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MARIAGRAZIA FRANCHI, L’AUDIENCE

Introduzione. Per un ’ archeologia degli studi sull’ audience.

1. “Divide et impera”: tassonomie e riflessioni sulla nozione di audience

Entrati nella fase matura o di “normalizzazione” dei saperi, gli audience studies sviluppano una serie di
pratiche autoriflessive, volte a valutare la tenuta delle categorie e dei quadri teorici elaborati. L’analisi
lessicografica costituisce la prima e la principale fra queste pratiche; il suo obiettivo è di precisare il
significato dei termini impiegati nel dibattito, a partire dalla nozione di audience, che viene definita in se
stessa e in relazione a una serie di altri vocaboli: pubblico (public), spettatore (spectator), fruitore (viewer),
consumatore (consumer), utente (user) e così via.

1.1. Mercato vs./vel pubblico

Il dibattito intorno alla nozione di audience si struttura intorno a due principali questioni: quali sono le
forme e le manifestazioni dell’audience – e qual è, quindi, il campo di pertinenza degli studi omonimi – e
quali sono le implicazioni disciplinari e, più in generale, culturali dell’impiego di tale nozione. L’operazione di
tassonomizzazione dell’audience prende le mosse da una prima fondamentale distinzione: quella fra
audience stricto sensu e audience come pubblico. Nel primo caso si pensa ai fruitori come a consumatori di
prodotti: sia dei programmi e dei contenuti mediali, sia dei “prodotti che sono pubblicizzati attraverso quei
programmi”; l’audience, inoltre, è considerata alla stregua di un prodotto essa stessa, da misurare,
classificare e vendere agli investitori pubblicitari. Nel secondo caso, l’audience è intesa come pubblico,
insieme di cittadini “che devono essere orientati, educati, informati, tanto quanto intrattenuti
presumibilmente per renderli capaci di assolvere al meglio i loro doveri democratici”.
Sia l’audience come mercato, sia l’audience come pubblico sono oggetto di ulteriori classificazioni.
Grossberg, Wartella e Whitney (1998) ce ne offrono un’efficace sintesi. Le audience in senso stretto sono
“identificate” sulla base di quattro principali criteri: il tipo di prodotti preferiti e consumati (market type); il
profilo socio-demografico (demographics); gli orientamenti culturali (taste culture) e gli stili di vita (life style
clusters). L’analisi delle audience è funzionale a guidare le scelte editoriali delle emittenti e a indirizzare i
loro investimenti pubblicitari; essa è dunque strumentale e sottomessa alle esigenze del mercato.
Sempre Grossberg, Wartella e Whitney (1998) individuano quattro declinazioni dell’audience come
“pubblico”: l’individuo, cioè colui che “rende pubblici” i propri giudizi, l’aggregato, cioè un insieme di
soggetti che condividono consumi e preferenze; il pubblico in senso stretto, ovvero comunità di fruitori, che
cercano un rapporto dialettico e di confronto con i media e si organizzano in gruppi di pressione per
esercitare un’influenza sulle loro scelte editoriali e politiche culturali; e infine i cittadini, cioè coloro che si
rivolgono ai media per essere rappresentati o perché essi rappresentino “correttamente” la realtà.
Va detto che le classificazioni di audience più recentemente elaborate tendono a fondere le due aree
semantiche dell’audience in senso stretto e dell’audience come pubblico, sottolineando la possibilità per un
fruitore di essere, a un tempo, consumatore e cittadino. Il superamento della polarizzazione fra audience e
pubblico permette di arricchire il quadro interpretativo della ricerca, evidenziando la necessità, per le
ricerche di carattere amministrativo, di tenere sotto controllo le implicazioni culturali e politiche delle loro
scelte; e l’esigenza, per le ricerche di carattere sociale, di considerare la sostenibilità economica dei progetti.
Questa operazione si accompagna a un allargamento del perimetro della nozione di audience, che include
programmaticamente fra le sue accezioni anche quelle elaborate nell’ambito delle teorie degli effetti forti o
del dibattito di primo Novecento. Michele Sorice (2009: 217), per esempio, individua quattro idee correnti
di audience: l’audience come massa manipolabile di individui più o meno attivi (che fa capo alle teorie della
trasmissione e alla Scuola di Francoforte); l’audience come pubblico di cittadini coscienti dei loro diritti
(propria delle teorie degli effetti limitati e degli Usi e Gratificazioni); l’audience come insieme di mercati con
caratteristiche socio-demografiche (impiegata dalle istituzioni mediali e nelle ricerche amministrative) e
l’audience come partner interattivo della comunicazione, capace di esercitare un controllo sui processi
comunicativi, tipica delle teorie della ricezione. Questo allargamento ai modelli elaborati nell’ambito delle
teorie degli effetti forti si ripercuote evidentemente sugli studi dell’audience, estendendo il loro campo di
pertinenza e il novero delle questioni con cui essi devono fare i conti (Livingstone, 1998a).

1.2. I limiti dell’audience

Il discorso sulle audience denuncia tre limiti che paiono non emendabili. Il primo è l’astrattezza e la distanza
dalla realtà. Le immagini di audience elaborate dalle istituzioni mediali, come dai centri di ricerca e
dall’università, colgono solo alcuni tratti e illuminano alcune caratteristiche dei fruitori. Lo scarto fra il
dibattito sull’audience e le forme e le manifestazioni concrete che essa assume è talmente ampio che
Martin Baker (1998: 186) arriva a sostenere che i concetti utilizzati dalle istituzioni per qualificare le
audience hanno “significati antitetici” rispetto all’esperienza e ai racconti dei fruitori. Per esempio, i termini
“esposizione” e “consumo” vengono impiegati in ambito accademico per denotare un tipo di esperienza di
fruizione che ha effetti “pesanti” sulle audience; mentre nell’uso comune essi descrivono esperienze patite
(“essere esposti a”) e che generano, di conseguenza, un comportamento attivo, di rifiuto o di ribellione da
parte dei soggetti; ovvero esperienze scarsamente rilevanti (“consumare”), che non lasciano traccia nel
fruitore. In secondo luogo, le rappresentazioni dell’audience sono considerate proiezioni dei bisogni delle
istituzioni che le elaborano; esse hanno un valore strumentale: sono un costrutto “indispensabile alle
operazioni di routine dei media” (McQuail, 1997: 44) o, come più radicalmente afferma Ian Ang (1991: 32),
degli strumenti di controllo, utilizzati dalle imprese e dalle istituzioni per “colonizzare” il pubblico televisivo
e mediale. La stessa operazione di semplificazione delle rappresentazioni di audience – Martin Allor (1988)
parla di “realismo ingenuo” – serve a gestire con maggiore facilità le relazioni con i fruitori. In questo senso,
l’audience e i suoi significati hanno dunque una valenza ideologica: sono “invisibili finzioni”, “categorie
prodotte istituzionalmente e costruite socialmente” e che favoriscono l’elaborazione di “conoscenze
strategicamente utili”. La natura ideologica delle definizioni di audience spiega la loro impermeabilità alla
realtà esterna: alla sua complessità e ai cambiamenti che la attraversano. La mancanza di attenzione per le
specificità individuali, per esempio, non è una svista, ma l’espressione di un insieme di interessi che
impongono di descrivere l’audience come “collettività classificabile”, “aggregato” o “massa” e non come
insieme di singoli individui con specifiche caratteristiche (Ang, 1991: 85).
Per quanto le rappresentazioni dell’audience siano dunque astratte, ben altra cosa dall’audience reale, esse
funzionano da profezie autoavverantesi. il lavoro di definizione e di classificazione delle audience, per
quanto artificioso, cambia il modo di pensare la società e contribuisce a far emergere nuove figure e a
generare nuovi assetti sociali. In questa stessa prospettiva, la mancanza di attenzione da parte degli uffici
marketing o degli istituti di ricerca per alcuni soggetti o gruppi sociali, considerati irrilevanti in termini di
consumo o poco strategici sotto il profilo delle politiche culturali, dà luogo a processi di discriminazione:
esclusi dalla compagine dell’audience, anziani, disabili, poveri... scompaiono infatti anche dal corpo sociale,
negletti dai media e dalle istituzioni (Willis, Wollen, 1990).

1.3. Una categoria imperitura

Il concetto di audience conserva un suo indubbio valore anche nel panorama degli studi più recenti. In
primo luogo, l’uso della nozione di audience consente di mantenere vivo il legame con l’estesa tradizione di
ricerca sui consumi e sui fruitori che precede la diffusione delle tecnologie digitali, dando così un respiro
ampio alle interpretazioni dei fenomeni e delle realtà emergenti. Analizzare le esperienze di fruizione e i
fruitori contemporanei ricorrendo al repertorio di categorie degli studi sulle audience significa non solo
collocare in prospettiva alcuni processi (come le pratiche interattive, che tendono oggi ad essere
sovradimensionate), ma anche leggere più in profondità gli accadimenti e cogliere le macrodirettrici di
sviluppo dell’esperienza mediale. In seconda istanza, la strutturale ambivalenza del concetto di audience,
che prevede la possibilità per lo spettatore di occupare posizioni diverse rispetto al medium e di attivare
relazioni più o meno attive, ne fa una categoria particolarmente efficace per dare conto della complessità
delle esperienze mediali contemporanee. Scegliere di parlare ancora di audience – e non invece di
prosumer (Toffler, 1980) o di produser (Bruns, 2008a) o di Pro-Am (Leadbeater, Miller, 2004) –, in questo
senso, sottende una precisa presa di posizione teorica: il riconoscimento della varietà delle pratiche di
fruizione, ma anche e più radicalmente, la volontà di riconoscere il pieno statuto di fruitore anche a chi non
adotti una condotta di tipo partecipativo. L’uso della nozione di audience (in alternativa, ad esempio, a user)
permette di valorizzare la pluralità delle soggettività che compongono il pubblico. Parlare di audience
significa quindi anche assumere un punto di osservazione che naturalmente invita a considerare le variabili
soggettive e dell’identità come centrali nei processi di fruizione. Per quanto, quindi, l’onomastica del
fruitore di media si sia arricchita di molti nuovi termini, la categoria di audience mantiene intatto il suo
portato euristico: la capacità di contenere la complessa fenomenologia della comunicazione mediale e di
cogliere le implicazioni e le criticità del rapporto con i dispositivi della comunicazione e con la loro proposta
culturale.

2. Da manuale: gli audience studies fra modelli epistemologici e contesti disciplinari

L’incertezza sui confini degli studi sulle audience è da imputare in primo luogo alla eterogeneità dei criteri
adottati per ricostruire il dibattito e segnatamente all’impiego di due modelli epistemologici opposti: un
modello esteso e inclusivo, che tende a considerare come pertinente al campo di studio l’intero arco delle
ricerche sui media e che teorizza l’esistenza di una linea di indagine sulle audience che percorre tutta la
riflessione sulla comunicazione; e un modello specialistico o esclusivo, che si concentra solo su quei
contributi che pongono la questione delle audience esplicitamente al centro della loro azione speculativa e
di ricerca e che tende pertanto a considerare gli audience studies come una stagione, delimitata
temporalmente, e un approccio nel più ampio novero delle ricerche sui media. In secondo luogo, la
difficoltà a definire il campo di pertinenza degli studi sulle audience è l’esito del loro carattere
interdisciplinare. Sebbene siano state le ricerche sui media elettronici a imprimere il maggiore impulso agli
audience studies, la riflessione sui pubblici e sulle pratiche di fruizione ha dato vita a robuste tradizioni di
ricerca anche nell’ambito degli studi filmici e letterari, nei visual studies e nelle ricerche sulle pratiche video
ludiche. Questa disseminazione, se per un verso è stata un fattore di arricchimento, per un altro rende il
lavoro storico ed epistemologico sul dibattito estremamente complesso, a partire dall’individuazione delle
ricerche e dei contributi che possono essere legittimamente etichettati come studi delle audience.

2.1. Modelli inclusivi e modelli esclusivi

Il primo fattore che rende complesso definire che cosa sono gli studi sulle audience è il modello
epistemologico che viene adottato nella ricostruzione del dibattito. Primo in ordine di apparizione, il
modello esclusivo si lega strettamente a un progetto di canonizzazione degli studi sull’audience. Dietro
l’obiettivo di messa in ordine del dibattito, di molti dei contributi pubblicati all’inizio degli anni Novanta, si
intravvede infatti lo sforzo di identificare un campo di ricerca, attraverso la definizione delle sue categorie
chiave (a partire dalla nozione di audience), dei suoi fuochi di attenzione, delle sue opzioni metodologiche e
dei suoi autori di riferimento. Emblematici di questa modalità di “racconto” degli studi sull’audience sono
due testi, pubblicati entrambi nel 1993. Il primo è il testo di Shaun Moores, Interpreting Audiences, tradotto
in italiano con un titolo persino più incisivo, se si pensa all’intento di legittimazione del campo di ricerca: Il
consumo dei media. Nel suo testo, Moores propone una cartografia di oggetti, approcci e studiosi che
definiscono l’ambito specifico di studio delle audience e che lo istituiscono quale nuovo e promettente
capitolo delle ricerche sulla comunicazione. In particolare, Moores indica nell’opzione per una metodologia
radicalmente qualitativa il tratto distintivo degli audience studies: la scelta di impiegare il metodo
etnografico marca lo scarto fra la nuova stagione delle ricerche sui media e le teorie e i paradigmi
precedenti. Inoltre Moores identifica alcune aree di indagine elettive: l’ideologia e i modelli della lettura
resistente; la riflessione sul gusto e sulla rilevanza dei tratti soggettivi e del contesto sociale nelle pratiche di
fruizione e gli studi sulle tecnologie della comunicazione e sui processi di appropriazione a cui sono
sottoposte. L’idea di fondo è che gli audience studies rappresentino la forma più progredita e matura di
studio dei media e il paradigma dominante dagli anni Ottanta in avanti. Più prudente è la lettura che Judith
Mayne (1993) propone del dibattito sullo spettatore e la spettatorialità all’interno degli studi sul cinema. In
Cinema and Spectatorship, Mayne persegue un obiettivo analogo a quello di Moores: rendere riconoscibile
gli studi sullo spettatore cinematografico e valorizzare la loro ricchezza e articolazione interna. Anche in
questo caso, una ricognizione attraverso i principali contributi e autori che si sono preoccupati di
comprendere la peculiare relazione che lo spettatore istituisce con il dispositivo-cinema consente a Mayne
di portare in evidenza la ricchezza di questo campo di ricerca e di identificarne le direzioni e le principali
tappe di sviluppo. Mayne adotta un tono più misurato, attribuendo agli studi sullo spettatore e
sull’esperienza di visione una funzione ancillare, strumentale a supportare una nuova idea di dispositivo
piuttosto che a definire un cambiamento di paradigma o ad avviare una nuova stagione dei film studies.
La seconda prospettiva da cui è possibile guardare al dibattito sull’audience si caratterizza, all’opposto, per
un’estensione del campo di pertinenza. Esempio paradigmatico di modello inclusivo è la proposta di
Nicholas Abercrombie e Brian Longhurst (1998). I due studiosi identificano tre fasi nel dibattito sulle
audience: la fase “comportamentista”, che fa capo elettivamente alle teorie degli effetti forti, e che viene
associata a un’immagine di audience atomizzata: singoli individui che si relazionano con i media, spesso
patendone le influenze, tipica dei primi decenni del Novecento; la fase dell’“incorporazione/resistenza”, che
corrisponde approssimativamente agli studi sulla ricezione degli anni Ottanta, e che sottende un’idea di
audience socialmente connotata: fruitori che si relazionano ai media attingendo alle conoscenze, ai
convincimenti, ai modelli appresi all’interno dei gruppi sociali di appartenenza; e la fase dello
“spettacolo/performance”, propria delle teorie dei media più evolute, che considerano gli strumenti della
comunicazione come parte integrante del mondo di vita dei fruitori e la fruizione come un’interazione
complessa e articolata, in cui chi fruisce si trova nella condizione di attore della comunicazione mediale. La
prospettiva inclusiva, dunque, accompagna e orienta lo sforzo di sintesi che attraversa gli studi sull’audience
a cavallo fra vecchio e nuovo millennio (McQuail, 1997; Abercrombie, Longhurst, 1998; Ruddock, 2001;
Livingstone, 2005a). L’approccio estensivo, di contro, risponde all’esigenza di affrancare gli studi
sull’audience da un preciso paradigma (quello resistenziale degli anni Ottanta) che è ormai superato, e di
mostrare la loro praticabilità all’interno di contesti teorici e modelli interpretativi eterogenei e in diversi
momenti della storia dei media, compreso quello presente. Va precisato che lo sguardo estensivo si
rintraccia quasi esclusivamente nel dibattito sulla televisione e sui media, mentre è sostanzialmente assente
dagli studi filmici e da altre tradizioni di ricerca in cui lo studio del fruitore e della sua esperienza non si
propone come paradigma dominante, presentandosi piuttosto come una linea di riflessione complementare
a un sistema di saperi che risulta comunque e sempre centrato altrove.

2.2. Una tradizione (inter)disciplinare

La seconda variabile che rende complesso perimetrare il campo di studi è il tratto marcatamente
interdisciplinare della riflessione sulle audience. In particolare gli studi sulle audience possono presentarsi
sotto tre forme:

- paradigma di ricerca: è quanto accade fra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta all’interno degli
studi sulla televisione e sui media. L’attenzione ai fruitori, alla loro identità e alle loro pratiche d’uso
introduce infatti ad una nuova stagione, caratterizzata dallo spostamento del baricentro della
riflessione dal medium al fruitore e dall’opzione per metodi di indagine qualitativi.
- campo di indagine: fa capo a metodi e a frames interpretativi diversi, e il cui comune denominatore
è l’oggetto su cui si esercita la riflessione e l’attività di ricerca; è il caso delle teorie e delle analisi
prodotte nell’ambito dei film studies, dove lo studio dello spettatore e dell’esperienza di visione
sono riconosciuti come un settore autonomo, che rimanda tuttavia a paradigmi teorici diversi e si
caratterizza per l’adozione di approcci metodologici eterogenei: dallo studio dell’apparato e del
testo con l’intento di ricostruire le strategie di “posizionamento” dello spettatore; alle indagini
quantitative sulle audience e sui consumi di cinema in determinati contesti e periodi; all’analisi dei
processi di ricezione che gruppi di spettatori mettono in opera; e così via.
- linee di studio: funzionali a progetti di ricerca diversi per obiettivi, metodo e frames interpretativi, e
tendenzialmente separate le une dalle altre. È lo statuto che assumono gli studi sui fruitori nelle più
recenti ricerche sui media. Qui l’analisi dell’audience è preliminare e strumentale a percorsi di
indagine che puntano ad altri obiettivi: valutare il portato politico e civico dell’esperienza mediale;
misurare il potenziale produttivo degli utenti, promossi ad attori del processo creativo; formulare
delle previsioni sulle aspettative di vita e le possibili direzioni di sviluppo di dispositivi e tecnologie,
eccetera.

In tutti i casi, la ricerca sulle audience non viene riconosciuta come un campo autonomo, bensì come parte
e al servizio di altri campi di indagine.

3. Come studiare le audience

Scorrendo la letteratura, ormai copiosa, si possono individuare tre modelli di studio delle audience che
nascono dalla combinazione di due coppie di variabili: approccio storico o sincronico, ricostruzione
enciclopedica o analisi per prelievi. Il primo modello è quello che possiamo definire della grande storia. Esso
combina la vocazione enciclopedica con una lettura in chiave evolutiva delle teorie e dei metodi della
ricerca sull’audience. Un esempio, già citato, di “grande storia” è il compendio delle teorie dell’audience
proposto da Abercrombie e Longhurst (1998) o, nell’ambito delle ricerche sulla spettatorialità
cinematografica, la ricostruzione di Judith Mayne (1993). Il punto di forza dell’approccio storiografico è la
proposta di un frame interpretativo compatto e l’individuazione della ratio che si presume guidi la
trasformazione delle teorie e/o delle audience: Abercrombie e Longhurst, per esempio, spiegano la
trasformazione delle audience attraverso la combinazione di una rosa di fattori che comprende il tipo di
relazione che gli spettatori intrattengono fra loro e con il medium; l’identità del medium e la struttura delle
istituzioni mediali; le dimensioni della vita sociale implicate nell’esperienza di fruizione. L’articolazione di
questi elementi determina il passaggio dalle audience pre-mediali, all’audience di massa, fino ad arrivare
alle audience diffuse. La proposta di Abercrombie e Longhurst mostra anche il lato debole del paradigma
della “grande storia”, che incorre nel rischio di ontologizzare e di generalizzare la teoria. È quello che accade,
secondo Janet Staiger (2000), anche ad alcune influenti storie della spettatorialità cinematografica, che
deducono i profili degli spettatori e le forme della loro esperienza di visione dalla riflessione teorica sul
dispositivo cinematografico e sui suoi stadi di sviluppo e che propongono un’associazione biunivoca fra fasi
della storia del cinema e tipologie di audience: così il cinema delle origini è associato a un tipo di visione
epidermica, che tende a fermarsi alla superficie del testo e a uno spettatore che si lascia attrarre e stupire; il
cinema classico è associato a una visione focalizzata e immersiva, che induce lo spettatore a identificarsi con
il film e a un’audience atomizzata; e il cinema postmoderno si caratterizza per uno sguardo multicentrico e
per un tipo di esperienza di visione e di profilo di spettatorialità che richiama per più aspetti quello del
cinema delle attrazioni. A questo modello, Staiger oppone la necessità di un’analisi empirica delle pratiche
di visione e delle audience, che colga l’eterogeneità dei profili e delle forme e la utilizzi come criterio per
riperiodizzare la storia del cinema. Il secondo modello impiegato nell’analisi delle audience è quello che
possiamo definire cartografico. Esso sposa la sistematicità dell’esplorazione con un’attenzione per gli aspetti
teorici o di metodo. Il suo obiettivo è di ricostruire lo stato dell’arte, in una determinata fase della storia del
dibattito o in relazione a uno specifico ambito. Di norma il modello cartografico adotta una prospettiva
sincronica e sceglie la formula dell’antologia o della raccolta di saggi, intrecciando prospettive
metodologiche e teoriche diverse. I due volumi che compendiano i risultati dell’ampio progetto di ricerca
europeo sulla trasformazione delle audience e delle società (Transforming Audiences. Transforming
Societies), sono un esempio di analisi cartografica (Carpentier, Schrøder, Hallett, 2013; Patriarche et al.,
2013). I due testi strutturano, infatti, gli attuali studi europei sulle audience intorno a una serie di nodi che
definiscono i settori di ricerca considerati cruciali per la disciplina. Il modello cartografico permette dunque
di gettare uno sguardo onnicomprensivo sul dibattito, sebbene di norma con riferimento a un arco
temporale limitato, e di rendere evidenti le politiche di ricerca della disciplina: gli approcci dominanti, le
aree che si vogliono presidiare, le metodologie su cui si investe. Da ultimo, il modello per exempla propone
una lettura sintomatica delle teorie e delle ricerche sull’audience. Esso procede per prelievi, attraverso
l’individuazione di studi di caso che si considerano indicativi di alcune e promettenti direzioni di studio.
Molti testi pubblicati negli ultimi anni adottano questo modello, che propone una ricognizione meno
sistematica, ma in cambio stimolante, per l’eccentricità degli approcci, che non devono necessariamente
rientrare in un canone.

I. Le audience in cattività

All’inizio degli anni Dieci del Novecento Emilie Altenloh conduce una ricerca pionieristica sul pubblico di
cinema: oltre 2000 questionari, compilati da spettatori di età, sesso e classe sociale diversi, in cui si
descrivono le abitudini di visione, le preferenze e l’esperienza del cinema. Diversamente da altri contributi
di quel periodo, il lavoro di Altenloh si sofferma sulle implicazioni positive del consumo di massa:
un’esperienza di coesione sociale, che permette, per la prima volta nella storia, agli individui di sentirsi parte
di un corpo unitario. È un’accezione poco nota dell’audience di massa, che sarà riscoperta solo negli anni
Ottanta, ma che consente di apprezzare la densità di un’idea di audience che siamo abituati a liquidare
rapidamente come vetusta e ideologicamente compromessa, e di cogliere la complessità della genesi dei
pubblici dei media nei primi due decenni del Novecento e la loro centralità nei processi sociali e politici della
modernità. È da questo punto che parte la nostra analisi: dagli studi che si preoccupano di ricostruire la
genesi dei pubblici dei media e dalla nozione di audience che prende forma nelle prime teorie della
comunicazione.

1. C’era una volta l’audience

La rimozione della questione della nascita e della storia delle audience, a favore di una puntuale
ricostruzione dei quadri teorici e degli strumenti che di volta in volta sono stati elaborati per “conoscerle”,
ha alimentato una vena nominalistica, che tende – spesso surrettiziamente – ad attribuire una consistenza
storica ai modelli di fruitore elaborati dalle diverse correnti e discipline. Si pensi a titolo di esempio alla
proposta di Abercrombie e Longhurst (1998) che nel ricostruire la storia degli audience studies intrecciano
(e spesso confondono) il dato epistemologico (le immagini di audience elaborate successivamente nei
diversi contesti teorici) con quello ontologico (quello che le audience sono state e sono). Rispetto a questa
tendenza, gli studi dell’audience cinematografica segnano un’eccezione. L’attenzione per lo spettatore “in
carne e ossa”, per quanto relativamente tarda, trova infatti un fecondo terreno di maturazione e di crescita
nella ricerca storica e segnatamente nella cosiddetta corrente revisionista, che si consolida nel corso degli
anni Ottanta e che si distingue per l’inclusione programmatica degli spettatori e delle condizioni e forme
della visione fra i propri temi di studio. L’audience si rivela infatti come una formazione tutt’altro che
“naturale” o scontata nelle sue manifestazioni e la sua genesi si interpola con il complesso processo di
istituzionalizzazione del cinema: di graduale definizione delle forme dello spettacolo cinematografico e
dell’esperienza che esso genera; di consolidamento dei modelli economici: di produzione, distribuzione e
consumo; di definizione delle funzioni e del ruolo del cinema nei processi di modernizzazione della società.
La stretta relazione che si istituisce fra l’evoluzione del medium cinematografico e la costituzione del
pubblico porta per un verso a riconoscere all’audience un valore indiziario rispetto allo stadio di sviluppo del
medium cinematografico. Per un altro verso, la constatazione della relazione complessa che lega il pubblico
al medium, e che spesso assume forme imprevedibili ed eccentriche (Staiger, 2000), porta a identificare
nell’audience un motore di cambiamento, che influenza la definizione delle forme dello spettacolo
cinematografico e dei film. Per quanto la storiografia del cinema abbia quindi riconosciuto, almeno dagli
anni Ottanta in avanti, l’importanza di analizzare la genesi dei pubblici e le loro pratiche concrete e
storicamente situate di consumo, lo studio dell’audience e dei suoi processi di formazione resta un territorio
relativamente poco esplorato, sia dagli studi filmici sia dagli studi sulla televisione e sui media. Ad essere
indagati sono piuttosto due altri aspetti delle audience in cattività: gli strumenti attraverso cui i mezzi di
comunicazione si assicurano un’audience disciplinata e docile; e gli effetti perniciosi dell’azione dei media,
con riferimento in particolare ai soggetti considerati strutturalmente più deboli: le donne e, soprattutto, i
bambini.

2. Mesmerismo, schiavi in catene e libri delle pene

L’elaborazione del modello dell’audience come massa amorfa, che reagisce in modo univoco agli stimoli dei
mezzi di comunicazione, viene abitualmente ricondotta alla particolare congiuntura socio-culturale che
caratterizza gli anni a cavallo fra le due guerre e i cui elementi chiave sono la trasformazione della
compagine sociale e la crisi dei legami interpersonali e di comunità, sotto la pressione dei processi di
industrializzazione e dell’inurbamento; il clima di incertezza politica ed economica; la fortuna della
psicoanalisi, prima, e poi delle teorie behavioriste. Per McQuail l’idea di massa che si afferma nella
modernità nasce dall’osservazione delle audience del cinema e della radio, che si presentano appunto come
una massa, “più vasta di molti gruppi, folle o pubblici”, “priva di autocoscienza e di autoidentità”,
caratterizzata da una composizione “fluttuante”, che non agisce in modo autonomo “ma è semmai
‘azionata’”. L’esperienza dei media, come anche Francesco Casetti (2005) suggerisce, costituisce dunque
l’incubatoio nel quale, nei primi decenni del Novecento, si sperimenta e si mette a punto la formula della
massa, straordinario strumento di controllo sociale e politico, che permette di organizzare individui che non
hanno fra loro relazioni in un corpo uniforme che segue le direttive che gli vengono impartite, sia che
riguardino un certo modo di fare esperienza del film, sia che riguardino le condotte sociali e gli orientamenti
politici e ideologici. Percorrendo il dibattito trasversalmente alle discipline e ai campi di indagine è possibile
individuare tre famiglie di teorie che analizzano la relazione che si istituisce fra soggetti e media e provano a
spiegare le ragioni della particolare malleabilità dell’audience, andando al di là della vulgata della passività e
della mancanza di senso critico dei primi pubblici.

2.1. Ipnosi, sogno, regressione

Il primo, anche cronologicamente, blocco di teorie descrive l’esperienza dei media come una manipolazione
e un’alterazione degli stati di coscienza. La totale adesione ai contenuti che i media veicolano deriva dalla
peculiare condizione in cui l’audience fa esperienza e che viene paragonata, in successione, a uno stato
ipnotico, a una condizione onirica e a un’esperienza di regressione. La situazione di fruizione, con specifico
riferimento alla spettatorialità cinematografica, viene anzitutto assimilata al setting dell’ipnosi. Come
ricorda Ruggero Eugeni (2002), l’ipnosi fornisce, fra gli anni Dieci e Venti del secolo scorso, un primo quadro
interpretativo con cui si prova a dare conto della peculiare esperienza che lo spettatore vive nella sala
cinematografica e che si caratterizza per la dissociazione dal contesto, la concentrazione esclusiva sullo
schermo e l’immersione nel mondo fittizio del film. Come nell’ipnosi, lo spettatore stabilisce un legame
esclusivo con l’oggetto della propria visione ed è indotto a identificarsi pienamente con esso. La passività
dello spettatore, che la metafora dell’ipnosi suggerisce ma che appare inadeguata e insoddisfacente a
descrivere l’esperienza della visione, spinge nel secondo dopoguerra a cercare nuove immagini e
similitudini. Alla fine degli anni Quaranta, Serge Lebovici compara l’esperienza dello spettatore al sogno.
Diversamente dall’ipnosi, il sogno non è uno stato passivo, di sospensione della coscienza, ma un’attività,
un’identificazione con il mondo e i personaggi messi in scena sullo schermo e una proiezione dei propri
vissuti su di essi. L’incontro con la psicoanalisi, nella sua rilettura lacaniana, porta, negli anni Settanta, a
raffinare ulteriormente il modello della visione come alterazione degli stati di coscienza. Semplificando una
riflessione che è stata centrale per gli studi filmici e che ha contribuito in modo decisivo alla loro
costituzione quale disciplina scientifica e accademica, l’esperienza di fruizione viene descritta come un
processo di regressione, che induce a rivivere alcune delle fondamentali fasi che hanno segnato il percorso
di costruzione della soggettività. L’analogia più nota è quella fra esperienza filmica e fase dello specchio,
proposta da Christian Metz. Metz ritiene che l’esperienza del film replichi il processo di riconoscimento di sé
come soggetto, che si realizza nella fase dello specchio, e che lo spettatore sia indotto a rivivere dentro la
sala cinematografica e di fronte alle immagini che scorrono sullo schermo quella prima fondamentale
esperienza di identificazione. Più precisamente, Metz (1977: 69) ritiene che l’esperienza filmica poggi su un
doppio processo di identificazione: quella con i personaggi e con le vicende rappresentate dal film, che egli
chiama “identificazione secondaria”; e quella fra sé e il dispositivo cinematografico attraverso la coincidenza
del proprio sguardo con quello della macchina da presa, che Metz definisce “identificazione primaria”. Il
rapporto con il film, dunque, non solo fa risuonare corde profonde e intime del soggetto, lo coinvolge
profondamente, lo immerge nel mondo rappresentato, ma diventa anche una parte costitutiva del suo
processo di costruzione dell’identità e quindi uno strumento che lo “posiziona” anche rispetto alla realtà
sociale. Questo assunto costituirà il punto di avvio delle cosiddette teorie dello “spettatore posizionato”,
snodo e passaggio fondamentale verso il modello delle audience ostili. L’idea che i media (il cinema, ma
anche la radio) siano in grado di esercitare un pieno controllo sull’audience, di guidarla e di predefinire i suoi
comportamenti (di consumo, prima, e poi sociali) costituisce l’elemento distintivo della seconda famiglia di
teorie.

2.2. Apparato, testo e altri strumenti del panopticon

Il secondo plesso di teorie che provano a spiegare la relazione di corrispondenza e adesione fra l’esperienza
dell’audience e i contenuti mediali si concentra sui dispositivi ovvero sugli strumenti attraverso cui i media
dispiegano la loro azione. Anche in questo caso è possibile identificare diversi approcci. Il primo fonda il
potere del medium, la sua capacità di guidare e controllare le audience, sull’apparato, cioè sulle condizioni
strutturali della produzione e del consumo. Alla metà degli anni Settanta Baudry pubblica un saggio che
costituisce un punto di riferimento fondamentale per il dibattito sulla spettatorialità cinematografica.
Baudry identifica due strategie, che sono consustanziali alla “macchina cinematografica”: il processo di
rimozione dal film delle tracce del lavoro di costruzione della rappresentazione, con la conseguente
impressione di una presa “diretta”, non mediata, sulla realtà; e la costruzione di una cornice di visione che
assicura (come già le teorie dell’alterazione degli stati di coscienza avevano mostrato) un rapporto di
corrispondenza fra lo spettatore, il film e il medium. Per spiegare l’effetto del cinema sul pubblico, Baudry
ricorre al mito della caverna di Platone: come gli schiavi incatenati nella caverna assumono per reali le
immagini che si riflettono sulle pareti, allo stesso modo lo spettatore è indotto dall’apparato e dalle sue
caratteristiche ad attribuire alle storie che scorrono sullo schermo uno statuto di realtà. La centralità
dell’apparato nella costruzione dell’esperienza spettatoriale spiega anche la resistenza con cui gli studiosi di
cinema hanno guardato, negli anni successivi, ai cambiamenti delle condizioni della produzione e,
soprattutto, della visione come trasformazioni esiziali, che alterano in modo profondo e irrimediabile i tratti
costitutivi dell’esperienza dello spettatore, mettendo in discussione la sopravvivenza stessa del cinema. Il
secondo livello lungo il quale i media esercitano la propria azione di controllo e di guida è, naturalmente,
quello del testo. Intorno a questo punto si è sviluppata una riflessione estesa, che attinge primariamente,
anche se non esclusivamente, alla tradizione degli studi semiotici e testuali: dal modello del testo come
“cinghia di trasmissione”, cioè come una semplice interfaccia che mette in relazione in modo diretto e senza
alcun attrito l’emittente della comunicazione e il suo destinatario, , ai raffinati modelli degli anni Settanta e
Ottanta, che interpretano il testo mediale come una macchina, un dispositivo, che colloca lo spettatore
all’interno del mondo rappresentato, assegnandogli un punto di vista e predefinendo il suo percorso di
lettura. Il modello dell’enunciazione, in particolare, segna un fondamentale avanzamento nella
comprensione dei meccanismi attraverso i quali i media “controllano” i fruitori e si assicurano che la loro
esperienza sia coerente con le intenzioni comunicative del testo. La teoria enunciazionale prevede infatti
che il testo “simuli”, attraverso sofisticate strategie, la relazione con il fruitore, predisponendogli una sorta
di percorso ideale, lungo il quale si snoderà poi la sua esperienza. Oltre all’apparato e al testo, i media
controllano l’audience anche attraverso la costruzione di un sistema di discorsi, che anticipano e
accompagnano il consumo, alimentando aspettative e orientando l’esperienza di fruizione. I paratesti
costruiscono quelle che Ang (1991) chiama “relazioni comunicative istituzionalizzate”, una sorta di rete di
contenimento dell’esperienza mediale, che fissa le coordinate della fruizione. Fra le più potenti forme di
discorso mediale vanno annoverati i discorsi divistici, che esercitano una forte influenza e danno luogo a
vere e proprie forme di emulazione da parte dello spettatore. Proprio i fenomeni di divismo, d’altra parte,
evidenziano anche la capacità delle audience di sottrarsi al controllo dei media. Gli studi condotti da Richard
Dyer negli anni Ottanta mostrano, per esempio, la capacità dei pubblici di cinema di generare un sistema di
discorsi sociali alternativo a quello dei media, in grado di ridefinire la figura del divo e di attribuirgli
significati non previsti o persino contrari a quelli “ufficiali”. Apparato, testo e paratesti costituiscono quindi i
fondamentali strumenti attraverso cui i media esercitano la loro azione omologante e di controllo
sull’audience. Il superamento dell’idea di audience come massa in molti casi corre in parallelo al
riconoscimento dei limiti dell’azione svolta da questi strumenti o, come già osservato a proposito
dell’apparato, della loro trasformazione.

2.3. Dei delitti e delle pene: esclusione e sanzione sociale

Il terzo strumento a cui i media ricorrono per esercitare un controllo sull’audience è la paura della sanzione
sociale e della marginalizzazione. Negli anni Settanta Elisabeth Noelle Neumann mette a punto un modello
noto come spirale del silenzio (Wolf, 1992). L’idea di Noelle Neumann è che la televisione sia il principale
fattore di costituzione dell’opinione pubblica e che l’opinione pubblica, a sua volta, sia il principale collante
sociale. La coesione sociale non è, infatti, secondo Noelle Neumann un fatto naturale, ma l’esito di un
processo di condivisione di saperi e di giudizi. Ne segue che se un soggetto rifiuta quanto la televisione
propone esso sarà inevitabilmente e progressivamente escluso dalla società. La spirale del silenzio prevede
un meccanismo ancor più costrittivo: per evitare l’esclusione dalla comunità, sostiene Noelle Neumann, i
soggetti che sono in disaccordo con i contenuti televisivi tenderanno a non dichiarare la loro “opposizione”
rafforzando così l’opinione dominante. Un processo analogo, sebbene riferito a tutt’altra epoca storica e
contesto di consumo, è quello descritto da Miriam Hansen (1991) a proposito delle audience
cinematografiche dei primi decenni del Novecento. Hansen si interroga su come soggetti sociali deboli ed
emarginati possano ottenere visibilità e un riconoscimento sociale attraverso i media. L’ipotesi di Hansen è
che donne e immigrati fra gli anni Dieci e Venti, negli Stati Uniti, accedano alla sfera pubblica grazie alla
mediazione del cinema; la loro rilevanza numerica ne fa infatti degli interlocutori importanti per l’industria
culturale come soggetti di consumo e leve di mercato. La linea di analisi inaugurata da Hansen è stata
proseguita negli anni successivi da altre ricerche, come quella di Annette Kuhn (2002) o di Mark Jancovich,
Lucy Faire e Sarah Stubbings (2003) sul ruolo del cinema come polo di attrazione che induce le audience a
muoversi nello spazio urbano e che estenda così progressivamente il loro orizzonte di vita. La paura della
marginalizzazione si trova anche alla base del cosiddetto modello della dipendenza. I media sono
considerati le principali fonti di conoscenze e di competenze sociali, ma il fuoco dell’attenzione è qui posto,
più che sulle opinioni, sulle condotte. Melvin DeFleur e Sandra Ball-Rokeach (1989) parlano di una
dipendenza dei soggetti dai media, come fondamentali dispensatori di modelli relazionali e di regole della
vita sociale, e George Gerbner e Larry Gross (1976) teorizzano un processo di “coltivazione” di immagini
della realtà e di modelli di condotta che la televisione diffonde e che si radicano nella mente dei
telespettatori a seguito dell’esposizione prolungata ai suoi programmi. La relazione fra appartenenza
all’audience e saperi sociali viene messa a tema anche dalla teoria degli scarti di conoscenza (Tichenor,
Donohue, Olien, 1970), che denuncia l’allargamento della forbice fra i soggetti con uno status sociale ed
economico più alto e che sono quindi in grado di mantenersi al passo con le innovazioni tecnologiche e di
acquisire tutte le informazioni che vengono trasmesse dai media, e i soggetti che appartengono alle classi
più basse, e che “restano indietro” nel lavoro di acquisizione dei supporti e delle informazioni, con un
conseguente aumento della diseguaglianza sociale. Il tema della diseguaglianza sociale è stato
recentemente ripreso in relazione al digital divide e all’esclusione di segmenti della popolazione o di intere
comunità dallo scambio di informazioni, come esito della diffusione disomogenea delle nuove tecnologie.
Da ultimo, l’adesione alla massa dei fruitori e all’esperienza prefigurata dai media poggia su una semplice,
ma irresistibile, promessa di piacere. Soprattutto il dibattito femminista, dalla metà degli anni Settanta in
avanti, ha evidenziato la centralità della dimensione edonistica nella scelta di aderire al modello di fruizione
previsto dal medium. Fare resistenza al testo, non adeguarsi alla grammatica degli sguardi che esso ha
previsto comporta la privazione del piacere della visione. Un’ampia parte del dibattito femminista sul
cinema nella prima metà degli anni Ottanta sarà dunque impegnato a individuare soluzioni che permettano
alle spettatrici di vivere un’esperienza di visione pienamente appagante senza soggiacere all’ideologia dei
media: dall’individuazione di smagliature e di cedimenti nella struttura del testo, in cui si può annidare una
visione autenticamente femminile (Hansen, 1991); alla teoria del mascheramento, che sostiene
l’ambivalenza sessuale della donna (Doane, 1982); a quella della fantasia che descrive l’esperienza di
fruizione del film come una forma di desiderio allo stato puro (il desiderio del desiderio) che precede la
differenza sessuale (Cowie, 1984).

3. Danni collaterali e specie protette

Insieme alla riflessione sugli strumenti del panopticon, il modello dell’audience in cattività poggia su
un’estesa letteratura di taglio critico, che mette a frutto la lezione francofortese, e denuncia gli effetti
dell’esposizione dei pubblici alla comunicazione di massa. Si tratta di un dibattito estremamente ampio, che
prende l’avvio già negli anni Venti del Novecento e che arriva fino ad oggi. I temi centrali di questa
riflessione sono quattro: il primo è il rapporto fra media, audience di massa e società capitalista e l’analisi
del ruolo degli strumenti della comunicazione (e in particolare della cosiddetta cultura popolare) nella
legittimazione e conservazione del sistema economico e sociale; il secondo tema è il rapporto fra media e
comportamenti sociali devianti e, soprattutto, fra media e violenza; il terzo nucleo di riflessione denuncia
l’azione di mistificazione e di plagio dei media e analizza, specificamente, il rapporto fra media e
propaganda politica e fra media e pubblicità; da ultimo, il modello delle audience in cattività ha trovato un
ambiente di sviluppo particolarmente favorevole negli studi su media e minori e nell’analisi degli effetti della
comunicazione sui pubblici più giovani.

3.1. Controllo, repressione e altre nequizie

Il modello delle audience in cattività costituisce anzitutto un corollario della riflessione marxista su media e
società. I media sono parte integrante ed essenziale della sovrastruttura culturale della società: gli strumenti
attraverso i quali le classi dominanti si assicurano il mantenimento dei propri privilegi e lo Stato garantisce la
stabilità sociale. In particolare, all’interno delle società capitaliste, i media, insieme all’“intero sistema di
produzione di massa dei beni, dei servizi e delle idee”, servono a legittimare la subordinazione della classe
lavoratrice e il dominio del capitalismo con “la sua devozione alla razionalità tecnologica, al consumismo,
alla gratificazione di breve termine e al mito della società senza classi” (McQuail, 1987: 78). L’audience di
massa, con le sue caratteristiche (l’uniformità, la disponibilità ad accogliere la proposta dei media e la
reattività ai loro stimoli) è dunque il prodotto dell’azione ideologica dei mezzi di comunicazione. Tale azione
assume tre forme principali. La prima e fondamentale è quella che Louis Althusser (1970) descrive come il
processo di riconciliazione dei soggetti con la società. I media rendono la società capitalista desiderabile,
anche a coloro che occupano posizioni subordinate, allentando in tal modo la tensione sociale e
disinnescando le istanze di cambiamento; i prodotti della cultura popolare, soprattutto, hanno un ruolo
decisivo nel creare il consenso al sistema e nello stabilizzare le società capitalistiche avanzate. Una lettura
meno deterministica del rapporto fra media, ideologia e audience viene proposta dalla Scuola di
Birmingham a partire dagli anni Settanta. Come Tony Bennett ha ben sintetizzato, la teoria culturologica dei
media elaborata da Richard Hoggart, Raymond Williams e poi Stuart Hall sostituisce il determinismo di
matrice francofortese, con quello che Hall definirà “volontarismo culturalista” (culturalist voluntarism)
ovvero la convinzione che i prodotti mediali possano accogliere anche le istanze delle classi subalterne. Alla
base di questa visione, meno meccanicistica e stringente, dei rapporti fra media e società si pone la teoria
gramsciana dell’egemonia. La nozione di egemonia, così come viene ripresa dagli studiosi della Scuola di
Birmingham, teorizza la possibilità che sistemi di idee alternativi a quelli dominanti trovino spazio nella
produzione mediale e, segnatamente, nei prodotti popolari. I prodotti popolari non vanno quindi più
pensati come prodotti “per il popolo”, strumenti di coercizione e di controllo, ma come prodotti “del
popolo”, che recano al proprio interno le tracce di una visione del mondo alternativa a quella dominante e
potenzialmente fautrice di cambiamento (Hall, 1981). La teoria critica considera poi i media strumenti di
sperequazione sociale e l’audience in cattività un costrutto artificioso e una mistificazione, che cela sotto
l’uniformità della sua superficie profonde e persistenti divisioni sociali. I media sono, in questo senso,
responsabili della conservazione di una società classista che sostengono e garantiscono sia negando le
differenze e depotenziando così la spinta alla mobilità sociale; sia offrendo ai soggetti che appartengono alle
classi sociali dominanti gli strumenti per rafforzare la loro posizione e per allungare la distanza rispetto alle
classi subalterne. Le teorie della dipendenza e degli scarti di conoscenza descrivono efficacemente questo
processo, che dalla fine degli anni Ottanta si è intrecciato con il dibattito sulle nuove forme di imperialismo
culturale, offrendo un importante contributo allo sviluppo degli studi postcoloniali. Infine, il modello
dell’audience in cattività viene messo in relazione con il processo di disgregazione sociale (McQuail, 1987). I
media, sostiene James Carey già alla fine degli anni Sessanta, operano in due direzioni: per un verso
favoriscono le spinte centripete e il processo di aggregazione e di livellamento della società (la società a una
dimensione descritta da Marcuse); dall’altro sostengono le spinte centrifughe, la frammentazione e la
tendenza all’individualizzazione (Carey, 1969). Queste due tensioni non trovano tuttavia un bilanciamento:
l’azione centripeta è infatti debole e inconclusiva, in grado di bloccare le spinte al cambiamento e
all’emancipazione, ma incapace di generare integrazione sociale. Negli anni Ottanta Joshua Meyrowitz offre
una lucida diagnosi del processo di disgregazione sociale e delle responsabilità dei media. Secondo questo
autore, la televisione e i media elettronici hanno determinato la caduta della separazione fra scena e
retroscena, con il conseguente azzeramento delle differenze fra i saperi sociali dei soggetti e la crisi dei ruoli.
Un esempio emblematico è quello del rapporto fra bambini e adulti: la possibilità da parte degli spettatori
più giovani di conoscere i segreti del mondo degli adulti porta a rivedere in modo radicale il rapporto fra le
generazioni, rendendo inefficaci i modelli relazionali, affettivi e pedagogici tradizionali.

3.2. Comportamenti antisociali e violenza

La seconda area di studi strettamente collegata al modello dell’audience in cattività è quella che Grossberg,
Wartella e Whitney (1998: 290-293) definiscono delle teorie del contagio. Fra di essi, una delle linee di
studio più longeve e fortunate è quella che associa il consumo di prodotti mediali “violenti” con l’assunzione
di condotte aggressive e socialmente devianti. Il primo poderoso progetto di ricerca sui media, noto come
Payne Fund Studies, devolve una parte consistente di risorse a verificare l’esistenza di una correlazione fra
esposizione a scene di violenza e comportamenti antisociali, arrivando alla conclusione che la fruizione
ripetuta e prolungata di film che rappresentano azioni violente genera un comportamento imitativo da
parte degli spettatori più giovani. Va detto, per completezza, che se i bambini sono considerati i soggetti più
a rischio di contagio, le donne sono oggetto di eguale timore per la loro inclinazione a riprodurre nella vita
quotidiana i modelli di relazione interpersonale (amorosa in primo luogo) visti al cinema o letti sulla stampa
popolare; in questo caso gli esiti paventati del comportamento imitativo non riguardano la violenza, ma
toccano la questione altrettanto delicata della morale pubblica (Walsh, 1984). Negli anni Ottanta, la teoria
del contagio trova una formulazione più convincente nella teoria della coltivazione che sostiene appunto
che l’esposizione prolungata ai programmi televisivi con contenuti violenti induce a sovrastimare il grado di
violenza presente nella società e ad assumere comportamenti aggressivi nella vita quotidiana. Nonostante
la teoria del contagio e, in particolare, proprio la questione delle rappresentazioni della violenza e dei suoi
effetti sulle condotte dei minori sia stata ampiamente confutata. Si pensi, per esempio, agli studi, anche
recenti, sui videogiochi a contenuto violento e sulle loro presunte conseguenze sull’equilibrio dei bambini e
degli adolescenti.

3.3. Mistificazioni e manipolazioni

Il terzo filone di ricerche che fa capo al modello dell’audience in cattività si concentra sugli effetti di
manipolazione e di persuasione generati dai media. Anche in questo caso si possono individuare alcuni temi
chiave intorno a cui si articola la discussione. Il primo e fondamentale riguarda la rappresentazione
stereotipizzata della realtà. Su questo nodo il dibattito ha preso due vie: la prima, più grossolana, ma che
continua ad avere un certo seguito, denuncia la natura ideologica delle rappresentazioni mediali e
l’inevitabile scarto fra le immagini prodotte dai media e la realtà sociale; la seconda, più raffinata, riconosce
la necessità della tipizzazione e analizza la relazione che si istituisce fra immagini e contesto storico,
culturale, politico ed economico. Il secondo campo di riflessione riguarda il rapporto fra media e desiderio
ovvero la capacità dei media di ingenerare bisogni nei soggetti e di orientare i loro desideri verso
determinati prodotti. Una riflessione assai più sofisticata e ampiamente ripresa negli studi sulle audience
degli anni Ottanta è la celebre teoria del gusto di Pierre Bourdieu (1979). Sebbene Bourdieu muova dalla
premessa (distonica rispetto a quella dell’audience di massa) dell’esistenza di gruppi sociali distinti in base
alle condizioni materiali della loro esistenza, egli arriva a teorizzare una correlazione diretta e meccanicistica
fra l’appartenenza a una classe sociale e l’habitus, ovvero l’orizzonte di valori e di riferimenti di un soggetto,
i suoi “schemi di percezione e di valutazione della realtà” e le sue pratiche. L’habitus costituisce dunque, per
usare l’espressione di Bourdieu, una “struttura strutturata e strutturante”: strutturata dalle condizioni
materiali di vita, ovvero dalla classe sociale di appartenenza, e strutturante il gusto, le scelte e le condotte
sociali, a partire dai consumi. Il rapporto fra media e desiderio costituisce un tema cruciale anche per il
dibattito femminista che legge l’azione di contenimento, di orientamento e di costrizione del desiderio
femminile come l’ennesima prova della compromissione dei mezzi di comunicazione con l’ideologia
patriarcale (Modlewsky, 1982). Infine, la natura mistificatrice dell’azione dei media viene denunciata
nell’ambito degli studi sulla formazione dell’opinione pubblica e sulla propaganda politica. le ricerche di
taglio amministrativo sulla comunicazione politica mettono, tuttavia, presto a fuoco una diversa nozione di
audience, riottosa e ostile, che richiede un’anamnesi più accurata, oltre che la messa a punto di strategie
differenziate per essere raggiunta e persuasa. Fino a tutti gli anni Sessanta e anche oltre, ad ogni modo, la
riflessione sui processi di formazione dell’opinione pubblica tende a sposare il modello delle audience in
cattività e a immaginare una relazione di stretta dipendenza fra saperi sociali, orientamenti collettivi e
media.

3.4. I minori e i medi

Il modello delle audience in cattività trova, da ultimo, un habitat particolarmente favorevole nelle ricerche
sui minori. Fino agli anni Ottanta lo studio dei minori tende ad adottare il modello dell’audience di massa: i
fruitori più giovani rispondono in modo omogeneo alle sollecitazioni dei media, sono particolarmente
esposti alla loro influenza e privi degli strumenti critici necessari a prendere le distanze dai contenuti
mediali. Come ricorda David Buckingham (1993a), il dibattito sui bambini e sugli effetti nocivi dei media
copre l’intero arco delle teorie della comunicazione; il primo sistematico progetto di ricerca sulle audience, i
Payne Fund Studies, nel 1928, si pone proprio come obiettivo l’analisi degli effetti della visione dei film sui
bambini e sugli adolescenti. Il progetto, al quale aderiscono i principali ricercatori di area umanistica che
operano in quegli anni negli Stati Uniti, dà vita a un complesso programma di indagine che porta llare
opinioni e comportamenti e la responsabilità nei fenomeni di devianza giovanile. Il “modello allarmistico”
dei Payne Fund Studies trova una perfetta corrispondenza nell’immagine sociale dell’infanzia che domina il
dibattito pedagogico e politico almeno fino agli anni Sessanta e che descrive il bambino come un “non
adulto” o un adulto non pienamente formato, privo quindi di quelle qualità (come la razionalità, la
consapevolezza e il senso critico) che segnano il raggiungimento della maturità e che sono necessarie per
fronteggiare l’invadenza dei media e per riconoscere e provare a evitare le loro insidie. In particolare, il
timore nei confronti dei media e dei loro effetti sui più giovani si concentra su tre questioni: la violenza, gli
stereotipi e il processo di costruzione dell’identità e la pubblicità e i comportamenti di consumo. La linea di
superamento di queste indagini corre lungo l’asse metodologico e insiste sull’assenza di prove che
dimostrino un rapporto di causazione fra consumo di contenuti “violenti” e assunzione di comportamenti
aggressivi. È possibile (e più che probabile) che bambini e adolescenti che consumino in modo intensivo
contenuti violenti vivano all’interno di una cornice (sociale e familiare) che già li predispone all’assunzione
di condotte devianti o aggressive e che quindi il consumo di media sia solo una delle cause, e non la più
importante. La seconda area di studi si focalizza sul rapporto fra consumo mediale e processi di costruzione
dell’identità. Nel quadro più generale del dibattito sugli stereotipi, gli studi sui minori si preoccupano
soprattutto di valutare gli effetti delle rappresentazioni mediali sui processi di costruzione dell’identità
personale. Come già per la questione dei comportamenti aggressivi, anche in questo caso il superamento
delle posizioni più radicali, che ipotizzano una relazione deterministica fra esposizione alle immagini dei
media e processi di costruzione dell’identità, fa leva sulla constatazione della debolezza metodologica delle
ricerche. Kevin Durkin (1985) in un noto studio sugli stereotipi di genere e i bambini dimostra, per esempio,
che la predisposizione dei minori a fare proprie le rappresentazioni proposte dai media dipende dalla
presenza di “altri” agenti che spingono nella direzione di una costruzione stereotipizzata del maschile e del
femminile. Da ultimo, secondo Buckingham, la nozione di audience di massa e il modello correlato degli
effetti dei media dominano gli studi su pubblicità e minori fino agli anni Ottanta. Anche in questo caso, le
analisi poggiano su una formula tanto stringente quanto empiricamente insostenibile: se si espone
prolungatamente un minore alla pubblicità di un prodotto, questi sviluppa un desiderio di acquisto. A tale
assunto, che Buckingham (1998: 134) sintetizza ironicamente come “del bambino innocente e del
pubblicitario seduttore”, vengono mossi due ordini di obiezioni. La prima riguarda l’assunto aprioristico della
fragilità e manipolabilità dei bambini a cui si oppone il riconoscimento delle loro competenze spettatoriali e
della capacità di esercitare una lettura critica. La seconda obiezione riprende alcune delle argomentazioni
già utilizzate per confutare le tesi sul rapporto fra esposizione ai programmi televisivi e condotta sociale e,
in particolare, la constatazione della complessità dei fattori che intervengono nel generare un
comportamento di acquisto. Resi più solidi sotto il profilo scientifico e metodologico e attenuati nei toni, gli
studi che associano l’esposizione alla pubblicità e la costruzione di uno stile di vita consumistico continuano
comunque ad avere un loro seguito e a rappresentare un fronte, limitato ma attivo, della ricerca sui minori
e, in generale, sugli effetti dei media. L’immagine dell’audience in cattività con il suo corredo di implicazioni
politiche, le sue domande e i suoi campi elettivi di applicazione è stata progressivamente affiancata da altri
paradigmi, che hanno cercato di illuminare aspetti diversi o propriamente nuovi della relazione fra fruitori,
media e società. Essa continua, tuttavia, a sopravvivere in alcune linee di ricerca e a dialogare
produttivamente con altre e più recenti categorie, mantenendo viva quell’attenzione critica nei confronti dei
media che costituisce una componente imprescindibile degli studi sulla comunicazione e sulla società.

II. Le audience ostili

L’audience acquista visibilità e diviene oggetto di studi e di ricerche nel momento in cui manifesta una
riottosità rispetto ai modelli teorici e una indisponibilità a soddisfare casistiche e previsioni elaborate dagli
studiosi e dagli operatori della comunicazione. Nel campo degli studi sulla radio e sulla carta stampata,
questo accade alla fine degli anni Trenta, in coincidenza con l’emergere di sacche di resistenza, gruppi sociali
apparentemente impermeabili alla comunicazione mediale e, in particolare, alla comunicazione
pubblicitaria e politica. Qualche cosa di analogo accade anche all’interno degli studi sul cinema e sui media
digitali: nel primo caso, l’interesse per lo spettatore cinematografico emerge quando la presenza del
pubblico in sala raggiunge i suoi minimi storici – negli Stati Uniti alla fine degli anni Settanta –; nel secondo
caso, la riflessione sull’audience si riaccende in corrispondenza alla maturazione di una consapevolezza dei
limiti degli ambienti digitali, e in particolare della rete informatica, come spazio di partecipazione.

L’audience si impone dunque come oggetto di studio e di ricerca nel momento in cui disattende (o
apertamente si oppone) ai paradigmi interpretativi e ai modelli di marketing consolidati.
L’audience si presenta sotto diverse forme: come un interlocutore ottuso – un’immagine che ci viene
restituita dalle cosiddette teorie degli effetti limitati dei media, fra la fine degli anni Trenta e gli anni
Quaranta e Cinquanta –; come un soggetto eccentrico, che non rientra nelle tipologie identificate
dall’industria mediale e dalla ricerca accademica; e infine come soggetto resistente, che si oppone
scientemente ai modelli e alle aspettative dei media, sabotandone le proposte.

1. L’ottusità delle audience


Nella seconda metà degli anni Trenta, il sistema dei media può dirsi, negli Stati Uniti, pienamente costituito.
. È in questa cornice che emerge il problema dell’audience. A petto dell’esigenza di ottimizzare l’efficacia
della comunicazione le ricerche cominciano a restituire l’immagine di un’utenza disomogenea, che risponde
in modo diverso ai messaggi e alle sollecitazioni che provengono dai media. Tre studi in particolare
contribuiscono a delineare il profilo di quello che abbiamo chiamato l’utente ottuso, cioè il fruitore che non
risponde adeguatamente (o non risponde punto) agli inviti e alle richieste che i media esprimono. La prima
è l’indagine condotta da Hadley Cantril insieme a Hazel Gaudet e Herta Herzog (1940) sui fenomeni di
panico scatenati dalla celebre pièce radiofonica di Orson Welles, La guerra dei mondi. La ricerca, nata con
l’intento di comprendere le ragioni della lettura impropria data alla trasmissione di Welles da oltre 6 milioni
di ascoltatori, mette in luce due elementi essenziali: il primo è appunto la disomogeneità della reazione del
pubblico, che lungi dall’operare in modo organico, si palesa come un soggetto plurale, articolato, che
risponde diversamente agli “stimoli” che gli provengono dai media; il secondo è la relazione stretta fra la
condotta degli ascoltatori e una serie di variabili sociali, fra cui, in prima istanza, lo status e il censo, che
intervengono come facilitatori nella maturazione dell’“abilità critica” del pubblico e quindi della sua
competenza a “partecipare” in modo appropriato alla comunicazione. La seconda ricerca, che contribuisce
in modo particolarmente rilevante a delineare la figura del fruitore ottuso, è il lavoro condotto da Paul
Lazarsfeld sul potenziale persuasivo della radio. In Radio and the Printed Page (Lazarsfeld, 1940)
quest’autore conferma la natura articolata ed eterogenea del pubblico di media, sottolineando l’importanza
della qualità del rapporto che il fruitore intrattiene con il mezzo, della sua familiarità con esso per la buona
riuscita della comunicazione. Quello che Lazarsfeld osserva è che la disponibilità degli ascoltatori a fare
propri i messaggi che la radio diffonde è proporzionale alla frequenza dell’ascolto e alla rilevanza che il
mezzo radiofonico riveste nelle loro diete di consumo. La complessità dei pubblici e l’esistenza di velocità
diverse di diffusione e di penetrazione dei “messaggi” mediali vengono infine ratificate da due note ricerche
condotte sempre da Lazarsfeld e dal suo gruppo di lavoro sulla comunicazione politica. The People’s Choice
(Lazarsfeld, Berelson, Gaudet, 1944) e, successivamente, Personal Influence (Katz, Lazarsfeld, 1955)
teorizzano l’esistenza di fattori che rendono più o meno fluido il passaggio di contenuti dal mezzo al
pubblico, modulandone l’efficacia persuasiva; e, in seconda istanza, confermano il carattere composito
dell’audience, che comprende utenti orientati ai media, che di buon grado aderiscono alle loro proposte, e
altri che, al contrario, si sottraggono alla comunicazione, scegliendo preventivamente di fruire dei soli
messaggi coerenti con le proprie opinioni o attivando meccanismi difensivi e di rigetto nei confronti dei
contenuti che percepiscono distonici rispetto alla propria visione della realtà. Si fa strada, dunque,
l’immagine di un utente riottoso, perché poco preparato – poco consapevole, poco critico – o perché
collocato ai margini delle reti sociali, e quindi al di fuori di quei meccanismi di ratifica e di rinforzo descritti
dalla teoria del “doppio flusso comunicativo”, o ancora perché appartenente a gruppi minoritari o specifici –
le donne, per esempio, o gli afroamericani –, che si sottrae al rapporto con i media: lo rifiuta o lo vive in
modi e forme diverse da quelle canoniche. Il pubblico si rivela così come un organismo composito e
disomogeneo: costituito da formazioni che naturalmente si dispongono al dialogo con i mezzi di
comunicazione, e da altre refrattarie al rapporto con i media, sorta di calcificazioni sociali, che le istanze
mediali non riescono a penetrare.

2. L’esuberanza delle audience

L’alterità dell’audience, o di parti di essa, rispetto ai modelli elaborati in ambito accademico o aziendale, si
concretizza e precisa in una seconda immagine: quella del fruitore esuberante. Il fruitore esuberante va ad
occupare una posizione eccentrica rispetto ai paradigmi correnti di pubblico perché dotato di un corredo
culturale e portatore di un retaggio di saperi e di esperienze alternativi (e, in alcuni casi, esplicitamente
aggiuntivi) rispetto a quelli del comune fruitore di media. L’immagine del fruitore esuberante prende corpo
a quasi trent’anni di distanza dalle ricerche che sono state poco sopra ricordate e all’interno di una cornice
teorica e disciplinare assai più ampia e articolata, che include gli studi sul cinema e sul rapporto fra
spettatore e dispositivo, le ricerche sulle tecnologie mediali, sui prodotti popolari e l’ampio plesso delle
indagini sui generi televisivi. A fare da denominatore comune a questo variegato ventaglio di contributi è
l’attenzione per la specificità culturale dei pubblici: la differenza di genere sessuale, prima, e poi quella
etnica o legata all’appartenenza a comunità minoritarie, che negli anni Ottanta ancora vengono chiamate
subculture (Hebdige, 1979). All’elaborazione del profilo del fruitore esuberante contribuisce in modo
rilevante il feminist film criticism. Alla fine degli anni Settanta, le riflessioni sull’apparato (Baudry, 1978) e sul
dispositivo cinematografico (Metz, 1977) avevano portato all’elaborazione di un modello di spettatorialità
che teorizzava l’assoluto potere del cinema sul pubblico. Questo modello nel suo universalismo pone le
studiose femministe di cinema di fronte ad un dilemma: se il paradigma dello spettatore posizionato (dal
testo e dall’apparato cinematografico) è fondato, uomini e donne si trovano costretti, all’interno della sala, a
seguire gli stessi percorsi di visione, a esperire gli stessi desideri, a vivere gli stessi processi di identificazione,
con una implicita, quanto fatale, negazione delle proprie specificità sessuali. Inoltre, dato che il cinema, e
segnatamente il cinema classico hollywoodiano, è un “apparato” al servizio dell’ideologia patriarcale, il
dispositivo di identificazione e di posizionamento che esso attiva è evidentemente pensato per un pubblico
maschile e le spettatrici per parteciparvi devono dunque rinunciare alla propria identità. In un celebre
saggio del 1975, Laura Mulvey denuncia l’alienazione di cui sono vittime le spettatrici: forzate a vedere il
mondo da un punto di vista patriarcale, a seguire percorsi di visione e a provare piacere per oggetti di
desiderio maschili e “posizionate” dal testo in ruoli subordinati o socialmente inaccessibili. Per superare
questa aporia, il dibattito femminista segue due binari, entrambi fondamentali per la genesi del modello
dello spettatore esuberante: il primo è l’individuazione di smagliature nel dispositivo cinematografico, faglie
o cedimenti della struttura testuale che consentano alle spettatrici di costruire un’esperienza di fruizione
non alienante: è la via aperta dalla stessa Laura Mulvey, nel 1981, con il saggio A erthoughts on ‘Visual
Pleasure and Narrative Cinema’ Inspired by ‘Duel in the Sun’ ed esemplarmente percorsa dall’analisi dei film
e del fenomeno Valentino da Miriam Hansen (1991). La seconda via, che porta più direttamente
all’elaborazione della figura dello spettatore esuberante, è perseguita dagli studi di taglio culturologico che
si sviluppano nel corso degli anni Ottanta e che possono essere ricondotti a due filoni principali: da un lato,
vi sono le ricerche che mostrano la produttività dell’esperienza di visione cinematografica per i pubblici
femminili e la sua capacità di rilasciare risorse che le spettatrici possono impiegare nella loro vita quotidiana
e nel processo di emancipazione ; dall’altro lato, vi sono gli studi che evidenziano le capacità del pubblico
femminile di “interpretare” in modo proprio i significati del film. Questo secondo filone di ricerca si intreccia
saldamente e trova un potente volano nelle istanze di superamento della cosiddetta Grand Theory alla metà
degli anni Ottanta (Bordwell, 1985) e nel processo di riassortimento dell’agenda degli studi filmici, che
accoglie progressivamente nuovi temi e nuovi centri di attenzione, fra cui anche lo spettatore e la sua
personale esperienza di fruizione. La spettatrice, dunque, si precisa progressivamente come un
interlocutore sui generis della proposta mediale, non perché priva di alcune competenze, ma perché
portatrice di un patrimonio culturale che le deriva primariamente dalla sua appartenenza di genere, e che le
consente di forzare i dispositivi mediali e di produrre un’esperienza inopinata e, in taluni casi, letteralmente
eversiva. Questa idea di spettatrice si rintraccia anche all’interno degli studi sulle tecnologie della
comunicazione e sulla televisione.
I lavori condotti in questi anni nell’ambito degli studi sulla televisione e sui media corroborano e
arricchiscono il modello dello spettatore esuberante, esplicitando la correlazione fra genere sessuale e
competenze di lettura. L’esperienza di fruizione delle soap opera, per esempio, viene interpretata (e
valorizzata) come terreno di applicazione di quello che Dorothy Hobson (1982) chiama “realismo
emozionale”, Ien Ang (1985) “immaginazione melodrammatica” e Charlotte Brunsdon (1981) “capitale
culturale” ovvero un insieme di competenze che consentono di leggere i rapporti interpersonali in chiave
emozionale, prima che razionale, ignorando i buchi di sceneggiatura e le contraddizioni tipici del genere e
garantendo al pubblico femminile un’esperienza pienamente gratificante.
L’idea di un patrimonio di competenze, distinte in base all’appartenenza degli spettatori a specifiche
comunità o culture, trova altri due ambiti importanti di applicazione. Il primo è quello delle letture eversive
prodotte dalle comunità omo- e transessuali, il secondo è l’ampio fronte di studi sulle pratiche di ricezione
in contesti nazionali, etnici e geopolitici diversi da quello in cui il prodotto mediale è stato realizzato. Della
prima e fertile stagione degli anni Ottanta corre l’obbligo di ricordare almeno due ricerche, che avranno un
ruolo decisivo nell’avvio del dibattito sui processi diasporici e sulle forme di neocolonialismo: Watching
Dallas, di Ien Ang (1985), e The Export of Meaning, di Tamar Liebes e Elihu Katz (1990), che, sull’onda del
successo globale della serie Dallas, si interrogano sul suo impatto culturale nei diversi contesti nazionali,
evidenziando la specificità delle letture e il differente sistema di significati e di valori costruito dai pubblici.

3. Smagliature, ambivalenze e polisemie

Il riconoscimento della capacità dei fruitori di disattendere le istruzioni di lettura proposte dal testo, di
eludere le sue istanze e, al limite, di sabotarne il progetto comunicativo è strettamente legato alla revisione
della nozione di testo. Già a partire dagli anni Settanta, gli studi linguistici, semiotici e letterari avevano
cominciato a mettere in discussione la capacità dei testi di generare significato in modo autonomo,
indipendentemente dalla situazione comunicativa: dal mezzo, dalle condizioni di fruizione e, soprattutto,
dall’audience e dalle sue competenze e predisposizioni. Da un punto di vista cronologico, l’apertura alla
questione semiotica si colloca fra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Si tratta di un incontro
fatale, soprattutto per le ricerche sulla televisione e sul consumo di prodotti popolari: l’entità del
cambiamento che si produce sulla pratica teorica e di ricerca è infatti tale da indurre a parlare di una vera e
propria svolta, che viene emblematicamente denominata “interpretativa” (Morley, 1980).
La stagione di studi che ne deriva si distingue per l’attenzione primaria ai processi di ricezione e presenta tre
caratteristiche che sono, in parte almeno, estendibili anche agli studi filmici. Anzitutto, la polivalenza
semantica dei testi viene estesa all’intero repertorio dei prodotti popolari a partire dai programmi televisivi.
Già Stuart Hall, nel suo saggio seminale, Codifica e decodifica pubblicato nel 1980, riprendeva la riflessione
di Roland Barthes sulla natura stratificata del segno e sul carattere aperto e polisemico della sua
componente connotativa. secondo Hall la distanza fra le intenzioni comunicative dell’emittente e
l’interpretazione che ne dà il destinatario non è un fatto accidentale (eliminabile fornendo i giusti strumenti
di lettura al fruitore), ma un dato strutturale della comunicazione, naturale nella misura in cui la
componente connotativa dei segni è sempre e comunque personale e idiosincratica. Questo significa anche
andare oltre la distinzione fra “testo aperto” e “testo chiuso” (Eco, 1976) ed enunciare il carattere
polisemico di tutti i prodotti televisivi. Per Hall la lettura dei testi avviene sotto il controllo di una serie di
strutture che riducono e contengono il numero di interpretazioni possibili.
Ancora più esplicito al riguardo è John Fiske (1987; 1989) che teorizza la natura bipolare dei prodotti
culturali che contengono sia elementi di chiusura del senso (che Fiske definisce “doxastici”, perché parte del
patrimonio di conoscenze socialmente condivise), sia elementi di “apertura” (i cosiddetti fattori
“paradoxastici”), che arricchiscono e potenziano il suo gradiente comunicativo. Se tutti i prodotti culturali
sono intimamente polisemici, l’atto della lettura ovvero la ricezione e l’interpretazione dei testi mediali si
traduce in un processo di confronto e di negoziazione: la seconda cifra che identifica la svolta interpretativa
è il carattere conflittuale di tale processo. Prendendo le distanze dal modello cooperativo proposto da Eco
(1979), la riflessione sui media e sul cinema opta per una visione muscolare e pugnace dei processi
interpretativi (Dyer, 1987; Gledhill, 1988; Staiger, 1992), che vengono descritti come un “corpo a corpo” fra
fruitore e testo, uno “struggle for meaning”, necessario perché lo spettatore possa attivare significati
sintonici alla propria visione del mondo Per quanto attivate da un numero esiguo di fruitori, le letture
oppositive o resistenziali si configurano come il modello ideale di comunicazione: non un’aberrazione del
processo, ma la sua forma più piena e compiuta. La fruizione assume in tal modo una valenza
marcatamente politica: spazio di costruzione e di rivendicazione della propria identità, ma anche terreno di
lotta e di cambiamento sociale.
L’ingresso delle teorie poststrutturaliste nel dibattito sui media e sul cinema, unito alla lezione gramsciana,
mediata dal CCCS si concretizza in una terza acquisizione, meno discussa delle precedenti, ma centrale per
gli studi sull’audience, nella misura in cui già anticipa i più recenti e avanzati modelli di audience. Il
potenziale trasformativo della ricezione si esercita anche e primariamente sui media, sulle loro strategie e
sui loro assetti. L’interpretazione che gli spettatori danno di un testo e i discorsi sociali che attivano intorno
ad un prodotto mediale o a un personaggio costituiscono infatti una potente leva di cambiamento, in grado
non solo di denunciare le storture e l’ideologia del sistema, ma di reindirizzarne le logiche produttive. Le
ricerche sulle star sono in questo senso emblematiche. La pluralità di interpretazioni, di valori e di significati
che vengono attribuiti alle figure divistiche, non di rado in deciso contrasto con le politiche mediali, sono,
per un verso, la prova più eclatante della debolezza del dispositivo – le star sono i costrutti mediali su cui più
ferocemente si esercita l’azione omologante dei media; e, per un altro, la dimostrazione dell’ampiezza del
raggio di intervento del fruitore e dell’incisività della sua azione (Dyer, 1987; Fiske, 1987). La porosità dei
testi mediali; il carattere conflittuale dei processi di fruizione e delle pratiche di costruzione del senso; il
margine di azione del pubblico e la vocazione eminentemente politica della fruizione costituiscono le
premesse per l’emergere di una terza e decisiva immagine di audience, quella dello spettatore resistente.

4. Resistere!

La figura dello spettatore resistente è l’emblema di quella che molti studiosi considerano come la prima vera
stagione di studi sull’audience: i reception studies. Nel modello del fruitore che resiste alla morsa ideologica
dei media, che si ribella alla loro azione omologante e che ne sabota il sistema, si esprimono infatti
pienamente le istanze culturali e politiche che all’inizio degli anni Ottanta informano il dibattito europeo e,
segnatamente, quello anglosassone, sui media e sui loro pubblici. Ripercorrendo le riflessioni sui media,
soprattutto fra gli anni Ottanta e la prima metà degli anni Novanta, si incontrano almeno quattro immagini
di spettatore resistente. Una prima è quella che ci viene offerta da Ien Ang (1991) e che emerge in filigrana
dalla sua analisi delle pratiche anarchiche di consumo, “spettro eterogeneo di attività informali”, come
zapping o zipping, che rendono entropico e imprevedibile il comportamento delle audience. Il consumo
anarchico è, secondo Ang, una forma di “superamento dall’interno” del dispositivo mediale che rivela il
carattere “volatile” della fruizione, la sua eccedenza rispetto ai modelli previsionali elaborati dagli uffici
marketing e quindi anche il suo potenziale eversivo. L’idea di un uso anarchico dei media, che si esercita
sugli apparati, prima ancora che sui testi, si rintraccia, nello stesso torno di anni, anche negli studi
cinematografici e segnatamente nelle ricerche sul moviegoing. In particolare le indagini di Robert Allen
(1990; 2006) sulle forme di visione del film nelle sale destinate ai pubblici afroamericani o i lavori di Janet
Staiger (1992; 2000) sulla storia dei modi della ricezione filmica rivelano la presenza di pratiche di fruizione
eterodosse, modi di stare in sala e di mettersi in relazione con il film diversi da quelli prescritti dall’apparato
e che, in talune circostanze, fanno letteralmente grippare il dispositivo cinematografico.
La seconda forma in cui si manifesta il modello dello spettatore resistente è quella del bricoleur. L’immagine
viene evocata da Michel de Certeau nella sua celebre opera del 1990, L’Invention du quotidien. Il bricoleur è
colui che “combina i frammenti” dei testi e “introduce un insaputo nello spazio che essi consentono di
creare grazie alla loro indefinita pluralità di significati” In contrapposizione con il modello di fruitore passivo,
costruito dalle istituzioni mediali, il bricoleur va alla ricerca dei prodotti che gli corrispondono, seguendo
spesso percorsi alternativi o addirittura interdetti, aggirando i sistemi di controllo e dando vita a pratiche
creative di consumo. Le riflessioni di de Certeau hanno avuto una grandissima eco nel dibattito e hanno
alimentato la cosiddetta teoria del “consumo produttivo”, che riconosce all’audience la capacità non solo di
leggere in modo personale (sebbene non arbitrario) i prodotti mediali, ma anche di modificare, attraverso la
propria attività interpretativa, il contesto sociale. Si tratta di una visione innovativa e ambiziosa del consumo
mediale, che si ritrova anche in altri autori, a partire da John Fiske. La porosità dei prodotti culturali, che
Fiske descrive attraverso la nozione di “producerly text”, trasforma l’esperienza di fruizione in una pratica
poietica, di generazione di senso e di valori, che progressivamente alterano e ridefiniscono le strutture di
potere della società.
La terza immagine che dà corpo al paradigma dello spettatore resistente è quella del sabotatore. Qui
l’azione del fruitore assume una dichiarata valenza politica. La lettura oppositiva descritta da Stuart Hall nel
suo saggio del 1980 fa da matrice a questa specifica declinazione dello spettatore resistente: “...è possibile,
per uno spettatore, capire perfettamente sia l’inflessione letterale che quella connotativa di un discorso, ma
decodificare il messaggio in modo completamente opposto (...). Uno dei momenti politici più significativi
(...) è il punto in cui gli eventi che sono solitamente significati e decodificati in modo negoziato, cominciano
a incontrare una lettura opposizionale. A questo punto è stato raggiunto il livello della ‘politica della
significazione’, ovvero la lotta per il discorso”. La quarta immagine è quella che possiamo definire dello
spettatore resistente in senso proprio, con riferimento alla casistica di letture “oppositive” proposta da Larry
Gross (1991). Analizzando il rapporto fra minoranze “sessuali” e media, Gross identifica quattro tipologie di
“risposte” ai contenuti mediali: l’interiorizzazione (internalisation), che corrisponde, approssimativamente,
alla lettura dominante teorizzata da Stuart Hall e che prevede che il senso proposto dai media venga
riconosciuto e fatto proprio dai fruitori; la sovversione (subversion), che corrisponde all’attitudine del
bricoleur a torcere i contenuti mediali e a creare un significato del tutto nuovo; la secessione (secession),
che richiama le strategie oppositive messe in opera dal sabotatore; e infine la resistenza (resistance) che
prevede la creazione di contenuti propri. Lo spettatore resistente, nell’accezione che ne dà Gross, è dunque
colui che non si limita a mettere in circolo discorsi sociali dissonanti rispetto all’ideologia dominante, ma
opera direttamente sui media: fa lobby per cambiare ciò che i mezzi di comunicazione gli propongono o
genera contenuti in proprio. Il modello di spettatore resistente è stato ampiamente adottato nello studio dei
fenomeni di fandom e in particolare di quell’insieme di pratiche che John Fiske definisce “productivity”,
attraverso le quali i fan esercitano un’azione diretta sulle politiche mediali, acquisendo un ruolo centrale
nell’economia culturale (Fiske, 1992).

III. Le audience attive

Alla metà degli anni Ottanta gli studiosi di media (e in parte anche di cinema) sottoscrivono un tacito
trattato di pace con le istituzioni mediali: il modello dello spettatore ostile, che pure era stato determinante
per avviare una vera e propria stagione di studi sulle audience, appare infatti soffocante: obbliga a una
lettura comunque ideologica della proposta mediale e richiede allo spettatore una pianificazione stringente
delle proprie pratiche di consumo, che non ammette distrazioni, né deroghe. Ma la fruizione è anche
piacere; anzi, è soprattutto piacere. Prende così l’avvio la più prolifica fase delle ricerche sull’audience.

1. Le fatiche dello spettatore

C’è una terra di mezzo fra le ricerche che parlano delle audience ostili e quelle che più pacatamente cercano
di ricostruire la pluralità di azioni che gli spettatori compiono sui e attraverso i media. L’idea dello spettatore
attivo nasce all’interno del dibattito statunitense e i modelli più avanzati di fruitore e di fruizione che si
definiscono nel corso degli anni Ottanta, fra Inghilterra e Australia, sono l’esito del confronto dialettico
proprio con questa tradizione. È da qui, dunque, che occorre partire: dalla terra di mezzo degli Usi e
Gratificazioni.

1.1. La ferrea regola dell’utilità

Alla fine degli anni Cinquanta, in un clima sociale profondamente mutato rispetto ai decenni precedenti e in
una situazione economica segnata dalla ripresa e da un diffuso ottimismo, negli Stati Uniti prendono l’avvio
una serie di ricerche che si propongono di analizzare le motivazioni che spingono i fruitori al consumo
mediale e i bisogni che tale consumo soddisfa, capovolgendo i termini della ricerca sui mezzi di
comunicazione: la questione non è più “che cosa i media fanno alle persone”, ma “che cosa le persone
fanno dei media”. L’approccio degli Usi e Gratificazioni (U+G), come è noto, si ispira al funzionalismo,
rileggendolo tuttavia in una chiave privatistica: i bisogni che i media soddisfano non sono, primariamente,
dettati dal sistema sociale e dalla sua necessità di mantenere un equilibrio fra istanze di rinnovamento e
strutture (economiche, politiche, sociali), quanto dai bisogni personali e idiosincratici di ciascun fruitore.
Una delle obiezioni più radicali che vengono mosse agli U+G, negli anni Ottanta, riguarda proprio la loro
tendenza ad astrarre dalla dimensione sociale e a ricondurre i fenomeni di comunicazione a stati mentali e a
bisogni strettamente individuali (Morley, 1980). Nella loro formulazione classica, che si precisa fra gli anni
Sessanta e gli anni Ottanta (McQuail, 1997), la proposta degli U+G è riconducibile a tre assunti: il primo è
che le audience sono attive e i comportamenti sono spiegabili logicamente; il secondo è che le aspettative e
il conseguente uso dei media hanno origini psicologiche e sociali; la terza, e più tarda, acquisizione è che
quanto più i bisogni sono percepiti come salienti, tanto più consapevole e soddisfacente sarà il consumo.
Questa cornice teorica pone alcuni problemi, che divengono evidenti nel confronto polemico che si
accende, negli anni Ottanta, con gli studi della comunicazione anglosassoni e con la tradizione di ricerca che
fa capo ai cultural studies e alla Scuola di Birmingham. Oltre alla questione della mancanza di un’apertura
alla dimensione sociale che costituisce, secondo gli studiosi inglesi, un limite strutturale degli U+G che
impone il loro superamento (Morley, 1980), tre altre obiezioni di fondo vengono rivolte agli U+G. La prima
riguarda l’assenza di una qualsiasi attenzione alle condizioni in cui i fruitori usano i media: si parla di usi, ma
questi non vengono descritti, né si conoscono le specificità delle diverse situazioni di consumo; la seconda
obiezione ha a che vedere con la mancanza di attenzione per il testo, per la sua proposta culturale e per i
significati che si generano durante la fruizione, che trasforma la fruizione stessa in un gesto meccanico e
asettico; la terza obiezione, infine, è di natura marcatamente metodologica e denuncia l’opzione esclusiva
per strumenti quantitativi di ricerca e la riduzione della fase di interpretazione all’elaborazione di indici
numerici (Schrøder, 1999). Nella sua prima formulazione il modello di fruitore attivo si rivela problematico e
difficilmente sostenibile: le audience descritte dagli U+G sono costrette dentro un meccanismo non meno
ferreo e soffocante di quello costruito dalle teorie degli effetti forti, impegnate in una costante disamina dei
propri bisogni e delle loro priorità, sempre presenti a se stesse per poter trarre soddisfazione e beneficio
dall’uso dei media. Pur con le sue criticità, il modello del fruitore attivo proposto dagli U+G imprime tuttavia
una spinta alla riflessione sulle audience, sia mettendo a disposizione una messe di dati sui bisogni e sulle
abitudini di consumo, sia e soprattutto sollecitando all’elaborazione di un nuovo e più sostenibile paradigma
di ricerca.

1.2. Attivo sì, ma con misura

All’inizio degli anni Novanta una serie di interventi, teorici e di metodo, evidenziano la necessità di andare
oltre il modello dello spettatore iperattivo proposto dalle teorie degli U+G. L’elemento decisivo per il
superamento delle teorie dello spettatore consapevole e strategico, alla ricerca costante di esperienze
capaci di “soddisfare” i suoi bisogni è la normalizzazione dell’attività dell’audience. Nel 1994, Silverstone,
chiudendo la sua analisi dei processi di consumo in ambiente domestico, affermava che parlare di audience
attiva è una tautologia, nella misura in cui tutte le audience sono attive, “in un modo o nell’altro”
(Silverstone, 1994: 258). Grossberg, Wartella e Whitney, nel 1998, arrivano persino a enunciare quattro
prove a sostegno della “naturale” attività dell’audience. La prima è il coinvolgimento cognitivo; scrivono i tre
studiosi: “persino il couch potato è cognitivamente coinvolto con il set televisivo: il couch deve focalizzare
l’attenzione sullo schermo, deve elaborare i pixel in immagini riconoscibili, deve elaborare queste immagini
come rappresentazioni di una qualche realtà, riempire i vuoti della narrazione presentata dallo schermo
televisivo, costruire il senso del messaggio che proviene dallo schermo” (Grossberg, Wartella e Whitney,
1998: 239). La questione non è dunque se tutti gli spettatori siano attivi, ma come questa attività si
manifesta nei diversi contesti di fruizione e a fronte dei diversi dispositivi mediali. La seconda prova adottata
dai tre autori si ricava dalle evidenze del disallineamento fra le previsioni dei media e il comportamento
delle audience; qui si fa riferimento nello specifico alle ricerche sugli usi dei media. La terza prova si ricava
dagli studi sulle ICT, ovvero sulle tecnologie della comunicazione, e sul loro uso da parte delle audience.
Anche in questo caso la dimostrazione della capacità delle audience di essere sempre e comunque attive,
sebbene con gradi diversi, è data dall’emergere di usi non previsti e, al limite, illegali dei mezzi: la diffusione
degli audioregistratori, per esempio, se per un verso corrisponde all’investimento dell’industria musicale su
un nuovo supporto, per un altro si accompagna alla comparsa di fenomeni di pirateria, come la duplicazione
illegale delle audiocassette, che disattendono e sabotano il sistema. Da ultimo, la prova irrefutabile che tutti
i fruitori sono per definizione attivi deriva dalla prima stagione degli studi sulla ricezione e dalla
dimostrazione della capacità degli utenti di intervenire sulla proposta mediale e sui suoi significati in modo
da acconciarla a sé, alle proprie aspettative e ai propri desideri. La naturalizzazione del carattere attivo delle
audience corre di pari passo con la critica al modello dello spettatore resistente. Martin Baker, per esempio,
porta il caso paradossale di uno spettatore di cinema che scelga “una sala calda e con delle buone poltrone
nelle quali potersi accasciare, in cui il suono ci avvolge, abbastanza vicino allo schermo per ricevere il più
shockante impatto dagli effetti speciali” (Baker, 1998: 187). Ora questo tipo di attività prelude a
un’esperienza abitualmente descritta come “passiva”: lo spettatore pienamente coinvolto nella visione e
fagocitato dal dispositivo. Attivo e passivo sono dunque, quanto meno, due atteggiamenti che si possono
ritrovare nella stessa pratica di fruizione e distinguerli appare a Baker un’operazione capziosa e sterile. Di
più, secondo Sonia Livingstone (1998a), nessuna delle ricerche sul fruitore resistente è stata in grado di
fornire delle indicazioni metodologicamente e teoricamente convincenti su come riconoscere e discriminare
una lettura oppositiva, da una preferita o negoziale. L’assunto che tutti i fruitori sono attivi si lega dunque
strettamente a una problematizzazione dell’“atto” di fruizione, che diviene l’oggetto specifico di indagine di
quella che per molti (fra tutti Moores, 1993) è già la seconda stagione degli studi sulle audience.

1.3. Uno sguardo antropologico sul consumo dei media

La cornice all’interno della quale prende forma il modello dello spettatore intraprendente è quindi la
seconda e più matura fase delle ricerche di stampo etnografico La fase etnografica delle ricerche
sull’audience nasce dall’incontro fra cinque tradizioni di studio. Per essere precisi, più che di un incontro si
tratta di un innesto fra quattro filoni di ricerca che avevano già contribuito a sviluppare la prima stagione
degli studi sulle audience (gli studi politologici della Scuola di Birmingham, le teorie e le ricerche sulle forme
di resistenza al testo, i gender studies e il poststrutturalismo) e l’approccio degli U+G. Il terreno di incontro
fra la tradizione degli studi anglosassoni (e australiani) sulle audience e le ricerche statunitensi sulle funzioni
sociali dei media è costituito dalla comune problematizzazione dell’esperienza di fruizione e dalla
convinzione che essa vada indagata “sul campo”. Si apre così una stagione particolarmente prolifica di
ricerche, il cui assunto teorico può essere sintetizzato in quattro punti: l’esperienza di fruizione sottende
sempre e comunque un coinvolgimento attivo da parte del fruitore; il fruitore è un soggetto sociale
complesso, costruito da una pluralità di elementi e fattori (psicologici, cognitivi, etnici, di genere, politici,
legati al ruolo sociale) che devono essere tenuti presente per comprendere i processi di ricezione;
l’esperienza di visione è collocata socialmente e culturalmente; l’esperienza di visione genera risorse che lo
spettatore spende nella propria vita quotidiana. All’interno di questa cornice si sviluppano una serie di
progetti di ricerca che rappresentano la “Golden Age” degli audience studies.

2. Lo spettatore intraprendente
2.1. Se anche i bambini...

le ricerche sui bambini rappresentano uno dei primi – probabilmente il più importante – filone di indagine
sullo spettatore “in carne e ossa”. L’idea corrente che informa queste ricerche è icasticamente sintetizzata
dall’immagine dei “bambini dagli occhi quadrati” (Moores, 1993), ipnotizzati dallo schermo
cinematografico, prima, e televisivo, poi; privi di difese e delle strutture cognitive necessarie a porsi in modo
critico nei confronti dei media. Rispetto a questo pregresso, che trova ampio sostegno nell’opinione
pubblica, gli studi e le indagini empiriche che si sviluppano nella seconda metà degli anni Ottanta si
prefiggono un doppio intento: il primo è quello di dimostrare che i bambini possiedono tutte le competenze
necessarie a una lettura attiva (e non re-attiva) dei media e delle loro proposte; il secondo obiettivo è
portare a un rinnovamento della pedagogia dei media, che veda nella televisione e, in generale, nei mezzi di
comunicazione non un pericolo, un rischio da cui mettere al riparo i minori, ma un’opportunità di crescita e
di sviluppo di saperi e di competenze. Le ricerche che hanno avuto un maggiore impatto sul dibattito e che
in modo più incisivo hanno contribuito a reindirizzare le politiche su media e minori sono tre. La prima è
l’indagine condotta da Patricia Palmer (1986; 1988) su un ampio campione di bambini e sul loro rapporto
con la televisione. La ricerca di Palmer, sotto il profilo metodologico, rappresenta un esempio ante litteram
di quella terza fase di studi delle audience che Pertti Alasuutari (1999) definisce multidimensionale. Palmer
struttura infatti il suo lavoro in tre fasi: nella prima, vengono ricostruiti le immagini e gli usi della televisione
di 64 bambini, fra gli 8 e i 12 anni, attraverso interviste singole e in profondità; nella seconda fase, si
conducono una serie di osservazioni partecipanti, presso 23 famiglie, con l’obiettivo di ricostruire, in un
contesto naturale, le modalità di impiego della televisione e, segnatamente, il modo con cui la fruizione
viene incorporata nelle routine domestiche dei bambini e nelle dinamiche relazionali della famiglia; nella
terza fase, infine, i risultati delle due indagini qualitative vengono verificati (triangolati) con gli esiti di
un’indagine semi-estensiva, su 500 giovani spettatori.
Palmer rileva la capacità dei bambini di costruire dei set di visione “a propria misura”, in cui la televisione è
un fuoco primario di attenzione, ma non l’unico, e che sono abitati da una serie di oggetti e attività che si
intrecciano con la fruizione e diventano parte integrante dell’“esperienza della televisione”. Poi la ricerca di
Palmer evidenzia l’esistenza di una pluralità di modi d’uso del mezzo, a partire dalla durata delle sedute di
visione. Palmer osserva che alcuni bambini trascorrono più tempo (a volte, molto tempo) davanti al mezzo
televisivo; tale modalità d’uso – più diffusa presso le classi meno agiate – non si accompagna tuttavia a un
comportamento “passivo”, ma viene anzi caratterizzata (e compensata) da una molteplicità di attività che si
svolgono in contemporanea al consumo della tv. Infine, Palmer rileva una differente casistica di forme di
ricezione del mezzo, a partire dal grado di attenzione con cui i bambini si relazionano ai contenuti proposti
dalla televisione, che dimostra come i minori, non diversamente dagli adulti, sviluppano modi personali di
relazione con i media che vanno riconosciuti e indagati con cura. È questo un punto di contatto importante
con le ricerche di taglio psicologico e cognitivista, che in questo torno di anni sono similmente impegnate a
ricostruire i modi con cui i bambini interagiscono con la televisione (Bryant, Anderson, 1983; Wolf, 1987).

La seconda ricerca è lo studio di Bob Hodge e David Tripp (1986) sui processi di ricezione e sulle modalità
con cui i bambini danno senso a ciò che vedono in televisione. La ricerca consiste nel mostrare a un
campione di spettatori, della stessa età di quelli considerati da Palmer, il frammento di un cartoon che non
conoscono e di analizzare i processi interpretativi e inferenziali che si attivano. Lo studio evidenzia la
capacità dei bambini di riconoscere le marche di genere del testo, anche se visto per la prima volta, e di
applicarvi in modo corretto le competenze apprese mediante la fruizione di prodotti simili; in particolare, i
giovani spettatori si dimostrano capaci di anticipare gli sviluppi della narrazione, attivando dunque
meccanismi cognitivi complessi e tipici di una fruizione “adulta”.

Infine la ricerca di David Buckingham (1987) sul consumo della serie EastEnders svolge un ruolo decisivo nel
saldare la ricerca accademica con il dibattito e le politiche pubbliche. Il successo della serie scatena infatti in
Gran Bretagna una violenta polemica sui contenuti della soap, considerati inappropriati per un pubblico
giovane. La ricerca di Buckingham, su un campione di bambini e di adolescenti dai 7 ai 18 anni, restituisce
un quadro della situazione assai diverso. Di fronte alla serie, bambini e adolescenti attivano infatti modalità
di ricezione articolate, che alternano il pieno coinvolgimento nelle vicende narrate con letture ironiche che
disinnescano il potenziale drammatico della soap e che evidenziano, nuovamente, l’alto livello di
competenza di cui sono portatori i giovani spettatori. Se anche i bambini sono quindi in grado di
interpretare con competenza i contenuti mediali, seppure complessi, di metterli in relazione con la propria
vita quotidiana e con le altre attività che svolgono, e di trasformare l’esperienza di fruizione in un’occasione
di apprendimento e di acquisizione di risorse, questo viepiù deve valere per gli spettatori adulti.

2.2. Questione di feeling: la visione attiva delle soap opera

Negli anni Ottanta, le soap opera rappresentano un genere trainante e di grande rilevanza per l’industria
mediale e il loro successo presso il pubblico femminile avvia una feconda discussione sulle relazioni che si
istituiscono fra testi mediali, in apparenza compromessi con l’ideologia patriarcale, e l’esperienza delle
spettatrici. Questo filone di studio si intreccia strettamente con la riflessione sui cosiddetti “film per donne”
e più in generale sui prodotti popolari elettivamente indirizzati ad un pubblico femminile (Kuhn, 1984) e
procede lungo un doppio binario. La prima direzione imboccata dalla ricerca è tesa a ribadire il carattere
“aperto” della testualità dei prodotti popolari e delle soap, in particolare. Spiega Robert Allen (1995: 26) che
il serial è “una forma di narrativa organizzata intorno a vuoti del testo istituzionalmente imposti (...). Questi
vuoti danno agli spettatori il tempo necessario per discutere tra loro sia dei possibili significati degli
avvenimenti accaduti sia di che cosa potrebbe accadere in seguito”. Inoltre, le studiose femministe rilevano
anche, all’interno della soap opera, la presenza di elementi estranei all’ideologia patriarcale, a partire dalla
caratterizzazione delle protagoniste: donne in carriera, potenti e di mezza età. La natura non ovvia del testo
sollecita il pubblico a istituire un rapporto attivo con il genere che diviene un terreno di vivace negoziazione
fra media e identità femminile. Le forme di tale negoziazione costituiscono l’oggetto della seconda vague di
ricerca sulle soap opera, che offre un contributo di grande importanza alla comprensione dei processi di
fruizione dei media e al consolidamento del modello dello spettatore attivo e intraprendente. Anzitutto la
struttura narrativa della soap, le molte pause e i frequenti dialoghi che la caratterizzano, rende la fruizione
relativamente duttile: un’attività non esclusiva e compatibile con lo svolgimento di altre incombenze e
compiti. Questo tratto spiega il grande successo del genere presso le casalinghe e il pubblico femminile di
mezza età e mostra il carattere attivo e negoziale della relazione che si sviluppa fra proposta mediale (in
questo caso i suoi tempi) e scelte ed esperienze di consumo. Poi la presenza di personaggi “alternativi” o di
situazioni che sfidano gli stereotipi di maschile e di femminile della cultura patriarcale hanno il potere di
trasformare la visione in un’occasione di riflessione su di sé, sulla propria condizione, sui propri desideri, e
quindi anche di elaborazione di una coscienza politica 39 . Tale effetto è mediato dai discorsi sociali che si
attivano intorno alla televisione e che diventano un altro elemento fondamentale da considerare per
comprendere l’esperienza di visione e valutare le sue relazioni con il contesto sociale in cui lo spettatore è
immerso. In terzo luogo, il bagaglio di competenze messe in campo dalle spettatrici durante la visione delle
soap opera consente al pubblico di bypassare le contraddizioni del testo e, soprattutto, di sottrarlo (e di
sottrarsi) alla sanzione sociale.

Se infatti le soap opera presentano senz’altro una ricostruzione della realtà immaginaria e, spesso, priva di
coerenza, esse sono tuttavia portatrici di un realismo emozionale, che si manifesta nella rappresentazione
vivida e intensa dei sentimenti. L’attitudine dello spettatore risulta comunque attiva e propositiva e la
fruizione si presenta come una complessa attività di mediazione fra la propria identità reale, quella
aspirazionale, il mondo di vita in cui si è calati, le incombenze a cui si è chiamati, e la ricerca di
soddisfacimento e di piacere. Come i bambini, dunque, anche le donne, da sempre considerate “soggetti
deboli” nell’azione comunicativa, si rivelano fruitori intraprendenti e smaliziati, che si relazionano
propositivamente ai media.

2.3. Consumare, interpretare, fare esperienza

Sebbene non si arrivi alla formulazione di un vero e proprio paradigma, le ricerche che considerano
l’audience come un soggetto attivo, intraprendente e propositivo, si ritrovano intorno ad un’idea comune di
fruizione che si caratterizza per quattro tratti. Anzitutto l’esperienza di consumo dei media viene descritta
come un processo olistico, che coinvolge più livelli della persona: cognitivo ed emotivo, conscio e inconscio.
Persino alcune categorie della psicoanalisi vengono recuperate per spiegare, per esempio, l’esperienza di
visione delle soap opera o dei romanzi rosa o anche, e in generale, la fruizione in ambiente domestico. È
esemplare la ricostruzione che Valerie Walkerdine (1986) propone della visione del film Rocky II presso una
famiglia inglese della working class. Walkerdine spiega la passione del capofamiglia per il film e i significati
attivati come espressioni di desiderio e istanze della fantasia. La teoria della fantasia, intesa come forma
primigenia di desiderio (Laplanche, Pontalis, 1967), ha avuto anche un’importante applicazione nello studio
delle esperienze di visione che il pubblico femminile fa dei film “per uomini”, come i film horror o hardcore.
La fruizione, dunque, si presenta come un processo che coinvolge la totalità della persona e come
un’esperienza stratificata, che può essere analiticamente scomposta in più piani. i percorsi di ricerca di
molte delle indagini che si collocano all’interno di questo filone di studi sono scanditi dalla scoperta di
“livelli ulteriori” dell’esperienza dei media, che inducono a riformulare le ipotesi di partenza o a riorientare
la ricerca. Prendiamo il caso dell’indagine condotta da Janice Radway (1987) sull’esperienza di lettura di
romanzi rosa. La ricerca di Radway condotta su un campione di lettrici di una cittadina del Midwest si
propone inizialmente di ricostruire i processi di ricezione dei romanzi, ovvero di analizzare le interpretazioni
che le lettrici davano dei personaggi e delle situazioni rappresentate. Nel corso delle interviste Radway si
rende tuttavia conto che i significati associati all’esperienza di lettura erano in parte avulsi dalle trame e dai
contenuti e dettati piuttosto dal valore attribuito all’atto di fruizione. La funzione sociale della lettura si
aggiunge così all’interpretazione del significato. Questo doppio passo dell’esperienza di fruizione
(variamente denominato: traslazione e trasposizione; incorporazione e appropriazione rappresenta un
Leitmotiv delle ricerche sullo spettatore intraprendente e un importante lascito che esse affidano ai
successivi studi dell’audience. Infine, l’esperienza di fruizione viene raccontata come un processo variabile,
che cambia non solo al mutare del testo o del fruitore, ma anche come esito della trasformazione (o
alterazione) della situazione di consumo. Su questo punto si intrecciano due linee di riflessione. I film
studies che intendono la trasformazione della situazione comunicativa essenzialmente come una modifica
delle condizioni tecniche e materiali della visione e gli studi sulla televisione che si preoccupano
primariamente della trasformazione del contesto relazionale. La variabilità del processo di fruizione ha
naturalmente a che vedere anche con il mutamento della cornice storica e con la conseguente
riconfigurazione dei discorsi sociali sul testo e sui media che spostano e ridefiniscono a loro volta i termini
dell’esperienza delle audience. Alla metà degli anni Novanta, Virginia Nightingale sintetizza in questo modo i
tratti dell’esperienza mediale: un’interazione simbiotica che lega una persona con un testo, un’industria
mediale, un medium e/o un sistema di pubblicità; una performance che presenta comunque e sempre un
elemento di “eccedenza” rispetto ai modelli di consumo previsti dall’industria mediale e alle forme di uso
dettate dal contesto sociale; un esercizio di potere, da parte dei media di offrire lo statuto di audience e da
parte delle persone di accettare, rifiutare o modificare tale posizione; e infine un’azione funzionale ad
adattare la storia dei soggetti, il loro quotidiano, la loro materia biografica al contesto storico e sociale in cui
sono immersi, e viceversa (Nightingale, 1996: 149-150). È su questa base teorica che si impianta l’ambizioso
progetto delle ricerche etnografiche sulle audience.

2.4. Audience in 3D

Un terzo e fondamentale contributo alla comprensione dell’esperienza di fruizione e alla definizione del
modello di spettatore attivo è dato dalle ricerche che mettono a tema la relazione fra l’identità sociale degli
spettatori e il consumo mediale. In polemica con gli approcci degli U+G, un ampio novero di ricerche – a
partire dalla celebre indagine del 1980 diretta da David Morley sulla ricezione di Nationwide – analizza
l’influenza che il contesto esercita sulle pratiche di ricezione, attraverso la relazione fra modi di consumo e
tratti sociali dell’identità dei fruitori: la professione, il gender, la generazione di appartenenza e così via.
L’attenzione a cogliere la pluralità degli elementi sociali che definiscono l’identità del fruitore e, per suo
tramite, le forme dell’esperienza mediale è condivisa e pienamente acquisita già dalla ricerca seminale di
Morley sul consumo di Nationwide. Nell’introdurre i risultati dell’indagine, che come è noto prova a
verificare la tenuta del modello della codifica e decodifica elaborato da Stuart Hall ricostruendo le forme di
ricezione di diversi soggetti sociali, Morley afferma infatti che “le interpretazioni di differenti gruppi
potrebbero sovrapporsi le une alle altre” (Morley, 1980: 26) e che l’identità delle audience è un composto
combinato di più fattori, in cui le tradizionali variabili socio-demografiche (classe, professione...) si
sommano a variabili di ordine culturale (per esempio, l’appartenenza a gruppi o a subculture), dando vita a
costrutti stratificati e a segmentazioni delle audience più fitte di quelle che usualmente si considerano e che
corrono lungo linee non sempre evidenti La pluralità delle ricezioni e dell’esperienza che si può fare di un
testo dipende dunque dalla molteplicità delle posizioni e dei ruoli sociali del fruitore. Un altro colpo sferrato
alle letture deterministiche del consumo di media: se è ormai pacifico che né il dispositivo né il testo
“determinano” l’esperienza di fruizione, ora diviene chiaro anche che a farlo non può essere neppure un
singolo tratto dell’identità del soggetto: che sia la classe o il gender o l’etnia. Questa convinzione guida
anche le analisi sui processi di ricezione del film. Lo studio delle correlazioni fra identità sociale e
interpretazione dei testi rappresenta senz’altro la parte più consistente degli audience studies in ambito
cinematografico, sebbene tali ricerche siano poi, più appropriatamente riconducibili al paradigma dello
spettatore resistente. La complessità dell’identità del fruitore e la necessità di esaminarla analiticamente,
andando oltre le partizioni sociali consuete ed evitando la trappola del determinismo sociologico,
rappresenta dunque un ulteriore e fondamentale assunto che irrobustisce il modello dello spettatore
intraprendente e spinge verso una disamina ancora più attenta e sistematica del ruolo del contesto nelle
pratiche di consumo.

3. Le audience “in azione”

Lo studio delle audience in azione si propone di ricostruire le pratiche empiriche di fruizione dei media e di
cogliere la rete di connessioni che lega il consumo alle attività della vita quotidiana. In queste ricerche lo
spazio, inteso come space, cioè come spazio abitato da soggetti e da artefatti, e attraversato da flussi di
azione, è centrale (Morley, 2000). La fruizione si precisa infatti come un processo situato, collocato in una
cornice, più o meno estesa e strutturata, da cui dipendono i tempi, i modi e i significati sociali
dell’esperienza mediale.

3.1. Sei tutto il mio mondo: la coppia come frame del consumo

Alla fine degli anni Novanta, quando la stagione d’oro delle ricerche sullo spettatore “in azione” stava
volgendo al termine, David Gauntlett e Annette Hill pubblicano Tv Living (Gauntlett, Hill, 1999). Il testo
propone una lettura in chiave “etnografica” dei risultati di un esteso monitoraggio, intrapreso all’inizio del
decennio e durato cinque anni, di un campione di spettatori e del loro rapporto con la televisione. La ricerca
si presenta come una forma rivisitata di etnografia. Sul piano del metodo, i due autori propongono di
andare oltre il “contestualismo radicale”, che aveva caratterizzato le prime etnografie del consumo, e di
adottare un approccio più pragmatico e snello, che selezioni i soli elementi che si considerano rilevanti nella
definizione (ed eventualmente nel cambiamento) dei modi di fruizione dei media. Sul piano teorico il testo
invita a restituire al fruitore lo statuto di soggetto sociale complesso, non riducibile al ruolo che ricopre
all’interno della famiglia, né a singole variabili, come quella di gender. I destinatari delle osservazioni
critiche di Gauntlett e Hill sono, primariamente, David Morley e Ann Gray che, nella seconda metà degli anni
Ottanta, realizzano due importanti ricerche. La prima, diretta da Morley nel 1986, si propone di ricostruire le
forme del consumo di televisione all’interno di 18 famiglie che risiedono in un sobborgo a sud di Londra. La
ricerca di Morley identifica nel rapporto fra bread-winner – cioè il capofamiglia, colui o colei che garantisce
il sostentamento economico del nucleo – e coniuge – chi sta a casa e si fa carico delle incombenze
domestiche – la cornice primaria del consumo di televisione. L’associazione è così stretta che Morley
identifica due stili di visione, uno più libero e goduto, che si caratterizza per la prevalenza di momenti di
fruizione focalizzata, in cui lo spettatore è completamente assorbito dal consumo; e uno più frammentato e
discontinuo, spesso accompagnato da sensi di colpa, che non esita a denominare, rispettivamente, maschile
e femminile. L’orizzonte entro cui si definisce il rapporto con la televisione è dunque costituito,
primariamente, dal rapporto di coppia, della divisione dei ruoli nel nucleo domestico, divisione che, nel
campione analizzato da Morley, coincide quasi perfettamente con la differenza di genere sessuale. Anche la
ricerca di Ann Gray (1992) sull’uso del videoregistratore identifica la cornice del consumo con la relazione
marito/moglie, uomo/donna. Il rifiuto di molte delle casalinghe dell’indagine di Gray di usare il
videoregistratore viene spiegato come una strategia di difesa: non usare significa non dover rispondere di
un altro elettrodomestico e non doversi far carico delle eventuali richieste del marito o dei componenti
della famiglia. La tesi di Morley e di Gray è anche l’ovvio portato della fase che gli studi sulle audience
stanno attraversando e dello specifico contesto storico e sociale che fa da sfondo alle due ricerche. Resta da
osservare che le obiezioni avanzate da Gauntlett e Hill, per quanto condivisibili, non sembrano cogliere la
radice del problema: l’idea che la coppia sia il luogo esclusivo o primario in cui l’identità di genere sessuale
si definisce.

3.2. Genitori e figli: le dinamiche intergenerazionali del consumo di media


Una visione più ampia della cornice dentro la quale prendono forma le pratiche di fruizione ci viene
restituita dalle ricerche di James Lull (1990) sugli usi della televisione nello spazio domestico di 200 famiglie
residenti negli Stati Uniti. Il contributo di Lull è importante per più ragioni. La prima è appunto l’estensione e
la complessificazione del frame del consumo televisivo: per Lull, la famiglia è un costrutto articolato, che ha
poco a che vedere con l’idealtipo della famiglia nucleare, e che presenta strutture e funzionamenti assai
diversi a seconda del contesto socioculturale, della classe sociale di appartenenza, delle condizioni materiali
di vita. In secondo luogo, le dinamiche familiari sono descritte come un insieme di interazioni, che non
coinvolgono solo la coppia genitoriale, ma che si sviluppano anche lungo l’asse generazionale, nel rapporto
fra adulti e minori, genitori e figli. In terza istanza, la famiglia viene descritta come un organismo inserito in
un più ampio sistema sociale: Lull distingue fra famiglie che sono orientate all’esterno e che intrattengono
relazioni con il contesto e famiglie che sono più orientate all’interno, che tendono a isolarsi dal contesto
sociale, spesso sviluppando tensioni e conflittualità. Le pratiche di consumo si disegnano dunque all’interno
di uno spazio variabile, che rende indispensabile un’osservazione diretta e in presentia. Il lavoro di Lull si
caratterizza non a caso per un uso estensivo degli strumenti etnografici. Dal punto di vista teorico, infine, il
contributo di Lull si pone come anello di giunzione fra i communication studies statunitensi e la tradizione di
ricerche sui media e sulle audience di matrice anglosassone. Si tratta di un incontro che consente agli studi
culturali di acquisire metodologie empiriche più solide e alla ricerca statunitense di dare un maggiore
spessore teorico alle proprie analisi. La posizione liminale di Lull emerge chiaramente dalla sua teoria degli
usi sociali dei media. Nel descrivere le pratiche di fruizione della televisione Lull parla di “usi”, distinguendoli
fra strutturali (che hanno a che vedere con la gestione del tempo o dello spazio) e relazionali (che sono
funzionali a sostenere o a modificare i rapporti fra i componenti della famiglia). Dall’approccio degli U+G Lull
eredita l’idea che ci siano dei bisogni e che questi, più o meno esplicitamente, orientino le scelte e i modi di
consumo della tv. Rispetto agli U+G, tuttavia, tali bisogni non vengono separati e ricondotti ai singoli
individui, ma sono piuttosto espressione del gruppo familiare, inteso come soggetto collettivo. Questa idea
complessa e articolata di famiglia, insieme al metodo dell’osservazione partecipante, attraversa l’oceano e
influenza significativamente le ricerche europee sulle audience “in azione” dei primi anni Novanta. Fra
queste, la ricerca diretta da Francesco Casetti (1995), sul consumo di televisione in 32 famiglie italiane,
segna un importante avanzamento nella comprensione dei processi di fruizione e nell’impostazione della
ricerca. Le funzioni della televisione vengono infatti ricostruite attraverso l’analisi sistematica dei commenti
che accompagnano il consumo di televisione. L’ipotesi che prende forma nella ricerca di Casetti è che il
significato e il valore dell’esperienza di fruizione vengono definiti di volta in volta, in funzione della
particolare situazione di visione, e attraverso la mediazione dei discorsi fra i componenti della famiglia. La
cornice sociale della fruizione, quindi, oltre ad allargarsi si fa anche mutevole e instabile, un sistema
dinamico che cambia e che fa cambiare il ruolo, il significato e le funzioni della televisione e dei media. La
ricerca di Casetti problematizza anche la nozione di fruizione, riprendendo il modello elaborato all’inizio
degli anni Novanta da Silverstone, e quindi l’idea che il consumo dei media sia un’esperienza generatrice,
che rilascia risorse che i membri della famiglia possono investire dentro o fuori le mura domestiche. Inoltre,
Casetti prova a recuperare il confronto con il testo, di fatto rimosso dalle ricerche sullo spettatore “in
azione”, individuando una correlazione fra alcune tipologie di funzioni della tv e i generi televisivi. Il quiz,
per esempio, sembra prestarsi più di altri generi a produrre risorse di tipo relazionale, che i componenti
della famiglia possono investire, nelle forme che già Lull aveva classificato, nella gestione dei rapporti intra
ed extradomestici.

3.3. L’economia morale della famiglia

In un’accezione ancora più complessa e avanzata, la famiglia viene infine considerata come un sistema di
transazione”, che è in un rapporto costante con il contesto esterno, con cui scambia merci simboliche
(significati) e artefatti. L’idea dell’ambiente domestico (household) come un’“unità economica, sociale e
culturale” viene formalizzata nel quadro della celebre ricerca sulla percezione e sugli usi della televisione e
delle tecnologie della comunicazione in ambiente domestico avviata all’inizio degli anni Novanta da Roger
Silverstone presso la Brunel University. Il progetto di ricerca si propone di indagare le dinamiche di
incorporazione dei media nello spazio domestico e gli effetti che tali processi determinano sull’immagine
sociale delle tecnologie, sul valore e sul significato che vengono loro attribuiti e sugli usi a cui si rendono
disponibili. Il frame domestico si trasforma dunque in un sistema dinamico e produttivo, che si adatta e,
contemporaneamente, adatta a sé le proposte che l’industria mediale elabora, contribuendo a ratificare
alcuni usi delle tecnologie e proponendone di alternativi. Il complesso processo dell’appropriazione e poi
conversione delle tecnologie, viene definito domestication, ovvero addomesticamento, adattamento dei
media alle esigenze della famiglia e alla sua “economia morale” cioè al patrimonio di conoscenze,
convincimenti, regole, abitudini che definiscono uno specifico ambiente domestico e che guidano le
pratiche della vita quotidiana di chi lo abita.

Le nozioni di economia morale e di domestication insieme al concetto di household, hanno inoltre


contribuito in modo decisivo a spingere le ricerche sulle audience verso una nuova fase, la terza secondo
Pertti Alasuutari (1999), che si caratterizza per un allargamento ulteriore della prospettiva di studio e per lo
sforzo di interpretare i processi di fruizione e le audience in stretta relazione con le dinamiche macrosociali,
a partire dai processi di globalizzazione. Un esempio per tutti, l’ampia ricerca etnografica diretta da Marie
Gillespie fra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta sul consumo di televisione presso la comunità
Punjab residente a Londra (Gillespie, 1995). La ricerca, durata tre anni, evidenzia la stretta relazione fra le
pratiche di consumo televisivo che si svolgono all’interno della famiglia, e che intrecciano la visione della
televisione inglese con il consumo di videocassette di Bollywood, e le dinamiche di costruzione delle
identità diasporiche (Woodward, 1997), ovvero il complesso e spesso drammatico processo di negoziazione
fra la propria cultura di origine e la cultura del paese ospitante.

Il modello della domestication sancisce quanto le ricerche sulle audience ostili e quelle sulle audience attive,
avevano ipotizzato, ovvero la capacità dei pubblici di modificare il sistema mediale. La differenza essenziale
rispetto all’attivismo del fruitore ostile e alla morbidezza degli interventi delle audience intraprendenti è che
il cambiamento teorizzato da Silverstone è incisivo e interviene come esito naturale, non pianificato,
dell’esperienza di fruizione dei soggetti. Una visione ecologica, insomma, che consente al sistema di
evolvere contemperando le logiche di sviluppo dell’industria culturale con i valori, le aspettative, i
desiderata degli spettatori e che assegna alle audience un ruolo chiave nella definizione degli assetti
mediali.

IV. Le audience performative

Nel corso degli anni Novanta, e in particolare in coincidenza con il passaggio al nuovo millennio, il dibattito
sulle audience subisce più una messa a punto della rotta che non un vero cambiamento di direzione. Gli
assunti che informano gli studi e la riflessione teorica sulle audience performative sono, infatti, gli stessi che
abbiamo incontrato esaminando il modello dello spettatore attivo. A cambiare sono piuttosto le dimensioni
e l’intensità dei fenomeni: la diffusione della rete informatica rende l’interattività una condizione abituale
dell’esperienza delle audience; la crescita e il potenziamento dei supporti mobili consentono di affrancare in
via definitiva le pratiche di consumo dai luoghi e dai tempi decisi dai media imprimendo all’esperienza un
tratto marcatamente personale; l’accesso a so ware e ad altri strumenti di generazione dei contenuti
trasforma le audience da consumatori a soggetti impegnati in processi di elaborazione e manipolazione dei
prodotti. Quello che lo studio delle audience intraprendenti e “situate” ancora configurava come una
condizione ideale diviene il quadro ordinario di riferimento delle pratiche di consumo. Il potenziamento del
ruolo delle audience nei processi mediali viene registrato essenzialmente in tre loci del dibattito. Il primo è
costituito da un insieme, composito e trasversale a diversi ambiti disciplinari, di contributi che teorizzano
l’emergere di una nuova figura di spettatore, tecnologicamente competente e capace di sfruttare le
opportunità che i supporti digitali gli mettono a disposizione; il secondo “luogo” del dibattito si struttura
intorno al contributo di Abercrombie e di Longhurst (1998) sulle audience diffuse e si focalizza sulla
ridefinizione dei termini della relazione fra utente e istituzioni mediali; il terzo locus è costituito dalle
ricerche sui fan e, segnatamente, sulle forme che le comunità e le culture fan assumono all’interno della
rete ed è centrato sull’analisi delle nuove pratiche spettatoriali e della “produttività” delle audience.

1. Insiders, spettatori aristocratici e iperspettatori

La riflessione sul rapporto fra audience e supporti tecnologici trova alla fine del decennio un terreno
particolarmente fertile e ricettivo nelle ricerche sul cinema. Il centenario della nascita del cinema, con i suoi
bilanci e le sue previsioni; la complessificazione della geografia dei luoghi della fruizione e la constatazione
dell’irreversibilità del processo di dislocazione del film al di fuori della sala (Casetti, 2012) e del
cambiamento degli stessi spazi canonici di visione; il potenziamento delle tecnologie e dei supporti per la
fruizione “in mobilità” generano una nuova ondata di riflessioni sullo spettatore cinematografico. Si tratta in
parte di tributi nostalgici a quello che il cinema era stato e alla sua capacità di generare esperienze
letteralmente palingenetiche; in parte di riflessioni che si sforzano di capire e di valutare le forme che
l’esperienza di fruizione del film va assumendo. All’interno di questo secondo novero si collocano una serie
di studi che esaminano le forme dell’esperienza cinematografica nei nuovi contesti della visione e che si
interrogano sul rapporto fra spettatore e film. Sullo sfondo si legge lo sforzo di mostrare l’attualità
dell’esperienza del cinema e di consegnare al medium un lasciapassare per il nuovo millennio. In
particolare, il dibattito si raccoglie intorno a tre temi che vengono sinteticamente rappresentati attraverso
altrettante immagini di spettatore. La prima e fondamentale questione è come combinare l’intensità
dell’esperienza cinematografica e il coinvolgimento dello spettatore nel film e nella visione con il diktat
dell’interattività. Ci prova Gianluca Sergi in un saggio pubblicato nel 2001. L’autore si interroga sui
cambiamenti che intervengono nell’esperienza dello spettatore postmoderno o postclassico come
conseguenza del potenziamento delle tecnologie audio. Secondo Sergi la valorizzazione del sonoro
permette di amplificare il carattere multisensoriale dell’esperienza di fruizione, allineandola a quella di altri
e più recenti media. Inoltre, la moltiplicazione delle opportunità di visione, anche in sala, introduce una
componente “attiva” nell’esperienza del cinema. Lo spettatore postclassico si presenta dunque come un
fruitore “comodamente attivo” (comfortably active), che non rinuncia al coinvolgimento e all’intensità delle
emozioni e che, insieme, si scopre libero di scegliere cosa vedere, quando e dove. La dislocazione
dell’esperienza del cinema in contesti diversi dalla sala (Casetti, Fanchi, 2006) apre un secondo e fruttuoso
fronte di riflessione. La questione è, anche in questo caso, quale forma assume la fruizione del cinema e se
è possibile e lecito parlare di esperienza cinematografica anche quando la visione avviene al di fuori delle
cornici tradizionali. Rispetto al dibattito dei primi anni Novanta, gli studi di inizio millennio si sforzano di
evidenziare la permanenza di elementi della spettatorialità classica. È esemplare la riflessione che si
sviluppa intorno alle nuove forme di cinefilia e al loro stretto rapporto con i più eterodossi supporti alla
visione. Le possibilità di accesso al patrimonio cinematografico consentite dai DVD, prima, e dalla rete, poi,
genera una nuova vague cinefila; nulla di paragonabile alla cinefilia tradizionale ma che evidenzia il rapporto
quanto meno ambivalente del cinema con le “nuove” tecnologie e la sua capacità di mantenere salda la
posizione anche nel mutato assetto mediale.
I nuovi cinefili, gli insiders come li definisce Klinger, sono portatori di competenze tecniche avanzate. Per
acquisire gli oggetti della propria passione essi devono infatti sapere come muoversi all’interno della rete,
quali formati scegliere, come “salvare” i film in modo da garantirne la migliore resa audio e video e, non
ultimo, come allestire set che consentano di godere appieno della visione. Lo spettatore cinefilo è dunque,
spesso, anche uno spettatore aristocratico, che investe sulle tecnologie domestiche della fruizione per
ricreare all’interno della propria abitazione le condizioni di visione più appaganti, il che significa spesso più
simili a quelle della sala (Klinger, 1998). Come già il fruitore “comodamente attivo” descritto da Sergi, anche
lo spettatore “addentro” e aristocratico di cui parla Klinger rivela dunque una doppia natura: è uno
spettatore appassionato, che cerca un’esperienza intensa e coinvolgente, e un fruitore emancipato, che
aggira o forza le regole, conosce e controlla le tecnologie e costruisce una propria personale esperienza del
cinema. La conoscenza delle nuove tecnologie rappresenta anche il gene dominante della terza tipologia di
spettatore che emerge dagli studi filmici di inizio millennio.
Le ricerche si volgono progressivamente alla ricostruzione delle pratiche di visione del film in sala e
attraverso altri supporti, in- e outdoor. L’immagine di spettatore che emerge è quella di un fruitore
potenziato, un iperspettatore lo definisce Alain Cohen (1998), capace di gestire una pluralità di strumenti
che gli consentono di maturare una conoscenza “profonda” del cinema. Rivolto al futuro, per replicare
un’esperienza passata, lo spettatore postclassico si presenta per molti aspetti come l’epitome dell’audience
performativa: competente e propositiva, per il proprio piacere.

2. Nella stanza dei bottoni

Nel 1998, Abercrombie e Longhurst pubblicano un lungo saggio che per molti aspetti fa da snodo fra le
teorie dello spettatore attivo e il modello dello spettatore performativo. Audiences muove da una
ricognizione attraverso le teorie delle audience, che i due autori intendono in senso “inclusivo” e che
articolano in tre fasi: la stagione delle teorie comportamentiste (behavioural paradigm), la fase delle teorie
della resistenza e dell’incorporazione (incorporation/resistance paradigm) e la fase delle teorie dello
spettacolo e della performance (spectacle/performance paradigm). Il paradigma comportamentista di
studio delle audience viene associato alle teorie degli effetti forti e agli approcci funzionalisti; esso pensa le
audience come soggetti singoli, sebbene posizionati socialmente, che si rapportano individualmente ai
media, da cui vengono manipolati o influenzati oppure che “usano” per soddisfare i propri bisogni. Il
paradigma della incorporazione e resistenza include le teorie delle audience ostili e delle audience attive e
descrive i fruitori di media come soggetti appartenenti a comunità e che fanno esperienza mettendo in
campo i saperi, le competenze e i valori appresi all’interno dei propri gruppi di appartenenza. Infine il
paradigma dello spettacolo/performance è identificato con gli studi che si sviluppano alla metà degli anni
Novanta e che intendono il rapporto fra audience e media come una relazione biunivoca (sebbene, da
principio, non perfettamente equilibrata) e come luogo fondamentale di costruzione dell’esperienza sociale
e dell’esperienza di sé. Tale paradigma viene presentato come il compimento e la naturale evoluzione dei
modelli precedenti. Esso nasce dalla radicalizzazione di due condizioni che sono già presenti nella
modernità: la spettacolarizzazione della realtà, la sua mercificazione ed estetizzazione; e la conseguente
pulsione narcisistica, cioè il desiderio dei soggetti di essere parte di quello spettacolo che è il reale. Da
queste due tendenze, perfettamente complementari, emerge il modello dell’audience diffusa, ovvero di
un’audience che fa esperienza dei media in luoghi e in forme diverse, che è sempre connessa, attiva e
reattiva. L’audience diviene una condizione costitutiva e permanente dei soggetti: perché, spiegano
Abercrombie e Longhurst (1998: 69), “le persone investono molto tempo nel consumo dei media, nella loro
casa e in pubblico” e perché “i media sono costitutivi della vita quotidiana”.
Nello stesso anno in cui Abercrombie e Longhurst pubblicano Audiences, Sonia Livingstone dà alle stampe
un saggio destinato a sua volta a porsi come spartiacque all’interno del dibattito sugli studi culturali e dei
media anglosassoni (Livingstone, 1998a). In La ricerca sull’audience. Problemi e prospettive di una disciplina
al bivio la studiosa denuncia l’impoverimento degli audience studies, la rimozione sistematica della
questione del potere e la rinuncia a una riflessione critica e attenta alle implicazioni macrosociali delle
esperienze di consumo. Per far ripartire la ricerca, sostiene Livingstone, è indispensabile che si torni a
leggere i processi di fruizione dei media “anche” in termini di potere e che li si metta in relazione con i più
ampi processi sociali. Le parole di Livingstone riecheggiano in un saggio di qualche anno più tardi di Nick
Couldry (2005), che attacca frontalmente la prospettiva di Abercrombie e di Longhurst proprio sui nodi
indicati da Livingstone. Se i media sono sempre più prossimi, sono una presenza costante nella vita dei
soggetti; se le audience fanno sempre più spesso esperienza di uno scavalcamento di campo, diventando
per esempio protagoniste dei reality show, questo non significa che il rapporto fra media e audience sia
diventato paritetico. In realtà su questo punto anche Abercrombie e Longhurst sono prudenti.
e. Quello che è certo è che l’esperienza dei media, anche dei più tradizionali, come la televisione o il
cinema, appare sempre più simile all’esperienza della rete e dei media interattivi. A suggellare questo
avvicinamento, che è certamente l’effetto del processo di convergenza, ma che fotografa anche un
cambiamento di prospettiva disciplinare e di clima culturale, è l’avvio nel 2000 della rivista «Television &
New Media» che unisce due tradizioni di studio fino a quel momento separate, i television studies e gli studi
sul web.

3. Fanatici ovvero fruitori-modello: il dibattito sul fandom

La tesi della performatività delle audience e la necessità, espressamente enunciata da Nick Couldry, di
analizzarne i termini, al di là di petizioni di principio, trova concretizzazione nelle ricerche sul fandom. Non si
tratta di un tema nuovo per gli studi sui media: nel percorso che ci ha condotti fin qui abbiamo infatti
incontrato a più riprese contributi di ricerca che si interrogavano sulla peculiare relazione che unisce i fan ai
propri oggetti (soggetti) di culto. Il confronto con questa tradizione di studi consente di cogliere fino in
fondo l’entità del cambiamento di prospettiva che si consuma alla fine del millennio. Le ragioni che lo
determinano sono già state enunciate in apertura: l’innovazione tecnologica e le opportunità sempre più
ampie per i fruitori di interagire con i media; la moltiplicazione dell’offerta, la dispersione del consumo e la
necessità di stimolare intorno ai prodotti e ai contenuti un ampio plesso di discorsi sociali; la progressiva
consapevolezza del ruolo, centrale, dei fruitori non solo come “consumatori”, ma anche come produttori dei
contenuti che fruiscono.
Le ragioni dell’attenzione che il dibattito sulla televisione, sul cinema e poi sulla rete tributa ai fan vengono
ben sintetizzate da Jonathan Gray (2003). Anzitutto vi è l’importanza oggettiva dei fan per l’industria
culturale e i media: i fan sono consumatori forti e fidelizzati di prodotti e costituiscono quindi un fattore di
stabilizzazione per il mercato; essi sono inoltre esperti dei propri oggetti di culto e, quindi, interlocutori
particolarmente utili per le istituzioni mediali, sia per orientare la produzione, sia come termometro delle
tendenze di consumo. In secondo luogo, vi è l’esemplarità dei fan rispetto agli atteggiamenti e ai
comportamenti delle audience. L’intensità del rapporto che lega il fan al proprio oggetto di culto e la
ricchezza delle interazioni che egli sviluppa ne fanno un punto di osservazione ideale per ricostruire le
pratiche di fruizione. All’inizio degli anni Novanta, John Fiske, in un celebre saggio che è stato recentemente
ripreso da molti e influenti studi sul fandom in rete identifica tre attività proprie dei fan: la “produttività
semiotica” (semiotic productivity), ovvero la produzione di senso, che i fan condividono con le audience
comuni; la “produttività enunciativa” (enunciative productivity), ovvero la generazione di discorsi intorno ad
un prodotto o a un personaggio e la loro condivisione all’interno di un gruppo, che costituisce un tratto
comune ai fan e a quelle audience che si riconoscono in specifici gruppi (comunità definite su base etnica,
religiosa, politica, di genere sessuale, e così via); e, infine, la “produttività testuale” (textual productivity),
ovvero la generazione di artefatti, di testi o altre tipologie di prodotti, che diventano parte integrante del
sistema intertestuale che circonda i contenuti istituzionali; questa terza forma di produttività è, secondo
Fiske, propria dei fan. Analizzando le pratiche di consumo dei fan è dunque possibile vedere all’opera tutte
le forme di interazione con il testo: da quelle proprie dello spettatore comune a quelle più esperte e di
nicchia. In terzo luogo, l’analisi delle pratiche di ricezione e di consumo dei fan prova l’assunto centrale delle
teorie dello spettatore attivo, ovvero che il coinvolgimento del fruitore nell’esperienza di consumo, la
passione per l’oggetto che sta fruendo, non ingenerano comportamenti passivi, ma, al contrario, sono forieri
di esperienze attive e propositive. La valorizzazione del fan come fruitore ideale (Cavicchi, 1998) si pone
dunque nell’alveo di quel processo di allargamento e di ridefinizione della ricezione, come pratica non solo
razionale, non solo guidata da principi pragmatici, non solo disciplinata, che costituisce uno dei pilastri della
riflessione sullo spettatore attivo (Jenson, 1992). Alle ragioni elencate di Gray se ne possono aggiungere
altre due. La prima viene suggerita da Henry Jenkins: la priorità degli studi sul fandom nell’agenda delle
ricerche sui media degli anni Novanta, sostiene Jenkins, si spiega in virtù della capacità dei fan di mettere a
tema nodi centrali della riflessione sui media: i fan sono più che fruitori ideali, sono, per così dire, l’anello di
congiunzione fra chi studia il consumo e chi lo pratica. La seconda e ulteriore ragione è la varietà degli
oggetti su cui si esercitano le ricerche sul fandom. Il forte impulso agli studi sul fandom ne fa in breve tempo
un campo di riflessione e di ricerca vivace e prolifico da cui derivano tre importanti acquisizioni per la messa
a punto del modello dello spettatore performativo: la natura propositiva (prima e più che critica) delle
azioni delle audience; la valorizzazione della pluralità di forme e di manifestazioni che assumono le iniziative
dei fruitori; il carattere situato delle pratiche performative e la loro stretta relazione con il contesto
relazionale in cui le audience operano.

3.1. I mille volti del fan

L’assunzione di rilevanza degli studi sui fenomeni di culturizzazione dei prodotti mediali nell’agenda delle
ricerche sui media corre in parallelo con la trasformazione dell’immagine del fan. Questa metamorfosi si
compie in due passaggi. Il primo è quello che porta a convertire l’immagine sociale del fan da borderline a
modello di una fruizione attiva e strategica dei media (Cavicchi, 1998). Questo passaggio si compie già negli
anni Ottanta, con la prima importante stagione di ricerche sul consumo e sui fenomeni di fandom (Ang,
1985; Buckingham, 1987; Dyer, 1987; Fiske, 1987; Radway, 1987). Il secondo passaggio è meno discusso, ma
centrale nella costruzione del modello dello spettatore performativo. Esso si compie negli anni Novanta,
come effetto collaterale dell’affermazione del modello dello spettatore attivo. La rappresentazione
idealizzata del fan prima maniera, quella che ancora si trova nei testi di John Fiske (1992), di Henry Jenkins
(1992) e di Camille Bacon-Smith (1992) dei primi anni Novanta e che assegna alle iniziative dei fan una
valenza politica ed eversiva – azioni di bracconaggio, le definisce Jenkins – cede il posto a un’analisi delle
pratiche degli utenti più attenta a coglierne l’aspetto propositivo. Il superamento della visione dicotomica
fan-medium permette di spostare l’attenzione sulle attività che il fruitore compie e sui diversi profili che
esso assume. La classificazione proposta da Abercrombie e Longhurst degli idealtipi di fan (1998), alla fine
degli anni Novanta, resta a tutt’oggi una delle più complete e convincenti. I due studiosi assumono fino in
fondo l’idea che il fan sia l’epitome del nuovo consumatore “diffuso” di media, e lo posizionano lungo un
ideale continuum che si distende dal semplice consumatore (consumer), fino al petty producer, colui che
genera contenuti e artefatti che diventano a loro volta oggetto di consumo. Abercrombie e Longhurst
identificano tre tipi di fan. Il primo è il fan in senso proprio, colui che consuma con passione alcuni prodotti
(o che segue un personaggio o un genere) e che elabora un ricco repertorio di significati intorno alle proprie
esperienze di fruizione. Il fan non è, dunque, troppo dissimile dal consumatore, se non per l’intensità di
quella che con John Fiske (1992) possiamo definire la “produttività semiotica”. Il secondo profilo di fan è
definito da Abercrombie e Longhurst cultuist. L’elemento che caratterizza il “cultore” è il fatto di operare
all’interno di una comunità, con cui scambia opinioni e valutazioni. Quello che distingue il cultuist è la
generazione di discorsi che arricchiscono il sistema intertestuale dei prodotti mediali, contribuendo alla
definizione della loro immagine sociale. La terza tipologia è quella dell’enthusiast ovvero di colui (spesso
colei!) che consuma per produrre. l’entusiasta non si appassiona di uno specifico prodotto, non ha un
oggetto di culto, ma si distingue piuttosto per un’attitudine creativa, generativa che si esercita su oggetti e
occasioni di consumo diversi. È questa la ragione per la quale spesso “fan” e “cultori” guardano con fastidio
alle attività degli “entusiasti”. Entusiasti e petty producers si trovano dunque all’estremo opposto rispetto a
consumatori e fan. In particolare, i petty producers sono coloro che dispongono di competenze avanzate e
quasi professionali, che consentono ai loro artefatti di accedere ai circuiti distribuitivi istituzionali o
paraistituzionali, diventando parte integrante del sistema mediale. Il petty producer è molto simile alla
figura del Pro-Am, di cui, un paio di anni più tardi, parleranno Charles Leadbeater e Paul Miller (2004). Più
recentemente, anche sotto la spinta delle critiche avanzate al modello dell’audience diffusa, sono stati
avanzati dubbi in merito alla permeabilità fra le diverse tipologie di audience e alla relativa facilità, per un
fruitore, di passare da un profilo all’altro. Mizuko Ito, per esempio, analizzando le forme che assume il
fandom all’interno della rete, sostiene che le comunità dei fan sono diventate, ad un tempo, più accessibili e
più esclusive: più accessibili perché gli artefatti generati dai fan hanno un’ampia visibilità; e più elitarie
perché all’interno delle comunità si costituiscono dei sottogruppi di fan più esperti, che producono artefatti
di migliore qualità e che costituiscono delle microcomunità a cui è estremamente difficile accedere (Ito,
2012). Un’altra questione che è stata recentemente sollevata investe la distinzione fra enthusiast e petty
producer. Tale distinzione corre essenzialmente (sebbene non esclusivamente) lungo l’asse della
competenza: i petty producers sono coloro che hanno una più solida competenza tecnica che consente loro
di generare prodotti qualitativamente migliori. È proprio sui criteri con cui si giudica la qualità che Gauntlett
(2011) ha espresso forti riserve. Egli ritiene infatti inappropriato l’uso di criteri interni alla produzione
mediale per valutare i contenuti user generated e suggerisce, di contro, la necessità di individuare nuovi
discrimini. Le riflessioni sulla figura del fan portano dunque in dote al dibattito sulle audience performative
due importanti elementi. La prima acquisizione è che la performatività delle audience si può esprimere in
gradi e forme diverse, esattamente come l’attività di interpretazione dei testi. Questa consapevolezza ha
riacceso la querelle sulla differenza fra pratiche dei fan e pratiche delle audience e sulla necessità di
prevedere un’analisi sistematica delle azioni performative dei non- e degli anti-fan (Gray, 2003). La seconda
acquisizione è che le audience performative, come quelle attive, operano all’interno di reti di relazione. Nel
caso dei fan, il rapporto con la comunità di riferimento assume però forme esplicite che consentono di farsi
un’idea dell’altrettanto, o forse più complesso, rapporto fra le audience performative e il contesto sociale
prossimo e allargato in cui operano.

3.2. La produttività testuale 2.0

Una larga parte del dibattito anche contemporaneo tende a ordinare le pratiche dei fan sulla base della
casistica proposta da John Fiske all’inizio degli anni Novanta. Questa scelta obbliga a rivedere le definizioni
date da Fiske delle tre forme di “produttività” (Hill, 2013): il cambiamento degli scenari mediali, l’aumentato
gradiente di interattività dei processi di comunicazione, l’accesso degli utenti alla produzione dei contenuti
ridefinisce infatti sensibilmente le pratiche dei fan e, soprattutto, fa crescere in modo esponenziale la
“produttività testuale”, quella cioè che genera veri e propri artefatti.
In questo quadro Matt Hill suggerisce di abbandonare la partizione di Fiske e di dedicarsi a una più analitica
ricostruzione delle pratiche produttive. Hill propone di introdurre un’ulteriore articolazione nelle forme
della “produttività testuale”, distinguendo fra una produttività testuale stricto sensu e una attività testuale
di tipo mimetico (mimetic textual productivity); sotto questa seconda etichetta lo studioso raccoglie tutti
quegli artefatti che fanno stretto riferimento ad un contenuto mediale originario: una serie sottotitolata da
una comunità di fansubber, un’action figure che replica filologicamente la sequenza di film o ancora il mash-
up di frammenti chiave di un testo vanno considerate come attività testuali di tipo mimetico. Inoltre,
sempre all’interno della produttività di tipo testuale, Hill invita a distinguere fra prodotti che adottano
un’“estetica classica”, che si ispira ai canoni mainstream e prodotti che adottano un’estetica grassroots, cioè
propria delle produzioni dal basso o addirittura delle controculture (cultural jamming). In terzo luogo, è
possibile classificare i prodotti generati dagli utenti in contenuti che rispettano i dettami dell’industria
culturale e prodotti che si muovono in un regime “alternativo” o che si collocano all’interno di un’economia
“ombra” o informale (Lobato, 2012). Da ultimo potrebbe essere utile, secondo Hill, distinguere fra una
produttività esplicita e forme di produzione di contenuti e di generazione di artefatti inconsapevoli. La
classificazione delle pratiche di generazione di contenuti potrebbe essere eseguita anche in base ad altri
criteri. C’è chi utilizza i linguaggi espressivi impiegati dagli utenti: in questa prospettiva gli artefatti e le
pratiche generative dei fan possono essere distinte, per esempio, in mashup e remix, montaggio,
photogallery, kinetic typography, shooting location tour, inappropriate soundtrack e remake (Peverini,
2010). O ancora è possibile articolare l’attività dei fan in rapporto ai regimi discorsivi dei testi: Camille
Bacon-Smith, analizzando l’attività di generazione di contenuti dei fan di Star Trek individua, per esempio,
tre pseudogeneri: i testi Mary Sue, cioè le fan fiction che includono elementi narrativi estranei al mondo di
serie; i testi Lay Spoke, che costruiscono intorno a personaggi della narrazione istituzionale una rete di
relazioni affettive e amorose non sviluppate dai testi originali; e i prodotti slash che immaginano e
sviluppano relazioni omosessuali fra i personaggi. L’analisi delle pratiche generative dei fan (e più in
generale degli utenti) rappresenta un fronte di ricerca di grande importanza nell’ambito degli studi
sull’industria creativa e sulle sinergie possibili fra produzione istituzionale e UGC. Per la definizione del
modello delle audience performative, la ricostruzione delle azioni dei fan permette di sdoganare in via
definitiva la “produttività” degli utenti da finalità esclusivamente o eminentemente politiche e di
evidenziare la relazione complessa e ambivalente che le pratiche e i contenuti bottom up intrattengono con
le pratiche e i contenuti istituzionali.
3.3. Creatività disciplinata

Il rapporto che lega le azioni degli utenti, la loro produttività, al contesto sociale, si presenta in forma
manifesta nel caso dei fan. Il carattere esplicitamente socializzato delle performance dei fan costituisce non
a caso un fattore di identificazione e un discrimine rispetto ad altre tipologie di audience. Abercrombie e
Longhurst (1998) utilizzano l’intensità dei rapporti e il gradiente di condivisione di contenuti e di iniziative
come fattore di distinzione fra i diversi profili di audience; Jenkins (1992) include l’essere parte di una
comunità fra gli identificativi del fan e Victor Costello e Barbara Moore (2007) dichiarano che ciò che
distingue l’attività dei fan da quella degli altri utenti di media è l’attribuzione alla loro esperienza di una
valenza eminentemente pubblica. Le dinamiche relazionali che si attivano all’interno delle comunità dei fan
sono inoltre considerate rappresentazioni “in scala” delle forme di socialità che si sviluppano all’esterno o,
persino, modelli ideali, esempi di nuovi modelli di relazione, più vitali ed equi. Nel suo lavoro del 2006,
Cultura convergente, Henry Jenkins descrive le relazioni fra i fan come legami intimi, basati sulla percezione
di una prossimità di intenti e di sentire, su un’affinità elettiva che consente di sviluppare forme di
partecipazione, di sostegno e di mutuo aiuto.
L’insieme delle regole, delle norme di comportamento (la netiquette nel caso delle comunità online)
funziona allo stesso modo dell’economia morale descritta da Silverstone. È emblematico, anzi, che Jenkins
usi la stessa espressione per definire l’insieme dei valori e delle norme di condotta a cui si attengono i
componenti delle comunità di fan e che fissa il quadro di riferimento che guida e la “produttività” dei
soggetti. La natura socializzata delle attività dei fan emerge inoltre, in una forma anche più eclatante,
nell’abitudine al lavoro collettivo. lL condivisione dei progetti rappresenta ad ogni modo un’altra evidente
prova della capacità delle culture fandom di fare da incubatoi a forme di relazione con i media e a modelli di
esperienza avanzati e più democratici. In ultimo, il tratto socializzato delle pratiche produttive dei fan si
manifesta come attivismo. Sebbene gli studi sul fandom si siano smarcati dal modello dello spettatore
resistente, è anche vero che i fan si fanno latori di alcune iniziative che hanno un significato politico, come
per esempio la pressione sulle istituzioni mediali per conservare un contenuto o per riorientare le scelte
editoriali. Entrata nell’era digitale, la percezione delle audience di essere parte attiva dei processi
comunicativi (la nozione di audience diffusa), terminale critico e propositivo di contenuti, ma anche
interlocutore, con un ampio margine di intervento sulle strategie editoriali e sui testi, incoraggia a
sviluppare nuove e più incisive pratiche “produttive”. Con il passaggio al web 2.0 la produttività delle
audience riceve un’ulteriore ed energica spinta. L’attitudine collaborativa delle audience performative unita
all’avanzamento dei processi di convergenza e alla crescente necessità di contenuti, fanno da viatico
all’emergere di due ultime figure di audience, che saranno al centro dei prossimi capitoli: le audience
responsabili e le audience creative.

V. Le audience responsabili

L’estensione del raggio di azione del fruitore di media si lega strettamente all’emergere nella letteratura di
una nuova figura di utente che potremmo definire responsabile. Si tratta di un dibattito relativamente
recente, cresciuto all’ombra dei processi di digitalizzazione e frutto dell’azione combinata di più fattori. Il
primo, come si accennava, è la crescita del gradiente di interattività della comunicazione mediale e la
nascita dei cosiddetti media partecipativi (Bruns, 2008a; Carpentier, 2011a) che offrono alle audience nuove
e più ampie opportunità di scelta e un raggio di azione senza precedenti, che modificano la stessa
definizione di comunicazione mediata. Il secondo fattore è interno alla riflessione sui media e può essere
ricondotto a quella esigenza di coniugare lo studio delle audience e dei loro comportamenti con una
valutazione delle implicazioni macrosociali dell’esperienza mediale. Alla fine degli anni Novanta le
esperienze più radicalmente qualitative di ricerca sulle audience, a partire dalle indagini etnografiche,
hanno evidenziato l’urgenza di leggere i comportamenti di fruizione all’interno di un quadro più ampio, che
ricomprenda i temi e le questioni proprie della tradizione critica di ricerca e di riflessione sui media. Questa
integrazione porta con sé anche la rinnovata attenzione per il binomio media e politica che viene
riformulato in scala e a misura delle pratiche e dei vissuti dei fruitori digitali. È in questo scenario che
prende forma la figura dell’utente responsabile, un fruitore a cui non si chiede solo di operare attivamente,
ma anche di adottare comportamenti di consumo etici e attenti al bene comune. Si tratta di un segmento di
riflessione importante per almeno quattro ragioni. La prima è la sua funzione di raccordo fra la tradizione di
ricerca critica, attenta a valutare gli effetti dei media sulla società, e la breve ma esuberante stagione delle
ricerche qualitative ed etnografiche sulle audience. La seconda è l’opportunità di far dialogare lo studio dei
media e dei media digitali con altre tradizioni di ricerca, a partire da quella sul cinema. La terza ragione è di
ordine più schiettamente teorico e metodologico ed è il lavoro di ripensamento e, più spesso, di
precisazione di alcune categorie chiave nello studio dei media che la riflessione sul consumatore
responsabile favorisce: dalla nozione stessa di audience, ai concetti di accessibilità, interazione e
partecipazione – centrali nel dibattito sui media digitali – alla definizione di sfera pubblica e di cittadinanza.
La quarta ragione che ha indotto a dedicare un intero capitolo a questo tema è la sua importanza culturale e
politica, che spiega anche la rapida crescita di interesse, di progetti di ricerca e di contributi editoriali volti a
indagare i modi attraverso i quali i fruitori usano (o possono usare) i media “responsabilmente”, all’interno
di un quadro di impegno civile e politico, e, in parallelo, come il dibattito sull’audience possa promuovere
politiche culturali e sociali migliori.

1. Consumare è partecipare(?)

La relazione fra consumo mediale e partecipazione alla vita politica e civile non è certo un tema nuovo. La
prospettiva all’interno della quale si muovono gli studi sulle audience responsabili è però differente. I media
non sono infatti considerati strumenti in mano a forze più o meno occulte, che per loro tramite decidono gli
assetti sociali e politici di un paese, ma risorse, opportunità a cui attingere per elaborare forme di socialità
nuove: in grado di preservare e valorizzare la diversità e di promuovere il dialogo e la cooperazione. In
questo quadro il tema della responsabilità viene duplicemente evocato. Da un lato vi è la responsabilità cui
sono chiamate le istituzioni mediali e coloro che le governano nei confronti dei contenuti e dei servizi offerti
dai media: su questo versante si colloca, per esempio, l’ampio dibattito sul significato di servizio pubblico e
sulle modalità più appropriate per garantirlo. Dall’altro lato, vi è appunto la responsabilità dei fruitori, che
sono a loro volta invitati a operare consapevolmente e a emanciparsi da una prospettiva strettamente
individualista, orientando le proprie scelte e i propri consumi al bene comune. Sia le ricerche che si
interrogano sulla capacità dei media di alimentare buone politiche di cittadinanza, sia quelle che si
occupano dei fruitori e di come essi si accostano e utilizzano i media si distinguono dal dibattito precedente
per la comune problematizzazione del rapporto fra consumo e partecipazione civile. Sul primo versante,
questa problematizzazione prende la forma di un insieme di riflessioni tese a identificare i tratti e le
prerogative che la comunicazione mediale deve assumere per adempiere al meglio alla propria funzione di
promozione della società. John Curran (1991) identifica tre funzioni che i media devono idealmente svolgere
nelle democrazie avanzate: il controllo sullo Stato, l’informazione e la costruzione di uno spazio di dialogo e
di confronto fra le parti sociali e la diffusione del punto di vista dei diversi gruppi e soggetti. Sophia
Johansson (2007) propone una rosa di criteri tesi a misurare il valore “politico” dei contenuti mediali,
ovvero la loro capacità di generare e di incrementare la coscienza civica dei cittadini: l’accessibilità, intesa
come prossimità dei contenuti proposti al mondo di vita del lettore; la varietà dei contenuti (dalla politica al
gossip); la capacità di sollecitare un atteggiamento critico; la capacità di intercettare le audience non
raggiunte dai media istituzionali; la particolare disponibilità a dare voce al “popolo” e a costituire una nuova
arena pubblica. Quest’ultimo criterio conduce all’altro versante del d ibattito che si concentra sulle forme
che l’esperienza di fruizione deve assumere per acquisire un valore civile e politico. Sonia Livingstone e
Peter Lunt (2012: 54) riassumono i tratti distintivi di queste due figure: il consumatore è colui che opera in
una prospettiva marcatamente individuale, volta al beneficio privato e mossa dal desiderio; il cittadino è
colui che opera, al contrario, in una prospettiva collettiva, tesa al bene comune e il cui motore è il bisogno.
Questa polarizzazione, nella sua evidente ed esiziale semplificazione, si ritrova anche in contributi recenti.
La problematizzazione del rapporto fra media e cittadinanza e fra media e consumo responsabile assume
una forma più produttiva – e sostenibile – della discriminazione fra consumatore e cittadino e fra forme
“buone” e forme ideologicamente compromesse di esperienza mediale, nelle ricerche che si propongono di
elaborare una fenomenologia del consumo mediale come “pratica di cittadinanza culturale”. Nico
Carpentier (2011a) distingue ad esempio fra “partecipazione alla vita sociale attraverso i media” e
“partecipazione ai media”, considerando la partecipazione ai media come una delle condizioni della
partecipazione “alla società”. La proposta di Carpentier si rivela particolarmente produttiva non solo perché
supera decisamente la prospettiva dicotomica consumo/partecipazione ma anche perché risolve l’equivoco
diffuso in molta parte degli studi sui “nuovi” media che identifica l’interazione con la partecipazione,
facendo passare surrettiziamente l’idea che qualsiasi forma di fruizione che abbia luogo in ambiente digitale
sia, ipso facto, un’esperienza di partecipazione e quindi anche che la partecipazione civile e politica
attraverso i media sia una prerogativa esclusiva (o quasi esclusiva) dei media digitali.

2. Media, sfera pubblica e cittadinanza

Un secondo fondamentale terreno di ricerca sulle audience responsabili è quello che pone al centro la
nozione di sfera pubblica. La riflessione intorno al binomio media e sfera pubblica si concentra sulla natura
del contributo che i media offrono alla definizione di uno “spazio” di incontro, dialogo e negoziazione fra le
parti sociali. Acquisita la centralità dell’esperienza mediale, la discussione si sposta sulla valutazione del
portato dei media e dei cambiamenti che essi generano sulle forme e sull’efficacia delle sfere pubbliche.
Anche in questo caso si ravvisa la preoccupazione di trovare un punto di equilibrio fra una prospettiva
utopica, che riconosce apoditticamente ai media digitali la capacità di disegnare una sfera pubblica
inclusiva, demotica e profondamente partecipata; e, all’opposto, una visione radicalmente critica, che
denuncia la progressiva contrazione della sfera pubblica e l’impoverimento delle pratiche che la
sostanziano, non ultimo come esito della mediatizzazione. Il primo tratto che emerge dalla lettura
trasversale degli studi e delle riflessioni sul tema è la pluralità delle sfere pubbliche ovvero la constatazione
dell’esistenza di una molteplicità di formazioni che danno conto dei diversi assetti che può assumere il
dialogo fra pubblico e privato. Già all’inizio degli anni Settanta Alexander Kluge e Oskar Negt, riflettendo sul
rapporto fra cinema e dimensione pubblica, proponevano di abbandonare l’originaria definizione
habermasiana di sfera pubblica, come spazio unico ed esclusivo, a favore della nozione di “orizzonte sociale
di esperienza” (Negt, Kluge, 1972), che prevede la possibilità di esprimere (e di guadagnare il diritto a) la
cittadinanza attraverso una pluralità di istanze e di pratiche. Nella prospettiva aperta da Kluge e Negt lo
statuto di cittadinanza viene dunque esteso a tutte le forme e i modi attraverso cui i soggetti mediano fra i
loro interessi privati e “un” benessere comune. Il collettivo di un gruppo femminista o le pratiche
comunitarie intraprese da una comunità di fan diventano, in questo quadro, socialmente e politicamente
rilevanti almeno tanto quanto un’assemblea cittadina.
Il secondo tratto delle sfere pubbliche contemporanee che emerge dalle riflessioni sui media degli ultimi
anni è la pluralità dei saperi e delle pratiche che le sostanziano. Se le sfere pubbliche sono molteplici,
molteplici sono anche le cosiddette pratiche della cittadinanza che le pongono in essere e insieme le
identificano. Un insieme eterogeneo e in continua trasformazione di saperi e di gesti in cui i media
ricoprono un ruolo fondamentale: dal televoto come pratica di apprendimento dei rudimenti della
democrazia; alla fruizione di prodotti popolari come occasione di costruzione di una cultura civica condivisa;
alle forme di partecipazione apprese in rete o, di nuovo, all’interno delle comunità dei fan. Il confine del
“politico”, dunque, si allarga fino a ricomprendere l’insieme delle azioni compiute quotidianamente dai
soggetti. Come per la moltiplicazione delle sfere pubbliche, anche l’estensione e il riassortimento delle
pratiche e dei saperi significativi ai fini della costituzione di quelle che sempre Peter Dahlgren chiama
“culture della cittadinanza”, non sono privi di controindicazioni. L’inclusione delle pratiche della vita
quotidiana, e soprattutto la centralità delle esperienze mediali nella formazione delle sfere pubbliche, se per
un verso allarga le possibilità per le audience di maturare una coscienza civica, per un altro espone al rischio
di uno svilimento dei valori della cittadinanza. L’esperienza mediale si presenta infatti come un principio
agglutinante debole e instabile o, peggio, compromesso con interessi di natura economica. È questa
l’obiezione che viene per esempio mossa da Virginia Nightingale (2007a) che, ricostruendo la filogenesi
della sfera pubblica, descrive la fase attuale come brand-based, cioè basata su pure pratiche di consumo e,
quindi, temporanea, segmentante e soprattutto incapace di generare un sistema solido e ricco di valori.
Rosalia Winocur per un verso, riconosce ai media il merito di aver consentito l’accesso alla sfera pubblica a
tutte le componenti sociali, ma contemporaneamente li accusa di aver trasformato la partecipazione civica
in pratiche di consumo e di aver frammentato la sfera pubblica in una pluralità di circuiti che faticano a
operare sinergicamente e che non hanno una necessaria relazione a uno specifico territorio fisico o
frontiera nazionale. Il carattere de-territorializzato costituisce il terzo tratto distintivo delle sfere pubbliche
contemporanee. Si tratta di un fenomeno complesso, che intreccia due ordini di questioni: la
virtualizzazione delle pratiche di socializzazione e di costituzione della comunità e l’individualizzazione delle
sfere pubbliche. La virtualizzazione delle pratiche comunitarie è il graduale spostamento dei processi
istitutivi delle sfere pubbliche dallo spazio fisico della piazza o del vicinato all’abitazione, intesa come
household e cioè come microsistema di mediazione fra pubblico e privato (Morley, 2000) fino alla rete
informatica e agli ambienti virtuali (Lévy, 1997). Il processo di virtualizzazione delle sfere pubbliche offre
evidentemente la possibilità di sviluppare assetti comunitari inediti, emancipati dai confini geopolitici, e
quindi portatori di uno straordinario potenziale palingenetico nei confronti della realtà sociale e delle sue
configurazioni. D’altro lato, tale processo pone tuttavia di fronte al problema di valutare il grado di osmosi
fra ambiente virtuale e ambiente fisico e quindi la capacità dei pattern sociali elaborati in Internet di migrare
al di fuori della rete e di contribuire fattivamente a ridisegnare le configurazioni sociali offline. Non meno
complessa è la prospettiva aperta dal paradigma del networking individualism: il carattere ossimorico dei
processi di socializzazione che hanno luogo all’interno del web e che affiancano la ricerca di condivisione
con la valorizzazione della dimensione individuale (Castells, 2000) pone infatti il problema di valutare la
tenuta delle comunità online e la loro capacità coesiva al di fuori della rete. L’aumento della componente
privata, o meglio individuale, nella formazione della sfera pubblica comporta senz’altro una deriva
personalistica, una sorta di chiusura autistica che rende difficile immaginare un dialogo fra le diverse sfere
pubbliche, ma consente insieme un’identificazione e un investimento nella vita comunitaria che non hanno
precedenti – si pensi al funzionamento del principio di affinità su cui si basano le comunità online, che
prevede una identificazione quasi totale fra individuale e comunitario e che viene proposto come nuovo e
promettente collante per le comunità offline.

3. Dall’“ascoltatore partecipe” al “citizen journalist”: istantanee dal fronte del consumo consapevole

Le audience responsabili sono chiamate ad almeno tre compiti: individuare le proposte mediali che meglio
si prestano a generare risorse utili per la collettività; trasformare le proprie esperienze di fruizione in gesti e
pratiche di partecipazione alla vita politica e alla sfera pubblica; e infine convogliare tali risorse sul territorio,
mettendole in dialogo con le reti sociali già presenti e con le istituzioni. Gli studi sui media, tradizionali e
nuovi, ci offrono una piccola galleria di campioni di civismo: fruitori che si distinguono per il grado di
responsabilità con cui si accostano ai media e li utilizzano e che, in modo più o meno esplicito, vengono
presentati come modelli, esempi paradigmatici di un uso virtuoso dei media.

3.1. L’ascoltatore partecipe

L’esempio di fruitore responsabile con cui apriamo è quello dell’ascoltatore partecipe. Molti dei contributi,
anche recenti, che si propongono di ricostruire le coordinate di un consumo responsabile indicano nella
radio la palestra e lo strumento che per molti aspetti meglio si presta a generare comportamenti
socialmente virtuosi di fruizione. Il carattere naturalmente partecipativo della radio dispone l’ascoltatore
alla collaborazione. È emblematico che nel tracciare la storia delle forme di partecipazione messe in opera
dalle audience, Bridget Griffen-Foley annoveri il fenomeno delle talk radio fra le esperienze mediali che più
hanno contribuito alla diffusione di modi di uso e di consumo civicamente “impegnati” dei media. Rosalia
Winocur in una recente ricerca sul “giornalismo civico” individua un’estesa rosa di pratiche di ascolto attivo
che include interventi finalizzati a esprimere dissenso rispetto a opinioni espresse nei programmi;
testimonianze o denunce volte ad arricchire e corroborare le informazioni offerte dal network; critiche o
considerazioni sullo scenario politico; fino a dichiarazioni a sostegno di gruppi marginali. La ricerca di
Winocur porta anche in evidenza la stretta correlazione che esiste fra l’ascolto radiofonico partecipativo e il
profilo sociale e culturale delle audience. In particolare, la studiosa mostra la maggiore predisposizione dei
soggetti che appartengono a classi sociali meno agiate ad attivare comportamenti di consumo attivo
finalizzati a migliorare le proprie condizioni di vita, prima e più che al benessere collettivo. Oltre ad essere
un punto di osservazione particolarmente proficuo per cogliere la pluralità di forme che la partecipazione
tramite i media assume e i molti fattori che le determinano, l’ascolto radiofonico si qualifica anche come un
impareggiabile strumento di formazione.

3.2. Lo spettatore perverso

Perverse Spectators è il titolo provocatorio di un libro di Janet Staiger pubblicato nel 2000. Staiger propone
una serie di casi di studio che mostrano la pluralità delle forme che può assumere l’esperienza dello
spettatore cinematografico: non anomalie di sistema, bensì naturale espressione della complessità dei
fattori che orientano le sue pratiche di visione: il medium e le sue caratteristiche; il film; le condizioni
storiche della fruizione – quelle che Lawrence Grossberg (2006) chiama “congiunture”– e ancora la
soggettività dello spettatore e le sue molteplici identità sociali. Dal complesso gioco combinatorio che si
attiva fra questi elementi, emerge dunque una gamma ampia e diversificata di esperienze che possono
“pervertire” le regole della visione classica assumendo “anche” una valenza politica. Le pratiche di visione
dello spettatore perverso assumono quindi una valenza politica in modo, per così dire, non programmato;
detto diversamente, lo spettatore perverso è politicamente impegnato suo malgrado. Hamid Naficy, per
esempio, racconta il ruolo cruciale del cinema nella formazione dell’identità nazionale iraniana nel corso
degli anni Sessanta (Naficy, 1996) come esito della combinazione fra la diffusione in Iran del cinema
hollywoodiano; il permanere di un alto tasso di analfabetismo fra la popolazione adulta, che impedisce a
una parte consistente del pubblico di leggere i sottotitoli, e il conseguente ricorso alla traduzione dei
dialoghi “in tempo reale” da parte di studenti, prezzolati dagli spettatori, che operano, letteralmente, da
mediatori culturali, negoziando fra la cultura statunitense e i valori e la tradizione locali. Nel caso dello
spettatore perverso, più che la volontà dei pubblici, ad attribuire una valenza civica alla fruizione è quindi la
natura intrinsecamente politica del cinema, ovvero la particolare capacità che i film studies gli riconoscono
di intercettare i cambiamenti che intervengono nel contesto sociale e di alimentare un’esperienza culturale
e sociale rilevante.

3.3. Jamming, consumer movement, pranking

Campione di impegno civico, il jammer, ovvero il contestatore, il sabotatore della cultura dominante, occupa
una posizione centrale nella galleria dei fruitori responsabili. Fra le manifestazioni del cultural jamming, una
delle più interessanti, per la sua rilevanza socio-culturale e per le considerazioni che consente di formulare
sull’audience e sui suoi rapporti con i media, il mercato e la società, è il contested consumption. I movimenti
e le iniziative no-logo, per un verso, confermano la tesi di Luedicke e di Giesler di una diffusione delle forme
di resistenza al di fuori di sacche di consumatori o di specifici gruppi e culture; per l’altro, offrono un punto
di osservazione particolarmente promettente per ricostruire le dialettiche che si attivano fra audience
responsabili e media e che sottendono spesso ibridazioni o inopinate collusioni. Se si guarda infatti, per
esempio, alle pratiche comunicative del contested consumption emergono analogie marcate con le strategie
della comunicazione d’azienda. Un caso esemplare di questa commistione è costituito dal pranking. il
pranking riprende le strategie della comunicazione istituzionale, radicalizzandone i contenuti o
accentuandone i toni. Christine Harold (2004) propone come esempio di pranking alcune delle iniziative
della Barbie Liberation Organization, che di fatto sfruttano i canali di distribuzione della celebre
multinazionale del giocattolo e le sue iniziative di marketing (a partire dalla caratterizzazione dei personaggi
del mondo Barbie) per “smontare” l’ideologia del prodotto e per denunciare la politica aziendale. In
parallelo, e sempre più frequentemente, la comunicazione istituzionale e di azienda si ispira allo jamming e
alle sue iniziative. Una recente ricerca sulla pratica creativa nelle agenzie pubblicitarie rivela una serie di
analogie fra il funzionamento dell’agenzia, le sue procedure, lo stile e le soluzioni comunicative adottate, e
le forme e le manifestazioni della street art.

3.4. Citizen journalism

Il citizen journalism è “l’azione di un cittadino o di un gruppo di cittadini che giocano un ruolo attivo nel
processo di raccolta, di copertura, di analisi e di disseminazione delle informazioni. L’intento di questa
partecipazione è di fornire un’informazione indipendente” (Bowman, Willis, 2003: 6).
Nel 2003 Shayne Bowman e Chris Willis realizzano per l’American Press Institute un’ampia ricerca sul
giornalismo partecipativo. La ricerca nasceva dall’esigenza di inquadrare e di comprendere meglio un
fenomeno che, in breve tempo, aveva assunto dimensioni ragguardevoli, ma di cui ancora non erano chiare
né le forme, né le possibili implicazioni sul sistema editoriale e sulle pratiche di newsmaking. Per un verso il
coinvolgimento dei cittadini nella generazione delle notizie è visto come un elemento positivo e di
rinnovamento, capace di scardinare logiche e pratiche editoriali sclerotizzate e ormai anacronistiche. Axel
Bruns sottolinea, per esempio, il ruolo decisivo del cittadino giornalista nella definizione dei criteri di
notiziabilità e nella verifica delle notizie: operazioni cruciali e quasi impraticabili per le redazioni e alle quali
possono efficacemente far fronte proprio i comuni utenti, attraverso quella che Bruns chiama la pratica del
gatewatching, l’esercizio di un monitoraggio e di un controllo attivo sulla copertura, completezza, veridicità
e utilità per la vita collettiva delle informazioni (Bruns, 2005). Dall’altro lato, il giornalismo partecipativo
viene accusato di mancanza di cura nell’elaborazione dei propri contenuti, di ideologismo e di una
sostanziale assenza di elementi di novità, sia nella selezione degli eventi notiziabili e quindi nella definizione
dell’agenda mediale e sociale, , sia nelle modalità di costruzione della notizia. Il solo dato su cui sembra
esserci un ampio accordo è la necessità e l’urgenza di ricercare forme di sinergia fra i contenuti generati dai
cittadini e la pratica giornalistica tradizionale, con i suoi soggetti, le sue regole, il suo patrimonio di saperi e
di competenze. In questo senso appaiono particolarmente promettenti le ricerche che esaminano i modi
con cui i grandi editori si stanno interfacciando con il fenomeno del citizen journalism. Emerge la
convinzione che, qualunque sia il valore attribuito al giornalismo partecipativo, esso costituisce comunque
una palestra preziosa per apprendere i principi della cittadinanza e per sviluppare sfere pubbliche nuove e
vitali.

3.5. Media e attivismo

I primi anni del nuovo millennio vedono la crescita dei fenomeni di attivismo sociale e politico. Si tratta
infatti, secondo Howard Rheingold, di forme inedite di partecipazione – Rheingold le definisce smart mobs –
che coinvolgono soggetti socialmente attivi, che operano in rete attraverso la mediazione delle tecnologie
della comunicazione. I media digitali rivestono dunque un ruolo decisivo nel mobilitare i soggetti, nel
sensibilizzarli a cause sociali, politiche, ambientali e nel fornire loro gli strumenti necessari a pianificare le
loro iniziative: le tecnologie digitali permettono, infatti, di acquisire e di scambiare informazioni, di rendere
più rapide le interazioni, di estendere la rete dei contatti e di facilitare il confronto fra i soggetti,
consentendo loro di maturare una coscienza civica e politica e ai movimenti di revitalizzare le sfere
pubbliche. I blog, i forum, le esperienze di partecipazione all’interno della rete offrono inoltre un repertorio
di modi e di stili che rinnovano profondamente la pratica politica (Norris, 2002): anche recentemente Peter
Dahlgren ha osservato che molte delle attuali manifestazioni dell’attivismo sono mutuate dalle comunità
virtuali e dalle culture partecipative. la riflessione sulle forme di partecipazione sollecitate dai media ha
assunto negli ultimi anni toni più prudenti o persino scettici. Il rapporto fra culture partecipative e attività
politica ha evidenziato infatti due ordini di criticità che rendono meno immeditato o generalizzato il giudizio
positivo sul valore politico dei media e, in particolare, dei social media. Il primo problema riguarda la
relazione fra partecipazione ed engagement: l’esperienza di partecipazione che i soggetti compiono
attraverso i media non si traduce infatti sempre in un agire propriamente civico: “se da una parte è (...)
indubbio che i media in generale e in particolare i media digitali offrano possibilità inedite di espressione,
coinvolgimento, autoorganizzazione e favoriscano la diffusione di pratiche che possono incidere
concretamente nei processi sociali, dall’altra è innegabile che l’impegno e la partecipazione nei e attraverso
i media non si traduce automaticamente nello sviluppo di competenze democratiche e di agency civica”. In
secondo luogo, anche quando questo passaggio avviene e le forme di attivismo generate o sostenute dai
media danno luogo a una cultura civica, non è detto che essa sia politicamente incisiva ovvero che generi un
reale empowerment. Il caso delle iniziative di “democrazia diretta” sono in questo senso emblematiche: con
poche eccezioni la partecipazione dei cittadini alle scelte delle amministrazioni locali o anche in materia di
politica nazionale avviene comunque all’interno di un quadro predefinito e controllato dalle istituzioni. La
debolezza e mancanza di incisività dell’esperienza partecipativa nei e attraverso i media trova ragione nei
limiti delle forme di partecipazione mediate dalle tecnologie. Qui le argomentazioni si fanno più articolate e
toccano molti degli aspetti su cui ci si è soffermati nella prima parte del capitolo: la permanenza di forme di
digital divide che tendono ad escludere alcuni soggetti sociali dai processi di partecipazione; la mancanza di
tenuta delle culture civiche generate dai media, che non sono quindi in grado di produrre una condivisione
ampia e duratura; a la “leggerezza” dei sistemi di valore che si generano nelle discussioni in rete o il
carattere estrinseco delle iniziative di partecipazione, ideate e dirette spesso dalle stesse istituzioni politiche
che i movimenti si propongono di rinnovare o cercano di sovvertire. Il ruolo dei media nel sostenere e
alimentare le culture civiche e le forme di attivismo appare comunque centrale, tanto più in contesti politici
non (pienamente) democratici o in relazione a comunità etniche che si considerano svantaggiate.

VI. Le audience creative

Nel febbraio del 2005 nasce YouTube. Secondo Aaron Delwiche e Jennifer Henderson (2013), YouTube segna
un punto di svolta nella storia dei media: con esso l’attività di generazione di contenuti da parte delle
audience viene sdoganata dalla zona grigia dell’economia informale (Lobato, 2012; Hunter et al., 2012) e
comincia ad essere riconosciuta come una leva, e per di più cruciale, dell’industria mediale. Le iniziative
“creative” degli utenti, la loro “produttività” si rivelano infatti una risorsa preziosa, che i media si sforzano di
incentivare e di capitalizzare. Il rapporto fra audience e istituzioni mediali assume dunque una forma del
tutto nuova, per spiegare la quale si coniano neologismi; si elaborano nuovi modelli di business; si
identificano nuove figure di fruitore, che uniscono la passione tipica delle audience produttive con le
competenze dei professionisti della comunicazione. Il rapporto fra audience e media fatica a trovare un
assetto soddisfacente: da un lato la decentralizzazione dei processi di generazione dei contenuti, dalle
istituzioni mediali agli utenti, pone di fronte al rischio di un depauperamento e di una perdita di qualità;
dall’altro lato, la cooptazione delle audience da parte delle istituzioni mediali e la loro inclusione nei
processi produttivi apre una serie di questioni: come contrattualizzare gli utenti che generano contenuti?
Che tipo di relazione immaginare fra produser e professionista? A quali impieghi destinare i contenuti user
led? Quale tipo di sfruttamento può essere considerato legittimo e quale no? Ma anche come incentivare la
produzione dal basso a fronte della sua crescente rilevanza per il funzionamento ordinario dei media? Quali
leve utilizzare per alimentarla e mantenerla costante nel tempo? La sinergia fra media e utenti si rivela
insomma tutta da costruire e il dibattito sulle audience creative, più che offrire modelli di interpretazione, si
cimenta nell’individuazione di formule che consentano di incanalare i processi di partecipazione alla
produzione di contenuto nelle direzioni più premianti per le istituzioni mediali e per le audience.

1. Osteggiate, tollerate, favorite

In Cultura convergente Henry Jenkins propone una serie di storie esemplari, casi di multinazionali della
comunicazione che, folgorate sulla via della convergenza, cambiano atteggiamento e politiche nei confronti
degli utenti media-attivi, riconoscendo l’innovatività del loro contributo e investendo in esso. L’analisi di
Jenkins coglie in modo vivido la trasformazione che si sta compiendo.
Mentre Jenkins guarda alle audience “produttive” come a una forza irresistibile e palingenetica, capace da
sola di capovolgere il sistema, il dibattito che segue bilancia il riconoscimento delle trasformazioni che
stanno avvenendo, e dei benefici che ne possono derivare, con una più lucida disamina dei rischi e delle
criticità sottese al cambiamento. Aaron Delwiche e Jennifer Henderson identificano nella maggiore
prudenza la cifra distintiva del dibattito sulle industrie creative e sulle culture della partecipazione
successivo al primo lustro del nuovo millennio. “in questa fase”, scrivono i due studiosi, “i ricercatori hanno
temperato le loro speranze circa la potenzialità positiva della cultura partecipativa con una conoscenza delle
molte sfide che caratterizzano la nostra esistenza crescentemente condivisa”.

1.1. La co-creazione serve all’industria culturale

La partecipazione non è il portato esclusivo della digitalizzazione, ma è un elemento costitutivo del sistema
mediale (Carpentier, 2011b). Secondo Bridget Griffen-Foley (2004) la “partecipazione alla produzione di
contenuti” da parte delle audience costituisce uno dei tratti distintivi del New Journalism e caratterizza
alcuni importanti prodotti dell’editoria popolare fra gli anni Venti e Trenta. Griffen-Foley pensa, in
particolare, ai confessional magazines, periodici interamente costituiti da storie di vita vissuta e basati sui
racconti inviati dai lettori. La tendenza a coinvolgere i fruitori nella produzione dei contenuti attraversa poi
tutto il Novecento per arrivare a saldarsi con le nuove forme di partecipazione digitale, modellate dai social
network e caratterizzate dal riconoscimento dell’affinità con altri soggetti, con cui si condividono luoghi,
esperienze e oggetti di consumo (appartenenza mediale riflessiva); dalla tendenza a generare contenuti
(espressività mediale); dalla disponibilità a collaborare alla soluzione di problemi (problem-solving
collaborativo) e dall’essere parte del flusso della comunicazione e dei contenuti (condivisione di flusso).
Marie-Anne Dujarier, analizzando il nuovo ruolo del consumatore, ipotizza una discendenza diretta delle
forme di “co- produzione collaborativa” attuali dai modelli produttivi classici. Secondo Dujarier (2008), la co-
produzione collaborativa rappresenta la sesta fase di un processo evolutivo dei sistemi di produzione che
muove dal lavoro artigianale, passa attraverso il modello taylorista della separazione del lavoro e, poi,
dell’automatizzazione del lavoro dell’operatore, e quindi evolve in modelli ibridi, che prevedono una
progressiva inclusione del consumatore nella fase produttiva: dapprima attraverso la creazione di relazioni
di servizio (quando la produzione avviene in presenza del cliente), poi attraverso quella che viene chiamata
“autoproduzione diretta” (il cliente che produce mediante gli strumenti che gli vengono offerti dall’azienda)
fino ad arrivare alla “co-produzione collaborativa”. Quest’ultima si caratterizza per l’eliminazione degli
aspetti più noiosi e ripetitivi delle prime forme di co-produzione e per l’inclusione di una componente più
piacevole, ludica o edonistica, nel lavoro del consumatore. È importante sottolineare il ruolo che Dujarier
attribuisce al processo di digitalizzazione. Esso non introduce un’“innovazione distruttiva” nel sistema, ma
funziona piuttosto da acceleratore che consente di rendere evidenti e di potenziare tendenze già in atto. In
particolare, come si è detto, gli ambienti digitali rendono la collaborazione meno onerosa e più gratificante.
Secondo Axel Bruns (2008a), il web 2.0 favorisce il coinvolgimento dei fruitori nelle pratiche produttive
essenzialmente attraverso la rimozione dei vincoli ai comportamenti collaborativi: i fenomeni di
partecipazione vengono incoraggiati e sostenuti dal potenziamento dell’interattività e da una più ampia
accessibilità ai media; dalla creazione di condizioni più favorevoli al mantenimento delle reti; dal
consolidarsi di modelli di consumo fondati sulla “non rivalità” e sulla “non esclusività”; dalla valorizzazione
della collaborazione, in tutte le sue forme, compreso il crowdsourcing, che si configura come una modalità
fondamentale (e sempre meno accessoria) di finanziamento delle iniziative produttive (Luehrs, Heaven,
2013). La produttività delle audience consente inoltre di soddisfare la domanda crescente di contenuti,
generata dall’aumento delle opportunità di distribuzione. Il superamento della “scarsità” o, per usare
un’efficace metafora, il capovolgimento dell’imbuto trova nella disponibilità delle audience a generare
contenuti e prodotti una risorsa preziosa, che permette di alleviare la pressione sulle istituzioni mediali e
che garantisce la piena funzionalità del sistema (Slater, 2000). “Internet” “ha reso possibile per il
consumatore (o più precisamente per lo user degli ambienti di rete) di giocare un ruolo più attivo nella
creazione, appropriazione e disseminazione di lavori creativi. In alcuni luoghi questi cambiamenti sono stati
teorizzati utilizzando il framework dell’innovazione user generated; cioè un più ampio spostamento verso
più aperti e decentralizzati modi di produzione e pratiche di innovazione nelle società capitalistiche”.
1.2. Convergenza, transmedialità ed ecosistemi testuali

La seconda condizione che favorisce l’iniziativa produttiva delle audience, trasformandola in una leva di
sviluppo per i sistemi mediali, sono le nuove forme di testualità. In Cultura convergente Henry Jenkins parla
di racconti transmediali, ovvero di storie che si sviluppano attraverso diverse piattaforme, arricchendo il
nucleo originario della narrazione. Rispetto alle tradizionali logiche intermediali, la transmedialità introduce
elementi nuovi: nuovi personaggi, nuove situazioni, nuovi risvolti della storia. In questo processo le
audience assumono un ruolo chiave: lo sviluppo transmediale non è affidato, infatti, solo alle iniziative
istituzionali, ma passa anche attraverso l’inesausta attività delle audience. L’integrazione dell’attività
produttiva degli utenti nella costruzione della testualità mediale pone naturalmente diversi problemi: Il
primo è come assicurare che i contributi generati dagli utenti siano in linea con i canoni fissati dal prodotto
di partenza. Il principio dell’economia morale rappresenta un possibile argine a sviluppi eterodossi o
incongrui. Il secondo problema è come incentivare l’esplorazione di tutte le parti dell’universo transmediale.
In terzo luogo, la transmedialità richiede che vi sia un contributo costante da parte dei fruitori: il problema
di quali siano le motivazioni che spingono alla collaborazione e quali leve possano essere utilmente spinte
per assicurare la generatività degli utenti e quindi la persistenza dei sistemi testuali rappresenta un nodo
centrale, e non ancora sciolto, del dibattito. La narrazione transmediale, o crossmediale, come preferisce
definirla Max Giovagnoli (2009), costituisce ad ogni modo un habitat particolarmente favorevole alle
audience creative: sia perché soddisfa il piacere di una fruizione erratica attraverso la galassia di contenuti
che costituiscono la struttura testuale dei nuovi prodotti mediali, sia perché legittima e riconosce
pienamente il contributo creativo degli utenti.

1.3. Amatore ovvero professionista

Da ultimo, la crescita dei processi di partecipazione e la loro rilevanza per il funzionamento dei sistemi
mediali, è legata alla trasformazione “antropologica” del fruitore. Nel 1980 Alvin Toffler preconizza l’avvento
di una nuova figura di consumatore che assomma in sé due funzioni: quella di fruire i prodotti e quella di
generarli. Il prosumer è l’esito di una trasformazione del sistema economico e sociale caratterizzata dalla
demassificazione, dalla valorizzazione della diversità, dal carattere immateriale dei prodotti,
dall’accelerazione del cambiamento e dalla sua progressione lungo direttrici che non sono necessariamente
lineari, né guidate da un principio accrescitivo, ma che possono seguire tracciati obliqui e inopinati. In
questo quadro il gap fra produzione e consumo si salda e l’utente diventa anche produttore di ciò che
fruisce. La figura del prosumer, come ha recentemente osservato Axel Bruns, si pone dunque in continuità
con il sistema industriale, di cui rappresenta la prevista evoluzione. Nella società postindustriale il processo
di esternalizzazione della produzione non si presenta più come un passaggio di funzioni a società satellite,
ma come una delega allo stesso consumatore. La versione operativa del modello del prosumer immaginato
da Alvin Toffler è il Pro-Am descritto nel 2004 da Charles Leadbeater e Paul Miller. I Pro-Am sono “amatori
che lavorano con standard professionali”, utenti che le nuove tecnologie hanno reso “consapevoli, educati,
impegnati e capaci di operare in rete”. I nuovi professionisti-amatori sono dunque creature nate all’interno
degli ambienti digitali, secondo i due autori, in stretta relazione ad alcuni processi culturali, come la
proliferazione della musica rap, i movimenti per la cancellazione del debito pubblico, l’esplosione del
fenomeno dei modder legato a Linux e la diffusione della pratica di generazione dei contenuti, favorita dal
gioco The Sims. L’insieme di questi processi e le opportunità offerte dalle piattaforme digitali generano una
sorta di trasformazione delle audience in amatori dotati di competenze avanzate e capaci di cambiare le
regole del sistema produttivo, creando le condizioni per modelli di organizzazione “innovativi, adattivi e a
basso costo”. la figura del professionista amatore è stata successivamente utilizzata per supportare teorie e
proposte che lavorano piuttosto sull’idea di continuità fra le nuove forme dell’industria creativa e gli assetti
mediali e produttivi tradizionali. Per esempio, la teoria della coda lunga, di Chris Anderson, riprende il
modello del produttore amatore per spiegare la proliferazione di contenuti succedanei a un prodotto di
successo e la loro capacità di generare introiti eguali, o addirittura superiori nell’insieme, a quelli prodotti
dal contenuto di origine. O ancora al profilo del Pro-Am si ispirano le riflessioni sui modelli co-evolutivi
dell’industria creativa che lavorano sulla combinazione fra infrastrutture produttive istituzionali e iniziative
bottom up e che sottendono l’esistenza di un fruitore “capace”, in grado di collaborare fattivamente alla
produzione. La partecipazione delle audience alla generazione di contenuti si inserisce dunque in un
processo evolutivo che investe le industrie mediali e che si sviluppa lungo direzioni che adattano piuttosto il
sistema mediale alle mutate condizioni: economiche, del contesto sociale e culturale, delle audience.

2. Luci e ombre dei processi di co-creazione

l’incontro fra istituzioni mediali e audience creative pone di fronte a due ordini di problemi: il primo è come
garantire il mantenimento degli standard di qualità dei prodotti mediali ed evitare la dispersione del
patrimonio di competenze e di risorse, anche infrastrutturali, dei broadcaster; il secondo problema è come
preservare le audience creative dal rischio di sfruttamento e come mantenere il tratto innovativo delle loro
pratiche e dei loro contenuti.

2.1. La decentralizzazione della creazione

L’inclusione delle audience nella filiera produttiva determina, anzitutto, un processo di decentralizzazione
della creazione. In positivo questo processo consente di ridurre gli oneri in capo alle istituzioni mediali, di
accrescere il numero dei contenuti e il loro gradiente di innovatività; in negativo esso rischia tuttavia di
portare a una dispersione dei saperi e delle competenze di cui sono depositari i professionisti della
comunicazione e i media e di determinare così uno scadimento della qualità dei contenuti e delle proposte.
I contenuti creati dagli utenti rispondono, infatti, evidentemente a principi di qualità diversi rispetto a quelli
delle istituzioni mediali e che dipendono non tanto dalla competenza dei Pro-Am, quanto dalla differente
cultura da cui provengono. Anzitutto, i contenuti generati dagli utenti sono concepiti come prodotti aperti,
in fieri, e quindi strutturalmente non finiti e anzi disponibili ad essere costantemente aggiornati, integrati e
migliorati. Poi le audience creative “parlano” un linguaggio proprio, che è spesso una volgarizzazione, o
meglio, una vernacolarizzazione dei testi, delle estetiche, degli stili propri della cultura mediale istituzionale.
Infine, le culture della partecipazione tendono, spesso, a concepire le loro attività “in alternativa” alle
pratiche produttive istituzionali, rifiutandone i criteri e le procedure. Questo atteggiamento è
particolarmente diffuso fra i citizen journalist e rischia di determinare una perdita del valore informativo
delle notizie o, addirittura, secondo gli osservatori più critici, di ingenerare una situazione di entropia e di
disordine sociale e morale. Il processo di decentralizzazione dell’attività creativa richiede dunque un lavoro
di mediazione fra cultura istituzionale e culture grassroots, che consenta di non disperdere il patrimonio di
competenze professionali e insieme di valorizzare al meglio le risorse che provengono dalle audience.

2.2. L’organizzazione dell’innovazione

Il problema dell’organizzazione dell’innovazione assume essenzialmente due forme. La prima riguarda la


chiarezza con cui le istituzioni mediali definiscono il rapporto con le audience creative. Marie-Anne Dujarier
accusa i media di mistificare i processi di coproduzione, presentandoli come forme di personalizzazione o di
coinvolgimento degli utenti nelle decisioni delle aziende. Un’accusa analoga viene rivolta anche da Mark
Andrejevich che denuncia l’opacità delle istituzioni mediali e il sistematico sfruttamento a cui le audience
sono sottoposte, sia come fornitrici di contenuti, sia e più semplicemente come latrici di informazioni.
Andrejevich (2002; 2008) descrive il rapporto che si attiva fra audience e media come un lavoro – non
contrattualizzato e non remunerato. Lo stesso problema viene denunciato anche da Andrew Ross che in più
sottolinea come la presenza di una forza lavoro a costo zero stia indebolendo la posizione contrattuale dei
professionisti della comunicazione, con un’irrimediabile perdita di competenze e un abbassamento del
livello qualitativo dei prodotti mediali. La cultura partecipativa rischia insomma di promuovere una forma di
capitalismo avanzato, che sfrutta il lavoro immateriale degli utenti, trasformandoli in “profit-making service
provider” (Allen, 2008). Il processo di cooptazione dei prosumers da parte delle istituzioni mediali e di
istituzionalizzazione delle loro pratiche produttive espone a tre rischi. Il primo è lo smarrimento di alcuni dei
valori fondanti e distintivi delle culture della partecipazione. L’acquisto da parte di Google di YouTube, per
esempio, ha significato l’adulterazione dei modelli economici e relazionali della piattaforma e
l’omologazione alle logiche di marketing e ai modelli di organizzazione dei broadcaster: l’ingresso massiccio
di soggetti e di prodotti istituzionali, la monetizzazione dei contenuti la separazione fra user ordinari e
leadusers e, cioè, la creazione di un sistema gerarchico che prevede trattamenti differenziati per le diverse
tipologie di utenti. In secondo luogo, l’incontro fra audience creative e istituzioni può ridurre il portato
innovativo e l’originalità delle proposte dei produsers. La semplice presenza di soggetti istituzionali negli
ambienti user generated modifica la forma e i contenuti generati dagli utenti. Da ultimo, l’inclusione dei
contenuti generati dagli utenti nella proposta mediale istituzionale viene spesso subordinata al
soddisfacimento di criteri e di standard imposti dalle istituzioni.

3. Dall’industria culturale all’industria creativa

Il primo passo per identificare delle forme sostenibili ed “ecologiche” di dialogo fra audience creative e
istituzioni è cambiare la prospettiva e individuare un modello di funzionamento dei media che contemperi
le caratteristiche di una produzione su larga scala, basata sulla logica del profitto e sul principio del diritto
d’autore, con le specificità di una produzione su scala minore (iniziative piccole e reiterate), fondata, spesso,
sulla logica della gratuità e del dono nonché sulla condivisione e sul lavoro collettivo. Queste istanze trovano
un’ideale (ancorché teorica) composizione nel concetto di industria creativa, che va emblematicamente a
sostituire la nozione di “industria culturale”. Mentre l’industria culturale descrive l’insieme dei soggetti
(pubblici e privati) e delle procedure responsabili della produzione e circolazione industriale di cultura, a
nozione di industria creativa prova a conciliare “le nozioni di produzione mediale, commerciale o non
commerciale, basata su progetti individuali e di piccola scala o collaborativi, con le nozioni istituzionalizzate
della produzione come ha luogo nelle industrie culturali”. L’industria creativa, quindi, “descrive
concettualmente e praticamente la convergenza delle arti creative (il talento individuale) con le industrie
culturali (e la produzione su larga scala), nel contesto delle nuove tecnologie mediali (le ITC), in una nuova
economia della conoscenza a uso di cittadini nuovamente interattivi”. Se la necessità di ripensare le
politiche produttive alla luce delle mutate condizioni e della crescente rilevanza assunta dalle audience
creative è un fatto acquisito, vi è assai meno certezza sui modelli che possono guidare l’incontro fra bottom
up e top-down. Su questo punto sono state formulate diverse proposte che possono essere raccolte intorno
a due teorie: la teoria del produsage, che preconizza una vera e propria metamorfosi degli assetti e delle
procedure produttive dei media a immagine delle culture grassroots e delle pratiche bottom up; e la teoria
della co-creazione dinamica, che assume un punto di vista più vicino a quello delle imprese e cerca di
integrare le forme (e filosofie) della produzione dal basso con i protocolli e le logiche aziendali.

3.1. Produsage ovvero partecipare ai media

Il termine produsage deriva dalla crasi dei lessemi “produzione” e “uso”. Il termine viene coniato da Axel
Bruns (2008b) per dare conto del ruolo sempre più importante delle audience nella generazione dei
contenuti e dell’ambivalenza delle loro attività, di consumo e insieme generative. Il modello del produsage
riposa su alcune condizioni, che Bruns riprende dalle culture partecipative e sulle quali immagina di poter
riorganizzare il sistema mediale. Anzitutto il carattere aperto del processo di produzione e la possibilità per
le audience di partecipare senza limitazioni, sia esercitando un controllo, sia offrendo contenuti e
collaborazione. produsage prevede anche che i contenuti e i protocolli di generazione dei prodotti siano
soggetti a una valutazione collettiva. La possibilità di valutare i risultati e il modus operandi viene
considerata una condizione irrinunciabile soprattutto nell’ambito della produzione delle informazioni e una
garanzia della qualità dei contenuti che vengono offerti dai media. In terzo luogo il produsage riposa su
principi strettamente meritocratici: il ruolo che i soggetti svolgono nelle istituzioni mediali deve essere
deciso in base ai risultati che raggiungono e non a priori o in ragione di una presunta competenza. Il
carattere meritocratico dei nuovi assetti delle industrie creative si sposa anche con una struttura interna
fluida e dinamica. Bruns parla di “eterarchia” (heterarchy) ovvero un assetto flessibile, che cambia a
seconda degli obiettivi che si vogliono raggiungere e che prevede la possibilità di modificare e di aggiornare
costantemente l’organigramma aziendale in funzione dei progetti che si stanno sviluppando. La quinta
caratteristica è la natura non finita dei prodotti mediali e la loro disponibilità a essere integrati, cambiati e
arricchiti anche da soggetti diversi da chi li ha concepiti e creati. Il modello che Bruns ha in mente è quello
delle voci di Wikipedia, contenuti aperti, costantemente rivedibili e sottoposti al controllo della comunità. In
questo senso i contenuti generati attraverso il produsage vanno considerati come artefatti. Il diritto d’autore
appare anacronistico e del tutto estraneo alle caratteristiche del produsage e, di contro, diviene necessario
pensare a nuove formule, concepite sulla falsa riga del creative commons. Per Bruns il produsage segna uno
stacco netto rispetto al passato e ai limiti e alle criticità dei modi di produzione e degli assetti mediali
tradizionali. Su questo punto Bruns prende le distanze esplicitamente dalla visione di Alvin Toffler
sostenendo una tesi più vicina a quella di Henry Jenkins: il produsage è un cambiamento indotto dalla
(positiva) pressione esercitata dalle audience e che porta ad un completo riassetto del sistema. La differenza
di prospettiva viene rimarcata dalla scelta di Bruns di rinunciare alla nozione di prosumer e dalla sua
proposta di sostituirla con il concetto di produser, che insiste sulla doppia valenza dell’audience, fruitrice e
consumatrice, e quindi sulla disarticolazione del modello produttivo tradizionale, che prevede una
separazione netta delle due funzioni.

3.2. La co-creazione dinamica

Rispetto al modello del produsage, che in parte almeno resta intrappolato in una lettura oppositiva delle
pratiche user generated e istituzionali, e che colloca il punto ideale di incontro fra istanze top-down e
istanze bottom up vicino a queste ultime; il modello della co-creazione dinamica cerca, sulla carta almeno,
di mantenere un’equidistanza fra culture partecipative e istituzioni. Il punto di avvio della riflessione è la
constatazione della natura ibrida delle industrie culturali, che si muovono da sempre fra due poli: quello
economico e di impresa e quello culturale e simbolico. Le industrie creative devono trovare un modo per far
coesistere “un’attività di scambio, basata sul mercato e governata da incentivi esterni”, con “una produzione
culturale non di mercato, governata da incentivi interni”. Le teorie sulle industrie creative devono dunque
superare l’antinomia fra prospettiva economica e prospettiva culturale; saldare lo scarto fra produzione e
consumo e spiegare il “graduale avvicinamento fra creatori, consumatori e corporation”; e quindi fissare le
condizioni di sostenibilità dei nuovi assetti mediali. Sul piano del metodo questo significa, anzitutto,
adottare uno sguardo multidisciplinare o “co-evolutivo” che legga e guidi l’evoluzione dei media tenendo
conto di tutti i soggetti implicati e, anzitutto, delle aziende, delle audience e delle reti sociali. Sul piano
teorico, poi, la co-creazione dinamica prevede che i processi produttivi si sviluppino e acquistino una loro
forma stabile in una zona di confine, collocata fra impresa e comunità di utenti, e che viene definita social
network market. La Co-creazione dinamica è dunque un processo situato e un processo dinamico, che
cambia (generando un mutamento delle strategie aziendali) al modificarsi di un aspetto qualsiasi
dell’ambiente. Le teorie della co-creazione dinamica appaiono senz’altro più equilibrate rispetto al modello
del produsage; esse tuttavia evitano di affrontare la questione più delicata, ovvero come rendere operativa
l’interazione fra le diverse dimensioni che sono coinvolte nel processo produttivo. Potts, John Hartley e gli
altri studiosi che hanno lavorato alla messa a punto della teoria dichiarano espressamente che la co-
creazione è una prospettiva, non un modello, e che ogni realtà produttiva è chiamata a individuare i modi
più adeguati per realizzarla. Il dibattito sulle industrie creative è tuttavia corredato da una serie di analisi di
caso, azioni di cooperazione alla generazione di contenuti e che offrono un repertorio di buone pratiche,
evidenziando, ad un tempo, le implicazioni (culturali, politiche, pedagogiche) dei processi di co-creazione.

4. Pratiche creative, processi di vernacolarizzazione

L’incontro fra audience creative e istituzioni mediali può investire ambiti diversi del processo di produzione
culturale; può riguardare un singolo aspetto o coinvolgere più livelli; o ancora può essere sollecitato “dal
basso”, dalle audience creative, raccolte in comunità più o meno organizzate, o essere innescato, provocato
“dall’alto”, dalle istituzioni mediali.
4.1. Scritture collettive: Manituana, SIC e altri esempi di cultura vernacolare integrata

Nel 2000, dal “suicidio simbolico” del collettivo Luther Blissett nascono i Wu Ming. Nei primi cinque anni di
vita i Wu Ming si dedicano a una serie di progetti che sfruttano in modo sistematico le opportunità aperte
dalla convergenza: l’intermedialità, da un lato (viene realizzato un gioco online ispirato a Q), e la scrittura
partecipativa, dall’altro. Queste due linee di azione confluiscono in Manituana: romanzo dato alle stampe
nel 2007, ma anche ambizioso progetto crossmediale che prevede la creazione intorno all’opera di una rete
di contenuti transmediali realizzati da professionisti e da produsers. Manituana è un esempio per molti versi
paradigmatico di scrittura partecipativa: coinvolge più , con livelli di competenza diversi proponendo loro un
tema, mettendo a disposizione una serie di strumenti, a partire dal romanzo, scaricabile gratuitamente dal
sito, e uno spazio in cui trovarsi e creare nuovi contenuti. Sebbene abilmente gestito, il progetto
partecipativo di Manituana si esaurisce nel volgere di breve tempo. Si tratta di uno dei rischi delle forme di
scrittura crossmediale e, più nello specifico, di scrittura partecipativa, che richiedono un brand forte e
capace di ispirare in modo durevole l’azione creativa, un’attenta gestione dei rapporti con e fra i membri
della comunità e una precisa regolamentazione delle modalità di partecipazione e di gestione del
contenuto. Questo secondo aspetto emerge in modo anche più evidente nel caso delle creazioni
collaborative che non prevedono un brand, che si muovono al di fuori di generi predefiniti e che
coinvolgono spesso soggetti che non si conoscono e che non hanno rapporti pregressi fra loro. In questo
caso, la creazione di un sistema di regole e la standardizzazione delle procedure diviene essenziale, come
dimostra il progetto SIC (Scrittura Industriale Creativa) lanciato nel 2007 da Vanni Santoni e da Gregorio
Magini (Giovagnoli, 2009).

4.2. SYN, i community media e il mandato pedagogico dell’industria creativa

SYN è un progetto di community medium, nato nel 2000 a Melbourne, dalla fusione di due radio
studentesche. Nell’arco di poco più di dieci anni, SYN è arrivato a produrre decine di programmi, radiofonici
e televisivi, che vengono trasmessi su più piattaforme, con un’audience settimanale, per i contenuti
radiofonici, che supera gli 80.000 ascoltatori. La fortuna di SYN riposa sulla sua natura ibrida, fra cultura
partecipativa e modelli istituzionali. Con le comunità user generated SYN condivide la filosofia di fondo:
l’obiettivo di rendere accessibile la produzione e la distribuzione di contenuti alle audience; il
coinvolgimento di non professionisti; il carattere open source delle tecnologie utilizzate; la finalità sociale e
l’intento di dare voce alle minoranze e di offrire una copertura informativa “alternativa”. SYN presenta
tuttavia anche caratteristiche proprie delle imprese mediali tradizionali: fa capo a un’associazione, senza
scopo di lucro, ma che è responsabile delle decisioni editoriali e delle strategie di sviluppo del progetto; ha
un budget e una struttura amministrativa; prevede dei vincoli di accesso, sebbene laschi: a SYN possono
collaborare produsers di età compresa fra i 12 e i 25 anni; fissa standard di qualità e protocolli; intrattiene
rapporti con organismi e soggetti istituzionali. In questo senso, SYN interpreta in modo esemplare il
mandato pedagogico delle industrie creative. Oltre a cercare un bilanciamento fra elementi economici e
culturali, fra attività user generated e processi produttivi istituzionali, SYN funziona da incubatoio di quella
che Axel Bruns chiama la generazione C, ovvero la generazione di utenti creativi, collaborativi, critici,
combinatori e comunicativi.

4.3. Crytek e l’interactive value creation

Crytek è una compagnia di computer gaming, nata alla fine degli anni Novanta vicino a Francoforte. Crytek
ha sviluppato una delle più avanzate ed efficienti forme di collaborazione web-based con i propri utenti. Fin
dalla sua nascita la società ha infatti investito sulla relazione con le audience, prevedendo una serie di figure
di raccordo e mettendo a punto un complesso sistema di interazione con le diverse tipologie di giocatore.
Crytek ha elaborato tre piattaforme di dialogo con gli utilizzatori dei suoi programmi, differenziate in base al
loro profilo. Gli utenti sono stati raggruppati in casual gamers, ovvero i fruitori occasionali; hardcore gamers,
cioè gli utenti fidelizzati; e modders, ovvero i modificatori dei programmi, gli utenti più esperti in grado di
intervenire sul gioco e di migliorarne le performance. Con ciascuna tipologia di audience Crytek ha
pianificato un sistema di comunicazione dedicato, impiegando diverse piattaforme e stabilendo differenti
livelli di dialogo e di interazione. Il contatto con i casual gamers avviene attraverso i social network, che
vengono utilizzati dall’azienda per promuovere i propri prodotti e come spazio di incontro e di fidelizzazione
con i nuovi utenti; gli hardcore gamers si raccolgono intorno alla community mycrysis.com, che funziona
come una comunità di fan, a cui partecipano anche i dipendenti dell’azienda, e da cui Crytek trae
suggerimenti su come arricchire l’immaginario dei giochi, in quali direzioni svilupparli, quale genere di
aspetti potenziare. Infine, i modders hanno a disposizione una piattaforma esclusiva (crymod.com) in cui
possono intervenire direttamente sui so ware, apportando tutte le modifiche che ritengono opportune. Nel
relazionarsi con tutte e tre le tipologie di utenti, l’azienda si attiene a un rigido codice etico, che prevede la
trasparenza e la tutela del lavoro dei produsers, che viene riconosciuto e compensato. In cambio Crytek ha
potuto contare negli anni sul sostegno e sulla collaborazione dei giocatori, alcuni dei quali sono diventati
dipendenti dell’azienda, traendo risorse e generando valore (anche economico) dal dialogo e
dall’interazione con essi.

VII. Il vecchio e il nuovo: nodi da sciogliere e direzioni di sviluppo

La ricerca sulle audience si trova a raccogliere oggi tre sfide: deve ripensare i propri quadri teorici,
mantenendo aperto il dialogo con la tradizione, ma elaborando anche nuove categorie che sappiano dare
conto delle forme e dimensioni inedite che ha assunto l’esperienza mediale; deve rendere più perspicui i
propri metodi di ricerca ed elaborare progetti che usino sinergicamente strumenti quantitativi e qualitativi e
che sappiano restituire spessore e complessità alle immagini delle audience; e, infine, deve saper fare
massa critica, superare la parcellizzazione e il carattere settoriale che ancora caratterizzano gli studi sui
pubblici e la fruizione, ed elaborare una politica di ricerca incisiva, che sappia dialogare fattivamente e
orientare le decisioni in tema di media, politica, economia e società.

1. Oltre la post-teoria

Uno dei sintomi più evidenti della crisi che ha investito negli ultimi anni i quadri interpretativi e di ricerca
delle audience è l’abuso di prefissi e di suffissi, apposti alle categorie tradizionali di analisi dei pubblici e
della fruizione per marcare la differenza dal passato. Post-, dunque, ma anche oltre-, new-, re-... si
aggiungono ai termini classici del dibattito, in un gioco onomastico che solleva, spesso, dalla necessità di
analizzare il significato delle categorie, di misurare il loro potenziale euristico sul presente. La mancanza di
un’analisi sistematica delle categorie interpretative e di una metariflessione che sappia scegliere quali
nozioni mantenere e quali abbandonare è la manifestazione eclatante di un più generale processo che
Banet-Weiser e Gray chiamano di inflazione analitica, ovvero l’uso intensivo di un repertorio di termini, che
vengono progressivamente spogliati del loro significato specifico, per diventare comodi passepartout con
cui definire, rapidamente e genericamente, le trasformazioni in corso. Il terzo sintomo della debolezza delle
teorie contemporanee delle audience è l’eccesso speculativo, che riduce il confronto con il dato empirico e
la sua specificità alla forma controllata e invariabilmente confermativa dello studio di caso. La separazione
fra elaborazione teorica e pratica di ricerca si manifesta in particolare nella ripresa sistematica di categorie
fondative del dibattito novecentesco, sostenuta dall’opinabile sillogismo che l’inizio del secolo scorso ha
visto un cambiamento analogo a quello attuale, e nell’elaborazione di quadri interpretativi destoricizzati e
autoreferenziali. Infine, la ricerca sulle audience soffre oggi di una mancanza di sistematicità. L’altra faccia
della medaglia del ritorno alla Grand Theory, alla pura teoresi che rifugge il confronto con l’esuberanza, la
complessità e la specificità dell’esperienza mediale contemporanea, è la proliferazione di micro-ricerche,
carotature dal diametro millimetrico, che generano un sapere granulare, incapace di cogliere le logiche
complessive che attraversano e informano l’esperienza dei media e troppo schiacciato sul presente per
poter dare forma a teorie di lungo periodo. La prima sfida che gli studi sulle audience sono quindi chiamati a
raccogliere è restituire originalità e slancio alla riflessione teorica, capitalizzando i saperi che la tradizione di
studio mette a disposizione ed elaborando un nuovo corredo di categorie e di nozioni, a partire dal
confronto sistematico e coraggioso con il presente. In questo quadro, l’aggiornamento dei metodi e il
ripristino di un’adeguata riflessione epistemologica sui dati e sulle fonti, si impone come un passaggio
ineludibile.

2. Il carattere multicentrico della ricerca

La proliferazione dei discorsi “sulle” e “delle” audience all’interno della rete, il loro ambiguo statuto
epistemologico e l’eterogeneità di posizioni che esprimono, denunciano i limiti degli strumenti e delle
pratiche di indagine tradizionali. In particolare, il dibattito sui metodi di ricerca ha messo in evidenza due
criticità: sul versante degli strumenti di misurazione delle audience, la mancanza di indicatori capaci di
cogliere le inedite dimensioni dell’esperienza mediale, a partire dall’interattività; sul versante degli
strumenti qualitativi, la progressiva riduzione del fuoco dell’analisi e la tentazione dell’auto-biografismo. In
merito ai metodi statistici, in particolare, il dibattito attuale riprende i termini della riflessione dei primi anni
Novanta – la denuncia dell’astrattezza delle rappresentazioni dei pubblici che emergono dalle indagini
statistiche e la loro compromissione con il mercato e gli interessi dei broadcaster, evidenziando in più la
carenza degli apparati di registrazione (il meter) e di rielaborazione dei dati di consumo. Rispetto ai metodi
qualitativi, si rileva invece una pericolosa tendenza a perimetrare il campo di ricerca a singoli casi e al caso
specifico del ricercatore. La vague autoetnografica, che caratterizza anche la ricerca sociologica, è la
manifestazione più eclatante di questa tendenza. il ricercatore che riflette su sé stesso, sulle proprie scelte e
pratiche di fruizione è infatti nella condizione ideale per cogliere l’insieme degli elementi che entrano in
gioco nella definizione dell’esperienza mediale e per evitare così la semplificazione sia degli approcci
“testualisti”, che si concentrano in modo esclusivo sul rapporto fra fruitore e testo; sia degli approcci
“contestuali”, che si focalizzano, per converso, sulle condizioni del consumo, trascurando i contenuti.
Tuttavia, i pericoli a cui la piegatura autobiografica della ricerca espone e i suoi costi in termini conoscitivi
sono pesanti: il rischio di una crescente autoreferenzialità degli studi sulle audience; la cancellazione di
interi segmenti di pubblico, che non condividono il profilo e il bagaglio esperienziale dei ricercatori; la
frammentazione e la dispersione dei saperi. La complessità dei processi mediali rende poi imprescindibile
l’uso sinergico di più metodologie. Alla strategia della triangolazione, ovvero del raffronto e del controllo
reciproco fra i dati reperiti mediante strumenti diversi si sostituisce il modello della ricerca multifocus,
proposto già alla metà degli anni Novanta (Nightingale, 1996) e che prevede la costruzione di progetti di
ricerca multicentrati, cioè con diversi obiettivi, ciascuno dei quali perseguibile utilizzando metodi e approcci
specifici. Il carattere multicentrico della ricerca e la messa in sinergia di fonti e dati diversi necessitano
naturalmente di una robusta conoscenza del valore epistemologico dei differenti materiali empirici.

3. Coordinate di un nuovo, possibile, paradigma di ricerca

L’ambizione degli studi sulle audience a estendere e riassortire la propria agenda di temi, se per un verso
testimonia la maturità di questo campo di indagine, per un altro sta generando una crescente
frammentazione, una dispersione dei saperi che rende estremamente difficoltoso, per la ricerca, fare massa
critica e, per chi la esamina, individuare le cifre che caratterizzano questa specifica stagione. Se, tuttavia, si
riesce ad uscire da una prospettiva settoriale o a guadagnare un’adeguata distanza, emergono alcune
ricorsività, prospettive e preoccupazioni che attraversano i diversi ambiti di studio e che fissano le
coordinate di un nuovo, possibile, paradigma di ricerca.

3.1. Convergent audienc

Nello scenario della convergenza non sono solo i contenuti a muoversi da una piattaforma all’altra, spesso
tracciando percorsi non ortodossi, ma anche le audience. L’esperienza mediale si presenta dunque come un
complesso di flussi che assumono assetti molteplici. Il modello del flusso appare particolarmente
promettente sul piano teorico nella misura in cui consente di cogliere la complessità e la variabilità delle
pratiche di fruizione e di evitare le aporie di un approccio ontologico, che vincola l’esperienza mediale alla
presenza di certi elementi: un contenuto, una tecnologia, un ambiente, un tipo di audience. Per esempio, se
si descrive la fruizione cinematografica in termini di flussi o di assetti di azione, diventa possibile riconoscere
forme di esperienza spettatoriale “classica” anche in assenza di una sala; o, per converso, parlare di forme
“alternative” di visione anche nelle cornici più canoniche. André Jansson (2012) parla di texture per
descrivere gli assetti in cui si organizzano i flussi di contenuti, soggetti, luoghi e materiali, che garantiscono
alle audience e alla loro esperienza una relativa stabilità. Il processo di stabilizzazione dei flussi può essere
interpretato anche attraverso la lente dell’articolazione, categoria vetusta, ma ancora utile con cui Stuart
Hall spiegava il peculiare “incastro” fra proposta mediale e fruitore e la capacità dei media di contribuire a
costruire una soggettività stabile, sebbene non sclerotizzata o vincolata a un solo e invariabile modello.

3.2. Grounded audience

All’inizio del nuovo millennio, Nick Couldry e Marie Gillespie si chiedono dove stiano le audience e dove il
ricercatore si debba collocare per analizzare l’esperienza dei media (Couldry, 2005). La questione dello
spazio assume almeno quattro diverse declinazioni all’interno del dibattito. La prima è il monitoraggio dei
luoghi del consumo, ovvero la ricostruzione della geografia degli spazi di fruizione. È una questione centrale
nella riflessione sullo spettatore cinematografico: la constatazione della moltiplicazione dei luoghi e delle
cornici di visione e della conseguente differenziazione dell’esperienza dei fruitori fa infatti da preambolo alle
analisi che cercano di cogliere e definire l’identità resiliente del medium in epoca di convergenza. In una
prospettiva storica, lo studio degli habitat del consumo cinematografico e della loro collocazione sul
territorio serve anche a modulare le considerazioni intorno al ruolo del cinema nella modernità e nella vita
dei soggetti e quindi, in ultimo, nuovamente, a definire con maggiore precisione l’identità sociale e culturale
del medium. La domanda sugli spazi delle audience incrocia poi la questione del carattere
multidimensionale dell’esperienza di fruizione. In una chiave ancora più complessa, gli spazi vengono poi
analizzati come campi di forza, per ricostruire le dinamiche di potere sottese all’esperienza mediale. In
questa prospettiva si collocano le ricerche che esaminano le condizioni politiche ed economiche che fanno
da sfondo all’elaborazione dei contenuti e, specularmente, le analisi che ricostruiscono le condizioni sociali
e culturali della fruizione. L’analisi degli spazi come campi di forza permette anche di cogliere l’ambiguità
della posizione che le audience contemporanee si trovano a occupare come “agenti” del potere dei media,
latori consapevoli e partecipi delle istanze che le istituzioni mediali esprimono. Infine, la questione dello
spazio, o del “dove” si collocano le audience, si lega strettamente al dibattito postcoloniale. In tempi
recentissimi, gli audience studies hanno avviato una riflessione sulle implicazioni politiche dell’estensione
del corredo categoriale degli studi sulle audience alle esperienze di soggetti che vivono e che fanno
esperienza dei prodotti mediali in contesti diversi da quelli “occidentali”. L’obiettivo è di valutare la tenuta
delle categorie, la legittimità del loro uso e le implicazioni in termini culturali e politici che esso determina.
Un primo e prezioso risultato di questa ricerca è il volume curato da Richard Butsch e Sonia Livingstone
(2013) che raccoglie una serie di ricerche empiriche sulle immagini di audience elaborate al di fuori dei
quadri culturali e teorici occidentali e che consente di relativizzare le categorie prodotte dal dibattito
europeo, evidenziando il loro tratto artificioso e ideologico.

3.3. Collaborative audience

La terza cifra che distingue gli studi contemporanei sulle audience è la problematizzazione del rapporto con i
media: il ruolo complesso che i fruitori assumono nel sistema mediale evidenzia l’ambiguità della relazione
che si stabilisce fra audience e medium e la necessità di analizzare più attentamente le forme che essa
assume. Come ammonisce Miller (2009), gli audience studies contemporanei devono superare la
polarizzazione fra audience resistente e audience attiva e immaginare attitudini e modalità di rapporto con
le istituzioni mediali più sfumate. Il superamento della prospettiva antinomica consente dunque di guardare
all’interazione fra audience e istituzioni mediali in un’ottica produttiva, che mette in prospettiva la questione
dell’egemonia e che si concentra sui modi per rendere più stabile la collaborazione delle audience alla
produzione e, in generale, alla comunicazione mediale: in gioco vi è la possibilità di modificare in modo
profondo e duraturo il sistema dei media, promuovendo forme di scambio e di dialogo che si collocano al di
fuori sia del modello della rivoluzione dal basso, sia delle teorie della compromissione delle audience con il
sistema. Gli esiti di tale incontro investono tutti i livelli della comunicazione.

3.4. Remembering audience

Gli audience studies contemporanei si interrogano insistentemente sui fattori che stabilizzano i pubblici e la
loro esperienza. In uno scenario fluido, in cui i confini fra i media tendono a sfumare e gli ambienti
presentano tratti ibridi, la memoria costituisce un fattore fondamentale di omeostasi dei processi produttivi
e di fruizione. In una prima accezione, diffusa soprattutto nell’ambito delle ricerche sul cinema, la memoria
denota la persistenza di forme che giustificano il permanere di pratiche tradizionali (produttive e di
fruizione): possono essere apparati e strutture testuali (la memoria del sistema), oppure saperi e
competenze “spettatoriali” (la memoria culturale) o ancora si può trattare di una memoria per così dire
biologica, che associa alla fruizione una gamma di set predefiniti di emozioni (come quella descritta dalla
teoria dei neuroni specchio). In tutti questi casi il riferimento alla memoria è funzionale a richiamare una
esperienza che si considera più piena e profonda e si intreccia con una diffusa vague nostalgica per le forme
“classiche” del consumo dei media. In una seconda accezione, la memoria si presenta come un deposito di
risorse, quel patrimonio culturale teorizzato dal dibattito sulle audience attive che permette ai soggetti che
lo condividono di fare scelte condivise, di elaborare pratiche e di mettere a punto soluzioni comuni per
affrontare i cambiamenti. Le audience dei media si trovano oggi senz’altro di fronte a una realtà complessa:
ricca di opportunità, ma anche gravida di responsabilità (Colombo, 2013). Orientare, fornire gli strumenti
necessari a comprendere i media e a interagire con essi, creare le condizioni perché vi sia un reale dialogo
fra i soggetti, le tecnologie e le istituzioni è l’impegnativa partita che gli studi sulle audience sono chiamati a
giocare: la posta sul tavolo per gli audience studies è la possibilità di acquisire o di riguadagnare una
posizione centrale sia nella riflessione scientifica sui media, sia e soprattutto nel dibattito pubblico e nelle
politiche di sviluppo della comunicazione mediale e della società.

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