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Transmedia branding

Narrazione, esperienza, partecipazione


a cura di
Paolo Bertetti e Giuseppe Segreto

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ISBN 978-884675846-0
Networked brand narratives
e transmedia storytelling
Giovanni Boccia Artieri, Elisabetta Zurovac

1. Dal popolo di Seattle ai pubblici connessi: come si è


modificato il rapporto tra brand e consumatori.

I cambiamenti sociali, culturali e comunicativi che hanno ca-


ratterizzato gli anni ’10 del nuovo secolo riverberano nel decennio
successivo modificando il modo che i brand hanno nello stare non
più solamente nel mercato ma più pienamente nelle società in cui
vivono. Gli anni 2000 si sono aperti con il logoramento del con-
cetto di brand e il loro assomigliare sempre di più a cliché vuoti
(Semprini, 2006; Gnasso e Iabichino, 2014; Ferraresi, 2016), testi-
moniato dalla crescita di una forte sensibilità no-brand che Naomi
Klein ha celebrato nel testo No Logo (1999), divenuto vero e pro-
prio manifesto delle pulsioni anti globalizzazione veicolate da mo-
vimenti sociali che hanno visto il loro picco nella costituzione del
‘Popolo di Seattle’. A questo si è associata una crescita della forme
di consapevolezza del consumatore, come sottolineato ad esempio
dal proliferare di ricerche sul consumo critico e responsabile (Pal-
trinieri, 2012; Musarò e Parmeggiani, 2007), nonché un progressi-
vo superamento di alcune logiche di customizzazione superficiali,
sempre più ravvisabili in strategie di differenziazione dei brand che
però poi offrono proposte omologhe in profondità, come rilevano
le contestazioni ironiche del gruppo Adbusters (Berardi, Pignatti e
Magagnoli, 2003).
Questo contesto di trasformazione culturale nei confronti dei
brand ha avviato un processo di progressivo ripensamento che ha
riguardato un’evoluzione nelle strategie di comunicazione e nella
costruzione di rapporti con i consumatori, orientandosi alla crea-
zione di legami emotivi costanti, principalmente attraverso sinto-
nizzazioni narrative. Da questo punto di vista – e con carattere ide-
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ologico – la proposta del pubblicitario Kevin Roberts, CEO Saatchi


& Saatchi, di guardare ai Lovemarks (2004: tr. it. 60) come al futuro
dei brand ha caratterizzato alcuni immaginari produttivi e di ricerca
sulla comunicazione pubblicitaria:
I Lovemarks di questo nuovo secolo saranno i brands e le aziende che
creano legami emotivi autentici con le comunità e i sistemi con cui vivono.
Ciò significa sviluppare un contatto intimo e personale. E nessuno vi lasce-
rà avvicinare abbastanza da farsi toccare se non rispetta quello che fate e
quello che siete.

Possiamo considerare questo momento come un tipping point


che porta a una svolta verso una relazione forte fra brand e storytel-
ling. Secondo l’approccio dei Lovemarks, occorre infatti strutturare
la relazione tra brand e consumatori come una storia d’amore, capa-
ce di fare leva su sentimenti come il rispetto, l’empatia e la complici-
tà. Per instaurare questo rapporto d’intimità e fiducia, e rafforzarlo
nel tempo, è fondamentale per Roberts trattare il brand come una
persona la cui storia viene descritta attraverso una narrazione.
Parallelamente a questa trasformazione, gli stessi anni hanno vi-
sto l’evoluzione del web in chiave sociale, attraverso quella svolta
che sarà ricordata come nascita del web 2.0 (O’Reilly, 2005). Le piat-
taforme del web sociale hanno infatti modificato profondamente i
comportamenti degli individui, accelerando i cambiamenti delle di-
namiche sociali che erano già presenti nel postmoderno. Alla base
di questa accelerazione del cambiamento sociale c’è, da un lato, la
possibilità delle masse di poter accedere a dei device tecnologici che,
consentendo di creare ex novo o di rielaborare contenuti mediali
preesistenti, permettono agli utenti di produrre e distribuire con-
tenuti; dall’altro l’interiorizzazione di linguaggi e grammatiche me-
diali a cui le audience sono state esposte dalla nascita della società
del consumo come semplici fruitori passivi (Boccia Artieri, 2012)
permettono di dar vita a forme mediali simili a quelle create delle
élite produttive.
Internet e la sua evoluzione delle piattaforme sociali di intercon-
nessione hanno dato quindi voce e spazio ai pubblici, contribuendo
a modificare ulteriormente il rapporto tra produttori e consumatori.
Viene infatti data a questi ultimi la possibilità di ribaltare – anche
qui da un punto di vista ideologico e narrativo – la propria posizione
di “sottomissione” comunicativa e di consumo: gli utenti della rete
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possono abbandonare il loro pensarsi unicamente nel ruolo di rice-


vitori passivi di informazioni e prodotti. Ai consumatori viene offer-
ta la possibilità di esprimere opinioni e critiche circa beni e servizi
fino ad arrivare a farsi essi stessi produttori pubblici di contenuti
rilevanti nel rapporto con i brand (Jenkins, 2006). Va considerato
inoltre che queste attività svolte in rete avvengono attraverso l’addo-
mesticamento di strumenti di comunicazione di massa per le masse
(Boccia Artieri, 2009), il che significa che, per la prima volta, ampi
strati di popolazione hanno avuto la possibilità di raggiungere un
altrettanto ampio pubblico, che fino alla comparsa di questi mezzi
di comunicazione era raggiungibile solo dai media tradizionali. Ed è
l’insieme di tutte queste condizioni a produrre un cambiamento nel
paradigma comunicativo relativo ai media: da pubblico, ovvero og-
getto di comunicazione, si è passati ad essere produttori comunica-
zione per le masse ribaltando il proprio senso della posizione nella
comunicazione (Boccia Artieri, 2009; Boccia Artieri, 2012), ovvero
il modo di relazionarsi con istituzioni, media e brand. È questa una
realtà fatta di pubblici connessi, cioè di pubblici riconfigurati dalle
tecnologie di interconnessione (boyd, 2011) che stabiliscono rappor-
ti diretti tra loro, generando al contempo spazi comunicativi in cui
produrre narrazioni e forme discorsive per entrare in conversazione
con soggetti pubblici e di mercato (Weinberger, 2000). Anche que-
sto, vale la pena di ribadirlo, è un cambiamento di stampo ideologi-
co del modo che audience dei media, cittadini della politica e con-
sumatori dei brand, hanno di immaginarsi in relazione con quelli
che sino ad allora erano stati percepiti come attori istituzionali con
uno sbilanciamento di potere comunicativo a loro favore.
Questa nuova centralità nella comunicazione, ottenuta grazie alle
tecnologie, enfatizza due aspetti resisi evidenti nel consumo (Bo-
aretto et al., 2009): a) il bisogno di socialità – in quanto individui
– e b) il desiderio di esprimere nuove forme di protagonismo – in
quanto clienti. In questo senso ci si riferisce al consumatore come
empowered (Fabris, 2008) poiché, riscattandosi da una posizione di
passività, riesce a rivendicare nei confronti dei brand un rapporto
dialettico quasi orizzontale attraverso gli spazi dialogici online. Spa-
zi in cui sempre più consumatori si “addestrano” a incontrarsi, con-
frontarsi e ricercare o produrre informazioni su brand e merci. Per
questo motivo è possibile sostenere che a questo punto dell’evolu-
zione tecno-sociale dei pubblici connessi il consumatore sia conscio
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della sua posizione di empowered consumer e abbia gli strumenti per


«spingere le organizzazioni a muoversi da una logica profit oriented
a una strategia attenta al profitto e al valore sociale, in tutte le sue
declinazioni» (Russo, Marelli e Angelini, 2015: 26).
Sotto la spinta dei consumatori le imprese cominciano a modi-
ficare le strategie organizzative e a basare la propria identità sulla
responsabilità sociale (Balmer e Geyser, 2006). Inoltre la capacità
di reperire informazioni sulle aziende da parte dei consumatori non
permette alle stesse di attuare delle strategie divergenti tra il proprio
mondo interno e quello esterno rischiando di dare vita a dei mecca-
nismi di sabotaggio da parte dei consumatori (Schwarzkopf, 2011).
Le aziende, attraverso le loro azioni e comunicazioni, superano la
contingenza postmoderna caricando di significati i propri prodotti
e diventano per i consumatori delle scelte politico-valoriali a cui
aderire e con cui identificarsi.
Il consumo acquista in questo senso un valore critico e, proprio
nel momento in cui la politica ha perso la propria capacità attratti-
va, acquista sempre di più un valore politico capace di svolgere una
funzione identitaria per l’individuo (Di Nallo, 1997; Fabris, 2003;
Bartoletti, 2009). Attraverso l’enorme quantità di informazioni a sua
disposizione il consumatore ricerca valori che possano offrirgli un
significato e che creino differenza rispetto al mondo circostante.
Per fare ciò occorre prendere le distanze dalla concezione ere-
ditata dal marketing degli anni Ottanta1, che vede il consumatore
come un target da colpire e aggredire per dare vita invece a dei pro-
cessi di co-creazione e relazione che tengano conto delle esigenze
esperienziali del consumatore (Ferraresi e Schmitt, 2006; Jenkins,
Ford e Green, 2013): abituato alla continua produzione di contenuti
e alla partecipazione, non può più essere considerato dalle aziende
come un ricettore passivo ma, attraverso una prospettiva dialogica
e di sempre maggiore coinvolgimento, deve essere integrato nelle
dinamiche di produzione del valore. Impresa e consumatori non
devono quindi più essere concepiti come soggetti antagonisti che
“combattono” nel territorio del mercato economico ma al contrario

1 In questo contesto risultano emblematici i titoli dei volumi di alcuni guru del

marketing come Ries Al, Trout Jack: Positioning: The battle of your mind, New York,
McGraw Hill (1981) e Marketing: è guerra. L’applicazione delle strategie militari per la
conquista dei mercati, Milano, McGraw Hill (1986).
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– superando il concetto di scambio economico come puro trasfe-


rimento – dei cooperatori nella produzione di valore (Paltrinieri e
Parmiggiani, 2008).
Su questi assiomi si basa il societing, un approccio che vede le
imprese e i brand come parte costitutiva della società. Il neologismo,
coniato dalla crasi tra le parole società e marketing, offre l’oppor-
tunità di comprendere la complessità dei cambiamenti del consumo
e dei soggetti coinvolti. Seppur non trattandosi di una vera rottura
col marketing del passato il societing prende le distanze «da quelli
che vengono considerati ancora oggi degli assiomi della disciplina»
(Fabris, 2008: 227).
Ai brand non resta dunque che prendere coscienza del nuovo
status favorendo un approccio dialogico e quanto più sincero con
i consumatori e, soprattutto, incoraggiare e sostenere la creazione
di relazioni e la condivisione di informazioni tra i consumatori. Si
tratta di costruire delle autentiche interazioni basate non solo sul
coinvolgimento temporaneo dato da una raccolta punti o da un cu-
stomer care efficiente e reattivo ma su una condivisione di valori
e significati sociali così da «condividere reciprocamente, in modo
non superficiale, progetti coinvolgenti su tematiche che valorizzino
l’ordinarietà del consumo» (Gnasso e Iabinicho, 2014: 54).

2. I brand come parte del racconto sociale

È all’interno di questo quadro di riferimento che la comunica-


zione d’impresa sperimenta strategie comunicative che diventano
antagoniste e complementari a quelle dell’informazione, costruen-
do un rapporto più diretto con i produsers (Degli Esposti, 2015)
sempre più sensibili al rintracciare tensioni valoriali su cui il mondo
del consumo si può esprimere. La crescita di complessità sociale
si associa all’imprevedibilità dei comportamenti del consumatore,
che diventa al contempo meno lineare e più individualista nelle sue
scelte, aperto alle novità ma anche più bisognoso di appartenenza
per fare fronte alla crescita di incertezza sia sociale che economica.
Un bisogno che si sviluppa attraverso dinamiche neo-comunitarie
di partecipazione e condivisione, principalmente espressiva ed emo-
tiva e che trova nei percorsi della rete, tra web e social network,
una sintesi efficace. In rete si sperimenta la possibilità di fare espe-
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rienze che sono allo stesso tempo individuali ma entro contesti di


connessione che le arricchiscono di senso e significato. È un con-
sumatore che si fa, in definitiva, più critico e selettivo, sensibile ai
valori sociali incorporati da prodotti e marchi. Anche a partire dalla
crescita di disponibilità informativa su prodotti e brand, a cui la
diffusione dell’accesso a Internet contribuisce in modo significativo.
Il rapporto del marketing con l’universo di consumo perde i pun-
ti di riferimento che aveva via via costruito e che rappresentavano
delle bussole per orientarsi rispetto alle azioni di comunicazione:
dalle caratteristiche socio-demografiche, agli stili di vita fino agli
stili di consumo. Si profila quindi la necessità per i brand – e per la
comunicazione di impresa – di ripensarsi come parte di un racconto
sociale più ampio, capace di abbracciare valori sociali e rapportarsi
con le esperienze dei singoli co-costruendo percorsi densi di signifi-
cato e incidendo in modo concreto sulla collettività.
I brand sviluppano in tal senso un proprio agire comunicati-
vo che li identifica sempre di più come vere e proprie piattaforme
narrative della società, collocandosi chiaramente all’interno di un
universo valoriale di appartenenza. Si tratta di un vero e proprio
passaggio dal posizionamento al prendere posizione (Cova, Giordano
e Pallera, 2011), o meglio del fatto che il proprio posizionamento sia
qualcosa che ha a che fare con la capacità di dire qualcosa di social-
mente rilevante, di confrontarsi con temi che sono di responsabilità
sociale. Come spiega Paolo Iabichino, direttore creativo che è stato
CCO del gruppo Ogilvy & Mather Italy,

La narrazione è affascinante ma se non riesce a portare dentro un afflato


di verità è destinata a svanire [...] Prima i “nostri valori” erano confinati
nelle brochure, nei cataloghi aziendali o nei menù a tendina dei siti istitu-
zionali. Oggi il valore di una marca deve essere lo stesso di colui che la sce-
glie, ed è anche per questo che conviene a tutti essere più sinceri e autentici
(Iabichino, 2017: 122).

Come si può capire si tratta di rivedere anche un certo atteggia-


mento che riduce la dimensione narrativa delle imprese alla moda
dello storytelling (Cosenza, 2018), parola utilizzata come una sorta
di tic linguistico-mediatico che rischia di svuotarla di senso.
L’esigenza della comunicazione d’impresa oggi è invece quella di
trasformare il racconto del brand in una narrazione che si inserisca
nei percorsi di senso degli individui, che evidenzi il valore di legame
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di una marca, diventando occasione per costruire ponti relaziona-


li e comunitari, soddisfare bisogni esperienziali e di appartenenza.
Una sorta di passaggio dal raccontarsi al mettersi in narrazione in
cui il compito dei pubblicitari è quello di creare matrici narrative
così rilevanti da costringere i mercati ad occuparsi delle persone.
Per costruire tali matrici narrative di un brand, che possano essere
piattaforme di senso per i consumatori-cittadini, esistono diverse
tecniche di comunicazione distinte dal punto di vista strategico ma
che spesso vengono sovrapposte, e che rimandano alla capacità di:
– storytelling: utilizzato per raccontare la storia di un’organizzazione in
modo emotivamente coinvolgente per ispirare un consumatore;
– content marketing: un approccio di marketing strategico orientato alla
produzione e distribuzione di contenuti di valore per i propri pubblici –
ad esempio attraverso blog e social media –, fornendo informazioni che
facciano crescere la consapevolezza – più che “vendere” il prodotto – e
intercettano i bisogni dei consumatori più che inducendo bisogni;
– brand journalism: un approccio alle Pubbliche Relazioni capace di sti-
molare la condivisione di storie corporate attraverso un metodo giorna-
listico che coinvolga consumatori e stakeholder.

Ciò che è rilevante è che la matrice narrativa creata deve essere


centrata sull’individuo e quindi pensare al consumatore/cittadino
come centro del suo svilupparsi. La narrazione, nel suo svolgersi,
deve inoltre essere completata dagli altri consumatori/cittadini, co-
minciare una conversazione con i pubblici e si deve rendere la nar-
razione il più aperta possibile alla partecipazione.
La forza di questa matrice narrativa si abbina via via nel tempo
– parallelamente all’evoluzione dei pubblici connessi e alla consa-
pevolezza per una comunicazione relazionale dei brand – alle pos-
sibilità di assumere una natura transmediale, aprendo i brand a una
prospettiva nuova di ascolto, produzione e dispersione di contenuti
capaci di raggiungere i pubblici nei luoghi mediali in cui essi sono e
attivare conversazioni. La narrazione transmediale, infatti, va pensa-
ta come un principio operativo, nei termini di Henry Jenkins (2006),
cioè come un processo in cui vengono attivati più canali per creare
un’esperienza di intrattenimento unificata e coordinata. È così ad
esempio che, sfruttando le peculiarità dei singoli media, una storia
può trovare la sua introduzione in un film e ampliarsi con romanzi,
videogame, fumetti e, magari, una serie televisiva. Il tutto con una
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relativa autonomia di ogni narrazione, per cui non occorre aver visto
necessariamente il film per approcciare il fumetto o giocare al vide-
ogame, rendendo così dal punto di vista del consumo ogni franchise
autosufficiente. Si tratta però di un’autonomia teorica perché, nella
prassi, molte delle forme transmediali sono efficaci e hanno senso
solo se vengono collocate lungo una catena cronologica sia interna
al prodotto stesso, rispettando ad esempio una coerenza narrativa,
che esterna.
Ma se seguiamo una logica di interpretazione della transmedia-
lità orientata alla sola produzione rischiamo di restare ancorati a
modalità di lettura in cui il pubblico/fruitore si muove al massimo
attraverso testi diversi, al limite godendo dell’approfondimento che
comporta passare da un prodotto mediale all’altro, dal cogliere ci-
tazioni che solo chi segue il racconto su più media può cogliere, e
così via. Se portiamo, invece, alle estreme conseguenze il senso della
transmedialità allora dobbiamo cogliere anche l’altro lato, quello
in cui il pubblico si appropria dei contenuti delle narrazioni e le
trasforma producendo, nei casi delle più forti forme partecipative
che la letteratura mediale ci ha raccontato, fan fiction, fan fiction trai-
ler, fan art, parodie, remixando contenuti o realizzando produzioni
proprie a basso costo e impegnandosi in progetti più complessi. In
questo senso, parlare di transmedia brand significa quindi riferirsi
a un processo comunicativo in cui l’informazione del marchio viene
dispersa attraverso piattaforme multiple, diversi canali, media, con
lo scopo di creare un engagement nei propri utenti che andranno a
raccogliere questi frammenti per ricostruirli (Tenderich, 2014).
I marchi transmediali usano la narrazione per collaborare con
i nuovi utenti della rete, non solo al fine di produrre contenuti ma
anche per incentivare la percezione positiva del brand. Il prosumer,
un consumatore sempre più produttivo, reinventa e interpreta quel-
lo che il marchio dissemina per lui e riesce ad accedere a queste
disseminazioni da diverse porte di accesso (Scolari, 2009; Carmody,
2016). Validando il ruolo del prosumer il brand facilita la narrazio-
ne piuttosto che raccontarla, perché non la conclude. Facilita così
il germogliare di altre storie attraverso la partecipazione e la con-
nessione di utenti aggregati attorno alla narrazione della marca. Si
crea quindi un messaggio diffondibile non solo per le facilitazioni
di condivisione che si trovano sui media (retweet, reblog, eccetera),
ma anche perché tali informazioni vengono diffuse con una precisa
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logica, attingendo a un universo simbolico capace di produrre senso


condiviso. Quando ciò accade ci si trova di fronte a delle networked
brand narratives.

3. Orientarsi nell’approccio delle networked brand


narratives: una bussola interpretativa

A partire dal quadro generale illustrato riguardante la comuni-


cazione contemporanea e all’interno del quale il brand si deve saper
orientare, assieme alle professionalità che si occupano di advertising
e marketing entriamo nello specifico della proposta dello strumento
interpretativo riguardante le modalità di networked narrative.
Tenendo a mente la condizione socio-tecnologica che oggi le pro-
fessionalità della comunicazione si trovano a fronteggiare, appare
evidente che le storie della marca vengano costruite impiegando stru-
menti e linguaggi provenienti non solo da una pletora di mezzi di
comunicazione ma che altresì tali mezzi siano allo stesso tempo dei
luoghi di incontro e scambio con i consumatori. Vengono quindi, in
maniere diverse, disseminati spunti e stimoli per essere colti dai pub-
blici così da trasportarli in un’immersione esperienziale a seconda dei
tipi di piattaforma utilizzati. Questo significa che non è più possibile
pensare una campagna senza una storia da raccontare e non esiste
storytelling che non muova a una call to action, cioè che lasci al pub-
blico semplicemente l’esplorazione. Call to action significa infatti “sti-
molare a fare qualche cosa”, un’azione che sia coerente con la brand
identity ma che risuoni anche con quei valori e bisogni intercettati
tramite l’ascolto del pubblico. Questo molto spesso porta anche a
perfezionare e migliorare l’insight. La co-progettazione di prodotti e
contenuti, svolta tra pubblico e azienda, è un esempio di questo tipo.
Possiamo quindi osservare come un universo narrativo comples-
so si muova attraverso una sorta di dispositivo dato dalla costruzio-
ne coerente di (a) uno storytelling che, a partire da un insight, (b)
riesce a identificare e consultare quelli che sono i bisogni sociali
e i valori, attivando (c) le culture partecipative (d) e dando vita a
possibilità narrative. Questa modalità transmediale di far vivere il
racconto per – e soprattutto insieme ai – pubblici connessi viene in
questa sede definita networked narrative proprio per il suo affonda-
re le radici in uno scenario in cui il pubblico sfrutta le possibilità
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della rete e il brand quello della connessione con e tra i pubblici.


Ciò significa riconoscere ai consumatori un ruolo non solo attivo
nel ricomporre il senso della storia ma anche decisivo nel farla ger-
mogliare attraverso lo stato di connessione in cui si trova a operare.
Costruire una networked narrative significa accettare la sfida del di-
gitale: ascoltare, interagire e offrire un’esperienza interattiva signifi-
cativa per il consumatore.
Per orientarsi a questo approccio narrativo si propone una busso-
la interpretativa (Fig. 1) che si compone di quattro quadranti, o più
correttamente dimensioni, necessarie alla costruzione e all’analisi
delle narrazioni networked:
1. Narrare per insight
2. Agganciare la partecipazione
3. Immersione nel flusso
4. Chiedere di agire

Fig. 1 - Bussola interpretativa per le networked brand narratives.

Di seguito le esploreremo nello specifico.


Networked brand narratives e transmedia storytelling 65

3.1. Quadrante 1: Narrare per insight


Il primo quadrante riguarda l’esplorazione in profondità della
brand identity per scoprire quale sia la vocazione del brand, ricono-
scere altresì gli elementi che fanno della marca un motore semiotico
(Fabris, 2008) capace di aggregare individui attorno a sé attraver-
so dei valori scelti che permeano i prodotti che propone. Essere
un motore semiotico significa per un brand avere la capacità di
generare un mondo narrativo che faciliti vicinanza e dialogo con/
tra i consumatori. Quest’ultimi, se da esso attratti, riconoscono nel
brand un punto di vista sul mondo simile al proprio e percepiscono
il racconto della marca come parte del proprio racconto che, nella
dimensione comunitaria potenziata dalla rete, diventa un racconto
condiviso da un gruppo il cui legame comunitario sarà tanto più for-
te quanto più potente sarà la risonanza della narrazione della marca
con gli insight culturali – valori, credenze, necessità – rintracciati e
condivisi con una comunità o un territorio.
Per questo motivo il primo passo verso la costruzione di una net-
worked brand narrative di successo è analizzare in che modo ci si
possa sintonizzare a livello valoriale con il pubblico di riferimento.
Tuttavia, questa sintonizzazione deve essere concreta, basata su una
reale predisposizione della marca a tenere la condotta che promette;
occorre credere e rendere visibile attraverso azioni tangibili il punto
di vista che racconta di adottare.
Per raccogliere insight sui consumatori le piattaforme web pos-
sono rappresentare un interessante strumento di raccolta poiché
stili di vita, desideri e valori vengono costantemente aggiornati da-
gli utenti tramite contenuti lasciati in rete. Servizi di social media
listening – per es. Social Mention, TalkDigger – rendono possibile
reperire in modo automatizzato grandi quantità di dati relativi a
conversazioni sugli interessi dei consumatori e, allo stesso modo,
metodi di stampo qualitativo relativi all’ascolto possono aiutare le
aziende a reperire utili insight culturali e commerciali in profondi-
tà attraverso l’immersione netnografica (Hine, 2015) in comunità
strutturate online.
Una storia pensata per risuonare con gli insight dei consumatori
permette alla marca di essere un’arena attraverso la quale conversa-
re, incontrarsi e riconoscersi, ponendo le basi per un alto grado di
coinvolgimento con l’universo narrativo transmediale: non puoi far
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spostare gli utenti per la rete se non tessi la trama narrativa in sintonia
con loro.

3.2. Quadrante 2: Agganciare la partecipazione


Rendere la storia sintonica con i consumatori attraverso gli in-
sight rintracciati è una condizione necessaria ma non sufficiente,
difatti il secondo step prevede di focalizzarsi su quelli che possono
essere definiti come richiami, o ganci, che attraggono i pubblici par-
tecipativi. Come si è visto, la partecipazione è una delle caratteristi-
che assunte dal consumatore connesso ed è quindi importante che
i brand creino le condizioni necessarie affinché gli utenti possano
creare, condividere o espandere storie attraverso semplici app di
editing e social media (Klaebe e Hancox, 2017). Gli elementi essen-
ziali che la networked narrative deve prevedere in questo senso sono:
a) spreadability (Jenkins, Ford e Green, 2013) e b) performatività.
Da un lato quindi si deve cercare di abbracciare l’idea di crea-
re una storia che sia diffusa ma anche diffondibile (spreadable), il
che vuol dire superare l’ottica del controllo e accettare che la storia
appartenga tanto al brand quanto ai consumatori. In questo modo
le interazioni che questi avranno con gli elementi della storia, e le
eventuali modificazioni che produrranno non verranno sanziona-
te ma piuttosto registrate come interesse da parte dei pubblici. Lo
sforzo sarà quindi quello di suscitare interesse positivo, che possa
da un lato sostenere il capitale reputazionale e fiduciario che viene
a crearsi nella relazione tra utenti e brand e dall’altro che faccia sì
che la narrazione venga propagata moltiplicando visualizzazioni e
interazioni di reali nuovi interessati e quindi futuri consumatori.
Rendere la storia diffondibile e quindi potenziarne l’effetto net-
work (Mazzoli, 2009) va poi sostenuto dal secondo elemento ovvero
quello della performatività. Poiché si è ormai consapevoli di ave-
re a che fare con pubblici e consumatori produttivi, cioè prosumer
(Degli Esposti, 2015); di fronte ai propri pubblici di riferimento,
lasciare loro spazi di espressione è una delle condizioni abilitanti
l’interazione profonda con la narrazione. Progettare quindi dei mo-
menti in cui viene suggerita la possibilità di esprimere creatività e
partecipazione, in linea con gli insight narrativi che la storia espli-
cita, significa muoversi comprendendo i bisogni comunicativi di
consumatori empowered; ma anche programmare delle esperienze
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significative tanto per gli utenti quanto per il brand. Lasciare spa-
zio e libertà non basta: bisogna creare una connessione che generi
valore e che possa quindi moltiplicare questo valore tramite attività
performative all’interno di un percorso suggerito che deve essere
chiaro a sufficienza per guidare verso la direzione narrativa auspica-
bile ma allo stesso tempo essere flessibile per accogliere l’imprevi-
sto e rispondergli. Lasciare per esempio che i pubblici utilizzino gli
hashtag della marca o del prodotto per scambiare racconti legati al
brand può da un lato produrre storie intime e di grande valore emo-
tivo per il consolidamento del network, oppure può generare anche
storie ironiche di hijacking (Pegoraro et al., 2014) alle quali bisogna
saper fare fronte con il giusto tono seguendo – nei casi peggiori –
un piano ben strutturato di crisis management: dai alla tua storia la
possibilità di viaggiare di nodo in nodo e dai al tuo brand strumenti
per controllare la rotta.

3.3. Quadrante 3: Immersione nel flusso


Affinché le networked brand narratives possano realizzare il loro
potenziale connettivo (Berardi, 2004) il brand deve mettere l’indi-
viduo al centro della propria strategia individuando quali siano i
luoghi adatti per incontrare e far incontrare il proprio pubblico nel
flusso della rete. Le piattaforme web, strumenti come hashtag, pra-
tiche aggregative che consentono la costruzione di community, si ri-
velano delle forme adatte attraverso cui imprese e pubblico possono
dialogare facendo emergere il carattere emotivo e relazionale della
comunicazione (Lefebvre, 2007). Per dare risalto alla relazione è ne-
cessario abbandonare le classiche metodologie di segmentazione dei
consumatori, prediligendo invece l’identificazione di raggruppa-
menti quali le comunità online, le nicchie di consumatori o le neo-
tribù (Jenkins, 1988). A questo proposito è necessario immergersi
negli spazi online e ricercare frammenti al fine di conoscere pro-
gressivamente la community con cui si vuole comunicare – perché
vicine al brand sulla base degli insight definiti: setacciare gli spazi
online, cercare di capire quali siano i luoghi da dover presidiare
e, dall’analisi svolta, capire in che modo poter piantare semi della
networked brand narrative così da farla riconoscere come narrazione
connettiva.
La comunicazione della marca infatti dovrà essere in linea con i
68 Giovanni Boccia Artieri, Elisabetta Zurovac

discorsi e linguaggi utilizzati dagli utenti che fanno parte delle co-
munità valoriali rintracciate online, altrimenti il rischio del rigetto
per via della percepita inautenticità sarebbe molto alto. Da qui la ne-
cessità di adottare un approccio basato sull’osservazione, la ricerca
e la raccolta di quelle che Cova (2003) chiama tracce, ovvero indizi
lasciati dai raggruppamenti di utenti in diversi luoghi e in diverse
forme. Tali tracce andranno ad indicare alcuni elementi che devono
venir utilizzati nella costruzione della narrazione, che riguardano:
– linguaggio specifico: esiste uno slang? vengono utilizzati dei termini
peculiari?
– pratiche di consumo: che tipo di pratiche vengono messe in atto e in che
modo? esistono degli oggetti di culto?
– immaginario fondante: quali valori e immaginari vengono espressi? chi
sono gli influencer o micro-influencer di riferimento?
– luoghi di aggregazione (online, offline): dov’è possibile osservare l’esi-
stenza di questi raggruppamenti di utenti?

Identificati gli elementi distintivi degli insiemi di utenti di riferi-


mento bisogna capire quale possa essere l’apporto della marca nella
costruzione, sviluppo o consolidamento dei legami tra gli individui.
Il contributo della marca, che può avvenire in vari modi – dall’of-
ferta di un prodotto personalizzato, al coinvolgimento di una deter-
minata community per test di mercato o azioni pubblicitarie – deve
essere rivolto al rinnovamento della forza simbolica della relazione
attraverso la narrazione connessa, poiché, se ben costruita, attra-
verso di essa sarà possibile rinsaldare il legame comunitario. Per far
navigare il tuo brand nei network devi prima padroneggiare i venti che
possano sospingere la storia.

3.4. Quadrante 4: Chiedere di agire


Come è emerso, la componente affettiva e relazionale che viene a
crearsi tra brand e consumatori e che rinsalda una sorta di legame
comunitario è un elemento che può portare l’individuo ad arricchi-
re, sostenendola attraverso la partecipazione, e amplificare, condi-
videndola, la networked brand narrative. Si rende quindi evidente
la necessità di adottare uno sguardo che colga il cambiamento nel
rapporto di forza tra produzione e consumo. Se da un lato infatti i
consumatori sono spinti a scambiarsi informazioni (Wellman et al.,
Networked brand narratives e transmedia storytelling 69

2001) dall’altro è il bisogno di auto/etero riconoscimento a favorire


la produzione e condivisione di contenuti (Nie 2001; Cova, Pace,
2007). Per far sì che un pubblico attento e informato perché connes-
so, così come partecipativo, all’interno di queste connessioni con
altri utenti e con la marca sulla base anche di legami emotivi, diventi
co-narratore, rendendo possibili anche nuovi rivoli di senso e nuova
comunicazione a partire da quella prodotta, è necessario rintraccia-
re delle call to action che rispettino tutto il percorso costruito e che
siano in linea con la storia. Non “fare per fare”, né coinvolgere per
sfruttare (Formenti, 2011), ma progettare un richiamo che risuoni
con l’insight, con quei valori che, pur esulando dallo visione utilita-
ristica dello scambio economico, generano profitto per entrambe le
parti: marca e utenti.
La call to action deve quindi:

– risuonare con la vocazione e gli insight del brand (quadrante 1);


– essere pianificata per rendere chiari i principi di spreadability e perfor-
matività progettati (quadrante 2);
­– impiegare il maggior numero di elementi possibili rintracciati nel flusso
(quadrante 3).

Per fare un esempio: se un’azienda rintraccia come insight del-


la sua narrazione la salvaguardia delle spiagge, dovrà per prima
cosa dimostrare la sua condotta così da non sembrare greenwashed
(Laufer, 2003); poi, nella diffusione dei vari aspetti della storia sulle
piattaforme, prevedere la possibilità dei pubblici di far vivere la nar-
razione e discutendo circa l’insight. Da queste discussioni l’azienda
impara e riesce a creare, all’interno del flusso della rete, delle call
to action nei luoghi giusti che vengono raccontate attraverso un lin-
guaggio adeguato al pubblico legato all’insight e coinvolgendo nella
storia raccontata delle figure rilevanti per la community e adatte a
incarnare l’insight – ad esempio: un attivista che il pubblico segue,
una celebrità della rete che tocca anche temi ambientalisti, un sur-
fista legato all’idea di spiagge pulite per via dello sport praticato. A
questo punto la call to action può essere: un evento organizzato per
pulire una spiaggia particolarmente centrale per la comunità; oppu-
re la produzione di contenuti che documentino da parte di brand,
personalità di spicco e utenti l’impegno quotidiano nella cura e sal-
vaguardia delle spiagge; una challenge su TikTok – se il brand ha
70 Giovanni Boccia Artieri, Elisabetta Zurovac

un pubblico anagraficamente adeguato – o un contest su Facebo-


ok; oppure ancora più azioni diffuse su piattaforme diverse che in
maniera verticale abbiano senso per la singola piattaforma ma che
rispondano in modo concatenato a un’unica call to action. Lo scopo
che deve essere raggiunto è far sì che tutti gli attori si sentano co-
autori di una narrazione che comprende il valore dell’insight e della
connessione tra persone, valori e marca sostenuta dalle tecnologie
digitali. La brand networked narrative risponde alla sua vocazione
quando si compone anche delle narrazioni degli utenti.

4. Networked brand narratives: il senso narrativo


nella connessione

Stiamo vivendo un momento storico che si è precedentemente


caratterizzato per un incessante bisogno di consumare ma anche per
una costante perdita di fiducia nei valori della marca e per una crisi
economica generalizzata (Gnasso e Iabichino, 2016). Sono scaturite
in questo scenario richieste di valori nuovi da abbracciare da parte
delle marche e si è imposto un cambiamento nei rapporti di forza
tra brand e consumatori (Boccia Artieri, 2012). Emergono quindi
una serie di profondi punti di rottura rispetto alle modalità su cui la
comunicazione e il marketing hanno fatto affidamento: influenzare
e colpire sono azioni che gradualmente spariscono dal vocabolario
del marketer contemporaneo. Ovviamente con questo non si vuole
dire che tutte le conoscenze acquisite sul marketing, sul branding,
sulla comunicazione pubblicitaria non valgono più perché è cambia-
to il rapporto brand-pubblicità-consumatore. Il fine della pubblicità
rimane sempre quello di far comprare, di vendere; cambiano però
le modalità in cui farlo. I mercati sono ora delle conversazioni, e
alle marche si richiede anche di prendere posizione su alcuni temi
di responsabilità sociale che impattano a livello globale. Non ci si
limita alla pubblicità; si organizzano attività, azioni concrete a soste-
gno di realtà che promuovono certi valori, che guidano in momenti
di difficoltà. Si progettano narrazioni coerenti capaci di prendere
posizione, che hanno un impatto forte sui consumatori perché ri-
suonano insieme ai loro valori e interessi e, non da ultimo, sono
narrazioni che richiamano stimoli performativi e di partecipazione
nel realizzarle e diffonderle.
Networked brand narratives e transmedia storytelling 71

Ma occorre spingersi più in là. Occorre abbracciare la consape-


volezza dei brand di essere piattaforme narrative capaci di connet-
tersi e mettersi in connessione con i consumatori che sono cittadini
portatori di valori oltre che di bisogni. Pubblici che sono già inter-
connessi fra di loro in modi nuovi e inediti, che sono sempre più
consapevoli di avere una voce pubblica e di voler entrare in dialogo
con quelle marche che parlano la loro stessa lingua, che vibrano
attorno ai loro stessi valori e che, al limite, li sanno interpretare e
dare loro voce nuova.
Si tratta in definitiva di scrivere insieme delle storie che partano
dalla marca e che abbiano al centro gli insight culturali e valoriali
del consumatore con il quale si entra in relazione; così facendo la
narrazione si propaga attraverso le possibilità dello stato di connes-
sione di marchi, brand e community di consumatori.
Occorre sintonizzare il proprio DNA identitario con quelli che
sono i discorsi sociali. La proposta di una bussola delle networked
brand narratives si propone come uno strumento sia di guida che
di lettura per le esperienze che brand e consumatori condividono
attorno alla costruzione di un universo narrativo dialogico, capace
di costruire parte del racconto sociale in cui viviamo.
Le networked brand narratives ambiscono a questo, allo scrivere
insieme una storia e raccontarla collettivamente come storia condi-
visa e connettiva, così da collaborare – marche e consumatori – nella
stesura di quello che alla fine verrà ricordato di questo pezzo di
strada fatto insieme nelle lucide ma emotive possibilità relazionali
che si scorgono tra le piattaforme mediali.

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Transmedia brand fiction: gli snodi figurativi dello storytelling 115
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Alternate Reality Game e formazione:
la narrazione transmediale del brand nelle comunità
di pratica interne all’organizzazione 123

Gli autori 143


Edizioni ETS
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Finito di stampare nel mese di maggio 2020

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