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L’estensione al 4

mercato1 nelle
telecomunicazioni e
nel broadcasting
■ Deregulation, re-regulation ed estensione al mercato nel settore della cultura
■ Telecomunicazioni e broadcasting: perché lo Stato fu così coinvolto?
Le telecomunicazioni come servizio pubblico
Il broadcasting come risorsa nazionale e limitata
Il potere del broadcasting
■ Gli anni Ottanta: si smantellano le logiche, si introducono condizioni di mercato
Contestazione della logica delle telecomunicazioni come servizio pubblico
Contestazione della logica del broadcasting come risorsa nazionale scarsa
Contestazione della logica del potere del broadcasting
■ Le quattro ondate dell’estensione al mercato
■ La prima ondata: i cambiamenti nella politica delle comunicazioni negli Stati
Uniti, 1980-1990
■ La seconda ondata: i cambiamenti nella politica del broadcasting nei paesi
industrializzati, 1985-1995
Definizione delle caratteristiche del servizio pubblico radiotelevisivo
Variazioni nei sistemi di servizio pubblico radiotelevisivo
Il ruolo sociale e culturale del servizio pubblico radiotelevisivo
■ Il servizio pubblico sotto attacco: case studies del cambiamento
Regno Unito
Francia
Germania
Australia
Giappone
Per riassumere
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 111

■ La terza ondata: le società di transizione e miste, dal 1989 in poi


India
Russia ed Europa Orientale
Cina
America Latina
Per riassumere
■ La quarta ondata: verso la convergenza e l’internazionalizzazione, dal 1992 in poi
Convergenza
Organismi politici internazionali

È impossibile comprendere le industrie culturali e i cambiamenti avvenuti al loro interno negli


ultimi trent’anni senza conoscere le transizioni avvenute nelle politiche governative. Dal 1980
in poi i cambiamenti di carattere politico con le conseguenze a più ampio spettro per le indu-
strie culturali si sono verificati nel settore delle telecomunicazioni, nei media (soprattutto nel
broadcasting) e nei settori della politica culturale. Questo capitolo e il prossimo sono dedica-
ti allo studio di questi argomenti (per la definizione di «politica» in questo contesto si veda il
Box 4.1). Nel delineare questi cambiamenti, si farà riferimento a quanto tracciato nel capito-
lo precedente a proposito del contesto di cambiamento e continuità nelle industrie culturali,
i cui elementi più importanti sono la nascita del neoliberismo e, più nello specifico, l’affac-
ciarsi del pensiero e della retorica della società dell’informazione neoliberista.

1
(NdC) In questo capitolo, l’autore ricorre frequentemente all’uso del termine “marketization”
per riferirsi alla progressiva introduzione di condizioni di mercato nella produzione di beni
sociali, di norma associata ad una riduzione delle funzioni pubbliche di gestione diretta.
“Marketization” è quindi il processo che porta le imprese pubbliche a comportarsi progressiva-
mente come imprese orientate al mercato, attraverso la deregolamentazione, la decentralizza-
zione e la privatizzazione. Si tratta, in sostanza, dell’esito delle politiche neoliberiste di cui si è
parlato nei capitoli precedenti e che puntano al conseguimento della competitività attraverso
la deregolamentazione. Non volendo lasciare il termine in lingua originale e considerata la dif-
ficoltà di traduzione del termine in italiano si è reso necessario un lavoro di adattamento al
contesto del concetto, che viene reso di volta in volta con “estensione al mercato” o “commer-
cializzazione” a seconda degli ambiti in cui appare.
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BOX 4.1 Il concetto di politica nelle comunicazioni, nei media e


nella cultura

I governi intervengono in tutte le aree della vita commerciale. Nelle moderne società comples-
se il libero mercato non esiste, ma è soltanto un obiettivo cui aspirano coloro che credono che
il mercato, nel suo stato ideale, sia il modo migliore per distribuire le risorse e rispondere ai biso-
gni dell’uomo. Anche quei sistemi economici nazionali basati soprattutto sull’impresa privata,
come gli Stati Uniti, si fondano su un enorme corpus di leggi riguardanti la concorrenza, le tasse,
i contratti, gli obblighi delle aziende e così via. Essi fanno anche affidamento sul finanziamento
governativo delle infrastrutture (trasporti, energia, denaro, comunicazioni) e sulla regolamenta-
zione statale delle aziende, per evitare che non ci sia abuso dei poteri del mercato. Come sug-
gerisce Thomas Streeter (1996: 197), tuttavia, la falsa opposizione fra governo e mercati preva-
le spesso, con il frequente risultato che «l’azione politica di ogni genere viene di norma intesa
come “interferenza governativa, quantomeno negli Stati Uniti.
I governi intervengono nelle comunicazioni, nei media e nei mercati culturali in tre modi princi-
pali. Essi infatti:

• legiferano: cioè creano delle leggi che riguardano gli argomenti generali citati sopra, come la
concorrenza e i contratti; si occupano poi di tematiche più specificamente culturali, come il
copyright, l’oscenità, la privacy e così via; tutti questi sono soggetti a norme e alle decisioni
dei tribunali
• regolano: per mezzo di queste leggi, i governi creano delle agenzie che monitorano un par-
ticolare settore o un gruppo di industrie, e che hanno il potere di influenzare il comportamen-
to di aziende e altre istituzioni
• sovvenzionano: direttamente, per mezzo di assegnazioni di fondi allo scopo di integrare la for-
nitura di prodotti culturali garantita dal settore privato in aree come il teatro, il balletto, l’ope-
ra, le belle arti e così via; o indirettamente, concedendo al settore privato lo sfruttamento della
ricerca e delle altre conoscenze create nel settore pubblico (soprattutto la difesa).

Questi costituiscono i tre elementi principali della politica governativa nelle telecomunicazio-
ni, nei media e nella cultura. La politica governativa opera a livello internazionale (per esempio
l’UE), nazionale (i singoli governi nazionali), a livello regionale subnazionale (per esempio i
governi statali di USA o Germania, o della regione nord-occidentale della Gran Bretagna) e a
livello cittadino.

Le relazioni fra i tre ambiti della politica su cui ci concentriamo qui – le teleco-
municazioni, i media e la politica culturale – sono complesse. Nei diversi paesi i ter-
mini assumono accezioni differenti e i confini fra di loro sono spesso vaghi e porosi.
Come le altre grandi infrastrutture economiche (i trasporti, il denaro e l’ener-
gia), le telecomunicazioni sono state per lungo tempo fondamentali per far funzio-
nare il mondo degli affari nelle società moderne, ma in un mondo nel quale la
politica governativa in fatto di economia, educazione e persino società è sempre
più influenzata dal discorso sulla società dell’informazione (si veda il Capitolo 3),
le telecomunicazioni hanno assunto un ruolo ancor più importante. I politici
hanno generalmente accettato la visione della società dell’informazione secondo la
quale le nazioni con i sistemi di telecomunicazione più avanzati saranno probabil-
mente più competitive nel nuovo mercato globale guidato dall’informazione. Le
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 113

telecomunicazioni non sono un’industria culturale nel senso definito nel presente
volume, ma gli sviluppi nella politica delle telecomunicazioni hanno avuto un
impatto profondo sulla produzione culturale.
In molti paesi, quella che viene generalmente definita politica dei mezzi di comu-
nicazione è nei fatti consistita in una serie di distinte aree politiche dirette verso sin-
goli settori – broadcasting, stampa, cinema e così via. Dagli anni Settanta in poi, le
visioni sul futuro economico della società dell’informazione hanno posto conside-
revole enfasi, sulla convergenza multimediale fra telecomunicazioni, computer e
mezzi di comunicazione, che – nell’ultimo caso – significa soprattutto broadcasting.
In passato, il broadcasting ha dominato il tempo libero degli abitanti dei paesi indu-
strializzati, e lo fa tuttora, persino in un’epoca in cui PC e Internet hanno ruoli sem-
pre più importanti (si veda il Capitolo 9). Per questa e altre ragioni che verranno
spiegate più avanti, i governi hanno apportato cambiamenti fondamentali alla poli-
tica del broadcasting, ecco perché questi cambiamenti vengono trattati qui: essi
sono infatti strettamente interrelati alle trasformazioni nelle telecomunicazioni.
Capire i vari slittamenti politici che si sono sovrapposti e che hanno maggior-
mente influenzato gli sviluppi nelle industrie culturali richiede la considerazione
del rapporto fra Stato e aziende private nella formazione della politica governati-
va in generale. Il Box 4.2 descrive brevemente i punti su cui ci si baserà testoni
questa analisi, prendendo a prestito i termini dalla critica di David Marsh alla teo-
ria politica pluralista (2002) e dalla notevole discussione di Robert Horwitz sulla
legislazione USA (1989).
In questo capitolo e nel prossimo, nel delineare i cambiamenti politici che avreb-
bero avuto effetti significativi sulle industrie culturali,2 si farà riferimento a queste
relazioni fra Stato, partiti politici e aziende, a livello nazionale e internazionale. La
storia che si racconterà è quella di una vittoria generale ma non totale dell’esten-
sione neoliberista al mercato, specie nella forma del discorso sulla società dell’infor-
mazione. In primo luogo si discuterà ciò che si intende per economia di mercato
nelle telecomunicazioni e nel broadcasting, e perché si preferisce questa espressio-
ne a «deregulation». Poi si esamineranno le logiche dell’intervento statale nelle
telecomunicazioni e nel broadcasting che hanno prevalso per gran parte del XX
secolo (con particolare attenzione ai paesi industrializzati) e si spiegheranno i pro-
cessi attraverso i quali il discorso neoliberista ha smantellato queste logiche negli
anni Ottanta, spianando la strada per l’inizio della estensione al mercato. Nel
Capitolo 5 si continuerà poi lo studio dell’importanza dei cambiamenti nella legge
e nelle pratiche relative al copyright, e si analizzerà il modo in cui il discorso sulla
società dell’informazione neoliberista ha operato nella politica culturale e delle arti.
Si porrà sempre attenzione ai conflitti insiti in tutti questi processi. Il trionfo del
neoliberismo nella società dell’informazione dovette essere conquistato. Non è

2
Effetti che vengono analizzati nei Capitoli 6-10. Ovviamente questi cambiamenti ebbero degli
effetti reciproci sulla politica, ma dal momento che – a nostro parere – la politica fu così impor-
tante per creare le dinamiche iniziali e, per chiarezza espositiva, in questa sede ci occupiamo
prima di politica.
114 CULTURAL INDUSTRIES

BOX 4.2 Come funziona la politica

Nel testo che segue si dà per scontato che la politica prenda forma da una serie di fattori che
hanno complesse relazioni fra loro (si veda Marsh, 2002).

Di particolare importanza è l’equilibrio fra le forze sociali, a sua volta profondamente influenza-
to da una disuguaglianza strutturata (su classe, genere, etnia e altre dimensioni) all’interno delle
società e fra loro, e dalle diverse risorse disponibili agli agenti.
Ma la politica non è semplicemente alla mercé dei ricchi e dei potenti. Anche le istituzioni e i
processi politici hanno una qualche autonomia. Quantomeno in una certa misura, i governi
democratici devono conservare la legittimità per quelle classi sociali e quei gruppi (la classe ope-
raia, i contadini, le minoranze etniche) escluse dalla politica «tradizionale».
I problemi e le soluzioni politiche sono costruiti in maniera discorsiva e questa costruzione è un
importante luogo di contestazione, ma – anche qui – entra in gioco la disuguaglianza struttura-
ta.
Una caratteristica importante ma non determinante della formazione della politica pubblica è
costituita dalle alleanze strategiche strette fra i partiti politici e le istituzioni sociali. Le grandi azien-
de, con le loro enormi risorse finanziarie e di comunicazione, sono particolarmente significative
in tal senso. Nei paesi industrializzati i partiti politici difficilmente possono raggiungere il potere
senza l’appoggio di tali aziende.
Tuttavia, non è necessario dare per scontato che le aziende intervengano direttamente nel pro-
cesso politico (anche se, ovviamente, lo fanno spesso), dal momento che – sulle questioni fon-
damentali – la politica viene spesso formulata a partire dalle previsioni sulle reazioni della gran-
de industria. Inoltre, le industrie si scontrano spesso sulle politiche, specie quando appartengo-
no a diversi settori industriali.
In generale, i corpi politici del moderno capitalismo operano in modo da combinare l’accumulo
di capitale da parte delle aziende con un certo grado di legittimazione popolare, come viene sot-
tolineato dalla teoria neo-Marxiana dello Stato. Tuttavia, come nota Horwitz (1989), un’analisi
delle origini delle agenzie politiche di Stato in particolari equilibri di forze sociali non spiega sem-
pre il loro modo di operare in pratica.
La politica deve essere intesa come operante sia a livello nazionale che internazionale (si veda
Sinha, 2001).

stata una vittoria completa in ogni momento – può infatti essere invertita – ma,
come si vedrà alla fine del Capitolo 5, ha interagito in maniera complessa con altri
cambiamenti che saranno discussi nei capitoli successivi, e in alcuni casi ha anche
aperto loro la strada. Si è anche verificato uno spostamento nelle relazioni fra cul-
tura ed economia, arte e capitalismo. Che questo sia o meno un cambiamento epo-
cale, del tipo rivendicato dalla retorica della società dell’informazione, è in dubbio,
ma questo lo si può determinare solo dopo aver considerato gli altri cambiamenti.

Deregulation, re-regulation ed estensione al mercato


nel settore della cultura

Nel Capitolo 3 abbiamo visto come la dottrina politica neoliberista si sia diffusa nel
mondo in risposta alla Recessione. Nel periodo 1945-1973, c’era stato un parziale
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consenso fra i partiti politici dei vari schieramenti sulla necessità di proteggere i
lavoratori e i consumatori dalle azioni intraprese dalle aziende private alla ricerca
di profitto. In alcuni paesi e settori, questo aveva implicato la nazionalizzazione di
aziende private. Servendosi della falsa dicotomia governo/mercati discussa nel Box
4.1, dagli anni Settanta in poi, il neoliberismo additò la proprietà pubblica e la
regolamentazione rigida come le responsabili della recessione economica e intra-
prese dei programmi di privatizzazione e modifica legislativa. Il termine neoliberi-
sta che definiva questi programmi fu spesso deregulation, ma in alcuni casi si pre-
ferì liberalizzazione.
Le retorica della deregulation e della liberalizzazione fu particolarmente potente
nelle industrie culturali perché la nozione di libertà dall’intervento governativo ali-
mentò le ansie sulle interferenze governative nell’espressione personale e politica.
Il diritto alla libera espressione è un aspetto fondamentale del pensiero democrati-
co liberale e, superficialmente, la regolamentazione governativa potrebbe minare
tale diritto. Tuttavia, termini come «deregulation» e «liberalizzazione» possono
potenzialmente confondere la rimozione della censura con misure che, nei fatti,
intendono aumentare l’accesso dei cittadini a una più ampia varietà di espressione
personale e politica, come le restrizioni su quante stazioni locali può possedere un
network nazionale (negli Stati Uniti) o su che percentuale del mercato nazionale
dei quotidiani i giornali di un’unica azienda possano occupare (nel Regno Unito).
Alcuni analisti delle industrie culturali hanno affermato, in risposta a questo
uso del termine «deregulation», che re-regulation è una definizione più appropria-
ta per i cambiamenti nella politica dei media e delle comunicazioni negli anni
Ottanta e Novanta (come per esempio Murdock, 1990: 12-13). Il termine «re-
regulation» rimanda al fatto che la legislazione e la regolamentazione non sono
state eliminate da questi cambiamenti, e sottolinea l’introduzione di nuove legisla-
zioni e regolamentazioni, molte delle quali favorirono, come vedremo, gli interes-
si di grandi aziende private e dei loro azionisti. Mentre i governi cercavano di
negoziare gli interessi concorrenziali durante gli anni della deregulation – gli
Ottanta e i Novanta – in molti casi introdussero effettivamente nuove e più com-
plesse normative. Il Regno Unito, come ha dimostrato Peter J. Humphreys (1996:
191), introdusse una serie di nuovi organismi regolatori, fra cui la Broadcasting
Complaints Commission (1982 – rimpiazzata nel 1997 dalla Broadcasting
Standards Commission si occupava dei reclami legati alla violazione della privacy
o ad utilizzi impropri di televisione o radio) e la Cable Authority (1984 – Authority
per la regolamentazione dell’industria della televisione via cavo), in un’epoca in
cui avrebbe dovuto iniziare il processo il deregulation. Anche la legislazione fran-
cese di metà degli anni Ottanta creò una complessa rete di regole.3 Come sottoli-
nea Humphreys, nonostante tutti i suoi vantaggi, il termine «re-regulation» cela

3
La televisione digitale ha portato con sé altissimi livelli di intervento governativo. Hernan
Galperin (2004) lo chiama il «paradosso digitale»: perché in un’epoca di «deregulation» si sentì
il bisogno di così tanta regolamentazione governativa? Si prenderà in esame la politica relativa
alla TV digitale nel Capitolo 9.
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anche un importante aspetto. Si tratta del fatto che gran parte della nuova legisla-
zione e regolamentazione in realtà legittimò la creazione di un ambiente commer-
ciale nel quale le aziende dell’industria culturale commerciale potevano operare in
maniera pressoché indisturbata. Spesso, gli interessi di tali aziende non sono
necessariamente forieri di un sistema equo di produzione culturale nei termini svi-
luppati nel Capitolo 2.
Il termine che qui si preferisce per descrivere il senso primario dei cambiamen-
ti politici dagli anni Ottanta in poi è estensione al mercato. In generale, l’espres-
sione si riferisce alla «diffusione dello scambio di mercato come principio sociale»
(Slater e Tonkiss, 2001: 25), un processo a lungo termine che è avvenuto in diver-
si secoli e comprende la mercificazione, il crescente uso del denaro come base dello
scambio e una crescente divisone del lavoro. I teorici sottolineano questo e altri
elementi in diverse misure. Nelle moderne società capitaliste, coesistono delle rela-
zioni di mercato e altre non di mercato, ma quelle di mercato sono predominanti
quanto al modo in cui la società è coordinata e organizzata. Qui, tuttavia, si usa il
termine in maniera più specifica per fare riferimento al processo attraverso il quale
lo scambio di mercato arrivò sempre più a permeare le industrie culturali e i set-
tori a esse correlati. Questo coinvolse una serie di processi, tre dei quali spiccano:

• privatizzazione delle imprese e delle istituzioni di proprietà governativa, molte


delle quali un tempo erano state private
• abolizione delle limitazioni sulle attività delle aziende, che poterono così cercare
più facilmente il profitto
• espansione della proprietà privata come risultato, insieme ad altri cambiamenti
nelle leggi e nella regolamentazione che consentirono che ciò accadesse.

Nei mercati in sé non c’è alcunché di sbagliato. Potenzialmente – in certi casi e


in determinati sistemi sociali – possono agire come efficienti ed equi allocatori di
risorse. Per molti critici dell’estensione al mercato neoliberista, tuttavia, nelle com-
plesse società capitaliste moderne i mercati devono essere gestiti con cautela da
parte dei governi per assicurare efficienza ed equità. Per una prospettiva marxia-
na, la commercializzazione è strettamene legata a una massiccia mercificazione di
più e più aree della vita sociale, una mercificazione che – come abbiamo visto nel
Capitolo 2 – viene considerata dagli analisti marxiani come un tratto essenziale,
ma altamente problematico, del capitalismo. Una visione diversa prevalse fra i
politici dagli anni Ottanta in poi, come abbiamo visto nel Capitolo 3 – la visione
neoliberista secondo la quale la produzione e lo scambio di beni e servizi cultura-
li allo scopo di ottenere dei profitti sarebbe il modo migliore per raggiungere effi-
cienza ed equità nella produzione e nel consumo dei testi.
Esaminiamo ora in che modo tale economia di mercato neoliberista entrò nella
politica delle telecomunicazioni e del broadcasting. Dobbiamo innanzitutto stabili-
re quale fosse la situazione prevalente in un’epoca politica precedente, vale a dire
prima degli anni Ottanta.
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 117

Telecomunicazioni e broadcasting: perché lo stato fu così


coinvolto?

Fino agli anni Ottanta, nelle democrazie liberali così come negli Stati autoritari, la
maggior parte delle organizzazioni di broadcasting e telecomunicazioni erano di
proprietà dello stato ed erano poste sotto il suo controllo. Persino negli Stati Uniti,
che tradizionalmente preferiscono le imprese private a quelle pubbliche, il broad-
casting e le telecomunicazioni furono, per diversi decenni, soggetti a una rigida
regolamentazione da parte degli organi governativi.
Perché il broadcasting e le telecomunicazioni furono maggiormente soggetti alla
proprietà pubblica e a una regolamentazione rigida rispetto a industrie culturali
come l’editoria, il cinema o l’industria musicale? Possiamo suddividere le risposte
a questa domanda in tre gruppi che spaziano fra contesti politici e culturali molto
diversi:

• le telecomunicazioni intese come servizio pubblico


• il broadcasting inteso come una risorsa nazionale limitata
• l’idea del broadcasting come qualcosa di potente e che, dunque, deve essere
controllato.

Le telecomunicazioni come servizio pubblico


All’inizio del XX secolo, nella maggior parte delle nazioni le telecomunicazioni
(principalmente telegrafo e telefono) erano ampiamente considerate come qualco-
sa che, in linea di principio, lo Stato avrebbe voluto rendere disponibile all’intera
popolazione, allo scopo di promuovere l’identità nazionale e incoraggiare lo svi-
luppo economico. Nella maggior parte degli Stati liberali democratici e nelle loro
colonie, la responsabilità di organizzare le telecomunicazioni fu affidata alle auto-
rità incaricate di occuparsi del sistema postale. In alcune nazioni europee, le orga-
nizzazioni postali nazionali si espansero fino a diventare autorità postali, del tele-
grafo e del telefono (PTT): per esempio, il General Post Office nel Regno Unito, la
Reichpost e – dopo la Seconda guerra mondiale – la Bundespost in Germania, la
Direction Générale des Telecommunications in Francia, e così via. Negli USA, dove
gli operatori dei vari settori economici erano particolarmente zelanti nel resistere,
con successo alla regolamentazione democratica dei mercati, alla compagnia pri-
vata AT&T (American Telephone and Telegraph Company) fu consentito di confi-
gurarsi come un monopolio privato, che copriva quasi tutti gli Stati Uniti. I politi-
ci statunitensi usarono il loro linguaggio tipico per definire le telecomunicazioni,
al pari di strade e ferrovie, come un «vettore collettivo», cioè un sistema o un net-
work che doveva portare messaggi, veicoli e così via, pagato dai clienti e regola-
mentato entro determinati confini legali. La giustificazione per il monopolio di
AT&T era che gli alti costi di installazione delle infrastrutture telefoniche portava-
118 CULTURAL INDUSTRIES

no all’istituzione di un «monopolio naturale» e che tale monopolio, rigidamente


regolamentato dal governo, era il modo migliore per raggiungere la standardizza-
zione, l’alta qualità e, quindi, il «servizio universale» possibile solo grazie a un vet-
tore collettivo.4 In cambio di questo monopolio, fino al suo parziale smantellamen-
to negli anni Ottanta, AT&T accettò la rigida regolamentazione dei prezzi e il divie-
to di partecipare alla produzione e distribuzione della programmazione.

Il broadcasting come risorsa nazionale e limitata


La radio venne inizialmente sviluppata come forma di comunicazione uno-a-uno,
considerata come qualcosa di simile a un telefono o a un telegramma su onde
radio, piuttosto che nella forma di broadcasting (comunicazione uno-a-molti) che
poi assunse. Nel primo decennio del Novecento veniva utilizzata dapprima dai
militari e poi sempre più dagli amatori per comunicazioni personali, ed era essen-
zialmente priva di qualsiasi regolamentazione. Nei primi anni Venti, le aziende pri-
vate di diversi paesi cominciarono a sperimentare la trasmissione via radio di musi-
ca e di altre forme di intrattenimento. Negli Stati Uniti la radio divenne presto una
vera e propria moda, ma le frequenze restarono prive di regolamentazione per
anni, causando caos e pessima ricezione pressoché ovunque.
In molte nazioni europee, tuttavia, la proprietà pubblica e la regolazione delle
risorse nazionali e dei servizi pubblici – come gas, acqua, energia elettrica e servi-
zi postali – erano considerate auspicabili. La responsabilità di fornire un servizio
pubblico divenne un aspetto sempre più importante di molte culture nazionali,
anche se – in molti casi, come nel Regno Unito – questo comportava una «defini-
zione paternalista tanto del servizio quanto della responsabilità» (Williams, 1974:
33). Per questo, in molti Stati europei sembrava naturale che la radio dovesse esse-
re gestita, o quantomeno supervisionata, dalle PTT. Questo appariva particolar-
mente appropriato data la scarsità dello spettro – vale a dire la scarsità delle frequen-
ze disponibili per la trasmissione dei messaggi radio. Persino negli Stati Uniti, con
la sua già forte tradizione di resistenza alla regolamentazione, l’idea che lo Stato
dovesse essere coinvolto da vicino nell’allocazione dello spettro di frequenze –
cosicché le emittenti non si sovrapponessero sulle stesse frequenze rovinando
l’esperienza della radio agli ascoltatori – fu ampiamente accettata. Risultato di que-
sta riflessione fu l’introduzione, nel 1927, della Federal Radio Commission.
Da ultimo, nella maggior parte dei paesi vennero costituiti nuovi organismi pre-
posti alla regolamentazione del broadcasting. In un primo tempo, molti erano
sotto l’egida delle PTT, ma poi svilupparono una propria autonomia, che si tradus-
se nella nascita di compagnie come la British Broadcasting Corporation (BBC) e
altre organizzazioni simili (alcune delle quali modellate sulla scorta della BBC),

4
«Universale» non significava che tutti vi accedessero nella stessa misura: ci vollero infatti
decenni prima che le fasce più povere della popolazione raggiungessero alti tassi di installazio-
ne e, anche allora, non si trattò tanto dell’impegno governativo o dell’azienda, quanto piutto-
sto dell’abbassamento dei prezzi (Aufderheide, 1999: 16; Garnham, 1996: 3.)
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 119

come la CBC (Canadian Broadcasting Corporation) o in Italia la RAI. Quando fu


introdotta la televisione – che ovviamente faceva affidamento sulle onde radio per
la trasmissione – la sua regolamentazione venne in molti casi passata a queste
organizzazioni statali o, in alcuni paesi a un doppio sistema di servizio pubblico e
televisione commerciale appositamente istituito (come accadde in Australia e
Giappone negli anni Cinquanta).

Il potere del broadcasting


Quando la radio divenne una tecnologia di broadcasting, piuttosto che un mezzo
di comunicazione fra singoli interlocutori dislocati in luoghi diversi, il suo poten-
ziale potere sociale divenne ben presto evidente, sia per quanto riguardava l’aspet-
to commerciale (possibilità di pubblicizzare e promuovere dei beni), sia per quello
politico (potere di influenzare le abitudini di voto e l’atteggiamento della popola-
zione nei confronti degli obiettivi e delle procedure democratiche). In quasi tutti i
paesi, si accettò il fatto che lo Stato, ancora una volta sulla base della responsabi-
lità democratica, dovesse essere l’ente preposto ad assicurare che non venisse fatto
un cattivo uso di questi poteri. In alcune nazioni, come la Francia dopo la Seconda
Guerra Mondiale, questo si tradusse in un controllo statale molto forte e diretto
sulla principale organizzazione di broadcasting. Nel Regno Unito, la BBC fu (dal
1926) un’azienda pubblica governata da un regio decreto che sanciva il suo mandato
e da incaricati governativi. Anche in nazioni che favorivano l’impresa privata, come
gli Stati Uniti o il Lussemburgo del dopoguerra, erano ampiamente accettati più alti
livelli di regolamentazione governativa in confronto a quelli validi per altri settori, e
questo in gran parte per via del potere percepito della radio. Negli anni Cinquanta e
Sessanta, quando la televisione divenne molto popolare e disponibile, il suo potenzia-
le potere sociale fece sì che essa ereditasse i contesti legislativi e regolatori della radio.

Gli anni Ottanta: si smantellano le logiche, si introducono


condizioni di mercato

Negli anni Ottanta, le logiche soggiacenti a livelli così alti di intervento governativo
nel broadcasting e nelle telecomunicazioni stavano venendo meno. Nel Capitolo 3
abbiamo visto in che modo in quel periodo l’ascesa del neoliberismo abbia contribui-
to a delegittimare la proprietà pubblica e certe forme di regolamentazione in quasi
tutte le forme di attività economica. Abbiamo anche visto come le aziende commer-
ciali di Europa e Nord America, notando che i margini nella produzione stavano
calando, diventassero sempre più consapevoli dei profitti potenzialmente maggiori
che potevano essere realizzati dalle industrie culturali, della comunicazione e del
tempo libero. Esercitarono quindi una maggiore pressione affinché i governi naziona-
li rimuovessero le restrizioni all’accesso a certi mercati – in particolare le telecomuni-
cazioni e il broadcasting, che in precedenza erano stati regolati molto rigidamente.
120 CULTURAL INDUSTRIES

Tutte le principali logiche sottese alle politiche per il broadcasting e le telecomu-


nicazioni subirono, negli anni Ottanta e Novanta, attacchi feroci soprattutto da
parte delle aziende private e dei politici e dei commentatori che ne sostenevano gli
interessi. Questi gruppi di interesse sostenevano l’estensione al mercato, ma attac-
cavano ciascuna delle logiche elencate sopra nei modi che seguono.

Contestazione della logica delle telecomunicazioni come ser-


vizio pubblico
Diversi enti e gruppi di interesse (insieme a influenti accademici, come Pool, 1983)
affermavano che, specie dagli anni Settanta in poi, la necessità di fornire le telecomu-
nicazioni come servizio pubblico (o vettore unico, come viene espresso questo con-
cetto negli Stati Uniti) non esisteva più, perché i servizi di telecomunicazione erano
ormai diffusi fra le popolazioni dei paesi industrializzati. Essi sostenevano pertanto
che il settore dovesse venire aperto alla concorrenza nazionale e internazionale.
Secondo i sostenitori neoliberisti dell’estensione al mercato, questo avrebbe aumen-
tato l’efficienza del settore, dal momento che lo avrebbe esposto all’inclemenza del
mercato. Quest’ultimo, a sua volta, avrebbe fornito dei servizi all’avanguardia che
avrebbero contribuito a far uscire le economie di questi paesi dalla Recessione. Le
grandi compagnie di telecomunicazione e i dirigenti delle PTT (che avevano buone
probabilità di arricchirsi enormemente grazie alla privatizzazione) erano particolar-
mente inclini a sostenere tali argomentazioni. Dall’altra parte, sostenevano spesso di
necessitare di protezione dalle difficoltà del mercato sotto forma di limitazioni all’ac-
cesso di nuovi rivali, in modo che da poter competere con altre grandi aziende sul
mercato internazionale. Tali contraddizioni nei discorsi sulla commercializzazione
sono stati una caratteristica costante del panorama politico degli ultimi 30 anni.

Contestazione della logica del broadcasting come risorsa


nazionale e scarsa
Al posto della limitata parte dello spettro di frequenze disponibile per il broadca-
sting analogico, le nuove tecnologie via cavo, via satellite e digitali offrivano una
capacità pressoché illimitata per la trasmissione di informazioni e per l’intratteni-
mento. I fautori dell’estensione neoliberista al mercato affermavano che le nuove
tecnologie della comunicazione segnavano la fine delle limitazioni dello spettro e
che, di conseguenza, l’intervento statale nel broadcasting volto ad assicurare una
chiara ricezione del segnale non era più giustificato. Queste affermazioni si basa-
vano su un uso altamente strategico del riduzionismo tecnologico. La tecnologia
non delegittimava la politica esistente in quanto tale. Piuttosto, queste tecnologie
avrebbero dovuto essere viste come il risultato delle decisioni di investimento da
parte delle aziende private. Le aziende dell’industria culturale e i loro alleati poli-
tici furono in grado di presentare queste nuove tecnologie come inevitabili moto-
ri di cambiamento, che richiedevano nuove forme di regolamentazione meno rigi-
da per permettere alle aziende di competere sui mercati nazionali e globali.
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 121

Contestazione della logica del potere del broadcasting


Per i sostenitori del pubblico servizio e/o dell’interesse pubblico divenne sempre
più difficile dimostrare che la proprietà pubblica o la rigida regolamentazione
della televisione fosse giustificata dal suo potere di influenzare e persuadere. Già
negli anni Ottanta, le aziende erano coinvolte in una vasta gamma di imprese cul-
turali. Perché, si chiedevano, dovevano rimanere escluse dall’ingresso in televi-
sione – il più importante (e lucrativo) mezzo di comunicazione? La televisione era
stata sempre più assorbita nel tessuto della vita quotidiana. Sebbene fosse ancora
un mezzo di comunicazione piuttosto autorevole e causa di profonde preoccupa-
zioni sui suoi effetti sociali, le argomentazioni secondo le quali gli spettatori dove-
vano essere protetti dal medium erano sempre più difficili da sostenere. Tuttavia,
gli appelli per la fine o l’allentamento della proprietà e della regolamentazione
pubblica legarono questo senso del declino del potere della televisione a una reto-
rica diversa e molto più problematica – quella secondo la quale il sistema di bro-
adcasting esistente offriva una scelta insufficiente allo spettatore e il miglior modo
per aumentare la scelta era quello di fornire più canali (commerciali), (dalla Gran
Bretagna, il Peacock Report, 1986, costituì un’importante formulazione di tale
visione).

Le quattro ondate dell’estensione al mercato

A seguito del successo della delegittimazione delle logiche sottese alla proprietà e alla
regolamentazione pubblica, gli anni Ottanta e Novanta videro dei cambiamenti di
grande importanza storica nel panorama politico.

• Le autorità delle telecomunicazioni furono privatizzate e i mercati nazionali delle


telecomunicazioni aperti alla concorrenza, in particolare da parte degli operatori
delle tecnologie via cavo e mobili.
• Alcune istituzioni di broadcasting pubbliche furono privatizzate.
• Anche nei casi in cui le istituzioni di broadcasting pubbliche non furono toccate
da questi cambiamenti, i sistemi televisivi furono aperti ad altri emittenti terrestri
e commerciali, e – sempre di più – ai fornitori che operavano via cavo e satellite.
• Le «barriere» regolatrici fra compagnie di telecomunicazioni, broadcasting e
nuovi media (come cavo e satellite) caddero, tanto che nuove aziende di teleco-
municazioni e comunicazioni via cavo furono autorizzate a entrare nel settore
della telefonia.
• L’estensione al mercato creò un nuovo contesto per intendere la politica cultura-
le in un’epoca di innovazione tecnologica, quindi, nel momento in cui nuove tec-
nologie della comunicazione furono introdotte o diffuse in maniera più capillare,
si pensò spesso che – al di là delle leggi e dei regolamenti sulla concorrenza –
necessitassero di legislazione e regolamentazione minime.
122 CULTURAL INDUSTRIES

• Le restrizioni sui contenuti furono allentate in maniera significativa, e questo


riguardò per esempio il quantitativo di pubblicità consentito ogni ora, così come
la quantità di programmi educativi che dovevano essere trasmessi e la scelta delle
fasce orarie.
• Le leggi e le regolamentazioni che governavano la proprietà dei mezzi di comuni-
cazione furono rimosse o allentate.
• I finanziamenti alle istituzioni culturali non-profit e del settore pubblico – come
biblioteche, musei, teatri, film e così via – furono ridotti (si veda la discussione
sulla politica culturale nel Capitolo 5), il che creò spazio ulteriore per le aziende
private nei mercati culturali, aprendo nuove opportunità di mercato (fornendo
per esempio database di informazioni confidenziali) e riducendo la concorrenza
(per esempio diminuendo il numero di film realizzati nella maggior parte delle
nazioni europee e consentendo di conseguenza ai film hollywoodiani di entrare
nei mercati europei).

Esempi specifici di tali cambiamenti nei diversi paesi vengono forniti nel resocon-
to storico che segue. Questi cambiamenti nella politica dell’industria culturale gioca-
rono un ruolo cruciale nel dare avvio e accelerare molti dei cambiamenti che costi-
tuiscono il tema presentesi questo libro. Non si ribadirà mai abbastanza come questi
cambiamenti siano stati deliberatamente introdotti per sostenere gli interessi delle
grandi aziende commerciali dell’industria culturale. I governi operarono tali scelte
perché volevano che le imprese culturali nazionali fossero in grado di competere a
livello globale nel settore delle industrie culturali. Ogni indicazione secondo la quale
questi cambiamenti divennero inevitabili a seguito, per esempio, del cambiamento
tecnologico o di qualche processo esterno noto come «globalizzazione», rivela la
natura volontaria e intenzionale di questi cambiamenti (sebbene essi ebbero molte
conseguenze involontarie e impreviste).
Le prossime quattro sezioni discutono le quattro ondate della estensione al mer-
cato, come segue (si veda anche Figura 4.1).

• I cambiamenti politici con le conseguenze politiche più profonde in termini di


passaggio al mercato avvennero negli Stati Uniti dal 1980 in poi.
• I cambiamenti negli Stati Uniti influenzarono i cambiamenti negli altri Stati
industrializzati, in Europa Occidentale, Canada, Australasia e Giappone a parti-
re dalla metà degli anni Ottanta, anche se – ovviamente – con significative
varianti nazionali e regionali.
• In seguito, una serie di nazioni con tradizioni più autoritarie riguardo al con-
trollo statale e alla proprietà inaugurarono delle politiche di ingresso nel mer-
cato e di «liberalizzazione».
• Infine, un’ulteriore tornata di cambiamenti politici spianò la strada alla conver-
genza fra telecomunicazioni, media e computer. Qui, furono di particolare
importanza gli accordi commerciali e gli organi politici che perseguirono la com-
mercializzazione a livello internazionale.
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 123

Figura 4.1 Le quattro ondate dell’estensione al mercato

Anni 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005 2010

Stati

Stati Uniti Prima ondata

Europa Occidentale
Canada
Australasia
Giappone Seconda ondata

Stati autoritari in fase


di transizione Terza ondata

Molti Stati
alla ricerca
della convergenza Quarta ondata

La prima ondata: i cambiamenti nella politica delle comu-


nicazioni negli stati uniti, 1980-1990

Lo Stato aveva giocato un ruolo significativo nello sviluppo della radio negli Stati
Uniti e nella fondazione della RCA (in seguito proprietaria del network televisivo
NBC e casa discografica che pubblicò gli album di Elvis Presley). Tuttavia, nel
Communications Act del 1934 gli Stati Uniti si discostarono radicalmente dalla
norma degli altri paesi liberal-democratici, secondo la quale i governi dovevano
avere un ruolo molto chiaro nella proprietà e regolamentazione dei mezzi di
comunicazione e nelle telecomunicazioni.5 Il Communications Act istituì la
Commissione Federale per le Comunicazioni per monitorare «l’interesse pubblico,
la convenienza e/o la necessità» (una frase usata in origine nel Radio Act del
1927). Nella radio e, successivamente, nella televisione fu creato un sistema duale
di regolamentazione dei mezzi di comunicazione e delle telecomunicazioni, men-
tre alle emittenti fu dato accesso allo scarso spettro di frequenze in cambio della
promessa di servire «l’interesse pubblico, la convenienza e/o la necessità».
Vennero fissati dei limiti su quante stazioni televisive le emittenti che produceva-

5
Robert W. McChesney ha dimostrato in che modo i diversi gruppi di interesse commerciale e di
destra giocarono un ruolo cruciale nell’assicurare questo risultato durante i dibattiti sul modo
migliore di organizzare le telecomunicazioni nel periodo 1927–35 (si veda McChesney, 1993,
1999: Capitolo 5).
124 CULTURAL INDUSTRIES

no dei programmi potessero possedere su scala nazionale, ma le stazioni televisive


sul piano locale di tutti gli Stati Uniti si affiliarono e arrivarono a costituire (fra il
1955 e il 1985) un terzetto di grandi network: NBC, CBS e ABC.6 Queste aziende
formarono un oligopolio nazionale di fatto verticalmente integrato. I loro profitti
provenivano principalmente dalla pubblicità piuttosto che dal canone televisivo,
che era il sistema preferito in Europa e altrove.
Nel frattempo, come abbiamo già visto, alla AT&T fu garantito il controllo mono-
polistico nel nome dell’efficienza. In cambio, l’azienda acconsentì a non aver alcun
coinvolgimento nella creazione e nella circolazione dei contenuti. Il primo grande
cambiamento nella regolamentazione delle telecomunicazioni attinente al periodo
principale qui esaminato si ebbe nel 1982, a seguito di una causa che vedeva coin-
volto il Dipartimento di Giustizia contro AT&T, portata in giudizio per la prima volta
nel 1974 (il che è emblematico della lentezza della giustizia americana – si veda Box
4.3). In via stragiudiziale, AT&T accettò di essere privata delle aziende locali per
aprirsi alla concorrenza nei mercati delle comunicazioni long-distance. Nel 1984, a
seguito di questa dismissione, furono costituite sette compagnie telefoniche locali,
le cosiddette «Baby Bell». Alcune di queste hanno assunto dei ruoli di primo piano
nella «convergenza» tra i mercati delle telecomunicazioni, dei media e delle tecno-
logie dell’informazione nei tardi anni Novanta e all’inizio degli anni Duemila. In
cambio di questa dismissione, la AT&T fu autorizzata a entrare nei mercati dell’in-
formatica e dei computer, dai quali prima era bandita. Gli sviluppi nella regolamen-
tazione delle telecomunicazioni impiegarono diversi anni per avere effetto, quindi
torneremo su questo argomento nel prossimo capitolo.
Quanto al loro impatto, i cambiamenti nel broadcasting furono più immediati
rispetto a quelli nelle telecomunicazioni. I cambiamenti politici più significativi
avvennero nella regolamentazione piuttosto che nella legislazione (con l’eccezio-
ne del Cable Act del 1984) e furono apportati da un cambiamento nel personale
della Commissione Federale per le Comunicazioni. Durante il periodo nel quale la
televisione divenne un mezzo di comunicazione di massa nazionale (1945-1970),
la Commissione Federale per le Comunicazioni si scontrò con le emittenti su una
serie di tematiche, in particolar modo sulla «Dottrina dell’Imparzialità» – le rego-
le attraverso le quali la Commissione cercò di assicurarsi che le emittenti non
avrebbero abusato del loro potere agendo come patrocinatori di parte. Già negli
anni Settanta, la Commissione si era discostata dalla rigida regolamentazione dei
contenuti dei mezzi di comunicazione, ma a livello generale esercitava un rigido
controllo sugli aspetti strutturali, come le restrizioni sulla concentrazione, la pro-
prietà transmediale e la convergenza.
L’amministrazione di estrema destra del Presidente Ronald Reagan (1981-1989)
nominò uno zelante conservatore neoliberista, Mark Fowler, alla presidenza della

6
Un quarto network, Dumont, durò fino al 1955. Il network giornalistico della Fox iniziò nel
1985 ed entro il 1991 si era ormai affermato. Time Warner e Viacom fondarono nuovi network
negli anni Novanta – rispettivamente WB e UPN.
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 125

BOX 4.3 Le particolarità della regolamentazione del broadcasting


negli Stati Uniti

Una caratteristica degna di nota della politica sul broadcasting negli USA è che il Congresso ha
varato pochissime leggi in materia. Infatti, il Telecommunications Act del 1996 fu la prima impor-
tante legge promulgata dai tempi del Communications Act del 1934. Molte delle principali deci-
sioni che influenzarono le comunicazioni sono state «prese dai Giudici Federali che si sono tro-
vati a decidere nei casi di fusione e anti-monopolio» (Tunstall e Machin, 1999: 41). Tali casi sono
spesso portati avanti dalla Federal Trade Commission o dal Dipartimento di Giustizia piuttosto
che dalla Commissione Federale per le Comunicazioni.
Chad Raphael (2005) aggiunge un’ulteriore svolta alla visione secondo la quale il ruolo della
Commissione Federale per le Comunicazioni viene talvolta sovrastimato. Egli sostiene infatti che
la storia recente della legislazione americana non dovrebbe essere considerata come una mossa
da parte di un rigido controllo governativo verso un lungo processo di deregulation, ma come
la graduale privatizzazione della regolamentazione. Raphael dimostra come il giornalismo televi-
sivo sia oggi meno sorvegliato dalla Commissione Federale per le Comunicazioni, dal Congresso
e dal ramo esecutivo del governo, di quanto non sia da leggi sugli illeciti civili, campagne di pub-
bliche relazioni e pressioni del mercato.

Commissione. Fowler fece piazza pulita di numerosi controlli sulla concentrazio-


ne, provocando un’ondata di fusioni e acquisizioni nel settore del broadcasting
negli anni Ottanta (Sterling e Kittross, 2002: 500, 575-7). Nei tardi anni Ottanta,
abrogò ampiamente la Dottrina dell’Imparzialità e, fra le altre conseguenze sui
contenuti, questo contribuì all’incremento della presenza nelle radio di talk show
orientati a destra. Nel frattempo, su argomenti come l’oscenità, adottò una linea
dura senza precedenti, che portò a una serie di conflitti con dee-jay radiofonici
particolarmente provocatori come Howard Stern. I limiti sul quantitativo di pub-
blicità consentita all’ora furono allentati e, in generale, la Commissione incoraggiò
un’atmosfera nella quale l’interesse pubblico – mai realmente definito – venne
identificato con la prosperità economica delle imprese commerciali americane.
Lo slittamento verso il mercato negli Stati Uniti fu il risultato di una lotta su come
regolare e organizzare la produzione culturale in un’epoca in cui i capitalisti stava-
no sempre più orientandosi verso gli investimenti nel campo della cultura come
mezzo per ricavare profitti. In uno studio contemporaneo, Jeremy Tunstall (1986)
dimostrò in che modo questa lotta fosse stata intrapresa in larga parte all’interno di
specifiche aree di Washington DC da gruppi di interesse e dai loro lobbisti. Gli inte-
ressi favorevoli all’estensione comprendevano, per esempio, quelli delle emittenti,
rappresentate dalla loro associazione di categoria, la National Association of
Broadcasters e varie compagnie di TV via cavo, che erano riuscite a prendere piede
all’inizio degli anni Ottanta. Contro di loro erano schierati vari gruppi che cercava-
no di rappresentare il «pubblico interesse», come gruppi per i diritti civili, associa-
zioni di consumatori e attivisti religiosi (si veda Aufderheide, 1999: 18-19 per mag-
giori dettagli su questi gruppi di pubblico interesse). Alcune delle forze favorevoli
alla estensione al mercato avevano, per certi aspetti, degli interessi concorrenti e la
126 CULTURAL INDUSTRIES

maggior parte era a favore alla commercializzazione, dal momento che – prima di
tutto – avrebbe fatto i loro interessi (si veda Capitolo 2). Tuttavia, queste forze erano
unite da una comune dedizione neoliberista al libero mercato – vale a dire all’im-
presa privata priva di regolamentazioni, al concetto della presunta sovranità e scel-
ta del consumatore (in opposizione ai diritti dei cittadini) e all’obiettivo dell’effi-
cienza economica per mezzo della concorrenza. Abbiamo già visto gli argomenti
fondamentali messi in campo da questi gruppi di interesse e dai loro alleati politici
della destra radicale contro le forme tradizionali della politica della comunicazione:
la necessità della concorrenza per incoraggiare l’efficienza, la presunta eliminazio-
ne della scarsità dello spettro di frequenze come logica per la regolamentazione e il
privilegiare la scelta del consumatore rispetto ai diritti dei cittadini. Tutto questo
contribuì alla svolta verso il neoliberismo, e ne fornì una parte consistente.
Insieme, questi cambiamenti mostrarono come la politica governativa si stesse
muovendo in una direzione che si sarebbe rivelata molto favorevole alle aziende
intenzionate a espandere i propri interessi nelle industrie culturali. Per di più, il
successo delle aziende e dei politici conservatori nello smantellare gli apparati
regolatori negli USA, specie nel broadcasting, fu di grande incoraggiamento alle
aziende e ai politici che, nel resto del mondo, condividevano gli stessi obiettivi.

La seconda ondata: i cambiamenti nella politica


del broadcasting nei paesi industrializzati, 1985-1995

Storicamente, le democrazie liberali di Europa Occidentale, Australasia, Canada,


Giappone e altri paesi hanno seguito strade molto diverse da quella intrapresa
dagli Stati Uniti nella politica delle telecomunicazioni e del broadcasting. Anche se
in misura diversa, in questi paesi le telecomunicazioni sono state gestite essenzial-
mente da società pubbliche e – al contrario della definizione assai nebulosa di inte-
resse pubblico degli Stati Uniti – il concetto chiave nella politica del broadcasting è
stato quello del servizio pubblico. Uno dei cambiamenti più significativi nelle
industrie culturali degli anni Ottanta e Novanta è stato lo smantellamento di que-
sta mescolanza fra società pubbliche/servizio pubblico. Nelle telecomunicazioni,
l’estensione al mercato viene affrontata nella sezione dedicata alla quarta ondata,
che si orientò verso la convergenza e l’internazionalizzazione, anche se qui ci con-
centreremo sulla sfida al broadcasting non commerciale nei paesi industrializzati.
Nei paesi industrializzati, la televisione è stata la più importante industria cul-
turale del tardo XX secolo, sia in termini di semplice quantità di tempo che gentil
pubblico ha trascorso a guardarla (si veda il Capitolo 3) sia quanto al suo significa-
to culturale. La commercializzazione della televisione in questi paesi ha già avuto
enormi effetti sulle industrie culturali, non solo negli Stati stessi, ma anche in
molti altri luoghi. La messa da parte del servizio pubblico televisivo ha importanti
implicazioni per le relazioni sociali della produzione culturale e per i testi prodot-
ti dalle industrie culturali.
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 127

Definizione delle caratteristiche del servizio


pubblico radiotelevisivo
Le caratteristiche salienti del servizio pubblico radiotelevisivo (Public Service
Broadcasting, PSB) come vengono descritte dai suoi sostenitori (si veda Blumler,
1992: 102; Brants e Siune, 1992; Tracey, 1998: 26-9) comprendono:

• Responsabilità verso il pubblico (attraverso i rappresentanti politici) oltre a


quella fornita dalle forze di mercato.
• Elementi di pubblico finanziamento principalmente tratti dal canone televisivo.
Nel 2008 questo ammonta a circa 187 euro l’anno nel Regno Unito, a circa 204
euro l’anno in Germania e a 106 euro in Italia. Le entrate per le emittenti pub-
bliche possono comprendere quelle derivanti dalla pubblicità e dalle vendita e
concessione di programmi e format ad altre emittenti. Ma, in maniera assai signi-
ficativa, tutti i profitti devono generalmente essere reinvestiti nella programma-
zione o nell’amministrazione, mentre in un sistema privato una fetta consisten-
te deve essere pagata agli azionisti. In Gran Bretagna, il canone TV annuale paga
la fornitura della radio pubblica, di Internet e della televisione della BBC.
• Regolamentazione del contenuto fra cui le restrizioni sulla pubblicità, i conte-
nuti violenti o pornografici (una caratteristica di regolamentazione del broadca-
sting privato), ma anche regole riguardanti l’equilibrio, l’imparzialità e il soddi-
sfacimento degli interessi delle minoranze, l’obbligo di trasmettere programmi
educativi e di programmazione per tutte le regioni di un paese.
• Servizio universale su tutto il territorio di una nazione e «mandato globale»
(Blumler, 1992: 8) per cui le emittenti di servizio pubblico dovrebbero incorag-
giare e soddisfare i gusti di tutte le fasce di popolazione di una società.
• La caratteristica forse più importante di tutte in questo contesto è che l’audien-
ce è considerata prima di tutto come insieme di cittadini, piuttosto che di con-
sumatori – quantomeno in determinati momenti chiave. Questo si riflette nella
proposta di programmazioni miste e pluraliste, mentre in un sistema consumi-
stico la programmazione sarebbe determinata in primo luogo dall’imperativo di
massimizzare gli ascolti e/o i profitti. Per dirla con Blumler, le emittenti pubbli-
che furono investite della responsabilità di mantenere la ricchezza culturale e la
diversità di una nazione. Questa preoccupazione verso la cittadinanza è anche
evidente nel modo in cui, nelle parole di Blumler (1992: 12), il servizio pubbli-
co radiotelevisivo «si assunse alcune responsabilità per la salute dei processi
politici e per la qualità del discorso pubblico generato al loro interno». Questo
significò, in generale, un vincolo alla «distanza dagli interessi acquisiti», anche
se questo non si ottenne sempre, specie in periodi di guerra, conflitto o crisi.

Variazioni nei sistemi di servizio pubblico radiotelevisivo


Come è ovvio, ci furono molte variazioni in questo sistema generalizzato di servizio
pubblico radiotelevisivo. Come osserva Humphreys (1996: 177-8), molte di queste
128 CULTURAL INDUSTRIES

differenze possono essere spiegate dalle diversissime culture politiche nei paesi coin-
volti. In questa sede non è possibile fornire una classificazione completa delle diffe-
renze nazionali (i dettagli in tal senso si possono ritrovare in molti studi comparati-
vi, fra cui Humphreys, 1996; Hoffman-Reim, 1996; Raboy, 1997; Goldberg et al.,
1998; Kelly et al., 2004), ma le variazioni più importanti comprendono:

• Il finanziamento del sistema televisivo e dei canali di pubblico servizio al suo


interno Nella maggior parte delle democrazie liberali, la televisione iniziò
come monopolio pubblico, finanziato solo dal canone e costituito da un solo
canale. Negli anni Sessanta e Settanta si aggiunsero altri canali, che – negli
anni Ottanta – cominciarono a mescolare il finanziamento derivante dalla
pubblicità con quello proveniente dal canone. Negli anni Novanta, nel conte-
sto dei cambiamenti discussi in questo capitolo, molte nazioni erano passate a
un monopolio pubblico con entrate miste (canone/pubblicità), mentre un
numero pressoché pari era passato a un sistema doppio di emittenti pubbliche
accanto a canali commerciali (si veda Tabella 4.1). Questo rappresentò
un’enorme espansione delle opportunità per le aziende dell’industria cultura-
le nel mercato televisivo, con importanti conseguenze per le industrie cultu-
rali nel loro complesso.
• Controllo statale delle emittenti del pubblico servizio In alcune democrazie libe-
rali, come Francia (fino al 1982) e Grecia, c’era un controllo statale diretto del-
l’organizzazione del broadcasting. Molto più comunemente, le aziende pubbli-
che, come l’inglese BBC, l’australiana ABC, la giapponese NHK e la canadese
CBC, furono organizzate in modo da essere generalmente autonome dallo
Stato, anche se le cariche più importanti erano di nomina statale.
• Rapporti con le istituzioni politiche In alcuni paesi, come l’Austria, gli ammini-
stratori delle emittenti pubbliche venivano nominati in proporzione alla forza
dei partiti politici nel paese. In molte nazioni furono riservati dei posti nei con-
sigli di amministrazione per esponenti non politici di altri settori, come sindaca-
ti, gruppi ecclesiastici e università.
• Stili della programmazione Sarebbe un errore, da parte dei lettori di nazioni
come gli Stati Uniti – dove il broadcasting di pubblico servizio si colloca come
degno sovrappiù di un sistema per gran parte commerciale e scarsamente rego-
lato – pensare che le emittenti di pubblico servizio abbiano proposto una pro-
grammazione fatta solo di programmi seri ed educativi. Il concetto chiave del
sistema pubblico radiotelevisivo era che doveva essere misto e diversificato,
anche se la messa in pratica quotidiana di questa regola variava da paese a paese.

Il ruolo sociale e culturale e del servizio pubblico radiotelevisivo


In che misura i sistemi di servizio pubblico promossero la giustizia sociale nei ter-
mini presentati nel modello del Capitolo 2? Dagli anni Cinquanta fino agli Ottanta,
il servizio pubblico radiotelevisivo fu oggetto di aspre critiche da parte della sini-
stra politica. Fu criticato per la sua nozione pseudo-obiettiva di equilibrio e impar-
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 129

Tabella 4.1 Cambiamenti nei sistemi di finanziamento televisivo


Sistema 1980 1990 1997

Monopolio pubblico/ Belgio, Danimarca,


solo canone Norvegia, Svezia

Monopolio pubblico/ Austria, Finlandia, Austria, Danimarca, Austria, Irlanda,


entrate miste Francia, Germania, Islanda, Irlanda, Paesi Svizzera
Grecia, Islanda, Bassi, Portogallo,
Irlanda, Paesi Bassi, Svizzera
Portogallo, Svizzera,
Spagna

Monopolio privato/ Lussemburgo Lussemburgo Lussemburgo


solo pubblicità

Sistema doppio Italia, Regno Unito Belgio, Finlandia, Belgio, Danimarca,


Germania, Grecia, Finlandia, Francia,
Italia, Norvegia, Germania, Grecia,
Spagna, Svezia, Islanda, Italia, Paesi
Regno Unito Bassi, Norvegia,
Portogallo, Spagna,
Svezia, Regno Unito
Fonte: Siune e Hultén, 1998: 27

zialità nella copertura dell’attualità (Glasgow Media Group, 1976), per la gestione
delle politiche e delle relazioni con gli impiegati che riproducevano il potere di
classe (Garnham, 1990: 128-31) e per la mancata proposta di programmi rivolti a
un’audience della classe lavoratrice e non elitaria (Ang, 1991). Negli anni
Cinquanta e Sessanta, nei paesi in cui la pubblicità non era consentita e nel con-
tempo il sostegno governativo era scarso (come in Scandinavia), la mancanza di
fondi comportava un consistente affidamento su programmi importati e, spesso, su
una produzione televisiva nazionale di scarsa qualità.
Tuttavia, i risultati del servizio pubblico radiotelevisivo non devono essere sot-
tovalutati. Un risultato lodevole fu la copertura pressoché universale. Ingenti
somme di denaro furono spese per consentire anche alle regioni più remote l’ac-
cesso ai sistemi di broadcasting nazionali, cosa che sarebbe stata impensabile in un
sistema commerciale. Ci fu anche un considerevole impegno nel fornire alle regio-
ni l’accesso al sistema nazionale. Alcune emittenti del servizio pubblico riuscirono
persino a ottenere sprazzi di broadcasting di alta qualità. La britannica BBC è un
esempio spesso discusso, con gli sceneggiati, le situation comedy e la musica radio-
fonica di alta qualità degli anni Sessanta e Settanta. La qualità del broadcasting in
altre nazioni europee prima dell’estensione al mercato degli anni Ottanta e
Novanta è difficile da accertare; gli studi sul sistema pubblico di solito hanno poco
130 CULTURAL INDUSTRIES

da dire su questo argomento. Per i suoi sostenitori, tuttavia, ci potrebbe essere una
buona spiegazione. Il punto non è necessariamente quello di difendere il sistema
pubblico per quello che era (spesso scarsamente finanziato, paternalista nei toni e
nella sostanza) ma per come potrebbe essere.

Tabella 4.2 I gruppi di interesse nell’estensione al mercato in


Europa

I sostenitori del mercato I loro interessi

L’industria elettronica Sfruttare i mercati per la vendita di nuovi impianti TV,


decoder della pay-TV, attrezzatura per la ricezione via
satellite ecc.

Le lobby della televisione


via cavo e via satellite Libertà di fornire servizi commerciali

PTT Sviluppare e diffondere nuove tecnologie e mante


nere il monopolio o la posizione di mercato domi
nante nella fornitura di telecomunicazioni

Editori di giornali Diversificare le operazioni dei mezzi di comunicazio


ne e prevenire ulteriore concorrenza sui profitti deri
vanti dalla pubblicità [1]

Pubblicitari Guadagnare mercati e rafforzare la posizione su


quelli esistenti

Governi Promuovere l’economia e attrarre gli investitori nel


settore dei mezzi di comunicazione

Partiti della destra Perseguire l’agenda politica neoliberista e la promo


zione degli interessi economici

Commissione Europea Liberalizzare i mercati europei

I sostenitori del servizio pubblico I loro interessi

Emittenti del pubblico servizio Autodifesa, continuità delle risorse pubbliche ecc.
Sindacati Tutela dei posti di lavoro e delle condizioni lavorative

Partiti della sinistra Promozione dell’etica del pubblico servizio e dei


valori comunitari, promozione degli interessi della
classe lavoratrice

[1] Non fu sempre così. In alcuni paesi la stampa restò una forza che resistette al broadcasting commerciale.

Fonte: Humphreys, 1996: 176


L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 131

Il servizio pubblico sotto attacco: case studies


del cambiamento
Come avvenne per il passaggio al mercato negli USA, la messa da parte del siste-
ma del servizio pubblico radiotelevisivo nelle democrazie liberali si basò sullo sfor-
zo di organizzare al meglio la produzione culturale, in un’epoca nella quale la sua
importanza economica stava crescendo. Peter J. Humphreys (1996) ha fornito un
resoconto molto utile degli attori principali nel processo di riformulazione della
politica del broadcasting in Europa Occidentale negli anni Ottanta e nei primi anni
Novanta (si veda Tabella 4.2).
La coalizione favorevole al mercato operò attraverso il lobbismo e le pubbliche
relazioni con i politici e gli opinion leaders nei media. Ancora una volta, questo
echeggiava gli sviluppi americani ma, in Europa, i compiti della coalizione favore-
vole al mercato furono più sostanziali. Negli Stati Uniti, la deregulation comprese
principalmente la fine di un monopolio privato impopolare (AT&T) e importanti
ma oscuri cambiamenti nella politica della concentrazione. In Europa, la proprie-
tà e la programmazione pubblica riscossero una certa popolarità. Altrove, benché
il broadcasting pubblico non fosse amato, venne sentito – quantomeno da alcune
élite – come un baluardo contro dubbie forme di mercantilismo.
In Europa Occidentale, i veri e propri cambiamenti significativi nella politica del
broadcasting cominciarono a metà degli anni Ottanta, a seguito di un primo e disa-
stroso esperimento condotto in Italia alla fine degli anni Settanta, quando la qua-
lità crollò a picco e la pubblicità inizio ad imperversare sulle frequenze.7 Questi
cambiamenti assunsero forme diverse in luoghi diversi, ma qui abbiamo lo spazio
solo per una rapida rassegna su alcune nazioni.

Gran Bretagna
Assai influenzata dalla deregulation delle comunicazioni negli USA, la Gran
Bretagna fu molto rapida nel privatizzare le telecomunicazioni e nell’introdurre una
politica dal tocco leggero («light touch») per la TV via cavo. Il governo conservatore
di estrema destra di Margaret Thatcher, e i giornali del suo alleato politico Rupert
Murdoch, lanciarono un attacco al broadcasting inglese all’inizio degli anni Ottanta.
Thatcher nominò un economista di destra per condurre un’indagine nel broadca-
sting (Peacock Report, 1986). La legislazione che ne scaturì, il Broadcasting Act del

7
(N.d.C.) In Italia i cambiamenti iniziarono nei primi anni Settanta, con Telebiella, prima televi-
sione libera italiana a contrastare il monopolio RAI (le sue trasmissioni via cavo iniziarono nel
1972). È però con la sentenza n. 202 del 1976 della Corte Costituzionale che si autorizzarono
le trasmissioni radiotelevisive via etere in ambito locale, di fatto mettendo fine al monopolio
della RAI e permettendo l’ingresso in campo ad altri attori. La prima legge organica che l’ordi-
namento italiano abbia avuto in materia radio televisiva è la legge n. 223 del 6 agosto 1990,
“Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato”, comunemente nota come legge
Mammì, dal nome del suo primo firmatario, l’allora ministro delle poste e telecomunicazioni
repubblicano Oscar Mammì. La legge 223/1990 attuava le direttive della Comunità Europea
note sotto il nome di Televisione senza frontiere.
132 CULTURAL INDUSTRIES

1990, tuttavia, fu molto meno radicale nella sua commercializzazione del broadca-
sting inglese di quanto temessero i sostenitori del servizio pubblico. La BBC non
venne privatizzata, né lo fu Channel 4 – che era stato istituito dalla precedente
amministrazione laburista (1974-1979) per servire le minoranze e introdotto nel
1982, nei primi anni dell’amministrazione Thatcher. La BBC non fu, come molti ave-
vano temuto, costretta ad accogliere la pubblicità. Questo accadde per ragioni eco-
nomiche, non culturali, poiché le aziende commerciali non volevano che la BBC si
impossessasse dei loro mercati. La spinta verso la commercializzazione fu indebolita
dal forte sostegno dato all’ala tradizionale e paternalista del Partito Conservatore alla
mescolanza di canone e televisione commerciale che era esistita in Gran Bretagna
dagli anni Cinquanta. Inoltre, furono mantenuti dei rigorosi controlli sulla concen-
trazione e sulla proprietà transmediale – finalmente indebolita nel 1996 dal
Broadcasting Act. Ciò nondimeno, l’impatto della legislazione thatcheriana non deve
essere sottovalutato, specie per quanto riguarda ITV – il network di concessioni tele-
visive commerciali che, rigorosamente controllato, era stato istituito nel 1955 e ope-
rava su mandato del pubblico servizio. Negli anni Novanta, ITV passò rapidamente
da 14 stazioni televisive regionali in concessione dominate da 6 aziende, all’effettivo
monopolio di 2 aziende, Granada Media Group e Carlton.8 Molti dei proventi della
pubblicità furono destinati non alla produzione di programmi nazionali, ma diretta-
mente agli azionisti e, sulla base del sistema delle aste annuali che si tenevano ormai
da 12 anni, alle concessioni istituite dal Broadcasting Act del 1990 (Tunstall, 1997:
247). Per contrastare l’ostilità politica, la BBC fu costretta a introdurre «mercati
interni e un inflessibile regime di taglio delle spese infiorato con la retorica dei con-
sulenti della gestione thatcheriana, alleati a un giornalismo e a una politica dell’at-
tualità assai prudenti» (Garnham, 1998: 216). Dal 1997 in poi il governo laburista fu
considerevolmente più generoso nel finanziare la BBC, ma continuò a esercitare
pressioni politiche – l’esempio più noto fu lo scalpore suscitato da un reportage gior-
nalistico secondo il quale un consigliere governativo aveva manomesso dei docu-
menti che davano a intendere le minacce alla sicurezza rappresentate dall’Iraq nel
periodo immediatamente precedente l’inizio della Guerra del Golfo del 2003.
Un importante sviluppo negli anni Ottanta fu l’introduzione della TV via cavo e
via satellite in termini che consentivano a British Sky Broadcasting (BSkyB) di
Rupert Murdoch di accedere a un monopolio virtuale sulle tecnologie televisive
nel Regno Unito. Il Cable Act del 1984 cercò di sottoporre la TV via cavo a un regi-
me di regolamentazione molto morbido, ma questa tecnologia fu un clamoroso
insuccesso perché il governo Thatcher degli anni Ottanta – a differenza di quanto
era accaduto in alcuni paesi dell’Europa Settentrionale – non aveva concesso al
settore alcun tipo di supporto.9 Come risultato del fallimento della TV via cavo,

8
Il processo di concentrazione fu completo una volta che queste due aziende si fusero nel 2004
e formarono ITV PLC.
9
Nel 1995, solo il 6 per cento delle case britanniche possedeva connessioni via cavo (Collins e
Murroni, 1996: 92, che citano cifre governative). Secondo i dati di Zenith Media, in quello stes-
so anno, era connesso il 95 per cento delle case olandesi. Nell’Europa Occidentale, soltanto
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 133

attorno alla metà degli anni Novanta, il pacchetto satellitare BSkyB dominava
completamente il settore della pay-TV inglese, grazie anche all’acquisto dei diritti
sugli eventi sportivi di maggior rilievo che costituivano una potente base dalla
quale lanciare l’offerta per dominare la televisione digitale (si veda il Capitolo 9).

Francia
La Francia aveva una lunga tradizione di intervento statale nelle industrie cultu-
rali – non solo per quanto riguardava il broadcasting, ma anche sotto forma di
ambiziose strategie comunicative e programmazioni audiovisive. Questo aveva
comportato – negli anni Sessanta e Settanta – enormi investimenti in un’infra-
struttura di telecomunicazioni all’avanguardia ed efficiente, fra cui il famoso e lar-
gamente utilizzato Minitel, il sistema di videotex gestito dallo Stato.
Negli anni Ottanta, e all’inizio degli anni Novanta, nella sua commercializzazio-
ne del broadcasting la Francia si dimostrò in qualche modo più radicale della Gran
Bretagna, anche se alla presidenza della repubblica ci fu – dal 1981 al 1995 – un
socialista, François Mitterrand. La politica sulle comunicazioni è fortemente
influenzata dai presidenti, ma ufficialmente è una questione che riguarda i gover-
ni e, in momenti cruciali quali gli anni 1986-1988 e 1993-1995, Mitterrand con-
visse con governi di destra guidati rispettivamente da Chirac e Balladur. In ogni
modo, anche i governi di sinistra degli anni 1981-1986 e 1988-1993 furono coin-
volti nel processo di estensione al mercato. Una ragione di ciò fu che la natura
diretta dell’intervento statale nel broadcasting contribuì a gettare discredito sulla
TV pubblica francese. Il sistema di broadcasting statale era stato modificato per
diventare, nel 1982, un sistema di servizio pubblico con un organismo regolatore
indipendente (per tutti gli anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta ci furono
aspre battaglie sul nome, la forme e lo status di questo ente), ma era troppo poco
e troppo tardi per salvare la reputazione del sistema pubblico francese. Un’altra
ragione fu il generale spostamento verso il mercato – avvenuto in tutta l’Europa
Occidentale, persino nella Francia della lunga tradizione statalista –in tutte le aree
della politica pubblica. Nel 198410 e 1986 furono lanciati dei canali commerciali per
creare un sistema doppio, ma a quel punto il governo di destra di Chirac, del perio-
do 1986-1988, si spinse ben oltre e privatizzò uno storico canale pubblico, TF1,
insieme ad altre aziende di comunicazione di proprietà pubblica, fra cui la compa-
gnia televisiva e pubblicitaria Havas.

Turchia e Portogallo registravano un numero di connessioni inferiore alla Gran Bretagna. A par-
tire dalla metà degli anni Novanta, tuttavia, l’estensione al mercato consentì alle aziende che si
occupavano di tecnologia via cavo di competere con British Telecom nel mercato telefonico e i
tassi di penetrazione della tecnologia via cavo aumentarono.
10
Canal Plus – privatizzato nel 1986 e in origine visto come una sfida all’imperialismo culturale
statunitense e all’arretrata programmazione televisiva del servizio pubblico francese – in un
secondo momento si delineò come un attore di primo piano nel mercato europeo della televi-
sione a pagamento facente parte della conglomerata mediale Vivendi-Universal – destinata al
fallimento – e, in effetti, non priva di difficoltà negli ultimi anni.
134 CULTURAL INDUSTRIES

L’ambizioso progetto di cablare la Francia usando il denaro pubblico fu invece


abbandonato e il cablaggio fu affidato al settore privato. Nei tardi anni Ottanta
apparvero nuovi canali commerciali terrestri e satellitari e il governo socialista
degli anni 1988-1993 non arrestò le privatizzazioni avviate in precedenza. Il risul-
tato fu che, dal 1990 in poi, la Francia «aveva uno dei sistemi di broadcasting più
rivolti al mercato d’Europa» (Humphreys, 1996: 181) con i canali di pubblico ser-
vizio relativamente messi ai margini.

Germania
Il terzo mercato europeo dei mezzi di comunicazione, la Germania Ovest, lanciò
un nuovo settore commerciale nel 1984 – in ritardo rispetto a molte altre nazioni
economicamente forti – e il suo sistema di servizio pubblico decentralizzato restò
intatto, a conferma di una disposizione della Corte Costituzionale Federale del
1986. Questa risoluzione era in parte il risultato di una campagna messa in campo
dalla SPD (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, il Partito Social-democratico
Tedesco). Nonostante ciò, la rapida crescita dei canali commerciali ebbe un enor-
me impatto sul panorama dei mezzi di comunicazione tedeschi dopo la riunifica-
zione nel 1990. Questa crescita fu in gran parte dovuta al finanziamento statale di
un massiccio programma di cablaggio negli anni Ottanta. Le leggi relativamente
permissive sulla proprietà hanno comportato forti e significativi legami fra edito-
ria e broadcasting. Due «famiglie» hanno dominato per anni l’editoria e la televi-
sione: i Bertelsmann e i Kirch (quest’ultimo dichiarò bancarotta nel 2002, dopo un
disastroso tentativo di dominare il settore della pay-TV).
La crescita nei canali commerciali ha fatto sì che la televisione tedesca facesse
grande affidamento sui programmi in lingua inglese importati dalla Gran Bretagna
e, in particolar modo, dagli Stati Uniti (Tunstall e Machin, 1999: 198). Tuttavia,
Kevin Williams nota (2005: 58) che, dopo una crisi a metà degli anni Novanta, le
emittenti del servizio pubblico hanno consolidato la loro posizione «senza copiare i
format dei canali commerciali. Anzi, i canali commerciali evidenziarono l’influenza
del modello del servizio pubblico nella quantità relativamente bassa di notizie di
attualità e cronaca presenti nella programmazione. Tutte le maggiori stazioni televi-
sive, nella loro programmazione, hanno anche dovuto garantire una certa visibilità
ai film indipendenti. Mentre i canali commerciali hanno fatto affidamento sull’in-
trattenimento di natura leggera, i notiziari e i servizi di argomento sportivo sono stati
piuttosto innovativi (Burns, 2004: 73). Questa versione, relativamente di successo,
dell’etica mista di servizio pubblico e commerciale è un risultato, secondo Williams
(2005: 59), del modo in cui il broadcasting nella Germania Ovest venne formato
dagli «sforzi di usare i mezzi di comunicazione come strumenti di democrazia».

Australia
Il sistema televisivo australiano fu di tipo doppio fin dai suoi esordi negli anni
Cinquanta. Esso rappresentava una chiara mescolanza del servizio pubblico britannico
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 135

e del sistema commerciale americano – quest’ultimo nella forma di stazioni e network


televisivi regolamentati, sostenuti dalla pubblicità e su base cittadina. Di conseguenza,
al contrario di quanto avvenne nell’Europa Occidentale, gli eventi del periodo 1985-
1995 non furono tanto influenzati dall’introduzione dei canali commerciali, quanto
piuttosto dai cambiamenti nelle leggi sulla proprietà, che determinarono la misura in
cui una particolare azienda poteva controllare il mercato televisivo e fino a che punto
questi interessi potevano essere combinati con la proprietà degli organi di stampa.
Nel 1987, le strette limitazioni su quante stazioni televisive potesse possedere una
singola azienda (due), furono notevolmente allentate. Questo accadde in parte per
generare delle migliori strutture televisive nelle aree a bassa densità demografica,
consentendo alle ricche stazioni televisive dell’Australia meridionale di espandersi. Il
nuovo limite venne fissato al 60 per cento dell’audience nazionale, ma anche que-
sto tetto venne superato (da Network Seven). Per placare le campagne anti-concen-
trazione, le nuove regole vietavano la proprietà transmediale tra carta stampata e
broadcasting – tradizionalmente una caratteristica forte del panorama dei mezzi di
comunicazione. Quando magnati come Kerry Packer e Rupert Murdoch scelsero la
carta stampata, le loro stazioni televisive furono vendute a prezzi esorbitanti a capi-
tani d’industria poi rivelatisi corrotti e incompetenti (con il risultato che Packer
acquistò di nuovo il suo Nine Network per una bazzecola nel 1990).
Tuttavia, il principale atto di deregulation avvenne nel 1992, con il Broadcasting
Services Act, che indebolì le restrizioni sulle emittenti, abolì quasi per intero le
leggi sulla proprietà delle radio e introdusse la pay-TV, in modo tale da favorire la
TV satellitare, un settore dominato da Packer e Murdoch. Gli anni Ottanta e
Novanta, allora, possono essere considerati come un periodo nel quale la commer-
cializzazione si intensificò, il sistema pubblico fu indebolito e l’Australia accrebbe
la propria reputazione di paese (industrializzato) «con forse il più alto tasso di con-
centrazione mediale al mondo» (Hoffman-Reim, 1996).

Giappone
Per decenni, l’emittente del servizio pubblico giapponese, la NHK, fondata sul
modello della BBC, è stata strettamente legata non soltanto allo Stato, ma anche
al partito politico – il conservatore Partito Liberal-Democratico che ha governato il
Giappone per gran parte del dopoguerra (Sugimaya, 2000).
La televisione commerciale approdò presto in Giappone. Numerose stazioni
televisive commerciali operarono nel paese dagli anni Cinquanta in poi, adattan-
do la posizione apolitica della NHK (Kato, 1998). In Giappone la «deregulation»
non ha mai avuto il peso che aveva altrove, dal momento che lì gli standard del
giornalismo sono legati ad altri fattori, come un’etica professionale piuttosto lassi-
sta, diversi presupposti sull’autorità e la privacy e la massiccia presenza culturale
di settimanali scandalistici. (Si possono qui ritrovare dei parallelismi con il modo
in cui il broadcasting britannico viene spesso giustificato per alcune delle sue pra-
tiche più discutibili, a causa del ben peggiore giornalismo dei tabloid.)
136 CULTURAL INDUSTRIES

Il più significativo atto di estensione al mercato è stato l’ingresso dei canali satel-
litari, che però hanno avuto un impatto relativamente contenuto. La maggior parte
delle indagini accademiche sul broadcasting menzionano a malapena la deregula-
tion. Fin dai primi anni Sessanta, il Giappone ha importato un quantitativo minimo
di televisione mentre, più di recente, ne ha esportata molta, fra cui diversi format
televisivi (Iwabuchi, 2003). Questo è dovuto in parte al fatto che il paese ha un’am-
pia e florida audience, e in parte al fatto che il Giappone, in altri paesi del Sud-Est
asiatico, ha l’immagine della nazione che incarna un genere distintivo e desiderabi-
le di modernità asiatica. Inoltre, un ruolo di rilievo ha avuto il considerevole potere
economico e politico delle aziende che hanno dominato la mescolanza servizio pub-
blico/commerciale. Questa forza, tuttavia, non dovrebbe essere celebrata come l’op-
posto dell’imperialismo culturale «occidentale»: essa infatti si basa su un rigoroso
controllo da parte di un oligopolio di aziende e sui legami molto stretti fra gli influen-
ti giornali nazionali finanziati dal sistema dell’abbonamento e le maggiori stazioni
televisive del paese. Ci sono stati frequenti scandali sulla qualità del giornalismo, fra
cui uno recente che ha messo in seria difficoltà la credibilità di NHK. Il Giappone è
un ulteriore memento sul fatto che, prima dell’estensione al mercato, non ci fu alcu-
na età d’oro del sistema radiotelevisivo pubblico. Il che non significa, però, che la
commercializzazione abbia democratizzato il broadcasting giapponese.

Per riassumere
In alcuni paesi il sistema pubblico radiotelevisivo resta relativamente forte, ma c’è
spesso una decisa spinta verso un consenso di comodo fra aziende e governi sul
fatto che il modo migliore per gestire un sistema di broadcasting sia quello di
avere un vigoroso settore privato con qualche genere di provvedimento corretti-
vo fornito da un fornitore di servizio pubblico. L’etica del servizio pubblico, come
l’abbiamo descritta in precedenza, può solo diventare più marginale quando
viene messo in campo questo consenso. Ci sono pochi dubbi sul fatto che il nuovo
sistema abbia generato più scelta e diversificazione per gli spettatori, specie se
paragonato con i monopoli pubblici scarsamente finanziati che prevalevano in
molti paesi negli anni Cinquanta e Sessanta, e resiste ancora una programmazio-
ne di alta qualità. Tuttavia, questo in genere è avvenuto dove l’idea di servizio
pubblico ha mantenuto la propria presenza all’interno di sistemi misti. Torneremo
su questi argomenti nel Capitolo 9, dove discuteremo l’avvento della televisione
via cavo, satellitare e digitale, e nel Capitolo 10, dove approfondiremo i concetti
di qualità e diversità. Qui, è essenziale notare che, man mano che l’etica del ser-
vizio pubblico fu sempre più marginalizzata e messa sotto assedio, e – per gran
parte – incapace di ottenere le risorse per reinventarsi, il broadcasting guidato dal
mercato cominciò a profilarsi come un futuro inevitabile. Il passaggio al mercato,
tuttavia, non fu mai inevitabile, ci furono anzi gruppi di interesse che combatte-
rono aspramente per esso. Il successo dei sostenitori della commercializzazione
nel trasmettere questa idea di ineluttabilità ha condotto a un’enorme crescita
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 137

nelle opportunità commerciali disponibili per le aziende nel centrale mercato cul-
turale della televisione.

La terza ondata: le società di transizione e miste,


dal 1989 in poi

Negli anni Novanta il passaggio al mercato coinvolse i sistemi di telecomunicazioni e


i mezzi di comunicazione su scala mondiale. Il «successo» delle misure neoliberiste
nei paesi industrializzati contribuì a questa diffusione, ma non fu il solo fattore di
influenza. In India, una democrazia molto burocratizzata tentò di reinventarsi per
mezzo delle riforme del mercato. Nell’ex Unione Sovietica e nell’Europa Orientale la
caduta dei regimi stalinisti, preceduta dal discredito dell’intervento statale, portò con
sé una commercializzazione delle economie priva di vincoli, che comprendeva le
comunicazioni, i media e la cultura. In Cina, la burocrazia del Partito Comunista si
aggrappò al proprio potere lasciando andare il concetto di comunismo e producen-
do una particolare forma di «capitalismo del monopolio burocratico» (Zhao, 2003:
62), nella quale le industrie culturali svolsero un ruolo sempre maggiore. In America
Latina (ma anche in altre nazioni, come la Corea del Sud), ci furono – negli anni
Ottanta e Novanta – transizioni di altro tipo: si passò infatti dal regime militare alla
democrazia liberale, e i mercati culturali vennero aperti alla concorrenza globale.
Sebbene non siano oggetto della presente analisi, molti paesi arabi, pur mantenen-
do un rigido controllo sul contenuto, aprirono i loro sistemi di comunicazione all’in-
gresso delle grandi aziende transnazionali (si veda Sakr, 2005).
Come ha fatto notare Colin Sparks (2000), nel contesto dell’Europa Orientale,
queste mescolanze di proprietà privata dei mezzi di comunicazione e di influenza
politica possono effettivamente essere viste come la norma globale, piuttosto che
come un’anomalia dei modelli europei di mescolanza del broadcasting pubblico e
commerciale sotto una regolamentazione a distanza. Ovviamente, l’idea che l’in-
fluenza politica sia chiaramente separata dalla «libera impresa» nei paesi industria-
lizzati è pura fantasia, tanto nell’ambito della cultura quanto in quello dell’econo-
mia nel suo complesso. Abbiamo già avuto prove della grande influenza che le
aziende dell’industria culturale possono avere sui governi nazionali e sui politici
nel caso dell’Europa e degli USA. Ciò nondimeno, è corretto affermare che, come
la fine della Guerra Fredda coincise con l’ascesa del neoliberismo, gran parte delle
economie mondiali venne portata sotto l’egida del mercato, e i loro settori cultu-
rali non furono da meno. Come suggerisce la breve rassegna di alcuni dei princi-
pali territori, si sono aperti nuovi e vasti mercati per le industrie culturali, ma non
si è trattato di un processo privo di conflitti o di contraddizioni. Le preoccupazio-
ni sull’identità nazionale e gli standard culturali continuarono a collidere con la
commercializzazione in modi complessi. Se in questi paesi la commercializzazione
abbia comportato un qualunque passaggio significativo nell’equilibrio globale del
potere culturale è il tema principale del Capitolo 8.
138 CULTURAL INDUSTRIES

India
Iniziamo questa breve rassegna con l’India perché – per tutte le sue peculiari carat-
teristiche culturali e politiche – echeggia il modo in cui il neoliberismo fu introdot-
to in molti paesi industrializzati. Lo Stato indiano del dopoguerra fu il risultato di
un compromesso fra le concezioni indiane del potere statale e le aspirazioni a
modellare uno Stato nazionale secolare su modello europeo (qui si fa riferimento
al prezioso lavoro di Sinha, 2001).
Uno Stato altamente interventista e semi socialista presidiava una struttura di
mercato che favoriva i ricchi contadini, i capitalisti industriali e i professionisti.
Questi diversi gruppi sostenevano le misure protezioniste dello Stato ma, attraver-
so un finanziamento in deficit, lo Stato fu in grado di portare avanti alcune misu-
re populiste migliorative e ottenere così sufficiente legittimità fra la maggioranza
dei poveri delle aree urbane e rurali.
Questo assetto stava cominciando a dare segni di cedimento attorno agli anni
Ottanta e, quando – nel 1990-1991 – si presentò una grave recessione economica
e gran parte del resto del mondo guardò al mercato come alla presunta cura per
ogni problema, lo Stato indiano accettò un pacchetto neoliberista proposto dal
Fondo Monetario Internazionale (vedremo qui come le forze nazionali e interna-
zionali si combinarono per dare forma alla trasformazione politica) in cambio di
un prestito. Tanto da destra quanto da sinistra si sollevò un’opposizione, ma fu
tutto. Il risultato fu una massiccia deregulation, privatizzazione e apertura dei mer-
cati alla concorrenza globale.
Le telecomunicazioni furono «liberalizzate» dal 1994 in poi e il broadcasting fu
inserito nel pacchetto. Durante la diffusione del neoliberismo nei paesi industria-
lizzati era diventato del tutto evidente che il passaggio al mercato nelle telecomu-
nicazioni fosse un prerequisito per lo sviluppo di opportunità nel settore privato
delle industrie culturali.
L’India non è soltanto la più grande democrazia al mondo, ma è anche il paese
con la più grande classe media, che conta fra i 200 e i 250 milioni di persone (Thussu,
1999: 125) – un mercato potenzialmente immenso e lucrativo per le conglomerate
multinazionali dell’industria culturale. L’estensione al mercato del broadcasting
indiano dal 1991 in poi è estremamente significativa, allora, per queste conglomera-
te e l’audience indiana. Fino a quella data, la televisione indiana era costituita essen-
zialmente da un sistema statale a canale unico, spesso criticato per i suoi stretti rap-
porti con il partito dominante nel Congresso e per la sua notevole ottusità, ma con
importanti e spesso efficaci impegni verso gli ideali del servizio pubblico, fra cui la
diffusione nazionale e l’educazione (Thomas, 1998). La pubblicità fu ammessa sul
canale statale indiano, Doordarshan, dal 1976 in poi, ma – in un paese dominato dal
cinema – l’enorme potenziale della televisione come industria culturale comincio a
essere intravisto solo in occasione della messa in onda di due serie TV basate sui
poemi epici della religione indù, il Ramayana e il Mahabaratha (1987-1990).
Nel 1991, le trasmissioni satellitari transnazionali – fra cui quelle della CNN e di
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 139

STAR TV con base a Hong Kong (prima che venisse acquisita dalla News Corporation
di Murdoch nel 1993) – venivano ampiamente ricevute in India (Sinha, 1997). Il
risultato di ciò fu una considerevole esplosione di canali televisivi lungo tutti gli anni
Novanta, specie per quanto riguardava la pay-TV. Nel 1998 in India operavano quasi
70 stazioni via cavo e satellitari (Thussu, 1999: 127), molte delle quali, fra cui STAR,
all’inizio trasmettevano programmi «occidentali», ma che a partire dalla fine degli
anni Novanta si orientarono sempre di più verso contenuti locali.
All’interno del paese ci furono dei dibattiti sul fatto che questo fiorire di canali
televisivi rappresentasse una nuova diversità o piuttosto il soffocare sul nascere di
una sfera pubblica agli esordi. In questa sede non è possibile dare conto di questi
dibattiti in maniera approfondita, ma l’India mostra come l’estensione al mercato
abbia contribuito a dare avvio a una significativa internazionalizzazione. Questo
può essere osservato non solo nell’investimento delle conglomerate multinaziona-
li, come News Corporation in India, ma anche nella crescente presenza di emitten-
ti asiatiche, come l’indiana Zee TV, in Europa e negli Stati Uniti. Il significato di tali
complessi e nuovi flussi di cultura – che per buona parte sono il risultato del-
l’estensione al mercato – sarà preso in esame nel Capitolo 8.

Russia ed Europa Orientale


Una visione della democrazia liberale come base di un futuro globale prospero e
stabile si diffuse in gran parte del mondo negli anni Ottanta e Novanta. Tuttavia,
si trattava di una versione della democrazia liberale che poneva una forte enfasi
sui concetti neoliberisti dei mercati, quanto più possibili liberi dall’azione politica.
Le industrie culturali svolgono un ruolo importante in una tale concezione, dal
momento che, in molti paesi, la produzione culturale è strettamente collegata alle
idee di libertà e auto-espressione. L’errore, incoraggiato dal pensiero neoliberista,
è quello di confondere la libertà di espressione con l’assenza di regolamentazione
governativa. Al contrario, la regolamentazione può promuovere la libertà.
Con il collasso dei sistemi post-stalinisti in Unione Sovietica e nell’Europa
Orientale, una popolazione di quasi 400 milioni di persone, per lo più di buon
livello culturale, divenne potenziale consumatrice di beni e servizi culturali.
Tuttavia, gli eventi nell’Europa Orientale e in altre società «di transizione» non
hanno giustificato le ottimistiche proiezioni di una globalizzazione vantaggiosa, e
questo vale anche per il settore culturale.
In tutte le nazioni dell’Europa Orientale, la stampa passò dal finanziamento e
dal controllo statale alla pubblicità e al sistema degli abbonamenti, mentre le tele-
comunicazioni e il broadcasting vennero ben presto privatizzati. Le autorità di con-
trollo dovettero essere create dal nulla e il vuoto legislativo creò potenti monopo-
li e relazioni locali fra governi e imprese, che spesso sconfinarono nell’illegalità e
– in alcuni casi – nella più totale corruzione (si veda, per esempio, Goldberg et al.,
1998 sul caso ungherese).
Gli sforzi di introdurre un’etica del servizio pubblico radiotelevisivo in queste
140 CULTURAL INDUSTRIES

nazioni annaspavano, come mostra in maniera efficace ma assai deprimente


Jakubowicz (2004). Non esistevano strutture e tradizioni politiche che potessero
inculcare con successo questi nuovi sistemi. I governi manifestavano un’adesione
puramente formale al concetto di libertà, ma erano sempre pronti a esercitare il con-
trollo, cosa che andava a minare la legittimità popolare. Nei paesi dell’Europa
Occidentale in cui è stato introdotto da lungo tempo, il servizio pubblico subisce que-
sta costante minaccia, tanto che il successo a lungo termine appare improbabile.

Cina
La commercializzazione nel settore culturale e dei mezzi di comunicazione iniziò
negli anni Ottanta, ma subì un’accelerazione dopo l’epocale visita nel Sud della Cina
di Deng Xiaoping nel 1992. Lo Stato e i mercati sono ormai sempre più intrecciati.
Per dirla con le parole di Eric Kit-wai Ma, «i media – vivaci e vibranti dal punto di
vista commerciale – sono realmente essenziali per un governo stabile dello Stato»
(2000: 28). Le attività del tempo libero vengono incoraggiate allo scopo di stimolare
i consumi, e le fiorenti industrie culturali cinesi sono essenziali in tal senso.
Lo sviluppo delle industrie culturali come obiettivo economico e culturale strate-
gico fu segnalato nelle proposte del Partito Comunista Cinese per il suo decimo Piano
Quinquennale del 2001 – l’anno in cui la Cina entrò a far parte della World Trade
Organization. Uno degli obiettivi principali della politica dei mezzi di comunicazione
– come accade per molti altri aspetti della politica governativa cinese – era quello di
costruire grandi aziende cinesi che potessero competere nell’economia globale.
Lo Stato monopartitico, che mantiene un rigoroso controllo sulle comunicazioni,
sta introducendo varie riforme, che vengono fortemente contrastate e provocano
forti tensioni fra il Partito e lo Stato. I risultati di queste riforme sono tuttavia evi-
denti: una chiara forma di economia di mercato, su vasta scala, e un «capitalismo del
monopolio burocratico» (Zhao, 2003: 62) con un ampio numero di nuovi arrivati,
spesso associati ad aziende non cinesi, ma sotto il controllo dello Stato monopartiti-
co. Nel frattempo, le industrie culturali non cinesi si sfregano le mani soddisfatte
davanti alla prospettiva di nuovi mercati all’interno del paese – non tanto per una
proprietà diretta e immediata, quanto piuttosto nella prospettiva di nuove e vaste
opportunità una volta che si saranno ricavate uno spazio nelle joint-venture.11
Zhao (2003) sostiene convincenti argomenti contro due contesti dominanti per la
comprensione di questi cambiamenti. Il primo è che quello del nazionalismo cinese,
che – enfatizzando la necessità di costruire delle conglomerate industriali cinesi –
manca di notare che le «classi popolari» (operai e contadini) sono doppiamente messe
da parte a causa del controllo politico e della disuguaglianza economica. Il secondo è

11
Lo studioso dei media Colin Sparks qualche anno fa (2003) scrisse che le aziende legate ai mezzi
di comunicazione occidentali, a parte la News Corporation, non erano interessate alla Cina.
Adesso le cose stanno cambiando. Viacom e CNBC Asia Pacific hanno firmato degli accordi con
Shanghai Media Group, anche HBO e National Geographic sono entrate in joint-venture e
Rogers Broadcasting (Canada) si è unita a Sun Wah Media (Little, 2005).
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 141

il contesto democratico, particolarmente forte a Hong Kong e oltre i confini cinesi, che
sovrastima i conflitti fra il capitalismo globale e il capitalismo burocratico cinese.

America Latina
Nel frattempo, l’America Latina passò attraverso transizioni correlate, ma di genere
diverso, negli anni Ottanta e Novanta. La propaganda statunitense del periodo della
Guerra Fredda opponeva spesso al blocco sovietico il concetto di «mondo libero», ma
– a metà degli anni Settanta – sotto i regimi militari dell’America Latina (il «retro»
degli Stati Uniti) vivevano più persone di quante non ne contassero l’intera Unione
Sovietica e l’Europa Orientale messe assieme. La maggior parte dei sistemi televisivi
erano per lo più commerciali, sull’esempio degli USA, ma erano soggetti a un regi-
me autoritario piuttosto che al sistema del servizio pubblico, mentre gli organismi di
controllo e i proprietari erano spesso in stretta alleanza con le autorità militari (si
veda il Capitolo 8 a proposito dell’azienda brasiliana Globo).
Influenzati dalle critiche all’«imperialismo culturale», molti governi democrati-
ci e autoritari dell’America Latina cercarono di proteggere le loro nascenti indu-
strie televisive dalle importazioni e degli investimenti diretti americani negli anni
Sessanta e Settanta. Tuttavia, all’epoca dei neoliberisti anni Ottanta e Novanta,
quando si intensificò l’internazionalizzazione delle televisioni, gli esperimenti con
alternative finanziate dallo Stato furono ampiamente screditati a causa della loro
associazione con i regimi militari degli anni Sessanta e Settanta (Waisbord, 1998).
Il risultato è stata la mancanza di una sostanziale resistenza alla commercializ-
zazione culturale in quella parte del mondo, persino da parte della sinistra.
L’introduzione della televisione satellitare sta trasformando il panorama del broad-
casting in America Latina, ma in termini favorevoli alle partnership fra le aziende
latinoamericane dominanti e le grandi aziende transnazionali dell’industria cultu-
rale (si veda Sinclair, 2004: 87-90).

Per riassumere
Questi cambiamenti da una parte hanno consolidato dei processi lungo il cammi-
no, dall’altra hanno portato una considerevole fetta della popolazione mondiale
nel raggio d’azione delle aziende che vogliono trarre profitto dalla produzione e
dalla diffusione della cultura. Tutto ciò ha accresciuto l’importanza delle industrie
culturali nelle previsioni di finanzieri e uomini d’affari.

La quarta ondata: verso la convergenza


e l’internazionalizzazione, dal 1992 in poi

Nelle ultime due sezioni ci siamo concentrati sugli sviluppi nella politica del bro-
adcasting, ma non dobbiamo dimenticare il ruolo determinante che la commercia-
lizzazione delle telecomunicazioni ha svolto nella storia di questo capitolo. I cam-
142 CULTURAL INDUSTRIES

biamenti introdotti sono stati a lungo termine e sono avvenuti congiuntamente


agli effetti a lungo termine dei mutamenti nel broadcasting e ai cruciali cambia-
menti nelle industrie informatiche e nelle tecnologie dell’informazione. Qui, un
aspetto chiave è la futura convergenza delle industrie culturali con le telecomuni-
cazioni e la tecnologie dell’informazione. Nei tardi anni Novanta furono prese
delle decisioni politiche cruciali, che di fatto trattano la convergenza come qualco-
sa di inevitabile. Queste politiche possono essere considerate la quarta ondata del-
l’estensione al mercato. Evidente in questo periodo è anche il crescente significa-
to delle istituzioni politiche internazionali, vale a dire di quegli organismi che si
collocano al di sopra dello Stato nazionale.

Convergenza
Dai primi anni Ottanta in poi, i politici e gli analisti avevano prospettato una con-
vergenza fra telecomunicazioni, computer e mezzi di comunicazione (un esempio
molto influente fu Pool, 1983, cui si è già fatto riferimento). Si prospettava che
l’informazione e l’intrattenimento sarebbero stati consumati in misura sempre
maggiore attraverso una sorta di ibrido fra computer e apparecchio televisivo, e
trasmessi via cavo, satellite e linee telefoniche, così come attraverso le onde radio,
o al posto di esse. Tale convergenza è ancora molto lontana dal realizzarsi, persino
nei paesi dalle economie più fiorenti, ma l’idea della convergenza alimentò molti
dei più recenti cambiamenti nelle industrie culturali di cui ci occupiamo nel pre-
sente volume. È tuttavia piuttosto progredita dal momento in cui sono avvenute
importantissime fusioni e alleanze fra settori diversi, fra cui l’acquisizione da parte
di AT&T della TCI (1999) e la fusione fra AOL e Time Warner (2000-2001). Molte
nuove tecnologie sono state introdotte perché le aziende ritengono che tali con-
vergenze comporteranno profitti, specie provenienti dalle varie forme di digitaliz-
zazione e dalla fornitura di canali di telecomunicazioni a banda larga (si veda
Capitolo 9). Dal momento che le potenti aziende, che producono posti di lavoro e
prestigio, intravedono profitti, i politici nazionali hanno introdotto delle politiche
che spianano la strada a ulteriori tornate di attività finalizzate alla convergenza.
In tal senso, il più importante atto legislativo è stato lo US Telecommunications
Act del 1996 (si veda Aufderheide, 1999, per una contestualizzazione e una rasse-
gna indispensabili). L’Atto consolidò la percezione delle convergenze emergenti e
spianò loro la strada principalmente in tre modi.
Primo, permise alle compagnie telefoniche locali della Bell create dalla dismis-
sione di AT&T di entrare nei mercati della lunga distanza, pretendendo in cambio
la concorrenza nei loro territori. Ciò consentì a queste enormi compagnie di acce-
dere a vasti mercati delle nuove tecnologie delle comunicazioni. Alla vigilia della
promulgazione dell’Atto, le Baby Bell divennero attori di primo piano, dal
momento che una serie di massicce fusioni nel campo delle telecomunicazioni
«sembrava presagire una riduzione dalle esistenti 10 o 12 grandi compagnie tele-
foniche, a circa quattro principali sopravvissute. Le sette Baby Bell regionali si sta-
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 143

vano fondendo a formare due o tre grandi attori del panorama delle comunicazio-
ni regionali» (Tunstall e Machin, 1999: 56). 12
In secondo luogo, fornì una legislazione enormemente favorevole alle aziende
dell’industria culturale che dominano il broadcasting negli USA. Lo spettro di fre-
quenze libero fu allocato alle principali emittenti per la televisione digitale, che
norme minori e difficili da applicare impedivano venissero usate per servizi non
legati alla comunicazione. Le nuove regole facilitarono il rinnovo delle licenze di
broadcasting, la cui durata venne estesa, conferendo alle aziende un nuovo con-
trollo su uno snodo vitale nelle nuove industrie culturali oggetto di convergenza.
Questi cambiamenti fecero di loro dei partner chiave nelle nuove fusioni e allean-
ze di convergenza.
In terzo luogo, l’Atto favorì le esistenti aziende di TV via cavo allentando la
regolamentazione delle tariffe e consentendo alle compagnie telefoniche di entra-
re nel mercato della tecnologia via cavo per fornire dei contenuti. Il Cable Act del
1984 aveva eliminato la regolamentazione dei prezzi e ridotto i poteri dei governi
locali rispetto alle richieste di strutture di servizio pubblico agli operatori. Nel 1992
il settore dovette essere nuovamente regolato, dal momento che i suoi prezzi erano
ancora una volta saliti vertiginosamente e il settore era diventato profondamente
impopolare presso pubblico e politici. L’Atto del 1996 eliminò ancora una volta
queste regolamentazioni, rendendo effettivi i cambiamenti dal 1999 e portando, in
quell’anno, a consistenti aumenti dei prezzi.13
L’Atto fu immediatamente seguito da un massiccio consolidamento e da un
commercio frenetico,contribuendo a spianare la strada a un’ondata di colossali
fusioni nei tardi anni Novanta (si veda Capitolo 6), dal momento che ridusse dra-
sticamente le barriere al consolidamento, alla proprietà trasversale e all’integrazio-
ne verticale. Esso rappresenta l’apice del trend verso la commercializzazione negli
USA – custodito gelosamente nella legislatura piuttosto che incarnato nella rego-
lamentazione.

Organismi politici internazionali


Un altro componente chiave della quarta ondata dell’estensione al mercato nelle
politiche delle industrie culturali è stata la crescente importanza degli organismi
politici internazionali, che si sono orientati sempre di più verso politiche favorevo-
li alla convergenza nel nome del mercato e sono stati anche impegnati nel dare
nuova configurazione ai diritti di proprietà intellettuale (si veda Capitolo 5). Le più
importanti fra queste organizzazioni sono descritte nel Box 4.4.
Questi organismi hanno alimentato l’internazionalizzazione degli affari in ogni
settore, incoraggiando lo scambio fra i paesi, ma, in qualche caso, hanno anche
fornito una regolamentazione finalizzata a proteggere le industrie, per esempio fis-

12
Questo fu ciò che accadde in una serie di complesse fusioni, dalle quali il nome Bell non scom-
parve affatto. Una delle Baby Bells acquisì la sua vecchia genitrice, la AT&T, nel 2006.
13
Sono debitore a Chad Raphael per questo e molti altri importanti aspetti di questo capitolo.
144 CULTURAL INDUSTRIES

BOX 4.4 Principali agenzie politiche internazionali

UE Unione Europea, comprende, nel 2008, 27 paesi.


NAFTA North American Free Trade Association, comprende USA, Canada e Messico.
MERCOSUR Mercado Común del Sur, comprende Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay, isti-
tuito nel 1991.
ASEAN Association of South East Asian Nations e la sua organizzazione per lo sviluppo del libe-
ro scambio in quell’area, la Asia Pacific Economic Cooperation (APEC).
GATT General Agreement on Tariffs and Trade, firmato in prima battuta nel 1947, poi sviluppa-
to ed espanso in diverse fasi, la più recente delle quali è il cosiddetto Uruguay Round (1986-
1993), che culminò nell’Accordo di Marrakesh del 1993. Quest’ultimo accordo ha gettato le basi
per il più potente e formalizzato WTO.
WTO World Trade Organisation, comprende, nel 2008, 153 paesi e può esprimere giudizi vin-
colanti su casi in cui le regole dello scambio sono oggetto di discussione. La Cina vi si è unita
nel 2001.
GATS General Agreement on Trade in Services, che, insieme al Trade-Related Aspects of
Intellectual Property Rights (TRIPS), costituisce l’elemento più importante nell’ambito delle ope-
razioni di GATT/WTO relative alle industrie culturali. Il TRIPS integra la proprietà intellettuale all’in-
terno di un regime di scambio mondiale governato dai principi del libero scambio (si veda il
Capitolo 5 per approfondimenti).

sando delle quote massime relative all’esportazione dei contenuti al fine di limita-
re la concentrazione. Tutte queste organizzazioni operano allo scopo di consentire
il libero scambio fra gli Stati membri. Dal momento che un’economia di mercato
tende a favorire le aziende e le nazioni più ricche e potenti, alcune di queste orga-
nizzazioni hanno incontrato la forte opposizione di gruppi di attivisti – si ricorde-
ranno ad esempio le azioni intraprese contro la WTO a Seattle nel novembre-
dicembre 1999. Le industrie culturali sono state escluse da alcuni di questi accor-
di sul libero scambio allo scopo di proteggere la diversità culturale isolando le
industrie culturali nazionali dagli effetti delle esportazioni culturali provenienti
dagli USA. Il più importante di questi esempi riguarda le misure protezionistiche
che condussero all’esenzione delle industrie culturali canadesi dal NAFTA e le
disposizioni all’interno del GATS per le industrie culturali (sostenute dall’UE su
pressione della Francia). Tuttavia, la spinta politica generale di questi organismi è
stata verso una massiccia economia di mercato.
Questo aspetto è illustrato dal caso dell’UE che, di tutti gli organismi internazio-
nali nominati, è quello maggiormente modellato dal concetto social-democratico di
pubblico interesse, i cui sostenitori hanno esercitato pressioni continue sui propo-
nenti della deregulation e ottenuto occasionali vittorie, anche se c’è stata comunque
un’inesorabile tendenza verso la commercializzazione. Gli organi politici dell’UE si
sono discostati dalla legislazione settore per settore riguardo l’impatto sociale dei
media e si sono portati verso una regolamentazione nella quale le telecomunicazio-
ni, i computer e i mezzi di comunicazione sono governati da una generale legislazio-
ne sulla concorrenza e i regolatori ne assicurano l’osservanza (Østergaard, 1998).
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 145

La direttiva Televisione senza frontiere degli anni Ottanta (Commissione delle


Comunità Europee, 1984) aveva l’obiettivo di sviluppare le industrie audiovisive
europee che potessero costituire un blocco di potere simile a quello americano nel
mercato globale, rispettando nel contempo la diversità nazionale. È probabile che
questo sia sempre stato – a causa della diversità nazionale nel continente europeo
– un obiettivo impossibile da raggiungere (Collins, 1998; Galperin, 1999), ma dopo
anni di discussione, una direttiva politica (Consiglio delle Comunità Europee,
1989) venne finalmente resa effettiva nel 1991, nel tentativo di raggiungere lo
scopo. Essa tuttavia fu condannata da più parti come un errore grossolano. La
norma fissava delle quote per la proliferazione dei canali televisivi europei, nei ter-
mini di quanto essi potevano importare da fuori l’UE, ma rendeva la politica inu-
tile dal momento che comprendeva l’espressione qualificativa «se praticabile». I
suoi rabberciati tentativi di combinare la crescita economica e la diversità cultura-
le contrastano con il presunto «successo» della politica delle telecomunicazioni
dell’UE, dove – poiché le implicazioni per il contenuto non vennero comprese
appieno – ci fu un generale consenso sulla politica, consenso favorevole alla esten-
sione al mercato. Dieci anni di economia di mercato nell’ambito delle telecomuni-
cazioni nell’UE culminarono nell’accordo tra tutti gli Stati membri in favore del-
l’apertura dei loro mercati delle telecomunicazioni alla privatizzazione e alla libe-
ra concorrenza a partire dal 1° gennaio 1998.
Nel frattempo, i sostenitori del pubblico servizio continuano a dare battaglia ai
fautori della estensione al mercato riguardo alla politica della «società dell’infor-
mazione» e spesso queste dispute presero la forma di lotte fra le diverse sezioni
della vasta burocrazia dell’UE.14 Questo fu particolarmente evidente nei dibattiti
sull’evoluzione della politica UE sulla società dell’informazione. Il Rapporto
Bangemann del 1994 (Commissione delle Comunità Europee, 1994) patrocinò un
approccio fortemente orientato alla commercializzazione, ma l’High Level Group
of Experts (compreso Manuel Castells) nominato dalla Commissione Europea si
concentrò in risposta su argomenti riguardanti l’accesso e l’esclusione da questa
società dell’informazione. Ciò nonostante, il Libro Verde sulla Convergenza pub-
blicato dalla Commissione Europea nel settembre 1997 (Commissione Europea,
1997) fu marcatamente favorevole all’estensione al mercato e, mentre i sostenito-
ri del pubblico interesse riuscirono a farlo revisionare in tale direzione, esso costi-
tuisce il senso della politica europea della società dell’informazione.
Sotteso alla politica europea è il presupposto secondo il quale la convergenza in
termini collettivi è inevitabile e, per questo, il ruolo dell’UE dovrebbe essere quel-
lo di consentire alle aziende europee di concorrere in termini paritari con altre
aziende nell’economia globale. Quindi, la convergenza funziona come una profe-
zia che si auto-determina: il cambiamento politico viene portato avanti dalla con-
vergenza che, nel contempo, esso contribuisce ad accelerare. La spinta verso

14
Come le battaglie fra il Directorate General (DG) X per le Comunicazioni, la Cultura e i Mezzi
di Comunicazione Audiovisiva, e il DG XIII sulle Telecomunicazioni.
146 CULTURAL INDUSTRIES

l’estensione al mercato nelle telecomunicazioni in tutta Europa negli anni Novanta


è stata in gran parte favorita da tale discorso sulle convergenze, sebbene i sosteni-
tori del pubblico interesse e del servizio pubblico continuino a lottare duramente
per contrastare tali nozioni (si vedano Downey, 1998; Murdock e Golding, 1999).
Le conseguenze per le industrie culturali sono profonde, come vedremo nel
Capitolo 8.
L’UE esemplifica le pressioni verso il mercato che esistono anche in quegli orga-
nismi politici più soggetti alle influenze dei concetti social-democratici del pubbli-
co interesse. Questo suggerisce che le pressioni verso la globalizzazione e la con-
vergenza si rivelano estremamente resistenti per i politici. Gli organismi politici
internazionali stanno spingendo il panorama dell’industria culturale globale nella
direzione della conglomerazione e della commercializzazione, e la convergenza
viene sempre più accettata come una sorta di fatto determinato dalla tecnologia,
piuttosto che come un prodotto della politica. Se questa convergenza di telecomu-
nicazioni, computer e mezzi di comunicazione sia inevitabile e/o desiderabile sarà
oggetto di discussione nel Capitolo 9.

La spinta verso il mercato non è rimasta incontrastata. I gruppi di attivisti e i


governi nazionali hanno frapposto molti ostacoli sulla sua strada in diversi
momenti. Il servizio pubblico radiotelevisivo ha dimostrato eccellenti capacità di
recupero di fronte al fuoco di fila dei suoi rivali commerciali. Tuttavia, le quattro
ondate dell’estensione al mercato suggeriscono che, attraverso contesti nazionali e
regionali anche molto diversi, il neoliberismo e la concezione neoclassica del mer-
cato hanno fatto enormi progressi nella sfera culturale. Gran parte del mondo
sembra aver guardato sempre di più agli Stati Uniti come modello per regolare la
cultura. I cambiamenti politici hanno avuto massicce conseguenze per le industrie
culturali nel loro complesso. Le politiche sono al tempo stesso le risposte e i pro-
dotti di condizioni socio-culturali, economiche e tecnologiche, ma sono anche fon-
damentali nel favorire e/o inibire le trasformazioni nelle industrie culturali.
Questo accade particolarmente con la politica del broadcasting e delle telecomuni-
cazioni, che vantano delle forti tradizioni di proprietà e regolamentazione pubbli-
ca, ma dove tali tradizioni furono abbandonate o seriamente limitate durante la
svolta neoliberista degli anni Ottanta e Novanta. I cambiamenti descritti più sopra
hanno svolto un ruolo fondamentale – unitamente ai cambiamenti e alle continui-
tà che descriveremo nei prossimi sei capitoli – nel determinare il nuovo panorama
delle industrie culturali all’inizio del XXI secolo.

APPROFONDIMENTI

Gli studi sulla politica, la legge e la regolamentazione delle comunicazioni negli


USA non mancano. Di grande utilità sono stati, per la stesura del presente volu-
me: Communications Policy and the Public Interest di Patricia Aufderheide (1999); The
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 147

Irony of Regulatory Reform di Robert Horwitz (1989); il manuale di storia del broad-
casting negli USA di Sterling e Kittross, Stay Tuned (3a edizione, 2002); Selling the
Air di Thomas Streeter (1996).
Utili affermazioni sui principi soggiacenti il servizio pubblico radiotelevisivo
provengono dal testo di Michael Tracey, The Decline and Fall of Public Service
Broadcasting (1998), dai capitoli di Jay Blumler (1992), Kees Brants e Karen Siune
(1992). Dei molti e utili studi comparativi sulla politica nazionale dei mezzi di
comunicazione pubblicati negli anni Novanta, il più pregevole (e leggibile) è quel-
lo di Peter J. Humphreys (1996).
L’opera di Jeremy Tunstall contiene molte idee illuminanti sulla politica cultu-
rale e dei media, sebbene manchi della contestualizzazione teorica. Communications
Deregulation (1986) e Liberating Communications (scritto con Michael Palmer, 1990)
sono oggi molto datati, ma ricchi di dettagli storici, mentre The Anglo-American
Media Connection scritto con David Machin (1999) aggiorna l’opera precedente.
Un incoraggiante sviluppo negli studi sui mezzi di comunicazione è la pubblica-
zione delle raccolte che si occupano della storia delle politiche e dei mezzi di comu-
nicazione in paesi al di fuori dell’Europa e del Nord America. Le seguenti raccolte
sono particolarmente utili: Television: An International History (1998) di Anthony
Smith e Richard Paterson; De-Westernizing Media Studies (2000) di James Curran e
Myung-Jin Park; e Media and Globalization (2001) di Nancy Morris e Silvio
Waisbord.
La politica delle comunicazioni nell’era delle organizzazioni politiche interna-
zionali costituisce un’importante area di lavoro futuro. L’articolo di Hernan
Galperin del 1999 era all’avanguardia. From Satellite to Single Market (1998) di
Richard Collins è uno studio rigoroso degli aspetti centrali della politica dell’UE.
Global Media Governance di Ó Siochrú e Girard è una risorsa eccellente.
Infine, un capitolo di Nicholas Garnham (1998) sulla «Politica dei Media» for-
nisce una panoramica incisiva e acuta, com’è tipico di questo autore, delle temati-
che di questa importante area.

(N.d.C.) Per una bibliografia in lingua italiana sulla politica, la legge e la regola-
mentazione delle comunicazioni e sull’evoluzione e il passaggio dal sistema mono-
polistico al duopolio in Italia si suggerisce la lettura di:
Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia : costume, società,
politica (2006, 5° edizione); Francesca Anania, Breve storia della radio e della televisio-
ne italiana (2004); Aldo Grasso, La tv del sommerso. Viaggio nell’Italia delle tv locali
(2006) e Storia della televisione italiana (2000).
Sull’avvento delle nuove forme di broadcasting un’utile lettura è Bino Olivi,
Bruno Somalvico, La nuova Babele elettronica. La TV dalla globalizzazione delle comuni-
cazioni alla società dell’informazione (2003).
Sulla regolamentazione del settore della comunicazione: Roberto Mastroianni,
Riforma del sistema radiotelevisivo italiano e diritto europeo (2004) e Roberto Zaccaria,
Diritto dell’informazione e della comunicazione (2007, 6° edizione).

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