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mercato1 nelle
telecomunicazioni e
nel broadcasting
■ Deregulation, re-regulation ed estensione al mercato nel settore della cultura
■ Telecomunicazioni e broadcasting: perché lo Stato fu così coinvolto?
Le telecomunicazioni come servizio pubblico
Il broadcasting come risorsa nazionale e limitata
Il potere del broadcasting
■ Gli anni Ottanta: si smantellano le logiche, si introducono condizioni di mercato
Contestazione della logica delle telecomunicazioni come servizio pubblico
Contestazione della logica del broadcasting come risorsa nazionale scarsa
Contestazione della logica del potere del broadcasting
■ Le quattro ondate dell’estensione al mercato
■ La prima ondata: i cambiamenti nella politica delle comunicazioni negli Stati
Uniti, 1980-1990
■ La seconda ondata: i cambiamenti nella politica del broadcasting nei paesi
industrializzati, 1985-1995
Definizione delle caratteristiche del servizio pubblico radiotelevisivo
Variazioni nei sistemi di servizio pubblico radiotelevisivo
Il ruolo sociale e culturale del servizio pubblico radiotelevisivo
■ Il servizio pubblico sotto attacco: case studies del cambiamento
Regno Unito
Francia
Germania
Australia
Giappone
Per riassumere
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 111
1
(NdC) In questo capitolo, l’autore ricorre frequentemente all’uso del termine “marketization”
per riferirsi alla progressiva introduzione di condizioni di mercato nella produzione di beni
sociali, di norma associata ad una riduzione delle funzioni pubbliche di gestione diretta.
“Marketization” è quindi il processo che porta le imprese pubbliche a comportarsi progressiva-
mente come imprese orientate al mercato, attraverso la deregolamentazione, la decentralizza-
zione e la privatizzazione. Si tratta, in sostanza, dell’esito delle politiche neoliberiste di cui si è
parlato nei capitoli precedenti e che puntano al conseguimento della competitività attraverso
la deregolamentazione. Non volendo lasciare il termine in lingua originale e considerata la dif-
ficoltà di traduzione del termine in italiano si è reso necessario un lavoro di adattamento al
contesto del concetto, che viene reso di volta in volta con “estensione al mercato” o “commer-
cializzazione” a seconda degli ambiti in cui appare.
112 CULTURAL INDUSTRIES
I governi intervengono in tutte le aree della vita commerciale. Nelle moderne società comples-
se il libero mercato non esiste, ma è soltanto un obiettivo cui aspirano coloro che credono che
il mercato, nel suo stato ideale, sia il modo migliore per distribuire le risorse e rispondere ai biso-
gni dell’uomo. Anche quei sistemi economici nazionali basati soprattutto sull’impresa privata,
come gli Stati Uniti, si fondano su un enorme corpus di leggi riguardanti la concorrenza, le tasse,
i contratti, gli obblighi delle aziende e così via. Essi fanno anche affidamento sul finanziamento
governativo delle infrastrutture (trasporti, energia, denaro, comunicazioni) e sulla regolamenta-
zione statale delle aziende, per evitare che non ci sia abuso dei poteri del mercato. Come sug-
gerisce Thomas Streeter (1996: 197), tuttavia, la falsa opposizione fra governo e mercati preva-
le spesso, con il frequente risultato che «l’azione politica di ogni genere viene di norma intesa
come “interferenza governativa, quantomeno negli Stati Uniti.
I governi intervengono nelle comunicazioni, nei media e nei mercati culturali in tre modi princi-
pali. Essi infatti:
• legiferano: cioè creano delle leggi che riguardano gli argomenti generali citati sopra, come la
concorrenza e i contratti; si occupano poi di tematiche più specificamente culturali, come il
copyright, l’oscenità, la privacy e così via; tutti questi sono soggetti a norme e alle decisioni
dei tribunali
• regolano: per mezzo di queste leggi, i governi creano delle agenzie che monitorano un par-
ticolare settore o un gruppo di industrie, e che hanno il potere di influenzare il comportamen-
to di aziende e altre istituzioni
• sovvenzionano: direttamente, per mezzo di assegnazioni di fondi allo scopo di integrare la for-
nitura di prodotti culturali garantita dal settore privato in aree come il teatro, il balletto, l’ope-
ra, le belle arti e così via; o indirettamente, concedendo al settore privato lo sfruttamento della
ricerca e delle altre conoscenze create nel settore pubblico (soprattutto la difesa).
Questi costituiscono i tre elementi principali della politica governativa nelle telecomunicazio-
ni, nei media e nella cultura. La politica governativa opera a livello internazionale (per esempio
l’UE), nazionale (i singoli governi nazionali), a livello regionale subnazionale (per esempio i
governi statali di USA o Germania, o della regione nord-occidentale della Gran Bretagna) e a
livello cittadino.
Le relazioni fra i tre ambiti della politica su cui ci concentriamo qui – le teleco-
municazioni, i media e la politica culturale – sono complesse. Nei diversi paesi i ter-
mini assumono accezioni differenti e i confini fra di loro sono spesso vaghi e porosi.
Come le altre grandi infrastrutture economiche (i trasporti, il denaro e l’ener-
gia), le telecomunicazioni sono state per lungo tempo fondamentali per far funzio-
nare il mondo degli affari nelle società moderne, ma in un mondo nel quale la
politica governativa in fatto di economia, educazione e persino società è sempre
più influenzata dal discorso sulla società dell’informazione (si veda il Capitolo 3),
le telecomunicazioni hanno assunto un ruolo ancor più importante. I politici
hanno generalmente accettato la visione della società dell’informazione secondo la
quale le nazioni con i sistemi di telecomunicazione più avanzati saranno probabil-
mente più competitive nel nuovo mercato globale guidato dall’informazione. Le
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 113
telecomunicazioni non sono un’industria culturale nel senso definito nel presente
volume, ma gli sviluppi nella politica delle telecomunicazioni hanno avuto un
impatto profondo sulla produzione culturale.
In molti paesi, quella che viene generalmente definita politica dei mezzi di comu-
nicazione è nei fatti consistita in una serie di distinte aree politiche dirette verso sin-
goli settori – broadcasting, stampa, cinema e così via. Dagli anni Settanta in poi, le
visioni sul futuro economico della società dell’informazione hanno posto conside-
revole enfasi, sulla convergenza multimediale fra telecomunicazioni, computer e
mezzi di comunicazione, che – nell’ultimo caso – significa soprattutto broadcasting.
In passato, il broadcasting ha dominato il tempo libero degli abitanti dei paesi indu-
strializzati, e lo fa tuttora, persino in un’epoca in cui PC e Internet hanno ruoli sem-
pre più importanti (si veda il Capitolo 9). Per questa e altre ragioni che verranno
spiegate più avanti, i governi hanno apportato cambiamenti fondamentali alla poli-
tica del broadcasting, ecco perché questi cambiamenti vengono trattati qui: essi
sono infatti strettamente interrelati alle trasformazioni nelle telecomunicazioni.
Capire i vari slittamenti politici che si sono sovrapposti e che hanno maggior-
mente influenzato gli sviluppi nelle industrie culturali richiede la considerazione
del rapporto fra Stato e aziende private nella formazione della politica governati-
va in generale. Il Box 4.2 descrive brevemente i punti su cui ci si baserà testoni
questa analisi, prendendo a prestito i termini dalla critica di David Marsh alla teo-
ria politica pluralista (2002) e dalla notevole discussione di Robert Horwitz sulla
legislazione USA (1989).
In questo capitolo e nel prossimo, nel delineare i cambiamenti politici che avreb-
bero avuto effetti significativi sulle industrie culturali,2 si farà riferimento a queste
relazioni fra Stato, partiti politici e aziende, a livello nazionale e internazionale. La
storia che si racconterà è quella di una vittoria generale ma non totale dell’esten-
sione neoliberista al mercato, specie nella forma del discorso sulla società dell’infor-
mazione. In primo luogo si discuterà ciò che si intende per economia di mercato
nelle telecomunicazioni e nel broadcasting, e perché si preferisce questa espressio-
ne a «deregulation». Poi si esamineranno le logiche dell’intervento statale nelle
telecomunicazioni e nel broadcasting che hanno prevalso per gran parte del XX
secolo (con particolare attenzione ai paesi industrializzati) e si spiegheranno i pro-
cessi attraverso i quali il discorso neoliberista ha smantellato queste logiche negli
anni Ottanta, spianando la strada per l’inizio della estensione al mercato. Nel
Capitolo 5 si continuerà poi lo studio dell’importanza dei cambiamenti nella legge
e nelle pratiche relative al copyright, e si analizzerà il modo in cui il discorso sulla
società dell’informazione neoliberista ha operato nella politica culturale e delle arti.
Si porrà sempre attenzione ai conflitti insiti in tutti questi processi. Il trionfo del
neoliberismo nella società dell’informazione dovette essere conquistato. Non è
2
Effetti che vengono analizzati nei Capitoli 6-10. Ovviamente questi cambiamenti ebbero degli
effetti reciproci sulla politica, ma dal momento che – a nostro parere – la politica fu così impor-
tante per creare le dinamiche iniziali e, per chiarezza espositiva, in questa sede ci occupiamo
prima di politica.
114 CULTURAL INDUSTRIES
Nel testo che segue si dà per scontato che la politica prenda forma da una serie di fattori che
hanno complesse relazioni fra loro (si veda Marsh, 2002).
Di particolare importanza è l’equilibrio fra le forze sociali, a sua volta profondamente influenza-
to da una disuguaglianza strutturata (su classe, genere, etnia e altre dimensioni) all’interno delle
società e fra loro, e dalle diverse risorse disponibili agli agenti.
Ma la politica non è semplicemente alla mercé dei ricchi e dei potenti. Anche le istituzioni e i
processi politici hanno una qualche autonomia. Quantomeno in una certa misura, i governi
democratici devono conservare la legittimità per quelle classi sociali e quei gruppi (la classe ope-
raia, i contadini, le minoranze etniche) escluse dalla politica «tradizionale».
I problemi e le soluzioni politiche sono costruiti in maniera discorsiva e questa costruzione è un
importante luogo di contestazione, ma – anche qui – entra in gioco la disuguaglianza struttura-
ta.
Una caratteristica importante ma non determinante della formazione della politica pubblica è
costituita dalle alleanze strategiche strette fra i partiti politici e le istituzioni sociali. Le grandi azien-
de, con le loro enormi risorse finanziarie e di comunicazione, sono particolarmente significative
in tal senso. Nei paesi industrializzati i partiti politici difficilmente possono raggiungere il potere
senza l’appoggio di tali aziende.
Tuttavia, non è necessario dare per scontato che le aziende intervengano direttamente nel pro-
cesso politico (anche se, ovviamente, lo fanno spesso), dal momento che – sulle questioni fon-
damentali – la politica viene spesso formulata a partire dalle previsioni sulle reazioni della gran-
de industria. Inoltre, le industrie si scontrano spesso sulle politiche, specie quando appartengo-
no a diversi settori industriali.
In generale, i corpi politici del moderno capitalismo operano in modo da combinare l’accumulo
di capitale da parte delle aziende con un certo grado di legittimazione popolare, come viene sot-
tolineato dalla teoria neo-Marxiana dello Stato. Tuttavia, come nota Horwitz (1989), un’analisi
delle origini delle agenzie politiche di Stato in particolari equilibri di forze sociali non spiega sem-
pre il loro modo di operare in pratica.
La politica deve essere intesa come operante sia a livello nazionale che internazionale (si veda
Sinha, 2001).
stata una vittoria completa in ogni momento – può infatti essere invertita – ma,
come si vedrà alla fine del Capitolo 5, ha interagito in maniera complessa con altri
cambiamenti che saranno discussi nei capitoli successivi, e in alcuni casi ha anche
aperto loro la strada. Si è anche verificato uno spostamento nelle relazioni fra cul-
tura ed economia, arte e capitalismo. Che questo sia o meno un cambiamento epo-
cale, del tipo rivendicato dalla retorica della società dell’informazione, è in dubbio,
ma questo lo si può determinare solo dopo aver considerato gli altri cambiamenti.
Nel Capitolo 3 abbiamo visto come la dottrina politica neoliberista si sia diffusa nel
mondo in risposta alla Recessione. Nel periodo 1945-1973, c’era stato un parziale
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 115
consenso fra i partiti politici dei vari schieramenti sulla necessità di proteggere i
lavoratori e i consumatori dalle azioni intraprese dalle aziende private alla ricerca
di profitto. In alcuni paesi e settori, questo aveva implicato la nazionalizzazione di
aziende private. Servendosi della falsa dicotomia governo/mercati discussa nel Box
4.1, dagli anni Settanta in poi, il neoliberismo additò la proprietà pubblica e la
regolamentazione rigida come le responsabili della recessione economica e intra-
prese dei programmi di privatizzazione e modifica legislativa. Il termine neoliberi-
sta che definiva questi programmi fu spesso deregulation, ma in alcuni casi si pre-
ferì liberalizzazione.
Le retorica della deregulation e della liberalizzazione fu particolarmente potente
nelle industrie culturali perché la nozione di libertà dall’intervento governativo ali-
mentò le ansie sulle interferenze governative nell’espressione personale e politica.
Il diritto alla libera espressione è un aspetto fondamentale del pensiero democrati-
co liberale e, superficialmente, la regolamentazione governativa potrebbe minare
tale diritto. Tuttavia, termini come «deregulation» e «liberalizzazione» possono
potenzialmente confondere la rimozione della censura con misure che, nei fatti,
intendono aumentare l’accesso dei cittadini a una più ampia varietà di espressione
personale e politica, come le restrizioni su quante stazioni locali può possedere un
network nazionale (negli Stati Uniti) o su che percentuale del mercato nazionale
dei quotidiani i giornali di un’unica azienda possano occupare (nel Regno Unito).
Alcuni analisti delle industrie culturali hanno affermato, in risposta a questo
uso del termine «deregulation», che re-regulation è una definizione più appropria-
ta per i cambiamenti nella politica dei media e delle comunicazioni negli anni
Ottanta e Novanta (come per esempio Murdock, 1990: 12-13). Il termine «re-
regulation» rimanda al fatto che la legislazione e la regolamentazione non sono
state eliminate da questi cambiamenti, e sottolinea l’introduzione di nuove legisla-
zioni e regolamentazioni, molte delle quali favorirono, come vedremo, gli interes-
si di grandi aziende private e dei loro azionisti. Mentre i governi cercavano di
negoziare gli interessi concorrenziali durante gli anni della deregulation – gli
Ottanta e i Novanta – in molti casi introdussero effettivamente nuove e più com-
plesse normative. Il Regno Unito, come ha dimostrato Peter J. Humphreys (1996:
191), introdusse una serie di nuovi organismi regolatori, fra cui la Broadcasting
Complaints Commission (1982 – rimpiazzata nel 1997 dalla Broadcasting
Standards Commission si occupava dei reclami legati alla violazione della privacy
o ad utilizzi impropri di televisione o radio) e la Cable Authority (1984 – Authority
per la regolamentazione dell’industria della televisione via cavo), in un’epoca in
cui avrebbe dovuto iniziare il processo il deregulation. Anche la legislazione fran-
cese di metà degli anni Ottanta creò una complessa rete di regole.3 Come sottoli-
nea Humphreys, nonostante tutti i suoi vantaggi, il termine «re-regulation» cela
3
La televisione digitale ha portato con sé altissimi livelli di intervento governativo. Hernan
Galperin (2004) lo chiama il «paradosso digitale»: perché in un’epoca di «deregulation» si sentì
il bisogno di così tanta regolamentazione governativa? Si prenderà in esame la politica relativa
alla TV digitale nel Capitolo 9.
116 CULTURAL INDUSTRIES
anche un importante aspetto. Si tratta del fatto che gran parte della nuova legisla-
zione e regolamentazione in realtà legittimò la creazione di un ambiente commer-
ciale nel quale le aziende dell’industria culturale commerciale potevano operare in
maniera pressoché indisturbata. Spesso, gli interessi di tali aziende non sono
necessariamente forieri di un sistema equo di produzione culturale nei termini svi-
luppati nel Capitolo 2.
Il termine che qui si preferisce per descrivere il senso primario dei cambiamen-
ti politici dagli anni Ottanta in poi è estensione al mercato. In generale, l’espres-
sione si riferisce alla «diffusione dello scambio di mercato come principio sociale»
(Slater e Tonkiss, 2001: 25), un processo a lungo termine che è avvenuto in diver-
si secoli e comprende la mercificazione, il crescente uso del denaro come base dello
scambio e una crescente divisone del lavoro. I teorici sottolineano questo e altri
elementi in diverse misure. Nelle moderne società capitaliste, coesistono delle rela-
zioni di mercato e altre non di mercato, ma quelle di mercato sono predominanti
quanto al modo in cui la società è coordinata e organizzata. Qui, tuttavia, si usa il
termine in maniera più specifica per fare riferimento al processo attraverso il quale
lo scambio di mercato arrivò sempre più a permeare le industrie culturali e i set-
tori a esse correlati. Questo coinvolse una serie di processi, tre dei quali spiccano:
Fino agli anni Ottanta, nelle democrazie liberali così come negli Stati autoritari, la
maggior parte delle organizzazioni di broadcasting e telecomunicazioni erano di
proprietà dello stato ed erano poste sotto il suo controllo. Persino negli Stati Uniti,
che tradizionalmente preferiscono le imprese private a quelle pubbliche, il broad-
casting e le telecomunicazioni furono, per diversi decenni, soggetti a una rigida
regolamentazione da parte degli organi governativi.
Perché il broadcasting e le telecomunicazioni furono maggiormente soggetti alla
proprietà pubblica e a una regolamentazione rigida rispetto a industrie culturali
come l’editoria, il cinema o l’industria musicale? Possiamo suddividere le risposte
a questa domanda in tre gruppi che spaziano fra contesti politici e culturali molto
diversi:
4
«Universale» non significava che tutti vi accedessero nella stessa misura: ci vollero infatti
decenni prima che le fasce più povere della popolazione raggiungessero alti tassi di installazio-
ne e, anche allora, non si trattò tanto dell’impegno governativo o dell’azienda, quanto piutto-
sto dell’abbassamento dei prezzi (Aufderheide, 1999: 16; Garnham, 1996: 3.)
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 119
Negli anni Ottanta, le logiche soggiacenti a livelli così alti di intervento governativo
nel broadcasting e nelle telecomunicazioni stavano venendo meno. Nel Capitolo 3
abbiamo visto in che modo in quel periodo l’ascesa del neoliberismo abbia contribui-
to a delegittimare la proprietà pubblica e certe forme di regolamentazione in quasi
tutte le forme di attività economica. Abbiamo anche visto come le aziende commer-
ciali di Europa e Nord America, notando che i margini nella produzione stavano
calando, diventassero sempre più consapevoli dei profitti potenzialmente maggiori
che potevano essere realizzati dalle industrie culturali, della comunicazione e del
tempo libero. Esercitarono quindi una maggiore pressione affinché i governi naziona-
li rimuovessero le restrizioni all’accesso a certi mercati – in particolare le telecomuni-
cazioni e il broadcasting, che in precedenza erano stati regolati molto rigidamente.
120 CULTURAL INDUSTRIES
A seguito del successo della delegittimazione delle logiche sottese alla proprietà e alla
regolamentazione pubblica, gli anni Ottanta e Novanta videro dei cambiamenti di
grande importanza storica nel panorama politico.
Esempi specifici di tali cambiamenti nei diversi paesi vengono forniti nel resocon-
to storico che segue. Questi cambiamenti nella politica dell’industria culturale gioca-
rono un ruolo cruciale nel dare avvio e accelerare molti dei cambiamenti che costi-
tuiscono il tema presentesi questo libro. Non si ribadirà mai abbastanza come questi
cambiamenti siano stati deliberatamente introdotti per sostenere gli interessi delle
grandi aziende commerciali dell’industria culturale. I governi operarono tali scelte
perché volevano che le imprese culturali nazionali fossero in grado di competere a
livello globale nel settore delle industrie culturali. Ogni indicazione secondo la quale
questi cambiamenti divennero inevitabili a seguito, per esempio, del cambiamento
tecnologico o di qualche processo esterno noto come «globalizzazione», rivela la
natura volontaria e intenzionale di questi cambiamenti (sebbene essi ebbero molte
conseguenze involontarie e impreviste).
Le prossime quattro sezioni discutono le quattro ondate della estensione al mer-
cato, come segue (si veda anche Figura 4.1).
Stati
Europa Occidentale
Canada
Australasia
Giappone Seconda ondata
Molti Stati
alla ricerca
della convergenza Quarta ondata
Lo Stato aveva giocato un ruolo significativo nello sviluppo della radio negli Stati
Uniti e nella fondazione della RCA (in seguito proprietaria del network televisivo
NBC e casa discografica che pubblicò gli album di Elvis Presley). Tuttavia, nel
Communications Act del 1934 gli Stati Uniti si discostarono radicalmente dalla
norma degli altri paesi liberal-democratici, secondo la quale i governi dovevano
avere un ruolo molto chiaro nella proprietà e regolamentazione dei mezzi di
comunicazione e nelle telecomunicazioni.5 Il Communications Act istituì la
Commissione Federale per le Comunicazioni per monitorare «l’interesse pubblico,
la convenienza e/o la necessità» (una frase usata in origine nel Radio Act del
1927). Nella radio e, successivamente, nella televisione fu creato un sistema duale
di regolamentazione dei mezzi di comunicazione e delle telecomunicazioni, men-
tre alle emittenti fu dato accesso allo scarso spettro di frequenze in cambio della
promessa di servire «l’interesse pubblico, la convenienza e/o la necessità».
Vennero fissati dei limiti su quante stazioni televisive le emittenti che produceva-
5
Robert W. McChesney ha dimostrato in che modo i diversi gruppi di interesse commerciale e di
destra giocarono un ruolo cruciale nell’assicurare questo risultato durante i dibattiti sul modo
migliore di organizzare le telecomunicazioni nel periodo 1927–35 (si veda McChesney, 1993,
1999: Capitolo 5).
124 CULTURAL INDUSTRIES
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Un quarto network, Dumont, durò fino al 1955. Il network giornalistico della Fox iniziò nel
1985 ed entro il 1991 si era ormai affermato. Time Warner e Viacom fondarono nuovi network
negli anni Novanta – rispettivamente WB e UPN.
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 125
Una caratteristica degna di nota della politica sul broadcasting negli USA è che il Congresso ha
varato pochissime leggi in materia. Infatti, il Telecommunications Act del 1996 fu la prima impor-
tante legge promulgata dai tempi del Communications Act del 1934. Molte delle principali deci-
sioni che influenzarono le comunicazioni sono state «prese dai Giudici Federali che si sono tro-
vati a decidere nei casi di fusione e anti-monopolio» (Tunstall e Machin, 1999: 41). Tali casi sono
spesso portati avanti dalla Federal Trade Commission o dal Dipartimento di Giustizia piuttosto
che dalla Commissione Federale per le Comunicazioni.
Chad Raphael (2005) aggiunge un’ulteriore svolta alla visione secondo la quale il ruolo della
Commissione Federale per le Comunicazioni viene talvolta sovrastimato. Egli sostiene infatti che
la storia recente della legislazione americana non dovrebbe essere considerata come una mossa
da parte di un rigido controllo governativo verso un lungo processo di deregulation, ma come
la graduale privatizzazione della regolamentazione. Raphael dimostra come il giornalismo televi-
sivo sia oggi meno sorvegliato dalla Commissione Federale per le Comunicazioni, dal Congresso
e dal ramo esecutivo del governo, di quanto non sia da leggi sugli illeciti civili, campagne di pub-
bliche relazioni e pressioni del mercato.
maggior parte era a favore alla commercializzazione, dal momento che – prima di
tutto – avrebbe fatto i loro interessi (si veda Capitolo 2). Tuttavia, queste forze erano
unite da una comune dedizione neoliberista al libero mercato – vale a dire all’im-
presa privata priva di regolamentazioni, al concetto della presunta sovranità e scel-
ta del consumatore (in opposizione ai diritti dei cittadini) e all’obiettivo dell’effi-
cienza economica per mezzo della concorrenza. Abbiamo già visto gli argomenti
fondamentali messi in campo da questi gruppi di interesse e dai loro alleati politici
della destra radicale contro le forme tradizionali della politica della comunicazione:
la necessità della concorrenza per incoraggiare l’efficienza, la presunta eliminazio-
ne della scarsità dello spettro di frequenze come logica per la regolamentazione e il
privilegiare la scelta del consumatore rispetto ai diritti dei cittadini. Tutto questo
contribuì alla svolta verso il neoliberismo, e ne fornì una parte consistente.
Insieme, questi cambiamenti mostrarono come la politica governativa si stesse
muovendo in una direzione che si sarebbe rivelata molto favorevole alle aziende
intenzionate a espandere i propri interessi nelle industrie culturali. Per di più, il
successo delle aziende e dei politici conservatori nello smantellare gli apparati
regolatori negli USA, specie nel broadcasting, fu di grande incoraggiamento alle
aziende e ai politici che, nel resto del mondo, condividevano gli stessi obiettivi.
differenze possono essere spiegate dalle diversissime culture politiche nei paesi coin-
volti. In questa sede non è possibile fornire una classificazione completa delle diffe-
renze nazionali (i dettagli in tal senso si possono ritrovare in molti studi comparati-
vi, fra cui Humphreys, 1996; Hoffman-Reim, 1996; Raboy, 1997; Goldberg et al.,
1998; Kelly et al., 2004), ma le variazioni più importanti comprendono:
zialità nella copertura dell’attualità (Glasgow Media Group, 1976), per la gestione
delle politiche e delle relazioni con gli impiegati che riproducevano il potere di
classe (Garnham, 1990: 128-31) e per la mancata proposta di programmi rivolti a
un’audience della classe lavoratrice e non elitaria (Ang, 1991). Negli anni
Cinquanta e Sessanta, nei paesi in cui la pubblicità non era consentita e nel con-
tempo il sostegno governativo era scarso (come in Scandinavia), la mancanza di
fondi comportava un consistente affidamento su programmi importati e, spesso, su
una produzione televisiva nazionale di scarsa qualità.
Tuttavia, i risultati del servizio pubblico radiotelevisivo non devono essere sot-
tovalutati. Un risultato lodevole fu la copertura pressoché universale. Ingenti
somme di denaro furono spese per consentire anche alle regioni più remote l’ac-
cesso ai sistemi di broadcasting nazionali, cosa che sarebbe stata impensabile in un
sistema commerciale. Ci fu anche un considerevole impegno nel fornire alle regio-
ni l’accesso al sistema nazionale. Alcune emittenti del servizio pubblico riuscirono
persino a ottenere sprazzi di broadcasting di alta qualità. La britannica BBC è un
esempio spesso discusso, con gli sceneggiati, le situation comedy e la musica radio-
fonica di alta qualità degli anni Sessanta e Settanta. La qualità del broadcasting in
altre nazioni europee prima dell’estensione al mercato degli anni Ottanta e
Novanta è difficile da accertare; gli studi sul sistema pubblico di solito hanno poco
130 CULTURAL INDUSTRIES
da dire su questo argomento. Per i suoi sostenitori, tuttavia, ci potrebbe essere una
buona spiegazione. Il punto non è necessariamente quello di difendere il sistema
pubblico per quello che era (spesso scarsamente finanziato, paternalista nei toni e
nella sostanza) ma per come potrebbe essere.
Emittenti del pubblico servizio Autodifesa, continuità delle risorse pubbliche ecc.
Sindacati Tutela dei posti di lavoro e delle condizioni lavorative
[1] Non fu sempre così. In alcuni paesi la stampa restò una forza che resistette al broadcasting commerciale.
Gran Bretagna
Assai influenzata dalla deregulation delle comunicazioni negli USA, la Gran
Bretagna fu molto rapida nel privatizzare le telecomunicazioni e nell’introdurre una
politica dal tocco leggero («light touch») per la TV via cavo. Il governo conservatore
di estrema destra di Margaret Thatcher, e i giornali del suo alleato politico Rupert
Murdoch, lanciarono un attacco al broadcasting inglese all’inizio degli anni Ottanta.
Thatcher nominò un economista di destra per condurre un’indagine nel broadca-
sting (Peacock Report, 1986). La legislazione che ne scaturì, il Broadcasting Act del
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(N.d.C.) In Italia i cambiamenti iniziarono nei primi anni Settanta, con Telebiella, prima televi-
sione libera italiana a contrastare il monopolio RAI (le sue trasmissioni via cavo iniziarono nel
1972). È però con la sentenza n. 202 del 1976 della Corte Costituzionale che si autorizzarono
le trasmissioni radiotelevisive via etere in ambito locale, di fatto mettendo fine al monopolio
della RAI e permettendo l’ingresso in campo ad altri attori. La prima legge organica che l’ordi-
namento italiano abbia avuto in materia radio televisiva è la legge n. 223 del 6 agosto 1990,
“Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato”, comunemente nota come legge
Mammì, dal nome del suo primo firmatario, l’allora ministro delle poste e telecomunicazioni
repubblicano Oscar Mammì. La legge 223/1990 attuava le direttive della Comunità Europea
note sotto il nome di Televisione senza frontiere.
132 CULTURAL INDUSTRIES
1990, tuttavia, fu molto meno radicale nella sua commercializzazione del broadca-
sting inglese di quanto temessero i sostenitori del servizio pubblico. La BBC non
venne privatizzata, né lo fu Channel 4 – che era stato istituito dalla precedente
amministrazione laburista (1974-1979) per servire le minoranze e introdotto nel
1982, nei primi anni dell’amministrazione Thatcher. La BBC non fu, come molti ave-
vano temuto, costretta ad accogliere la pubblicità. Questo accadde per ragioni eco-
nomiche, non culturali, poiché le aziende commerciali non volevano che la BBC si
impossessasse dei loro mercati. La spinta verso la commercializzazione fu indebolita
dal forte sostegno dato all’ala tradizionale e paternalista del Partito Conservatore alla
mescolanza di canone e televisione commerciale che era esistita in Gran Bretagna
dagli anni Cinquanta. Inoltre, furono mantenuti dei rigorosi controlli sulla concen-
trazione e sulla proprietà transmediale – finalmente indebolita nel 1996 dal
Broadcasting Act. Ciò nondimeno, l’impatto della legislazione thatcheriana non deve
essere sottovalutato, specie per quanto riguarda ITV – il network di concessioni tele-
visive commerciali che, rigorosamente controllato, era stato istituito nel 1955 e ope-
rava su mandato del pubblico servizio. Negli anni Novanta, ITV passò rapidamente
da 14 stazioni televisive regionali in concessione dominate da 6 aziende, all’effettivo
monopolio di 2 aziende, Granada Media Group e Carlton.8 Molti dei proventi della
pubblicità furono destinati non alla produzione di programmi nazionali, ma diretta-
mente agli azionisti e, sulla base del sistema delle aste annuali che si tenevano ormai
da 12 anni, alle concessioni istituite dal Broadcasting Act del 1990 (Tunstall, 1997:
247). Per contrastare l’ostilità politica, la BBC fu costretta a introdurre «mercati
interni e un inflessibile regime di taglio delle spese infiorato con la retorica dei con-
sulenti della gestione thatcheriana, alleati a un giornalismo e a una politica dell’at-
tualità assai prudenti» (Garnham, 1998: 216). Dal 1997 in poi il governo laburista fu
considerevolmente più generoso nel finanziare la BBC, ma continuò a esercitare
pressioni politiche – l’esempio più noto fu lo scalpore suscitato da un reportage gior-
nalistico secondo il quale un consigliere governativo aveva manomesso dei docu-
menti che davano a intendere le minacce alla sicurezza rappresentate dall’Iraq nel
periodo immediatamente precedente l’inizio della Guerra del Golfo del 2003.
Un importante sviluppo negli anni Ottanta fu l’introduzione della TV via cavo e
via satellite in termini che consentivano a British Sky Broadcasting (BSkyB) di
Rupert Murdoch di accedere a un monopolio virtuale sulle tecnologie televisive
nel Regno Unito. Il Cable Act del 1984 cercò di sottoporre la TV via cavo a un regi-
me di regolamentazione molto morbido, ma questa tecnologia fu un clamoroso
insuccesso perché il governo Thatcher degli anni Ottanta – a differenza di quanto
era accaduto in alcuni paesi dell’Europa Settentrionale – non aveva concesso al
settore alcun tipo di supporto.9 Come risultato del fallimento della TV via cavo,
8
Il processo di concentrazione fu completo una volta che queste due aziende si fusero nel 2004
e formarono ITV PLC.
9
Nel 1995, solo il 6 per cento delle case britanniche possedeva connessioni via cavo (Collins e
Murroni, 1996: 92, che citano cifre governative). Secondo i dati di Zenith Media, in quello stes-
so anno, era connesso il 95 per cento delle case olandesi. Nell’Europa Occidentale, soltanto
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 133
attorno alla metà degli anni Novanta, il pacchetto satellitare BSkyB dominava
completamente il settore della pay-TV inglese, grazie anche all’acquisto dei diritti
sugli eventi sportivi di maggior rilievo che costituivano una potente base dalla
quale lanciare l’offerta per dominare la televisione digitale (si veda il Capitolo 9).
Francia
La Francia aveva una lunga tradizione di intervento statale nelle industrie cultu-
rali – non solo per quanto riguardava il broadcasting, ma anche sotto forma di
ambiziose strategie comunicative e programmazioni audiovisive. Questo aveva
comportato – negli anni Sessanta e Settanta – enormi investimenti in un’infra-
struttura di telecomunicazioni all’avanguardia ed efficiente, fra cui il famoso e lar-
gamente utilizzato Minitel, il sistema di videotex gestito dallo Stato.
Negli anni Ottanta, e all’inizio degli anni Novanta, nella sua commercializzazio-
ne del broadcasting la Francia si dimostrò in qualche modo più radicale della Gran
Bretagna, anche se alla presidenza della repubblica ci fu – dal 1981 al 1995 – un
socialista, François Mitterrand. La politica sulle comunicazioni è fortemente
influenzata dai presidenti, ma ufficialmente è una questione che riguarda i gover-
ni e, in momenti cruciali quali gli anni 1986-1988 e 1993-1995, Mitterrand con-
visse con governi di destra guidati rispettivamente da Chirac e Balladur. In ogni
modo, anche i governi di sinistra degli anni 1981-1986 e 1988-1993 furono coin-
volti nel processo di estensione al mercato. Una ragione di ciò fu che la natura
diretta dell’intervento statale nel broadcasting contribuì a gettare discredito sulla
TV pubblica francese. Il sistema di broadcasting statale era stato modificato per
diventare, nel 1982, un sistema di servizio pubblico con un organismo regolatore
indipendente (per tutti gli anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta ci furono
aspre battaglie sul nome, la forme e lo status di questo ente), ma era troppo poco
e troppo tardi per salvare la reputazione del sistema pubblico francese. Un’altra
ragione fu il generale spostamento verso il mercato – avvenuto in tutta l’Europa
Occidentale, persino nella Francia della lunga tradizione statalista –in tutte le aree
della politica pubblica. Nel 198410 e 1986 furono lanciati dei canali commerciali per
creare un sistema doppio, ma a quel punto il governo di destra di Chirac, del perio-
do 1986-1988, si spinse ben oltre e privatizzò uno storico canale pubblico, TF1,
insieme ad altre aziende di comunicazione di proprietà pubblica, fra cui la compa-
gnia televisiva e pubblicitaria Havas.
Turchia e Portogallo registravano un numero di connessioni inferiore alla Gran Bretagna. A par-
tire dalla metà degli anni Novanta, tuttavia, l’estensione al mercato consentì alle aziende che si
occupavano di tecnologia via cavo di competere con British Telecom nel mercato telefonico e i
tassi di penetrazione della tecnologia via cavo aumentarono.
10
Canal Plus – privatizzato nel 1986 e in origine visto come una sfida all’imperialismo culturale
statunitense e all’arretrata programmazione televisiva del servizio pubblico francese – in un
secondo momento si delineò come un attore di primo piano nel mercato europeo della televi-
sione a pagamento facente parte della conglomerata mediale Vivendi-Universal – destinata al
fallimento – e, in effetti, non priva di difficoltà negli ultimi anni.
134 CULTURAL INDUSTRIES
Germania
Il terzo mercato europeo dei mezzi di comunicazione, la Germania Ovest, lanciò
un nuovo settore commerciale nel 1984 – in ritardo rispetto a molte altre nazioni
economicamente forti – e il suo sistema di servizio pubblico decentralizzato restò
intatto, a conferma di una disposizione della Corte Costituzionale Federale del
1986. Questa risoluzione era in parte il risultato di una campagna messa in campo
dalla SPD (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, il Partito Social-democratico
Tedesco). Nonostante ciò, la rapida crescita dei canali commerciali ebbe un enor-
me impatto sul panorama dei mezzi di comunicazione tedeschi dopo la riunifica-
zione nel 1990. Questa crescita fu in gran parte dovuta al finanziamento statale di
un massiccio programma di cablaggio negli anni Ottanta. Le leggi relativamente
permissive sulla proprietà hanno comportato forti e significativi legami fra edito-
ria e broadcasting. Due «famiglie» hanno dominato per anni l’editoria e la televi-
sione: i Bertelsmann e i Kirch (quest’ultimo dichiarò bancarotta nel 2002, dopo un
disastroso tentativo di dominare il settore della pay-TV).
La crescita nei canali commerciali ha fatto sì che la televisione tedesca facesse
grande affidamento sui programmi in lingua inglese importati dalla Gran Bretagna
e, in particolar modo, dagli Stati Uniti (Tunstall e Machin, 1999: 198). Tuttavia,
Kevin Williams nota (2005: 58) che, dopo una crisi a metà degli anni Novanta, le
emittenti del servizio pubblico hanno consolidato la loro posizione «senza copiare i
format dei canali commerciali. Anzi, i canali commerciali evidenziarono l’influenza
del modello del servizio pubblico nella quantità relativamente bassa di notizie di
attualità e cronaca presenti nella programmazione. Tutte le maggiori stazioni televi-
sive, nella loro programmazione, hanno anche dovuto garantire una certa visibilità
ai film indipendenti. Mentre i canali commerciali hanno fatto affidamento sull’in-
trattenimento di natura leggera, i notiziari e i servizi di argomento sportivo sono stati
piuttosto innovativi (Burns, 2004: 73). Questa versione, relativamente di successo,
dell’etica mista di servizio pubblico e commerciale è un risultato, secondo Williams
(2005: 59), del modo in cui il broadcasting nella Germania Ovest venne formato
dagli «sforzi di usare i mezzi di comunicazione come strumenti di democrazia».
Australia
Il sistema televisivo australiano fu di tipo doppio fin dai suoi esordi negli anni
Cinquanta. Esso rappresentava una chiara mescolanza del servizio pubblico britannico
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 135
Giappone
Per decenni, l’emittente del servizio pubblico giapponese, la NHK, fondata sul
modello della BBC, è stata strettamente legata non soltanto allo Stato, ma anche
al partito politico – il conservatore Partito Liberal-Democratico che ha governato il
Giappone per gran parte del dopoguerra (Sugimaya, 2000).
La televisione commerciale approdò presto in Giappone. Numerose stazioni
televisive commerciali operarono nel paese dagli anni Cinquanta in poi, adattan-
do la posizione apolitica della NHK (Kato, 1998). In Giappone la «deregulation»
non ha mai avuto il peso che aveva altrove, dal momento che lì gli standard del
giornalismo sono legati ad altri fattori, come un’etica professionale piuttosto lassi-
sta, diversi presupposti sull’autorità e la privacy e la massiccia presenza culturale
di settimanali scandalistici. (Si possono qui ritrovare dei parallelismi con il modo
in cui il broadcasting britannico viene spesso giustificato per alcune delle sue pra-
tiche più discutibili, a causa del ben peggiore giornalismo dei tabloid.)
136 CULTURAL INDUSTRIES
Il più significativo atto di estensione al mercato è stato l’ingresso dei canali satel-
litari, che però hanno avuto un impatto relativamente contenuto. La maggior parte
delle indagini accademiche sul broadcasting menzionano a malapena la deregula-
tion. Fin dai primi anni Sessanta, il Giappone ha importato un quantitativo minimo
di televisione mentre, più di recente, ne ha esportata molta, fra cui diversi format
televisivi (Iwabuchi, 2003). Questo è dovuto in parte al fatto che il paese ha un’am-
pia e florida audience, e in parte al fatto che il Giappone, in altri paesi del Sud-Est
asiatico, ha l’immagine della nazione che incarna un genere distintivo e desiderabi-
le di modernità asiatica. Inoltre, un ruolo di rilievo ha avuto il considerevole potere
economico e politico delle aziende che hanno dominato la mescolanza servizio pub-
blico/commerciale. Questa forza, tuttavia, non dovrebbe essere celebrata come l’op-
posto dell’imperialismo culturale «occidentale»: essa infatti si basa su un rigoroso
controllo da parte di un oligopolio di aziende e sui legami molto stretti fra gli influen-
ti giornali nazionali finanziati dal sistema dell’abbonamento e le maggiori stazioni
televisive del paese. Ci sono stati frequenti scandali sulla qualità del giornalismo, fra
cui uno recente che ha messo in seria difficoltà la credibilità di NHK. Il Giappone è
un ulteriore memento sul fatto che, prima dell’estensione al mercato, non ci fu alcu-
na età d’oro del sistema radiotelevisivo pubblico. Il che non significa, però, che la
commercializzazione abbia democratizzato il broadcasting giapponese.
Per riassumere
In alcuni paesi il sistema pubblico radiotelevisivo resta relativamente forte, ma c’è
spesso una decisa spinta verso un consenso di comodo fra aziende e governi sul
fatto che il modo migliore per gestire un sistema di broadcasting sia quello di
avere un vigoroso settore privato con qualche genere di provvedimento corretti-
vo fornito da un fornitore di servizio pubblico. L’etica del servizio pubblico, come
l’abbiamo descritta in precedenza, può solo diventare più marginale quando
viene messo in campo questo consenso. Ci sono pochi dubbi sul fatto che il nuovo
sistema abbia generato più scelta e diversificazione per gli spettatori, specie se
paragonato con i monopoli pubblici scarsamente finanziati che prevalevano in
molti paesi negli anni Cinquanta e Sessanta, e resiste ancora una programmazio-
ne di alta qualità. Tuttavia, questo in genere è avvenuto dove l’idea di servizio
pubblico ha mantenuto la propria presenza all’interno di sistemi misti. Torneremo
su questi argomenti nel Capitolo 9, dove discuteremo l’avvento della televisione
via cavo, satellitare e digitale, e nel Capitolo 10, dove approfondiremo i concetti
di qualità e diversità. Qui, è essenziale notare che, man mano che l’etica del ser-
vizio pubblico fu sempre più marginalizzata e messa sotto assedio, e – per gran
parte – incapace di ottenere le risorse per reinventarsi, il broadcasting guidato dal
mercato cominciò a profilarsi come un futuro inevitabile. Il passaggio al mercato,
tuttavia, non fu mai inevitabile, ci furono anzi gruppi di interesse che combatte-
rono aspramente per esso. Il successo dei sostenitori della commercializzazione
nel trasmettere questa idea di ineluttabilità ha condotto a un’enorme crescita
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 137
nelle opportunità commerciali disponibili per le aziende nel centrale mercato cul-
turale della televisione.
India
Iniziamo questa breve rassegna con l’India perché – per tutte le sue peculiari carat-
teristiche culturali e politiche – echeggia il modo in cui il neoliberismo fu introdot-
to in molti paesi industrializzati. Lo Stato indiano del dopoguerra fu il risultato di
un compromesso fra le concezioni indiane del potere statale e le aspirazioni a
modellare uno Stato nazionale secolare su modello europeo (qui si fa riferimento
al prezioso lavoro di Sinha, 2001).
Uno Stato altamente interventista e semi socialista presidiava una struttura di
mercato che favoriva i ricchi contadini, i capitalisti industriali e i professionisti.
Questi diversi gruppi sostenevano le misure protezioniste dello Stato ma, attraver-
so un finanziamento in deficit, lo Stato fu in grado di portare avanti alcune misu-
re populiste migliorative e ottenere così sufficiente legittimità fra la maggioranza
dei poveri delle aree urbane e rurali.
Questo assetto stava cominciando a dare segni di cedimento attorno agli anni
Ottanta e, quando – nel 1990-1991 – si presentò una grave recessione economica
e gran parte del resto del mondo guardò al mercato come alla presunta cura per
ogni problema, lo Stato indiano accettò un pacchetto neoliberista proposto dal
Fondo Monetario Internazionale (vedremo qui come le forze nazionali e interna-
zionali si combinarono per dare forma alla trasformazione politica) in cambio di
un prestito. Tanto da destra quanto da sinistra si sollevò un’opposizione, ma fu
tutto. Il risultato fu una massiccia deregulation, privatizzazione e apertura dei mer-
cati alla concorrenza globale.
Le telecomunicazioni furono «liberalizzate» dal 1994 in poi e il broadcasting fu
inserito nel pacchetto. Durante la diffusione del neoliberismo nei paesi industria-
lizzati era diventato del tutto evidente che il passaggio al mercato nelle telecomu-
nicazioni fosse un prerequisito per lo sviluppo di opportunità nel settore privato
delle industrie culturali.
L’India non è soltanto la più grande democrazia al mondo, ma è anche il paese
con la più grande classe media, che conta fra i 200 e i 250 milioni di persone (Thussu,
1999: 125) – un mercato potenzialmente immenso e lucrativo per le conglomerate
multinazionali dell’industria culturale. L’estensione al mercato del broadcasting
indiano dal 1991 in poi è estremamente significativa, allora, per queste conglomera-
te e l’audience indiana. Fino a quella data, la televisione indiana era costituita essen-
zialmente da un sistema statale a canale unico, spesso criticato per i suoi stretti rap-
porti con il partito dominante nel Congresso e per la sua notevole ottusità, ma con
importanti e spesso efficaci impegni verso gli ideali del servizio pubblico, fra cui la
diffusione nazionale e l’educazione (Thomas, 1998). La pubblicità fu ammessa sul
canale statale indiano, Doordarshan, dal 1976 in poi, ma – in un paese dominato dal
cinema – l’enorme potenziale della televisione come industria culturale comincio a
essere intravisto solo in occasione della messa in onda di due serie TV basate sui
poemi epici della religione indù, il Ramayana e il Mahabaratha (1987-1990).
Nel 1991, le trasmissioni satellitari transnazionali – fra cui quelle della CNN e di
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 139
STAR TV con base a Hong Kong (prima che venisse acquisita dalla News Corporation
di Murdoch nel 1993) – venivano ampiamente ricevute in India (Sinha, 1997). Il
risultato di ciò fu una considerevole esplosione di canali televisivi lungo tutti gli anni
Novanta, specie per quanto riguardava la pay-TV. Nel 1998 in India operavano quasi
70 stazioni via cavo e satellitari (Thussu, 1999: 127), molte delle quali, fra cui STAR,
all’inizio trasmettevano programmi «occidentali», ma che a partire dalla fine degli
anni Novanta si orientarono sempre di più verso contenuti locali.
All’interno del paese ci furono dei dibattiti sul fatto che questo fiorire di canali
televisivi rappresentasse una nuova diversità o piuttosto il soffocare sul nascere di
una sfera pubblica agli esordi. In questa sede non è possibile dare conto di questi
dibattiti in maniera approfondita, ma l’India mostra come l’estensione al mercato
abbia contribuito a dare avvio a una significativa internazionalizzazione. Questo
può essere osservato non solo nell’investimento delle conglomerate multinaziona-
li, come News Corporation in India, ma anche nella crescente presenza di emitten-
ti asiatiche, come l’indiana Zee TV, in Europa e negli Stati Uniti. Il significato di tali
complessi e nuovi flussi di cultura – che per buona parte sono il risultato del-
l’estensione al mercato – sarà preso in esame nel Capitolo 8.
Cina
La commercializzazione nel settore culturale e dei mezzi di comunicazione iniziò
negli anni Ottanta, ma subì un’accelerazione dopo l’epocale visita nel Sud della Cina
di Deng Xiaoping nel 1992. Lo Stato e i mercati sono ormai sempre più intrecciati.
Per dirla con le parole di Eric Kit-wai Ma, «i media – vivaci e vibranti dal punto di
vista commerciale – sono realmente essenziali per un governo stabile dello Stato»
(2000: 28). Le attività del tempo libero vengono incoraggiate allo scopo di stimolare
i consumi, e le fiorenti industrie culturali cinesi sono essenziali in tal senso.
Lo sviluppo delle industrie culturali come obiettivo economico e culturale strate-
gico fu segnalato nelle proposte del Partito Comunista Cinese per il suo decimo Piano
Quinquennale del 2001 – l’anno in cui la Cina entrò a far parte della World Trade
Organization. Uno degli obiettivi principali della politica dei mezzi di comunicazione
– come accade per molti altri aspetti della politica governativa cinese – era quello di
costruire grandi aziende cinesi che potessero competere nell’economia globale.
Lo Stato monopartitico, che mantiene un rigoroso controllo sulle comunicazioni,
sta introducendo varie riforme, che vengono fortemente contrastate e provocano
forti tensioni fra il Partito e lo Stato. I risultati di queste riforme sono tuttavia evi-
denti: una chiara forma di economia di mercato, su vasta scala, e un «capitalismo del
monopolio burocratico» (Zhao, 2003: 62) con un ampio numero di nuovi arrivati,
spesso associati ad aziende non cinesi, ma sotto il controllo dello Stato monopartiti-
co. Nel frattempo, le industrie culturali non cinesi si sfregano le mani soddisfatte
davanti alla prospettiva di nuovi mercati all’interno del paese – non tanto per una
proprietà diretta e immediata, quanto piuttosto nella prospettiva di nuove e vaste
opportunità una volta che si saranno ricavate uno spazio nelle joint-venture.11
Zhao (2003) sostiene convincenti argomenti contro due contesti dominanti per la
comprensione di questi cambiamenti. Il primo è che quello del nazionalismo cinese,
che – enfatizzando la necessità di costruire delle conglomerate industriali cinesi –
manca di notare che le «classi popolari» (operai e contadini) sono doppiamente messe
da parte a causa del controllo politico e della disuguaglianza economica. Il secondo è
11
Lo studioso dei media Colin Sparks qualche anno fa (2003) scrisse che le aziende legate ai mezzi
di comunicazione occidentali, a parte la News Corporation, non erano interessate alla Cina.
Adesso le cose stanno cambiando. Viacom e CNBC Asia Pacific hanno firmato degli accordi con
Shanghai Media Group, anche HBO e National Geographic sono entrate in joint-venture e
Rogers Broadcasting (Canada) si è unita a Sun Wah Media (Little, 2005).
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 141
il contesto democratico, particolarmente forte a Hong Kong e oltre i confini cinesi, che
sovrastima i conflitti fra il capitalismo globale e il capitalismo burocratico cinese.
America Latina
Nel frattempo, l’America Latina passò attraverso transizioni correlate, ma di genere
diverso, negli anni Ottanta e Novanta. La propaganda statunitense del periodo della
Guerra Fredda opponeva spesso al blocco sovietico il concetto di «mondo libero», ma
– a metà degli anni Settanta – sotto i regimi militari dell’America Latina (il «retro»
degli Stati Uniti) vivevano più persone di quante non ne contassero l’intera Unione
Sovietica e l’Europa Orientale messe assieme. La maggior parte dei sistemi televisivi
erano per lo più commerciali, sull’esempio degli USA, ma erano soggetti a un regi-
me autoritario piuttosto che al sistema del servizio pubblico, mentre gli organismi di
controllo e i proprietari erano spesso in stretta alleanza con le autorità militari (si
veda il Capitolo 8 a proposito dell’azienda brasiliana Globo).
Influenzati dalle critiche all’«imperialismo culturale», molti governi democrati-
ci e autoritari dell’America Latina cercarono di proteggere le loro nascenti indu-
strie televisive dalle importazioni e degli investimenti diretti americani negli anni
Sessanta e Settanta. Tuttavia, all’epoca dei neoliberisti anni Ottanta e Novanta,
quando si intensificò l’internazionalizzazione delle televisioni, gli esperimenti con
alternative finanziate dallo Stato furono ampiamente screditati a causa della loro
associazione con i regimi militari degli anni Sessanta e Settanta (Waisbord, 1998).
Il risultato è stata la mancanza di una sostanziale resistenza alla commercializ-
zazione culturale in quella parte del mondo, persino da parte della sinistra.
L’introduzione della televisione satellitare sta trasformando il panorama del broad-
casting in America Latina, ma in termini favorevoli alle partnership fra le aziende
latinoamericane dominanti e le grandi aziende transnazionali dell’industria cultu-
rale (si veda Sinclair, 2004: 87-90).
Per riassumere
Questi cambiamenti da una parte hanno consolidato dei processi lungo il cammi-
no, dall’altra hanno portato una considerevole fetta della popolazione mondiale
nel raggio d’azione delle aziende che vogliono trarre profitto dalla produzione e
dalla diffusione della cultura. Tutto ciò ha accresciuto l’importanza delle industrie
culturali nelle previsioni di finanzieri e uomini d’affari.
Nelle ultime due sezioni ci siamo concentrati sugli sviluppi nella politica del bro-
adcasting, ma non dobbiamo dimenticare il ruolo determinante che la commercia-
lizzazione delle telecomunicazioni ha svolto nella storia di questo capitolo. I cam-
142 CULTURAL INDUSTRIES
Convergenza
Dai primi anni Ottanta in poi, i politici e gli analisti avevano prospettato una con-
vergenza fra telecomunicazioni, computer e mezzi di comunicazione (un esempio
molto influente fu Pool, 1983, cui si è già fatto riferimento). Si prospettava che
l’informazione e l’intrattenimento sarebbero stati consumati in misura sempre
maggiore attraverso una sorta di ibrido fra computer e apparecchio televisivo, e
trasmessi via cavo, satellite e linee telefoniche, così come attraverso le onde radio,
o al posto di esse. Tale convergenza è ancora molto lontana dal realizzarsi, persino
nei paesi dalle economie più fiorenti, ma l’idea della convergenza alimentò molti
dei più recenti cambiamenti nelle industrie culturali di cui ci occupiamo nel pre-
sente volume. È tuttavia piuttosto progredita dal momento in cui sono avvenute
importantissime fusioni e alleanze fra settori diversi, fra cui l’acquisizione da parte
di AT&T della TCI (1999) e la fusione fra AOL e Time Warner (2000-2001). Molte
nuove tecnologie sono state introdotte perché le aziende ritengono che tali con-
vergenze comporteranno profitti, specie provenienti dalle varie forme di digitaliz-
zazione e dalla fornitura di canali di telecomunicazioni a banda larga (si veda
Capitolo 9). Dal momento che le potenti aziende, che producono posti di lavoro e
prestigio, intravedono profitti, i politici nazionali hanno introdotto delle politiche
che spianano la strada a ulteriori tornate di attività finalizzate alla convergenza.
In tal senso, il più importante atto legislativo è stato lo US Telecommunications
Act del 1996 (si veda Aufderheide, 1999, per una contestualizzazione e una rasse-
gna indispensabili). L’Atto consolidò la percezione delle convergenze emergenti e
spianò loro la strada principalmente in tre modi.
Primo, permise alle compagnie telefoniche locali della Bell create dalla dismis-
sione di AT&T di entrare nei mercati della lunga distanza, pretendendo in cambio
la concorrenza nei loro territori. Ciò consentì a queste enormi compagnie di acce-
dere a vasti mercati delle nuove tecnologie delle comunicazioni. Alla vigilia della
promulgazione dell’Atto, le Baby Bell divennero attori di primo piano, dal
momento che una serie di massicce fusioni nel campo delle telecomunicazioni
«sembrava presagire una riduzione dalle esistenti 10 o 12 grandi compagnie tele-
foniche, a circa quattro principali sopravvissute. Le sette Baby Bell regionali si sta-
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 143
vano fondendo a formare due o tre grandi attori del panorama delle comunicazio-
ni regionali» (Tunstall e Machin, 1999: 56). 12
In secondo luogo, fornì una legislazione enormemente favorevole alle aziende
dell’industria culturale che dominano il broadcasting negli USA. Lo spettro di fre-
quenze libero fu allocato alle principali emittenti per la televisione digitale, che
norme minori e difficili da applicare impedivano venissero usate per servizi non
legati alla comunicazione. Le nuove regole facilitarono il rinnovo delle licenze di
broadcasting, la cui durata venne estesa, conferendo alle aziende un nuovo con-
trollo su uno snodo vitale nelle nuove industrie culturali oggetto di convergenza.
Questi cambiamenti fecero di loro dei partner chiave nelle nuove fusioni e allean-
ze di convergenza.
In terzo luogo, l’Atto favorì le esistenti aziende di TV via cavo allentando la
regolamentazione delle tariffe e consentendo alle compagnie telefoniche di entra-
re nel mercato della tecnologia via cavo per fornire dei contenuti. Il Cable Act del
1984 aveva eliminato la regolamentazione dei prezzi e ridotto i poteri dei governi
locali rispetto alle richieste di strutture di servizio pubblico agli operatori. Nel 1992
il settore dovette essere nuovamente regolato, dal momento che i suoi prezzi erano
ancora una volta saliti vertiginosamente e il settore era diventato profondamente
impopolare presso pubblico e politici. L’Atto del 1996 eliminò ancora una volta
queste regolamentazioni, rendendo effettivi i cambiamenti dal 1999 e portando, in
quell’anno, a consistenti aumenti dei prezzi.13
L’Atto fu immediatamente seguito da un massiccio consolidamento e da un
commercio frenetico,contribuendo a spianare la strada a un’ondata di colossali
fusioni nei tardi anni Novanta (si veda Capitolo 6), dal momento che ridusse dra-
sticamente le barriere al consolidamento, alla proprietà trasversale e all’integrazio-
ne verticale. Esso rappresenta l’apice del trend verso la commercializzazione negli
USA – custodito gelosamente nella legislatura piuttosto che incarnato nella rego-
lamentazione.
12
Questo fu ciò che accadde in una serie di complesse fusioni, dalle quali il nome Bell non scom-
parve affatto. Una delle Baby Bells acquisì la sua vecchia genitrice, la AT&T, nel 2006.
13
Sono debitore a Chad Raphael per questo e molti altri importanti aspetti di questo capitolo.
144 CULTURAL INDUSTRIES
sando delle quote massime relative all’esportazione dei contenuti al fine di limita-
re la concentrazione. Tutte queste organizzazioni operano allo scopo di consentire
il libero scambio fra gli Stati membri. Dal momento che un’economia di mercato
tende a favorire le aziende e le nazioni più ricche e potenti, alcune di queste orga-
nizzazioni hanno incontrato la forte opposizione di gruppi di attivisti – si ricorde-
ranno ad esempio le azioni intraprese contro la WTO a Seattle nel novembre-
dicembre 1999. Le industrie culturali sono state escluse da alcuni di questi accor-
di sul libero scambio allo scopo di proteggere la diversità culturale isolando le
industrie culturali nazionali dagli effetti delle esportazioni culturali provenienti
dagli USA. Il più importante di questi esempi riguarda le misure protezionistiche
che condussero all’esenzione delle industrie culturali canadesi dal NAFTA e le
disposizioni all’interno del GATS per le industrie culturali (sostenute dall’UE su
pressione della Francia). Tuttavia, la spinta politica generale di questi organismi è
stata verso una massiccia economia di mercato.
Questo aspetto è illustrato dal caso dell’UE che, di tutti gli organismi internazio-
nali nominati, è quello maggiormente modellato dal concetto social-democratico di
pubblico interesse, i cui sostenitori hanno esercitato pressioni continue sui propo-
nenti della deregulation e ottenuto occasionali vittorie, anche se c’è stata comunque
un’inesorabile tendenza verso la commercializzazione. Gli organi politici dell’UE si
sono discostati dalla legislazione settore per settore riguardo l’impatto sociale dei
media e si sono portati verso una regolamentazione nella quale le telecomunicazio-
ni, i computer e i mezzi di comunicazione sono governati da una generale legislazio-
ne sulla concorrenza e i regolatori ne assicurano l’osservanza (Østergaard, 1998).
L’ESTENSIONE AL MERCATO NELLE TELECOMUNICAZIONI E NEL BROADCASTING 145
14
Come le battaglie fra il Directorate General (DG) X per le Comunicazioni, la Cultura e i Mezzi
di Comunicazione Audiovisiva, e il DG XIII sulle Telecomunicazioni.
146 CULTURAL INDUSTRIES
APPROFONDIMENTI
Irony of Regulatory Reform di Robert Horwitz (1989); il manuale di storia del broad-
casting negli USA di Sterling e Kittross, Stay Tuned (3a edizione, 2002); Selling the
Air di Thomas Streeter (1996).
Utili affermazioni sui principi soggiacenti il servizio pubblico radiotelevisivo
provengono dal testo di Michael Tracey, The Decline and Fall of Public Service
Broadcasting (1998), dai capitoli di Jay Blumler (1992), Kees Brants e Karen Siune
(1992). Dei molti e utili studi comparativi sulla politica nazionale dei mezzi di
comunicazione pubblicati negli anni Novanta, il più pregevole (e leggibile) è quel-
lo di Peter J. Humphreys (1996).
L’opera di Jeremy Tunstall contiene molte idee illuminanti sulla politica cultu-
rale e dei media, sebbene manchi della contestualizzazione teorica. Communications
Deregulation (1986) e Liberating Communications (scritto con Michael Palmer, 1990)
sono oggi molto datati, ma ricchi di dettagli storici, mentre The Anglo-American
Media Connection scritto con David Machin (1999) aggiorna l’opera precedente.
Un incoraggiante sviluppo negli studi sui mezzi di comunicazione è la pubblica-
zione delle raccolte che si occupano della storia delle politiche e dei mezzi di comu-
nicazione in paesi al di fuori dell’Europa e del Nord America. Le seguenti raccolte
sono particolarmente utili: Television: An International History (1998) di Anthony
Smith e Richard Paterson; De-Westernizing Media Studies (2000) di James Curran e
Myung-Jin Park; e Media and Globalization (2001) di Nancy Morris e Silvio
Waisbord.
La politica delle comunicazioni nell’era delle organizzazioni politiche interna-
zionali costituisce un’importante area di lavoro futuro. L’articolo di Hernan
Galperin del 1999 era all’avanguardia. From Satellite to Single Market (1998) di
Richard Collins è uno studio rigoroso degli aspetti centrali della politica dell’UE.
Global Media Governance di Ó Siochrú e Girard è una risorsa eccellente.
Infine, un capitolo di Nicholas Garnham (1998) sulla «Politica dei Media» for-
nisce una panoramica incisiva e acuta, com’è tipico di questo autore, delle temati-
che di questa importante area.
(N.d.C.) Per una bibliografia in lingua italiana sulla politica, la legge e la regola-
mentazione delle comunicazioni e sull’evoluzione e il passaggio dal sistema mono-
polistico al duopolio in Italia si suggerisce la lettura di:
Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia : costume, società,
politica (2006, 5° edizione); Francesca Anania, Breve storia della radio e della televisio-
ne italiana (2004); Aldo Grasso, La tv del sommerso. Viaggio nell’Italia delle tv locali
(2006) e Storia della televisione italiana (2000).
Sull’avvento delle nuove forme di broadcasting un’utile lettura è Bino Olivi,
Bruno Somalvico, La nuova Babele elettronica. La TV dalla globalizzazione delle comuni-
cazioni alla società dell’informazione (2003).
Sulla regolamentazione del settore della comunicazione: Roberto Mastroianni,
Riforma del sistema radiotelevisivo italiano e diritto europeo (2004) e Roberto Zaccaria,
Diritto dell’informazione e della comunicazione (2007, 6° edizione).