre la leggenda (così Grossberg 1995).
Ma il conflitto economia politica–studi culturali è un modo impreciso e infrut-
tuoso di rappresentare gli approcci di studio ai mezzi di comunicazione e alla cul-
tura popolare. Esso semplifica un complesso intreccio di disaccordi e conflitti tra i
vari approcci discussi in questo capitolo riducendolo a due contendenti. La que-
stione, dunque, non è quella del conflitto tra studi culturali ed economia politica
– come se il campo della ricerca potesse essere diviso nettamente tra i due approc-
ci. E non è neppure quella del conflitto fra gli studi culturali, magari dipinti con i
tratti caricaturali che alcuni vagheggiano, e il resto. Il vero obiettivo consiste piut-
tosto nel trovare una maniera di comprendere le tensioni esistenti fra il numero
complessivo degli approcci alla cultura. In tale contesto, il problema cruciale è
quello di sintetizzare gli aspetti migliori degli approcci fin qui riassunti al fine di
produrre una spiegazione fruttuosa del cambiamento e della continuità nelle indu-
strie culturali. In questa sezione verrà delineata la prospettiva che ispira il libro
sulle più importanti controversie tra gli approcci più significativi.
APPROCCI ALLA CULTURA 47

Produzione vs. consumo


Economia politica viene spesso usata come abbreviazione per «studio della produ-
zione», ignorando le significative differenze di atteggiamento nei confronti della
produzione assunte dall’economia culturale e dei media, dalla sociologia dei mezzi
di comunicazione, dalla sociologia empirica della cultura ecc., e riducendo l’impor-
tanza attribuita al consumo dai migliori approcci ispirati all’economia politica. Allo
stesso modo, gli studi culturali vengono spesso descritti in maniera caricaturale,
quasi consistessero unicamente in ricerche empiriche sulle audience, mentre in
verità tali ricerche sono state assai più sviluppate dagli studi sulla comunicazione
di impostazione liberal-pluralistica.
Il fatto che qui ci si concentri sulle industrie culturali – per le ragioni delineate
nell’Introduzione – suggerisce che ci si baserà principalmente sugli approcci indiriz-
zati alla comprensione delle dinamiche della produzione e della politica culturale, ossia
sugli approcci ispirati all’economia politica e su alcuni contributi dell’economia cul-
turale, della sociologia radicale dei media e della sociologia empirica della cultura.
La decisione di focalizzarsi sulla produzione e la politica dipende strettamente
da una priorità assegnata nell’ambito di questo libro, ma è necessario pensare a
esse in rapporto con altri processi fondamentali, quali il consumo culturale, l’identi-
tà e il significato testuale. Come si è sostenuto prima, gli studi culturali, così come
altri approcci, offrono importanti contributi per una comprensione d’insieme del
significato testuale e del valore culturale, ma il compito di sintetizzare l’analisi
delle industrie, delle organizzazioni e dei testi resta estremamente difficile.

Testi, informazione e intrattenimento


I sostenitori di altri approcci di studio accusano talvolta gli studi culturali di essere
troppo preoccupati dei problemi connessi al significato testuale. In realtà, benché
gli studi culturali abbiano contribuito in modo rilevante allo sviluppo di teorie sui
rapporti fra significato e identità in relazione al potere sociale, nelle loro forme più
diffuse essi si sono preoccupati relativamente poco di argomenti come l’interpre-
tazione testuale e la valutazione. Contributi allo sviluppo dell’analisi testuale sono
invece disponibili sotto forma di un certo numero di approcci prioritariamente
orientati allo studio dei testi (per un panorama sulle principali tecniche di analisi
dei testi mediali, si veda Gillespie e Toynbee 2006). Il centro d’attenzione, in tali
studi, non risiede nella rivelazione di un significato complesso che il grande artista
sa trasmettere nella sua opera, secondo l’impostazione tradizionale degli studi
umanistici, bensì nella complessità non-intenzionale dei testi culturali. Anche la
buona critica è una risorsa preziosa (per esempio Lane 2003 o Reynolds 2005).
L’economia politica, la sociologia radicale dei media e gli studi liberal-pluralisti-
ci, si sono preoccupati principalmente di testi informativi, quali i notiziari e le cro-
nache politiche, e della misura in cui le industrie culturali soddisfano i bisogni dei
cittadini in fatto di risorse di informazione necessarie per contrastare l’ingiustizia e
48 CULTURAL INDUSTRIES

l’abuso di potere. Tali approcci, tuttavia, hanno posto un accento fortissimo sul
contenuto informativo a scapito della forma, e hanno mostrato la tendenza a valu-
tare i contenuti cognitivi e i modi di pensiero razionali più di quelli estetici, emo-
tivi e affettivi (un’argomentazione analoga è presente in McGuigan 1998).
Giudicati nel loro complesso, a dispetto dei loro punti di forza, questi approcci pos-
sono forse essere rimproverati di trattare l’intrattenimento come semplice distrazio-
ne, un diversivo dal più auspicabile obiettivo della comunicazione di massa, vale a
dire l’attività del cittadino interessato, razionale e partecipativo. Le forme migliori
di analisi testuale e gli studi culturali vengono allora in soccorso nel contrastare
tale polarizzazione.

Problemi epistemologici
La leggenda del conflitto fra economia politica e studi culturali esagera il dissidio
tra i due approcci e sottostima le loro differenze nei confronti di altre metodologie
di studio. Alcune versioni degli studi culturali e dell’economia politica, preoccupa-
te di fondare la comprensione su una teoria del potere culturale, hanno più affini-
tà reciproche di quante ne abbiano con ricerche più orientate empiricamente (la
sociologia empirica della cultura, gli studi liberal-pluralistici sulla comunicazione).
Nondimeno, tra economia politica e studi culturali permangono gravi tensioni teo-
retiche ed epistemologiche. Gli autori della prima tradizione sono orientati verso il
realismo epistemologico – la «credenza in un mondo materiale esterno ai nostri
processi cognitivi, e dotato di certe proprietà specifiche, accessibili in definitiva alla
nostra conoscenza» (Garnham 1990, p. 3). Tale concezione è legata in modo cru-
ciale all’altra, secondo cui possiamo ottenere una conoscenza obiettiva di tale real-
tà indipendente. Gli studiosi vicini all’ambito degli studi culturali assumono inve-
ce una molteplicità di orientamenti epistemologici di tipo costruttivista e soggetti-
vista, nell’intento di raggiungere una maggior obiettività grazie al riconoscimento
dell’influsso dell’osservatore sull’osservato (sull’epistemologia femminista si veda
Couldry 2000b, pp. 12-14). In altri casi, essi mostrano un radicale scetticismo nei
confronti di ogni pretesa di verificabilità: ciò è vero in particolare per gli approcci
post-strutturalisti e post-modernisti. Ancora una volta, non si tratta del conflitto
fra economia politica e studi culturali. L’ala radicale, costruttivista e post-moderni-
sta, degli studi culturali è in disaccordo con tutti gli approcci alle industrie cultura-
li delineati nei primissimi paragrafi di questo capitolo, e non solo con l’economia
politica. Il positivismo tipico degli studi sulla comunicazione e della sociologia della
cultura non è meno distante dalla posizione critico-realistica dell’economia politi-
ca del post-modernismo degli studi culturali.

Politica e pratiche politiche


Gran parte del dissidio fra economia politica e studi culturali dipende da una dico-
tomia politica fittizia. Gli studi culturali derivano molta della loro ispirazione dalla
tendenza, comune alla militanza politica e al pensiero dei primi anni Settanta, a
APPROCCI ALLA CULTURA 49

mettere a fuoco i temi dell’identità sociale (quali gender, etnicità e sessualità) anzi-
ché i temi dell’economia e della ridistribuzione delle risorse.11 Per alcuni, la preoc-
cupazione per l’identità sociale rappresenta un abbandono del progetto di formare
aggregazioni capaci di opporsi alle forze politiche ed economiche direttamente
responsabili dell’oppressione. Ecco perché alcuni studiosi che condividono l’approc-
cio dell’economia politica ritengono, come si è detto, che gli studi culturali siano
implicitamente conservatori. Secondo loro, infatti, gli studi culturali fraintendono il
potere (per esempio, Garnham 1990). Questa posizione non appartiene solo a que-
sta categoria di studiosi: certi sociologi radicali dei mezzi di comunicazione (come
Gitlin 1998, Miller e Philo 2000), così come certi studiosi dei media e coloro che si
rifanno alla sociologia empirica, ne condividono infatti la prospettiva. (Va ripetuto
comunque che l’idea complessiva del dissidio economia politica/studi culturali è un
modo troppo rozzo di rappresentare le posizioni in campo).
Alcune repliche alle considerazioni operate nell’ambito degli studi culturali
rispecchiano temi importanti. Costruire una pratica politica esclusivamente sul-
l’oppressione e l’ingiustizia subite dal gruppo cui si ritiene di appartenere rischia di
far abbandonare ogni idea di solidarietà e di empatia. Vi sono certo delle differen-
ze effettive tra il modo in cui il filone post-strutturalista degli studi culturali fonda
la critica delle relazioni sociali esistenti e il modo in cui essa è fondata dagli auto-
ri, marxisti, che si rifanno all’economia politica. Tuttavia, le incuranti polemiche di
alcuni commentatori radicali servono assai a poco. Anziché impegnarsi nel dialo-
go con nuovi e importanti modi di pensare la politica e la cultura, trovando una
unità d’intenti contro il neoconservatorismo, certi critici sembrano più interessati
a lanciare attacchi settari da entrambe le parti.
Le industrie culturali hanno un doppio ruolo: sono sistemi «economici» di pro-
duzione e produttori «culturali» di testi. La produzione è profondamente cultura-
le, e i testi sono determinati (benché non esclusivamente) da fattori economici. Se
intendiamo criticare le forme di cultura prodotte dalle industrie culturali, e i modi
in cui esse sono prodotte, dobbiamo tenere in considerazione sia la politica della
ridistribuzione, centrata su temi di economia politica, sia la politica del riconoscimen-
to, centrata su problemi di identità culturale (Fraser 1997).

Problemi di determinazione e riduzionismo


Una delle critiche più frequentemente mosse contro certi tipi di analisi politico-
economica, sia dalla parte degli studi culturali, sia dalla parte degli studi sulla
comunicazione e della sociologia empirica della cultura, verte sul loro ipotetico
riduzionismo. Esse attribuiscono, cioè, a una sola causa politico-economica eventi
e processi culturali complessi, quali ad esempio la forma dell’industria cinemato-
grafica hollywoodiana, il carattere delle soap televisive o gli sviluppi della televi-
sione come mezzo di comunicazione. In tal senso, le cause di questi processi pos-

11
Hall 1992 offre un resoconto degli studi culturali presentandoli come una reazione della sini-
stra ad alcune forme di marxismo, specialmente a quelle influenzate dallo stalinismo.
50 CULTURAL INDUSTRIES

sono essere riscontrate negli interessi della classe sociale che controlla i mezzi di
produzione, o negli imperativi capitalistici di profitto della proprietà. Benché si
tratti, appunto, di spiegazioni riduzionistiche, incapaci di rendere conto dell’inte-
razione complessa tra i diversi fattori implicati nella cultura, il fatto che alcune let-
ture di tipo politico-economico siano riduzioniste non è un valido argomento con-
tro la prospettiva di analisi politico-economia in quanto tali.
Un concetto indispensabile è qui quello di determinazione, nel senso di porre
limiti ed esercitare pressioni, piuttosto che nel senso di una forza esterna che causa
inevitabilmente un effetto (per un’esposizione di questa differenza si veda
Williams 1979, pp. 110-118). Una buona analisi interpolerà i processi di determi-
nazione economica con altri processi e pressioni culturali, e rifletterà sulle recipro-
che interazioni.12
Altri fattori importanti da sottolineare nell’esame di un momento, di un feno-
meno o di un processo culturale sono:

• il ruolo delle istituzioni nell’ambito legale e politico


• le forme di discorso, linguaggio e rappresentazione accessibili in un dato periodo
• le credenze, l’immaginario, i valori e i desideri specifici di gruppi diversi di sog-
getti.

Certo, non tutte le spiegazioni potranno tener conto in ogni caso della com-
plessa combinazione delle forze in gioco. Quali elementi vengano accentuati
dipende «dai nostri propositi soggettivi, dalla conoscenza che pensiamo di potere
supporre nel nostro pubblico, o dall’identificazione di alcuni nuovi pezzi del puz-
zle storico sul quale desideriamo attirare l’attenzione dei lettori» (Rigby 1998, p.
XIII). Tale eclettismo non deve tuttavia comportare l’abbandono di priorità e pre-
occupazioni politiche ed etiche. I «propositi soggettivi» su cui Rigby richiama l’at-
tenzione potrebbero includere l’individuazione di determinati punti di pressione
per ottenere il mutamento sociale. Il pluralismo metodologico non deve significa-
re l’adozione di un’etica relativista e di un modello liberal-pluralistico di politica,
nel quale gli attuali sistemi democratici siano postulati come più o meno effetti-
vamente funzionanti.
Nel tentativo di risolvere un complesso di dibattiti espressi in termini spavento-
samente astratti si è speso ormai troppo tempo. Andrebbero abbandonate le intri-
cate dimostrazioni su ciò che Marx intendeva dire, e sul fatto che egli sia stato
frainteso o meno. Al contrario, è necessario impegnarsi a pensare la complessa
interazione di molteplici determinazioni in ogni situazione, al fine di capire quan-
to possa essere difficile ottenere il cambiamento sociale e dove esso potrebbe aver

12
Molti eminenti esponenti neomarxisti degli studi culturali hanno reiteratamente sottolineato
l’importanza della determinazione multipla o surdeterminazione, pur conservando l’idea di
determinazione in ultima istanza (così Grossberg 1995). Tuttavia, in gran parte della bibliogra-
fia degli studi culturali, è difficile trovare indicazioni davvero esplicite di fattori economico-poli-
tici, al di là dell’evocazione del termine «capitalismo».
APPROCCI ALLA CULTURA 51

luogo.13 Se è vero che le discussioni sulla determinazione in ambito economico e


sul riduzionismo hanno causato le frizioni più significative tra l’economia politica
e gli altri approcci, una metodologia eclettica, congiunta a un riconoscimento radi-
calmente social-democratico dell’esistenza di strutture di potere, disuguaglianza e
ingiustizia, potrebbe fornire l’opportunità di una maggior convergenza. L’opzione
più pragmatica, qui sostenuta, comporta l’identificazione di determinati momenti
in cui i fattori economici sono fortemente determinanti e di altri momenti in cui
differenti fattori, quali quelli enumerati in precedenza, vanno maggiormente insi-
stiti. Questo, come si vedrà, sarà un aspetto nodale del Capitolo 3, dove si inizia a
spiegare il cambiamento e la continuità nelle industrie culturali.

Nel presente capitolo, ci si è concentrati sull’individuazione e sulla classificazio-


ne dei limiti e dei pregi dei principali approcci pertinenti allo studio delle industrie
culturali, con riguardo agli aspetti individuati nell’Introduzione, considerati come
centrali per il libro nel suo complesso. Si è anche tentato di superare l’idea che il
campo di studi dei mezzi di comunicazione e della cultura popolare sia scisso tra
gli approcci dell’economia politica e degli studi culturali. L’obiettivo è qui l’indivi-
duazione di una strategia complessiva che si possa descrivere come un particolare
tipo di approccio basato sull’economia politica, sostanziato da alcuni aspetti della
sociologia empirica della cultura, degli studi sulle comunicazioni e degli studi cul-
turali. Come questo approccio multilaterale possa essere impiegato per produrre
una cornice di valutazione e spiegazione del cambiamento e della continuità nelle
industrie culturali è l’oggetto dei prossimi due capitoli.

APPROFONDIMENTI14

Poiché il capitolo ha commentato una grande quantità di testi sulle industrie cul-
turali, ci si limiterà qui a discutere opere di carattere generale.

Studi dedicati al campo dei media, delle comunicazioni


e della cultura popolare
Diversi capitoli dell’opera di Curran sono notevoli per la loro portata, in quanto sin-
tetizzano approcci derivati dall’economia politica, dagli studi sulla comunicazione e
dalla sociologia della cultura, pur serbando attenzione per i contributi degli studi
culturali. Il suo libro Media and Power (2002) raccoglie alcuni notevoli interventi.

13
Se il marxismo sia in sé riduzionista è un ambito di discussione enormemente difficile, e non è
questo il luogo per affrontarlo. Le argomentazioni di Rigby 1998 chiariscono la concezione
secondo cui il marxismo non è necessariamente riduzionista ma, laddove evita il riduzionismo,
sfocerebbe in un pluralismo che lo rende indiscernibile dalle sociologie pluralistiche.
14
Le informazioni bibliografiche complete sulle opere indicate nelle sezioni “Approfondimenti”
poste al termine dei principali capitoli si possono trovare nella bibliografia in coda al libro.
52 CULTURAL INDUSTRIES

Sociologia dei media di McQuail è l’opera d’insieme più autorevole nel campo
della comunicazione di massa, dal punto di vista degli studi sulla comunicazione
di impostazione liberal-pluralistica.
Storia delle teorie della comunicazione di Armand e Michèle Mattelart getta un’om-
bra sul provincialismo di molti lavori anglo-americani.
La tradizione di ricerca di Schiller-McChesney ha dimostrato minor interesse
per la teoria che per la pratica militante, ma Theorizing Communication di Dan
Schiller (1997) narra la vicenda degli sviluppi nella ricerca sulla comunicazione in
un modo singolare e innovativo.
Il miglior manuale, per chi scrive, è Media/Society di Croteau e Hoynes (2002).
Una collana della Open University, Understanding Media, fornisce un’introduzio-
ne allo studio dei mezzi di comunicazione: ne fanno parte Media Audiences di Marie
Gillespie (edizione italiana a cura di Michele Sorice, 2007), Analysing Media Texts di
Gillespie e Toynbee (2006) e Media Production di Hesmondhalgh (2006).

Approcci specifici
Gli studi migliori consacrati all’approccio basato sull’economia politica sono The
Political Economy of Communication di Vincent Mosco (1995) e la poco nota raccolta
di saggi Culture Works di Richard Maxwell (2001). Mosco offre una buona discus-
sione dei limiti della vulgata dell’economia ortodossa; il che vale anche per il capi-
tolo sulle industrie culturali di Emancipation, the Media and Modernity di Nicholas
Garnham (2000).
Peter Golding e Graham Murdock hanno fornito una serie di contributi impor-
tanti sull’approccio dell’economia politica critica ai media e alla cultura, a partire
da un saggio del 1974 (Murdock e Golding 1974), e da un’opera d’insieme sul
campo in fieri delle comunicazioni nel 1977 (Murdock e Golding 1977). Nel 1991
ne hanno pubblicato una versione sostanzialmente rinnovata (Culture, communica-
tions and political economy), che è stato rivista tre volte nel 1996, 2000 e 2005
(Golding e Murdock 2005). Nelle tre versioni, è possibile rintracciare alcuni muta-
menti interni alla tradizione dell’economia politica critica.
Gli studi culturali sembrano essere o in crisi o in declino. La miglior opera d’in-
sieme resta Inside Culture di Nick Couldry (2000), che copre un rimarchevole ambi-
to internazionale. Il saggio di Simon Frith, “The popular music industry” (2000) è
un modello di applicazione delle intuizioni degli studi culturali alle industrie cul-
turali. Anche il lavoro di Keith Negus è importante sotto questo profilo – ad esem-
pio Music Genres and Corporate Culture (1999) – benché, come molti studiosi, anche
Negus sia con il tempo divenuto critico nei confronti degli studi culturali. Benché
gran parte della bibliografia relativa agli studi culturali sia reperibile solo in ingle-
se, al lettore interessato ad approfondire questo approccio si suggerisce la lettura
del recente volume curato da Cristina Demaria e Siri Nergaard, Studi culturali. Temi
e prospettive a confronto (2008)

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