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La furia delle immagini Note sulla postfotografia (Riassunto)

Capitolo Primo Motivazioni

Nella società contemporanea appare evidente che siamo soggetti a un’inflazione di immagini
senza precedenti, sintomo di una società ipertecnologica e di una patologia culturale e politica,
nella quale irrompe il fenomeno post-fotografico. Abitiamo l’immagine e l’immagine ci abita. Siamo
sommersi dal capitalismo delle immagini e dai suoi eccessi. Le immagini circolano in rete ad una
velocità vertiginosa: hanno lasciato da parte il loro ruolo passivo, diventando attive, furiose e
pericolose.
Ne è un esempio la tragedia di Charlie Hebdo a Parigi: quello che è successo ci mostra che
attualmente si uccide e si viene uccisi per le immagini.
Un altro esempio è la fotografia del bimbo curdo affogato sulle coste della Turchia: capace di
sbloccare accordi internazionali sui rifugiati e l’immigrazione.

Autori come Boehm in Europa e Mithcell negli Stati Uniti hanno indagato sulla natura delle
immagini nei loro saggi, ponendo le basi per lo studio delle immagini al ritmo del Pictorial Turn, che
rappresenta la svolta in atto nel nostro secolo, caratterizzata da un ritorno imponente alle
immagini, a sfavore del paradigma linguistico.

L’ordine visuale che va a delinearsi appare marcato su tre fattori:


1- L’immaterialità e la trasmissibilità delle immagini;
2- La loro moltiplicazione e disponibilità;
3- Il loro apporto nel rendere enciclopedici il sapere e la comunicazione.

L’autore racconta poi di una brutta figura che ha fatto verso la metà degli Anni Novanta. In qualità
di esperto fu contattato dal principale operatore di telefonia mobile in Spagna, che gli pose il
seguente quesito: “Che cosa pensa della possibilità che i cellulari abbiano una macchina
fotografica incorporata?”

La sua risposta fu che sarebbe stata una tremenda scemenza che non avrebbe riscosso alcun
successo. Conclude aggiungendo che fortunatamente in quella sede non gli diedero retta; infatti,
nel 2000 la Sharp lanciava per il mercato giapponese il primo cellulare dotato di macchina
fotografica.

Riflette quindi sul suo errore: crede che sia derivato dal fatto di non aver tenuto conto
dell’imprevedibile arrivo di internet e della sua vertiginosa ascesa nelle comunicazioni.

Capitolo secondo Prolegomeni post fotografici

Nel 1960 il satellite meteorologico Tiron-I ottenne la prima immagine completa del globo
terrestre. Negli anni successivi gli astronauti del programma Apollo riuscirono a migliorare la
visuale del nostro paese nota come “The Blue Marble” (“La biglia azzurra”), denominata da Luigi
Ghirri “La madre di tutte le immagini”. Nel 2009 Sean Snyder ha attualizzato questa icona.

Nel 1971 l’ingegnere informatico Ray Tomlinson ha effettuato il primo invio di una e- mail. Tra i
suoi meriti il fatto che la chiocciola si sia fatta spazio nelle tastiere dei nostri computer. Il padre
dell’e-mail nel 2009 fu insignito del premio Pricipe de Asturias per la ricerca scientifica e tecnica.

Nel 1997, invece, l’imprenditore Philippe Kahn accompagnò sua moglie in ospedale per dare alla
luce la figlia. Come faceva sempre, portò con sé la sua macchina digitale, il suo computer portatile
e il suo cellulare. Durante l’attesa la ricezione di una chiamata telefonica stimolò la sua inventiva:
cominciò a pensare alla possibilità di scattare fotografie e trasmetterle immediatamente
schiacciando un bottone, come istantanea è la comunicazione telefonica. Fu così che quel giorno
nacque la comunicazione istantanea. Di lì a poco Kahn fondò l’impresa che spinse la Sharp a
lanciare il primo telefono mobile con macchina fotografica integrata.

Capitolo terzo Tempo di vacche grasse

Pensatori come Augé, Lipovetsky e Aubert definiscono la nostra epoca “ipermoderna”,


caratterizzata dall’eccesso e da un nuovo legame spazio-tempo offerto da internet e dai mezzi di
comunicazione globale. In questa epoca l’individuo si vede collocato in un presente in continuo
divenire, che comporta la fugacità del passato e l’inimmaginabilità del futuro. La società affronta
nuovi problemi, con ripercussioni come la recessione economica, l’immigrazione o le
preoccupazioni ecologiche.

Lipovetsky parla di “seconda rivoluzione individualista”, facendo riferimento all’individualismo in


cui si rifugiano i cittadini. Si vive sommersi in un iperconsumo eccessivo, circondati da novità
sempre più effimere. In questo tipo di modernità l’urgenza e la quantità diventano la qualità.

La pubblicità della seconda stagione di “Black Mirror”, miniserie britannica creata da Charlie
Brooker, fornisce una radiografia della modernità. Inizia mostrandoci persone che sorridono, che
scattano fotografie e le condividono. Ma a poco a poco s’intromettono come lampi immagini dei
tributi che la società deve pagare povertà, sfruttamento, terrorismo... fino a quando il nostro
schermo si frantuma, e si ascoltano le parole “il futuro è andato in pezzi”. Prima dell’apocalisse,
però, il testo ci fornisce una serie di parole d’ordine che ci dovrebbero portare alla felicità
promessa, tra cui:

Vivi di più Connettiti di più. Condividi di più. Consuma di più (https://www.youtube.com/watch?


v=iHgEJeINo-Y)

Ci sono altre due accezioni che precedono quella di Brooker dello “specchio nero”:
- Una fa riferimento allo specchio di Claude, utilizzato dagli artisti per astrarre porzioni del
paesaggio, riflessi con gradazioni di luci e toni;

-  L’altra si riferisce agli specchi di ossidiana lucidata che portavano al petto gli dèi Tezcatlipocas,
nel cui riflesso si vedevano tutte le azioni e i pensieri dell’umanità, secondo la mitologia
precolombiana.

Siamo comunque dipendenti dalla tecnologia, dai social network, portati ad esprimere opinioni su
qualsiasi cosa o ad insultare nell’anonimato, L’onnipotenza di fotocamere, schermi e immagini
cresce ad un ritmo martellante, finchè provoca un’esplosione, che potrebbe essere letta come una
sorta di metastasi.

L’installazione del 2011 di Erik Kessels rappresenta molto bene questa


metastasi: consisteva nel riversare a terra circa un milione e mezzo di
foto e spargerle nelle varie sale di un edificio. (immagini archiviate sul
portale Flickr in ventiquattro ore). Alla vista dell’opera il pubblico
provava sgomento, misto ad una sensazione di annegamento. Ma
esiste anche il problema inverso: occorre infatti riflettere sulle
immagini che mancano o che non sono più a nostra disposizione.
Il critico cinematografico Serge Daney è rimasto colpito dalle
trasmissioni effettuate dalle telecamere delle “bombe intelligenti”
durante la Guerra del Golfo. Vi veniva mostrata l’intera traiettoria fini all’impatto finale, ma
risparmiava allo spettatore l’orrore delle devastazioni e la sofferenza delle vittime. Ad esempio, non
abbiamo visto nemmeno il cadavere di Bin Laden.

Capitolo quarto La condizione postfotografica


Bye-bye fotografia
Occorre chiedersi che cosa effettivamente si celi dietro il termine “postfotografia”. Il termine “post”
indica infatti l’abbandono, l’allontanamento. Il termine “postfotografia” è allora il riflesso di un
fallimento, un atteggiamento nostalgico. A differenza di ciò che accadde tra la fotografia e la pittura
(in cui la prima ha determinato un cambio di rotta della seconda), la postfotografia ha
letteralmente fagocitato la fotografia, che diventa solo la facciata di un edificio la cui struttura
interna si è profondamente rimodellata.

Postfotograficità
Il termine “postfotografia” nasce nel mondo accademico all’inizio degli Anni Novanta ma l’era
postfotografica si è consolidata nel decennio successivo, in cui è avvenuta la rivoluzione digitale: il
mondo si è trasformato in uno spazio dominato dall’istantaneità, dalla globalizzazione e dalla
smaterializzazione.

Un’esplosione di immagini
La proliferazione di immagini non nasce però solo dai mezzi di comunicazione e del mercato, ma
anche sotto la spinta di organi ufficiali ed aziendali. Basti pensare alle telecamere di sorveglianza o
ai dispositivi di riconoscimento facciale. Ci siamo quindi evoluti verso una specie che si
potrebbe denominare Homo photographicus, che risponde ad un ambiente in cui si moltiplicano
macchine fotografiche tascabili e cellulari facili da usare. Siamo quindi sia produttori che
consumatori di immagini, caratterizzate da “ciò che non ritorna”, poiché le immagini da noi scattate
mancano di durevolezza. Ci troviamo nel cuore della rivoluzione, anche se non ne siamo
pienamente consapevoli.

Capitolo quinto Per un manifesto postfotografico

1. La sindrome di Hong Kong


Un fatto particolare è accaduto ad Hong Kong nel 2010, in cui uno dei principali giornali ha
licenziato i suoi otto fotografi dipendenti, fornendo macchine digitali ad un gruppo di corrieri che
consegnavano pizze a domicilio. I motivi di tale scelta risiedevano nel fatto che fosse più facile
insegnare a scattare fotografie a degli agili fattorini, che fare in modo che esperti fotografi
arrivassero in tempo per la notizia, aggirando gli ingorghi della città. Valeva dunque di più
un’immagine incerta scattata da un amatore, di una perfetta, ma inesistente. Da questo
esperimento appare chiaro il cambio di canone del fotogiornalismo: la rapidità prevale sulla
raffinatezza. Anche in Francia l’agenzia France Press si era già precedentemente disfatta dei suoi
fotoreporter perché nessuno di loro parlava arabo, preferendo fornire di macchine fotografiche
giovani del posto, che avevano accesso ai luoghi vietati agli occidentali e maggiore familiarità con
certi ambienti. Dalla sindrome di Hong Kong si evince che l’urgenza prevale sulla qualità
dell’immagine: questo porta ad un inquinamento iconico senza precedenti, incentivato dai
nuovi dispositivi di cattura visiva. Tutti noi oggi produciamo immagini spontaneamente, come
una forma di relazione con gli altri: la post fotografia si pone di questi tempi come linguaggio visivo
universale.

2. Periferie dell’immagine
Nei centri di tecnologia avanzata come il CNS di Kyoto di questi tempi stanno facendo passi da
gigante nel monitorare l’attività mentale al fine di estrarre semplici immagini direttamente dal
cervello, per poi proiettarle su uno schermo. Tutto ciò fino a pochissimo tempo fa poteva
sembrare pura fantasia; invece, ora, questi studi potrebbero aprire un ventaglio di possibilità future
finora viste solo nei film di fantascienza: filmare con i nostri occhi o, addirittura, registrare i nostri
sogni per poterli rivedere con calma il mattino seguente. A questo punto la fotografia si
smaterializzerebbe, convertendosi in bit d’informazione, con modalità e velocità di trasmissione
vertiginosa: Google, Yahoo, Wikipedia, YouTube, Flickr, Instagram, Facebook, Skype hanno
cambiato le nostre vite: la postfotografia è diventata una fotografia adattata alla nostra vita
online.
3. Decalogo post fotografico
Come opera la produzione post fotografica? Su dieci punti-chiave:

1) Sul ruolo dell’artista: non si tratta di produrre opere, ma di creare scenari che richiedono un
significato
2) Sulle attività dell’artista: l’artista si fonde con il docente, lo storico, il teorico... ecc...;
3) Sulla responsabilità dell’artista: la saturazione sarà sostituita con un riciclo d’immagini;
4) Sulla funzione delle immagini: la loro circolazione prevale sul contenuto;
5) Sulla filosofia dell’arte: i discorsi sull’originalità sono delegittimati;
6) Sull’orizzonte dell’arte: si darà più spazio agli aspetti ludici;
7) Sull’esperienza dell’arte: si tenderà a rinunciare alla proprietà. Condividere è meglio che
possedere;
8) Sulla politica dell’arte: non arrendersi né al glamour né alle logiche commericiali, er
smuovere le coscienze.

I punti chiave del decalogo ci portano verso l’estetica dell’accesso. Il flusso di immagine diviene
accessibile a tutti.

L’opera di Penelope Umbrico esemplifica perfettamente l’estetica


dell’accesso. Un giorno decise di fotografare un tramonto. Le è venuto
allora in mente di controllare quante fotografie corrispondessero al tag
sunset su Flickr: ha così scoperto di avere a disposizione più di
500.000 fotografie di tramonti, che aumentavano vertiginosamente di
mese in mese. Decise allora di non farne una in più e di scaricare da
Flickr diecimila tramonti che ricicla combinandoli in un murale con cui
tappezza i muri di un museo. L’assurdo risiede nel fatto che ora,
cercando sunset su Flickr, finiamo per trovare anche i suoi montaggi o le foto dei visitatori alle sue
mostre.

4. Atlanti e serendipità

Nel 2005 Google ha lanciato il suo servizio di cartografia online conosciuto come Google Maps.
Il sistema permette azioni di scorrimento e zoom. Successivamente il servizio è stato implementato
con Google Earth e Google Street View, che ci permette di esplorare visivamente qualsiasi luogo
come se ci passassimo in macchina. La cattura delle immagini si realizza da un’automobile in
movimento dotata di nove fotocamere per riprese a 360°, collocate a tre metri di altezza per
realizzazioni molto realistiche. In maniera casuale, inoltre, i nove occhi di Google Street View si
muovono ogni tanto per le vie della città captando tutto ciò che succede.
L’artista Jon Rafman, senza staccarsi dallo schermo del computer è partito alla ricerca dei riflessi
di realtà che di solito rimangono nascosti. Anche Txema Salvans ha documentato per anni i
paesaggi in cui avviene la prostituzione in Spagna: il risultato ne è stato la pubblicazione di “The
Waiting game” (2013), cronaca lacerante della disperazione del sesso mercenario.
Altro lavoro degno di nota è quello di Michael Wolf, che, nella cornice di Google Street View,
cattura episodi come l’arresto di un malvivente o persone che si sentono male per strada.
Joachim Schmid, invece, si diverte a cercare su Google Earth campi da calcio;

5. Identità “à la carte”


Con la post fotografia per la prima volta siamo in grado di gestire il nostro aspetto secondo le
nostre convenienze. I ritratti si moltiplicano in rete, esprimendo l’impulso narcisista ed
esibizionista che è in noi.

Christopher Baker, nella videoinstallazione “Hello world” del


2008, compone un fitto mosaico fatto di migliaia di riproduzioni
di teleconferenze, suggerendo l’idea di un ritratto collettivo. Si
tratta di video-diari estratti dalla rete, di cui Baker ha scelto il
primo pubblicato da ogni blogger. Il video- diario è un monologo mezzobusto diretto verso una
potenziale platea di massa, al fine di soddisfare le proprie aspirazioni ed ottenere empatia.
La serie di Laia Abril, intitolata Thinspiration, denuncia la questione di adolescenti anoressiche che
si fanno autoritratti condividendoli su internet, vantandosi dei loro corpi ossuti. Anche il fenomeno
dei selfie nel nostro contesto rappresenta il trionfo dell’ego sull’eros. Farsi fotografare e postare
le immagini è parte di un gioco di seduzione e dei rituali di comunicazione. Non sono però
ricordi da conservare, ma messaggi da inviare e scambiare.

Capitolo sesto- L’artista come prescrittore (= inteso come artista che dota di significato
oggetti creati da lui)

Nell’era dell’Homo photographicus tutti siamo allora produttori e consumatori di immagini. Le


fotocamere “intelligenti” sono infatti state progettate per essere usate da qualsiasi “stupido” utente.
Il merito della creazione si sposta allora nella capacità di dotare l’immagine di uno scopo o
di un senso ben preciso, cioè di avere qualcosa di interessante da dire e di essere in grado di
diffonderlo attraverso la fotografia. Non ci sarebbero a questo punto foto “buone” o “cattive”, ma usi
“buoni” o “cattivi”. La cosa importante è quindi l’assegnazione (o prescrizione) di senso
all’immagine.

2. Immagini adottate

Negli ultimi tempi si sono avuti dibattiti molto accesi in merito alla questione dei diritti d’autore. La
diatriba vedeva contrapporsi avvocati (difensori della legge e della proprietà intellettuale) e artisti
(che pensano che le regole in merito vadano cambiate).
Il concetto di appropriazione nasce negli Anni Ottanta, quando la mostra “Pictures” di Douglas
Crimp ha dato origine ad un nuovo vocabolario che includeva i termini copia, citazione, plagio,
parodia, revival. Le radici bisogna cercarle nei movimenti proposti da cubisti e dadaisti, che
inserivano nelle loro opere frammenti del mondo reale invece di rappresentarli. Più tardi, con la
Pop Art, gli artisti utilizzeranno come base di lavoro per la loro arte materiali visivi selezionati dai
mezzi di comunicazione di massa. Nacque il concetto di détournement, cioè il prelievo di
immagini dalle culture dominante per confezionarne dei contro-messaggi.

Oggi invece l’ecosistema iconico ci spinge al riciclo, che diventa un’operazione spontanea. A conti
fatti si tratta di un’appropriazione, intesa come un furto. Cambiando però il termine
appropriazione con il termine adozione cambia il senso dell’utilizzo che si fa di un’immagine.
L‘adozione, infatti, significa “adesione ad un’immagine” (utilizzando una spilletta di Che
Guevara si adotta l’idea di spirito ribelle). Se l’appropriazione è privata, l’adozione diventa una
dichiarazione pubblica, un “dichiarare di avere scelto”. Adottare è un atteggiamento
postfotografico: non si reclama la paternità biologica di un’immagine, ma si adotta la sua
prescrizione di senso.

Capitolo settimo- La postfotografia spiegata alle scimmie

1. L’occhio dell’animale
Nell’estate 2014 Fontcuberta racconta di essere stato colpito da uno slogan pubblicitario all’interno
di un vagone della metropolitana di Londra, che ritraeva una scimmia, accompagnata dal testo
“Questa scimmia ci ha rubato la macchina fotografica”. L’inserzionista era una compagnia di
assicurazioni. L’autore, ispirato da questo ricordo, fa una riflessione in merito all’intelligenza.

Ricorda che Piaget definisce l’intelligenza come la capacità di adattarsi all’ambiente: se si


considera quest’accezione, tutti gli animali sono intelligenti. Ma se per intelligenza si intende la
capacità di interagire con la realtà in termini astratti il problema diventa più complesso. Alcuni
primatologi fanno riferimento alla “teoria degli scimpanzè”, secondo cui i maschi alfa
monopolizzano con la forza le femmine, ma quelli beta gli ingannano formando alleanze politiche.
Ma per farlo hanno bisogno di generare un linguaggio che gli permetta di dividersi a turno le
femmine. Per questo gli etologi arrivano alla conclusione che l’origine del linguaggio si trovi nella
gestione della pulsione sessuale. Altri primatologi sostengono invece che il codice dei primati si
trova nella relazione madre-figlio.

Alla luce di tutti questi studi l’intelligenza giunge a noi attraverso l’evoluzione dei nostri
antenati scimmieschi. L’autore fa poi riferimento al romanzo d’anticipazione “Il pianeta delle
scimmie” del 1963, che ruota attorno all’avventura di un astronauta che, mentre viaggia sulla sua
navicella, è vittima di un incidente e deve tornare indietro. Al suo rientro sulla Terra sono però
passati migliaia di anni: si imbatte quindi in un gruppo di umani dall’apparenza preistorica che
vengono massacrati da una pattuglia di gorilla in uniforme. Davanti al mucchio di prede abbattute i
cacciatori si fanno scattare una fotografia in atteggiamento trionfale.

Già nel 1928 Buster Keaton fu il protagonista di “The cameraman”, un film in cui interpretava un
operatore alle prime armi che aveva come mascotte un babbuino. In una delle scene la ragazza da
lui corteggiata rischia di morire affogata, ma il protagonista riesce a salvarla. Di questo approfitta
un altro pretendente, per farle credere di essere lui il salvatore. Ma la scimmia ha filmato l’intera
azione e, quando la pellicola viene visionata, si scopre l’imbroglio.

Nel 1935 il fotogiornalista Hilmar Pabel propose che si fornissero alcune macchine fotografiche agli
scimpanzè dello zoo di Berlino, addestrandoli ad imitare il gesto dei visitatori che li fotografavano di
continuo. Il risultato della performance fu pubblicato, ma si sollevò un vespaio quando Pabel
chiese di essere pagato, poiché i veri autori degli scatti erano gli scimpanzè. Pabel perse la
battaglia. Oggi ci rendiamo conto che l’importante non è chi preme il pulsante della macchina
fotografica, ma chi mette l’idea.

2. Immagini che sbadigliano

Nel 2011 il fotografo David Slater era sull’isola di Sulawesi per fare un reportage sui macachi
neri crestati. Racconta che ad un certo punto una femmina adulta, attratta del riflesso della
lente, ha incominciato a manipolare la macchina fotografica, facendo scattare casualmente
l’otturatore. Il risultato è stato il primo selfie fatto da una scimmia. L’immagine è finita presto
in rete, mentre Slater si è sentito danneggiato. La controversia è finita in tribunale. Slater ha
perso la causa e Wikipedia continua ad utilizzare l’immagine. Due sono i fatti rilevanti:

1) Slater possedeva una macchina provvista di un complesso programma che agiva in


maniera predefinita: quando il macacco ha scattato la foto ha utilizzato la macchina come
supporto di un’intelligenza tecnologica autonoma;
2) Slater, che aveva solo un’immagine dormiente all’interno di una scheda di memoria, ha dato
un senso allo scatto.

3. L’umanesimo come antidoto


Perché ci sia una creazione che culmini in un’opera occorre quindi l’intenzione, scaturita dalla
volontà, a sua volta nata dalla coscienza, e quindi dall’essere umano.

È possibile che oggi le macchine abbiano una coscienza? Per rispondere alla domanda occorre
concentrarsi sull’umanesimo digitale, che afferma che la tecnologia digitale risiede prima di tutto
nella condivisione: inaugura uno spazio tra il reale e il virtuale e tra il concreto e l’immaginario. La
libertà individuale viene meno: non si può quindi parlare di discorsi transumanisti nell’ambito
dell’umanesimo digitale.

La teoria della singolarità predice invece l’arrivo di una creazione di super-intelligenze artificiali
utili per l’umanità. L’intelligenza artificiale riesce a gestire la memoria meglio degli umani, ma non
di crearla. Quindi non può avere identità.

Capitolo ottavo-Vite dell’immagine


Nell’ambito della “reincarnazione dell’immagine” l’autore cita la pubblicità di Vaho, un’azienda che
ricicla i materiali utilizzati per le pubblicità per ottenere borse e portafogli. Tra l’artista e lo storico
ci sono parecchie similitudini: l’artista è un collezionista di scarti, così come lo storico utilizza le
tracce dimenticate per comporre frammenti del passato.

Anche per le immagini, come per qualunque altro organismo vivente, vale la regola che vengono
portate in grembo, nascono, si sviluppano, si riproducono, invecchiano e muoiono.
Partendo da questo presupposto nella pubblicità di Vaho si evidenziano due aspetti:
1) L’immagine viene inserita in un processo di decomposizione e deterioramento;
2) Dall’immagine, cioè pura rappresentazione, passa all’oggetto concreto, che si può toccare:
l’immagine viene reincarnata in altro. Ovviamente solo comprandole ed utilizzandole diamo valore
all’atto di prescrizione di senso effettuato da Vaho: possiamo allungare la vita delle immagini.

Fontcuberta cita poi L’avventura di un fotografo, di Italo Calvino, in cui l’autore spiegava la difficoltà
di Antonino nel fotografare la sua amata, poiché non si accontentava dell’apparenza, voleva
catturare la sua anima.

Cita poi l’esempio degli optogrammi: alla fine del XIX secolo era molto radicata la credenza
popolare, secondo cui il morto conservava l’immagine percepita nel momento in cui spirava.
Proprio a queste istantanee si attribuì il nome di optogrammi. Il macabro fisiologo tedesco Wilhelm
Kunhe raccoglieva teste di criminali appena decapitati per poter analizzare a caldo il fondo dei loro
occhi. La possibilità di applicare questo metodo per poter smascherare gli assassini accese la
fantasia di molti scrittori dell’epoca, tra cui Jules Verne nel suo romanzo I fratelli Kip. Gli
optogrammi sono comunque affascinanti e rappresentano la sottile frontiera tra l’esistenza e la non
esistenza. Ricordano la sensazione di piacere e perdita che si prova osservando una fotografia
non fissata: i toni vanno scurendosi gradualmente fino alla sparizione. L’artista colombiano Munoz
ci dà un’occasione perfetta per parlare di vita e morte dell’immagine nel suo video Cyclope (2011),
in cui si vede un’inquadratura fissa in un recipiente pieno d’acqua con un buco sul fondo, da cui
fuoriesce continuamente il liquido. Durante il video l’artista inserisce nel recipiente numerose
immagini di visi anonimi in bianco e nero che, non essendo fissati, spariscono appena vengono
immerse.
Sulle immagini noi però proiettiamo la nostra identità e la nostra memoria: se si parla di vita e di
morte dell’immagine, si parla un po' di vita e di morte di noi.

Viene poi fatta una riflessione sui musei. Il museo viene paragonato ai sepolcri e alle camere
funerarie, anche se, a differenza di essi, assume il doppio compito di esumare e vivificare:
funziona sia come camera sepolcrale del passato sia come luogo di resurrezioni. In passato anche
Proust aveva già fatto riferimento alla vita dopo la morte dell’opera: la visione dell’artista nell’atelier
si trasferisce nella visione del pubblico del museo. Il codice di comportamento in un museo è molto
simile a quello di un ospedale o di una chiesa. Ad ogni modo tra un capolavoro consacrato e la sua
riproduzione, la differenza sostanziale sta nel posto in cui abitano, esattamente come accade nelle
immagini pubblicitarie o sulle borse di Vaho.

Capitolo novembre-La danza selfica


1. Faccio selfie, quindi ci sono

Uno spot televisivo della Samsung che pubblicizzava una delle sue fotocamere digitali ha riassunto
in un minuto l’evoluzione della fotografia. Su una spiaggia una ragazza passeggia vicino alla riva.
Improvvisamente scopre un cadavere e comincia ad urlare spaventata. Prende comunque la sua
macchina fotografica e comincia a scattare una serie di fotografie. Dopo qualche secondo, prende
delle alghe e le butta intorno al corpo. Senza smettere di fotografare parla con qualcuno al
telefono. Alla fine, si gira e fa un selfie con l’annegato sullo sfondo. La pubblicità termina con lo
slogan “Ci sono tante scene interessanti nella vita!”

Questo spot mette in risalto tre diversi stadi dell’espressione fotografica:


1) l’impulso di documentare (focalizzazione sul fatto),
2) la tendenza ad interpretare la situazione (e non solo a documentarla: focalizzazione
sull’intenzione),
3) l’irruzione della post fotografia (la macchina si stacca dall’occhio, si distanzia dal
soggetto e, a distanza di un braccio teso, si gira per fotografare il soggetto stesso: selfie).

Clement Cheroux indica nel pittore Edward Munch il precursore dei selfie, quando nel 1908,
convalescente da una depressione in clinica, girò l’apparecchio verso sé stesso per mostrare il suo
stato spirituale. Un altro famoso selfie l’ha fatto nel 1914 la duchessa Romanova, quando da
giovane si fece un autoritratto per inviare la foto ad un amico. Ma il caso di selfie primordiale più
evidente ci è stato donato nel 1920 da un gruppo di fotografi della Byron Company, scattato a New
York, sulla terrazza del loro studio.

La particolarità dei selfie consiste nella distanza fisica e simbolica che si frappone tra il soggetto e
la fotocamera la realtà appare come una proiezione fuori dal corpo, caratterizzata dalla perdita del
contatto fisico tra l’occhio e il mirino.

Il selfie trasforma il “questo è stato” in “io ero lì”. Facendo selfie non vogliamo tanto mostrare
il mondo, quanto segnalare il nostro stare nel mondo. Ciò implica un inserimento del sé nel
racconto visivo, sfociando spesso in narcisismo. In realtà, però, l’affermazione di sé e la vanità
fanno parte di tutta la storia dell’umanità: basti pensare alle tombe dell’antico Egitto o ai busti di
marmo dell’Impero Romano. Oggi abbiamo solo più mezzi per manifestare questa vanità. Questa
affermazione sta alla portata di tutti e viene amplificata dalla cassa di risonanza dei social network.

2. Dallo specchio smemorato allo specchio dotato di memoria straordinaria

In ogni caso, il termine “selfie” è stato inserito tra le dieci parole più popolari dell’anno nel 2012. Da
allora si sono susseguiti fatti mediatici con protagonisti le personalità popolari, che si facevano
selfie in pubblico e li divulgavano (ad esempio il selfie di Barak Obama ai funerali di Nelson
Mandela o i simpatici selfie di Papa Francesco).

Occorre distinguere due diversi tipi di selfie.


1. L’autofoto: per questo tipo di selfie basta avere un obiettivo quadrangolare e un braccio
abbastanza lungo da poterci inserire nell’inquadratura;

2. Il riflesso gramma: consiste nell’autoritratto davanti allo specchio. Permettono un maggior


controllo del risultato (sono infatti nati prima dell’autofoto).

Una grande influenza riguardo al fenomeno della presenza di macchina fotografica e specchio è
stata data dal libro di storia della fotografia di Beaumont Newhall. La copertina è illustrata con una
fotografia intitolata “Chaffeur”. L’autista cattura il proprio riflesso sul fanale di un’automobile,
appostato dietro alla figura in primo piano di un autista che fuma la pipa.

Sono poi sorte altre revisioni alternative dell’opera di Newhall. In “The new history of Photography”
(2003) la copertina mostra la contessa di Castiglione (fu amante di Napoleone) con suo figlio, che
sfoggia il suo profilo aristocratico e, con la mano sinistra, regge uno specchio, inclinato in modo
che il suo sguardo riflesso si diriga verso lo spettatore. Specchio e memoria sono diventati i pilastri
della fotograficità: lo specchio fa appello allo sguardo, la memoria alla sua conservazione.

3. “Scienza catoptrica”

Lo specchio, in sostanza, si riempiono di senso solo quando qualcuno li guarda e traducono


l’insanabile contraddizione della natura umana. Anche la psicoanalisi si avvale degli specchi per
spiegare la tappa dello sviluppo psicologico del bambino, in cui si riconosce nel suo riflesso e si
identifica con la sua immagine (che è comunque, speculare, e non ci appartiene).
I più antichi specchi risalgono all’età della Pietra: già nel 6200 a.c., in Turchia, erano presenti
specchi di ossidiana levigata, un cristallo di roccia nera che trae origine dalle eruzioni vulcaniche.
Intorno all’anno Mille si fabbricavano già specchi di metallo. Secondo Plinio il Vecchio gli specchi
furono inventati nella fabbrica di vetro di Sidone: sfere di vetro soffiato il cui interno era rivestito
con piombo fuso che, una volta tagliate, diventavano, appunto, specchi. Per secoli però rimasero
un bene di lusso: solo con la rivoluzione industriale diventarono beni di massa.

4. Animali degli specchi

Ad alcuni uccelli in cattività si mette uno specchio dentro la gabbia per fargli credere di avere
compagnia. Ci sono dei dubbi però sul fatto che questo stratagemma funzioni davvero. I primati più
evoluti, come noi, si riconoscono nello specchio o ci vedono un avversario o un compagno. Lo
specchio incarna una realtà simmetrica e occulta, il cui accesso è una tentazione.

Lewis Carrol, nella seconda parte dell’avventura di Alice, la introduce, attraverso lo specchio che
attraversa, in una realtà ancor più sorprendente. Alice non desidera per niente che lo specchio le
rimandi indietro la verità, come la strega invidiosa di Biancaneve.

Nell’arte classica gli specchi sono presenti in varie opere (ad esempio “Giovane donna nuda allo
specchio” di Bellini o “Venere allo specchio” di Velazquez). La presenza dello specchio in questi
casi giustifica situazioni in cui la figura femminile fa la toeletta personale o si pavoneggia,
permettendole di svelare la sua nudità con naturalezza.

Il barocco il manierismo introdurranno il gusto per i giochi d’immagine e di sguardi, in cui lo


specchio funziona come fattore di distorsione della percezione, introducendo lo stesso pittore nel
quadro.

Anche nel cinema incontriamo sequenze famose incentrate sugli specchi (ad esempio ne “La
signora di Shanghai”, all’interno di un labirinto di specchi, i due contendenti si sparano senza la
certezza di puntare sulla persona in carne ed ossa o sul suo riflesso, in un tripudio di effetti
speciali. Nel classico “Peeping Tom”, invece, un cineamatore assassina una serie di donne mentre
le riprende con una cinepresa dotata di uno specchio, per costringere le vittime a contemplare la
loro agonia).

5. Benvenuti nella noosfera

Internet fa sentire alla portata di tutti l’utopia della noosfera.


Alcuni esempi che dipingono l’era dei cambiamenti nella quale ci troviamo sono:

- Ogni 8 matrimoni celebrati negli Stati Uniti nel 2008, gli sposi si erano conosciuti attraverso
piattaforme online;
- Il primo sms commerciale fu inviato nel 1992. Oggi il numero dei messaggi scambiati ogni mese
eccede la popolazione mondiale totale;
- La quantità di informazione raddoppia ogni anno;
- Verso il 2049 un computer che costerà meno di mille dollari supererà la somma delle capacità di
calcolo di tutta la specie umana.

6. Riflessogrammi

Come già spiegati, i riflessogrammi sono autoritratti davanti allo specchio realizzati soprattutto da
giovani e adolescenti. Questa tendenza va al di là della moda, diventando un fenomeno
sociologico, nel quale tutto si offre ad una visione assoluta e tutti guidati dal piacere di guardare.
Esistono centinaia di migliaia di riflessogrammi che circolano su blog personali, che hanno la
volontà di rendere pubblici e condividere i contenuti per ottenere feedback. Lo stesso accade per
Facebook, Twitter, MySpace... In queste piattaforme più foto ci sono, più c’è divertimento.
Esiste poi la categoria dei portali specializzati sulla fotografia (ad esempio Flickr e Instagram), i cui
membri si relazionano per affinità di interessi. In Flickr, per esempio, esiste un gruppo chiamato
The Mirror Project, in cui i partecipanti caricano foto realizzate di fronte allo specchio e le
commentano, nel quale prevale l’originalità. Un altro gruppo, invece, raggruppa partecipanti che si
fanno autoritratti nelle toilette pubbliche. Un altro si fa autoritrarre solo nei retrovisori dei furgoni
Volkswagen. Esiste anche il gruppo “365”: I partecipanti devono fare un riflessogramma ogni
giorno dell’anno.

Esistono poi pagine a contenuto erotico in cui vengono richiesti autoritratti mostrando la propria
nudità, anche riflessa su superfici insolite (bollitore, tostapane...)

7. “Mise-en-scène” dell’io

“Parigi è la città degli specchi”, scriveva Walter Benjamin. Anche in Svizzera sono presenti specchi
ad ogni incrocio e bivio. Si trovano specchi nelle stanze da bagno, nelle toilette delle discoteche,
nei camerini, negli ascensori, nei musei. Il loro utilizzo ha diversi scopi:

1. UTILITARIO: Corrisponde alla registrazione di dati che conviene conservare: la funzione


della macchina fotografica qui è ancora quella della memoria;
2. CELEBRATIVO: Consacra una situazione particolare;
3. SPERIMENTALE: Cercano vità ed effetti estetici (Photoshop, filtri, plugins);

4. INTROSPETTIVO: Rappresenta il tentativo di dialogare con il nostro doppio nello specchio


e di mettere in scena, nello stesso tempo, vari personaggi. Questo tipo di riflessogramma
fornisce fecondi materiali a psicologi e terapeuti;
5. SEDUTTORE: Sono immagini destinate al corteggiamento, fatte per suscitare attrazione,
attraverso lo sfoggio del proprio fisico o l’ostentazione dei propri beni (funzionano come
messaggi pubblicitari). Se il messaggio non è abbastanza chiaro lo si integra con un testo;
6. EROTICO: Autoritrarsi durante l’atto sessuale diventa un modo per intensificare il piacere e
prolungarlo nel tempo;
7. PORNOGRAFICO:Lapornografiaprofessionalevaestinguendosi,poichésiiniziaa preferire
una pornografia amateur, fatta di persone normali in cui ci si può identificare;
8. POLITICO:Serveperabbattereleseparazionitrailpubblicoeilprivato,è un’espressione di libertà
contro le regole sociali.

9. L’immagine a chi la lavora

Già da Altamira a Lascaux le rappresentazioni pittoriche erano prerogativa della magia degli
stregoni che permetteva loro di invocare il soprannaturale attraverso l’immagine.

Col superamento della preistoria gli artisti iniziarono ad essere considerati artigiani laici baciati dal
genio della creatività. L’arte era però una curiosità riservata agli strati sociali più ricchi. Con la
nascita della fotografia le cose cambiano: l’abilità manuale non era più un requisito necessario,
poiché sostituita da una protesi meccanica, la macchina fotografica. All’inizio il procedimento
fotografico era molto complesso. Poi nel 1888 George Eastman realizzò e distribuì su scala
industriale macchine fotografiche semplici ed economiche. Iniziava così una nuova era: il vero
affare sarebbe derivato dalla vendita delle copie cartacee. Nel contempo l’uso degli apparecchi si
semplificò: si arrivò piano piano al rilevamento dei sorrisi nei volti e all’autofocus. Il fotografo
moderno non deve più preoccuparsi dei requisiti tecnici, concentrandosi su quello che vuole
fotografare.

Ora le fotografie non hanno più alcun costo, possono essere visualizzate sullo schermo di un pc,
facendo sparire l’uso delle pellicole. Secondo recenti studi l’età media in cui gli spagnoli arrivano a
possedere un cellulare è dieci anni. La gratuità degli scatti moltiplica in modo esponenziale le
situazioni che vengono fotografate. Se la fotografia ci parlava del passato, la postfotografia ci
parla del presente, un presente sospeso, eternizzato, che fa spazio alla pratica più che al
ricordo.

Nel nostro cuore di Homo photographicus batte contemporaneamente quello dell’homo pictor e
dell’homo spectator. Questo traguardo ha un’enorme importanza soprattutto per la donna, che ha
acquistato il diritto alla propria immagine dopo anni di sottomissione. I riflessogrammi fatti da
donne sono molto più numerosi di quelli maschili: questo può essere interpretato come segnale di
emancipazione. Occorre però tenere conto del fatto che in una coppia eterosessuale molto spesso
è l’uomo ad impugnare la macchina fotografica: questo potrebbe indicare che il controllo
dell’immagine equivalga ad una situazione di potere. In ogni caso, dal punto di vista del
femminismo classico siamo di fronte ad una disfatta: le adolescenti continuano a subire
un’alienazione che impedisce loro di liberarsi dei ruoli trasmessi dalla cultura popolare. Tuttavia,
secondo la teoria queer, succede il contrario: le adolescenti sono coscienti del fatto che solo
gestendo in modo autonomo il proprio erotismo si mettono in condizione di sottomettere il maschio.
Artiste come Hester Scheurwater seguono il filone post-porn e realizzano riflessogrammi osè: i
suoi ritratti sono deliberatamente volgari contro la vittimizzazione della sessualità femminile.

10. Foto condivise, foto discorsive

L’apparizione dell’Homo photographicus passa necessariamente attraverso la figura dell’amateur:


una figura che predilige il gusto e il passatempo, e che non sembra garantire il livello di qualità
di un professionista. Però, a differenza del professionista, l’amateur agisce senza nessun’altra
ricompensa che non sia la sua soddisfazione personale. All’interno della categoria degli amateur
occorre però distinguere tra semplici utenti (che fotografano occasionalmente) e utenti avanzati
(che progettano le loro fotografie secondo precisi criteri). I semplici utenti dedicano molto tempo a
fotografie che probabilmente poi non riguarderanno più, creando la fotografia discorsiva, usata
come un linguaggio, che si scambiano gli uni con gli altri. Le immagini funzionano come parole non
dette: una volta raggiunto il loro scopo non hanno più bisogno di essere guardate.

Gli utenti avanzati non indirizzano i loro scatti verso interlocutori concreti, ma le mettono a
disposizione di tutti. Il successo di Flickr, portale di photo sharing si deve alla trasformazione delle
immagini in strumenti di conversazione e circolazione.

11. Per una fotografia senza qualità: l’errore come strumento cognitivo

I social network sono affollati da fotografie scattate da operatori senza alcuna qualifica, che sono
caratterizzate da una serie di “errori”. Tali errori però ci risultano molto graditi. La bandiera
dell’errore è spesso stata issata in ambito artistico come segno di creatività. Clement Cheroux, nel
saggio “L’errore fotografico” sostiene che le avanguardie si sono imbevute di un filone iconografico
costituito da foto sbagliate o malriuscite. La fotografia intrisa di sbagli dà luogo a un’estetica
dell’imperfezione. Tutto ciò che caratterizza un disturbo a una lettura diretta dell’immagine diventa
“rumore”. I rumori sono spesso presenti nei riflessogrammi: sfocature, inquadrature che mutilano
le figure, texture sgranate e l’uso del flash. Il flash in particolare viene usato nel modo scorretto dai
profani. Molti autori di riflessogrammi lo utilizzano invece deliberatamente per occultare le parti
intime o il viso.

12. Riformulare la consapevolezza autoriale

Ciò che costituisce il nucleo dottrinale della postfotografia è la problematica condizione dell’autore.
Un’immagine racchiude lo sguardo di chi la crea e di chi la osserva: lo spettatore è coautore.
Internet però dissolve la nozione di autore come solitamente intesa. E la fotografia digitale ha
smaterializzato la fotografia, che diventa informazione allo stato puro, contenuto senza materia.
Questa duplice natura ci porta alla dualità fra anima e corpo: il corpus misticum (il creatore) e il
corpus mechanicum (il risultato materiale dell’opera). Questa emersione del primo sprovvisto del
secondo ravviva lo scontro tra difensori dei diritti d’autore e alcune leggi, come quella spagnola,
che stabiliscono la figura di “mera fotografia”, senza diritti o comunque molto limitati.

In definitiva l’artisticità non risiede più nell’atto fisico della produzione di immagini, ma nella loro
prescrizione di senso. Il diritto d’autore e il diritto d’immagine sono i dazi da pagare per una società
sempre più caratterizzata dalla libertà di espressione.

Capitolo decimo
Un occhio, una macchina fotografica, uno specchio

Ugo Mulas ha voluto lasciarci come testamento fotografico la serie delle “Verifiche”. Dal 1968 si
mise a realizzare una serie di fotografie che avevano come tema la fotografia stessa. Il lavoro fu
interrotto dalla sua morte. In una delle Verifiche Mulas si fotografa di fronte ad uno specchio con le
spalle alla finestra attraverso la quale i raggi del sole proiettano la sua ombra contro la parete che
ospita lo specchio. In questa composizione ombra e riflesso coincidono. La macchina fotografica
nasconde il suo viso e cancella la presenza del fotografo, che diventa un occhio anonimo ed
impersonale. Lo scatto implica l’inclusione di un’immagine dentro un’altra immagine: il
riflessogramma autoritrare non solo l’operatore, ma anche il mezzo fotografico stesso.

Anche l’artista John Hilliard ha realizzato un altro autoritratto allo specchio in quegli stessi anni. Ha
messo la fotocamera davanti a uno specchio e ha scattato variando in maniera correlata i valori di
diaframma e la velocità dell’otturazione. Le combinazioni estreme hanno dato luogo a fotogrammi
eccessivamente sovraesposti o sottoesposti, in cui la rappresentazione si dissolve nel vuoto del
bianco o del nero. L’opera esprime lo sforzo per definire il grado zero della fotografia o il suo grado
d’infinito, il nulla o il tutto.

Inaki Bonillas, invece, sonda archivi familiari alla ricerca di immagini che contengano specchi, che
duplicano una parte della scena: osservando l’immagine si è portati a portare lo sguardo in un altro
luogo, altrimenti invisibile. Il progetto entra in relazione con i surrealisti: dall’objet trouvé passa alla
photo trouvée o meglio, alla réflexion trouvée (riflesso,ma anche riflessione).

Michelangelo Pistoletto sostituiva la tela con uno specchio, per cui i suoi quadri includono
necessariamente anche lo spettatore.

Eugène Atget fotografa invece facciate dei negozi parigini, ricchi di riflessi misteriosi nelle vetrine e
vetrate.

In tutte queste opere si preferisce immortalare la voce dei riflessi inavvertiti che permette di
porre l’attenzione su un piano non direttamente frontale all’obiettivo.

Capitolo undicesimo
Nota fenomenologica sulla photo trouvée

Gli effetti che possono suscitare le foto trovate variano in base al loro contenuto e a quanto la loro
storia coinvolga lo spettatore. Un’immagine può impressionare qualcuno e risultare anonima
per qualcun altro.

Per questo Barthes si rifiutò di riprodurre la foto di sua madre nella Camera Chiara (1980): un
ritratto di due fratelli, in una foto d’inverno. Nella logica del racconto quella foto diventa l’assenza di
un’altra assenza: l’assenza dell’immagine che supplisce all’assenza della persona. Solo per
Barthes, però: per i lettori l’immagine al massimo avrebbe potuto suscitare la constatazione che
una delle due figure fosse la madre di Barthes quando aveva cinque anni. Barthes racconta di aver
ritrovato l’immagine poco dopo la morte della madre.
Nel romanzo The photograph, la scrittrice Penelope Lively racconta di Glyn, uno storico che rovista
in un armadio alla ricerca di vecchi appunti e trova una foto di sua moglie Kath, morta quindici anni
prima. Si trova in una busta sulla quale si può leggere: “Non aprire- distruggere”. Nell’immagine
Kath appare mano nella mano con un altro uomo. Il ritrovamento spingerà Glyn lo spingerà ad
indagare sulla vita della moglie. La foto ritrovata è l’inizio di una catena di esperienze. Se qualcun
altro avesse ritrovato la foto al posto di Glyn probabilmente non sarebbe successo niente. Alla fine
del romanzo l’immagine è la stessa, ma ora è impregnata di una coscienza nuova.

L’artista Lùa Coderch nel suo progetto Raccogliere fotografie senza memoria si è rivolta all’album
di famiglia, estrapolando immagini che nessun parente vivo era in grado di identificare. In questo
caso le immagini rimangono avvolte in una sorta di mistero: distaccate dal ricordo e
dall’esperienza.

Paul Auster nell’Inverno della solitudine, invece, fa iniziare l’opera con l’inaspettato ritrovamento di
alcune foto del padre, morto da poco. Il suo intento è fare in modo di evitare che le tracce del
padre si perdano per sempre. Ascolta qualunque eco riesca a trovare negli oggetti abbandonati
dopo la morte. Alla fine della sua ricerca, però, le sue ricerche più che chiarire i suoi dubbi li hanno
ampliati: le foto raccolgono aneddoti, ma non ne forniscono la spiegazione.

Gli artisti Janet Cardiff e George Bures Miller hanno scoperto un paio di contenitori pieni di
diapositive che appartenevano al nonno di George, morto prima che l’artista nascesse. Queste foto
erano state scattate durante un viaggio che il nonno aveva intrapreso per farsi visitare da un
oncologo, a seguito della comparsa di un cancro. Nell’installazione Road Trip gli artisti proiettano
le diapositive fatte con un vecchio Carousel Kodak, scegliendo come colonna sonora una
conversazione che imita le sessioni domenicali nelle quali la famiglia si riuniva per visionare le
diapositive. Le voci degli artisti discutono su come interpretare le immagini e localizzare i luoghi in
cui sono state scattate. Forse l’intento del nonno era quello di aggrapparsi alla vita che stava per
terminare grazie alla sua macchina fotografica.

1. “Foto lumpen” vs “photo trouvée”

La differenza tra una foto lumpen (cioè una banale foto trovata) e una photo trouveé, sta quindi
nell’atteggiamento di chi le guarda. La photo trouveé richiama l’object trouveé dei surrealisti, che
ha introdotto tre principi innovativi: proporre qualsiasi oggetto, sostenere che l’artisticità non è data
dalla fattura o dalla tecnica e affermare che il valore artistico sta nel processo mentale di
decisione. La fotografia non contiene enigmi, ma li genera.

Anke Heeleman per il suo Work in progress intitolato “Magazzino speciale di foto dimenticate” ha
collezionato più di centomila fotografie, con l’intento di porre la questione del valore di queste
immagini fuori dal loro contesto originale. Ne emerge che è l’anonimato di questo materiale a
generarne un potenziale creativo.

Il fotografo francese Paul Sauvin ha ottenuto fotografie da un’azienda di riciclo che comprava
negativi e diapositive a peso per recuperare il nitrato d’argento, incurante di ciò che le immagini
rappresentavano. Grazie a Sauvin questo materiale si è salvato dalla distruzione. Erano immagini
scattate tra il 1985 e il 2005, in Cina, nel periodo compreso tra il momento in cui l’economia cinese
a permesso ala maggior parte dei suoi cittadini di possedere una macchina fotografica e l’irruzione
della fotografia digitale. In esse risuona l’ampia gamma delle photo trouveé: l’insolito, il banale, il
divertente, gli incidenti...

In conclusione, c’è negli ultimi anni la tendenza a uno scenario in cui i gesti artistici hanno
prevalenza sugli artisti.

Capitolo dodicesimo
Immagini di seconda mano (o di secondo sguardo)
1. Dal contenimento al riciclo

Come è già stato sottolineato, molti artisti si sono impegnati al fine di contenere le immagini o di
riciclarle in qualche modo. Nel 2012 Iraida Lombardìa ha invocato lo sciopero generale delle
immagini. Lombardìa contesta il consumismo delle immagini “usa e getta” e si impegna a
pubblicare non più di una foto sulla sua pagina web per un periodo di mille giorni. Rivendica il suo
gesto come atto artistico e sciopero simbolico.

Le misure che predicano il contenimento invece dell’incontinenza hanno raggiunto tale popolarità
da entrare nelle promesse pubblicitarie. Nel 2013 è stata lanciata l’automobile Renault Captur, che
includeva la Renault Captur Camera, che però, di fatto, non fa nulla, è una macchina fotografica
placebo. Si mette al collo ma, poiché è un mero ornamento, chi la indossa si vede costretto a
vivere, invece di rimanere ossessionato dal “catturare la vita”.

La proposta di Philipp Schmitt, nella sua Camera Restricta, denuncia invece il fatto che ci siano
troppe foto, troppo ripetitive e prevedibili. La Camera Restricta è progettata per connettersi al gps e
trovare online le foto che siano già state fornite da tag geografici nelle sue vicinanze. Così, se la
fotocamera “decide” che ci sono già troppe foto fatte nello stesso luogo, blocca il pulsante di scatto
e impedisce di compiere nuove riprese in quel punto. Mediante alcuni bip segnala il grado di
verginità fotografica dei territori. Di fatto, ha inclusa la capacità di disobbedire al suo utente.
Così come le automobili hanno di serie un catalizzatore che riduce l’inquinamento, la Camera
Restricta riduce l’inquinamento visivo.

Se ci avviciniamo a metodi più aggressivi, dobbiamo ricordare l’installazione interattiva di Max


Dean “Ancora senza titolo”, costituita da una macchina con un braccio robotico che prende le
fotografie da un contenitore e le tritura o le conserva a seconda che lo spettatore intervenga
azionando una leva o meno. Il pubblico si assume quindi la responsabilità di decidere del
destino delle immagini.

Un’operazione simile è realizzata da Celine Duval nella sua serie Les allumeuses. Con ritagli di
pagine illustrate di riviste, ha realizzato un vastissimo sfondo iconografico che ha ordinato per temi,
secondo soggetto e situazioni. Les Allumeuses è composta da opere video in cui vediamo una pila
di ritagli sul bordo di un camino e le fiamme riflesse sul lucido della carta patinata della foto che sta
in cima alla pila. Poi una mano getta nel fuoco le fotografie una a una: sentiamo il crepitare del
fuoco, ma vediamo solo le immagini una dietro l’altra verso l’incenerimento. Con l’opera Celine
Duval ci regala una bella metafora della morte dell’immagine.

Inseguendo invece il tema del riciclo dei dispositivi di registrazione e di controllo si può dire
che appare chiaro che nella nostra società queste “spie” sono onnipresenti, vigilando sulla
sicurezza pubblica. Buona parte della post fotografia approfitta della produzione delle telecamere
di sorveglianza o altri sistemi di visualizzazione automatica. Il riciclo di questi materiali si biforca
in due generi:

- Gli artisti che selezionano fotogrammi del dispositivo;


- Gli artisti che recitano messinscene davanti alle videocamere.

In queste direzioni si sono susseguite grandi esposizioni internazionali, introducendo le pratiche di


decostruzione dei dispositivi di controllo, o focalizzandosi sul ruolo della fotografia nello
spionaggio, voyeurismo e spionaggio.

Un caso esemplare è quello dell’artista Jeff Guess il giorno del suo matrimonio nel 1993. Invece di
rivolgersi ad un fotografo ufficiale, lui e la sua sposa sono saliti sull’automobile, imboccando una
strada statale superando il limite di velocità e facendosi scattare un “ritratto nuziale” con
l’autovelox.
Rémi Gaillard, invece, organizza vere e proprie performance davanti alle macchine fotografiche
per il controllo del traffico, nell’attesa che qualche auto faccia scattare l’autovelox e registri le sue
coreografie (in cui i partecipanti simulano di essere gli invitati ad un matrimonio o una squadra di
calcio. Registra tutto producendo videoclip, documentando anche l’arrivo dei poliziotti che lo
accusano di vandalismo.

L’artista irlandese Mocksim, invece, ha trovato il modo di accedere al database delle multe per la
sosta nella città di Brighton, che contiene le fotografie dei veicoli in infrazione. Mocksim si aggira
vicino alle macchine mal parcheggiate per rimanere catturato nelle foto fatte degli agenti, a volte
solo facendo intravedere il suo riflesso nei finestrini.

Aram Bartholl nel 2009 ha visto passare l’automobile di Google Street View: è scattato così verso
di lei facendo evidenti segnali con le braccia. Un anno dopo Google Street View ha dato vita a
quella performance spontanea: Bartholl è riuscito a immortalarsi correndo fino a perdere di vista il
veicolo.

2. Ballando sotto le videocamere

Nel 2001 è entrata in vigore una normativa europea che riserva il diritto di accedere alle copie delle
registrazioni delle videocamere installate in spazi pubblici in cui si appare.

Alla luce di ciò nasce il Video Sniffing. Il corto The Duellists (2007) ne è stato il primo risultato.
L’opera presenta la performance di due traceurs (coloro che praticano il parkour) in un centro
commerciale di Manchester. La colonna sonora è stata creata partendo dai suoni e dai rumori di
fondo registrati durante la produzione. La versione notturna del centro commerciale contrasta con
l’esperienza comune di questo luogo.

La band The Get Out Clause, seguendo l’esempio, ha deciso di utilizzare le videocamere di
sorveglianza mettendosi con i loro strumenti in differenti punti, suonando davanti alla videocamera.
Sono andati poi dalle aziende proprietarie delle videocamere a richiedere le sequenze che li
ritraevano. Alla fine, il gruppo è riuscito ad avere il proprio videoclip, che contiene diversi luoghi di
ripresa, compreso un autobus.

Jens Sundheim si distingue per un ultimo approccio. Ha viaggiato per i cinque continenti posando
davanti a webcam in più di seicento luoghi diversi. Fissa per alcuni secondi la videocamera, poi
scarica le registrazioni dalle pagine internet corrispondenti, per avere un monitoraggio fotografico
del suo viaggio. I luoghi da lui scelti sono quelli più sensibili: frontiere, edifici governativi, controlli
aeroportuali.

Manu Luksch realizza invece il film Facelees (Senza volto) nel 2007. E’ rimasta colpita dal numero
delle videocamere di sorveglianza che registravano i suoi passi a Londra. Si è fatta fornire le copie
delle registrazioni, ottenendone una trama narrativa. Ha deciso di diventare la protagonista di un
racconto di fantascienza nel quale solo lei ha un volto e gli altri personaggi hanno una macchia
nera che gli copre la testa. La proposta aveva scopi sia artistici che politici: segnalava la difficoltà
di evadere da un ambiente claustrofobico e incitava a mettere alla prova la legge e i diritti civili.

Capitolo tredicesimo Istanti decisivi

1. Contro la Kodak

Abbiamo già visto come la post fotografia rinunci all’istantaneità dell’azione a favore
dell’urgenza dell’immagine. Esiste differenza tra il tempo inteso come concetto fisico e il
tempo inteso come durata.
A questo proposito è molto importante il ritrovamento, da parte dei ricercatori dell’Università
dell’Oregon nel 2012, di un pezzo d’ambra che ha inglobato l’attacco di un ragno a una vespa.
L’azione è avvenuta all’epoca dei dinosauri. Questo ritrovamento si può considerare la prima
istantanea della storia. L’azione è stata cristallizzata e resa eterna.

Isabelle Le Minh nella serie “Troppo presto, troppo tardi” manipola alcune opere illuminanti dal
punto di vista del momento decisivo. Non ci mostra il momento magico che ha fermato l’azione, ma
un momento qualunque che lo ha preceduto o seguito. L’opposizione tra il “non succede niente” e
“il momento esatto” esemplifica lo squarcio aperto tra l’istante decisivo e quello qualunque.

Il procedimento utilizzato dall’artista Pavel Maria Smejkal è simile, anche se l’intenzione è diversa.
Lui parte da immagini che sono diventate pietre miliari della storia della fotografia del xx secolo
(istantanee di tragedie, guerre), ma il cui valore non è dovuto all’intenzione di documentare ma alla
strumentalizzazione ideologica all’interno dei processi mediatici (il bambino affamato minacciato da
un avvoltoio in Sudan, l’esecuzione di un Vietcong). Smejkal priva la fotografia dell’azione
avvenuta in essa e lascia solo lo sfondo, il paesaggio. Il resto era solo una costruzione
propagandistica, finalizzata a condizionare l’opinione pubblica. Scompare la capacità di fermare il
tempo che scorre e si produce l’illusione di lasciare il tempo in sospeso.

Philip Schuette ha inventato il termine “serendigrafia” per definire quelle fotografie nelle quali
avvengono in coincidenza una serie di circostanze insolite e sorprendenti (la serendipità sarebbe
una casualità remota e quasi improbabile). Queste istantanee però non capitano più grazie alla
capacità di anticipazione e all’opportunismo dello scatto.

La post fotografia però porta anche all’istante iper-decisivo. Josh Poehlein, nella serie Modern
History utilizza sequenza video disponibili su youtube per fare una cronaca post fotografica degli
ultimi cruciali avvenimenti mondiali. In questo modo offre un documento poliedrico da differenti
punti di vista sull’evento in questione. Come accade per esempio quando facciamo una ricerca su
internet: giudichiamo secondo i risultati ottenuti: la nostra sensibilità si basa sui risultati dei motori
di ricerca.

Capitolo quattordicesimo
La collezione come necessità

In una fase di saturazione delle immagini ci si rivolge verso la collezione. In ambito fotografico,
per fare un paragone con il lontano Neolitico, i cacciatori di immagini stanno per essere sostituiti
dai raccoglitori di immagini. Perché esista una collezione bisogna raccogliere e in seguito ordinare
e classificare. La moglie dell’autore, scultrice, appartiene alla categoria degli artisti-accumulatori.
Spesso lavora con oggetti di scarto e materiali di recupero, donando agli oggetti una nuova vita.
Un recente progetto l’ha vista appassionarsi ai bottoni, che acquista su eBay. Il bottone è un gioco
per i più piccoli e da adulti diventano, oltre che oggetti che ci legano ai vestiti e agli ornamenti,
oggetti legati con nostalgia alla nostra infanzia. Sua moglie, classificandoli in base a forma, colore,
grandezza, materiale, esemplifica un particolare procedimento che ha trovato posto nella fotografia
contemporanea: l’opera- collezione. Ma cosa spinge qualcuno ad accumulare oggetti?

1. La cultura della curiosità

Il collezionismo museale nasce dopo la Rivoluzione Francese e, con l’Illuminismo, le collezioni si


specializzano. Philipp Blom segnala i gabinetti delle curiosità e, fra le altre manifestazioni, il
feticismo delle reliquie e gli spettacoli di dissezione anatomica che precedettero il secolo di Lumi.
Le collezioni erano depositi di oggetti stravaganti, ma anche specchi in cui si rifletteva la varietà
dell’universo. La pratica del collezionismo intendeva dare forma al caos del mondo e
rappresentava la mania del possesso e la conseguente insoddisfazione del collezionista. La
collezione, in sostanza, diventa un’opera, ma anche un’estensione dell’identità del
collezionista.
2. L’opera-collezione

Alla Biennale di Venezia del 2009 il padiglione finlandese ospitava l’installazione dell’artista Jussi
Kivi. Lo spazio appariva ingombro di elementi legati al mondo dei pompieri, di cui l’artista era
appassionato fin da bambino. L’installazione sorprendeva per la dismisura, al punto da sfiorare il
patologico.

Altro caso, nel 2010, una collezionista di arte contemporanea presentava la sua collezione fatta da
milioni di peluches, foto degli stessi orsi e oggetti a loro legati. E’ evidente che molte collezioni
hanno un’impronta decisamente personale. Dal punto di vista delle collezioni di immagini il
fotografo era già una sorta di collezionista, che raccoglieva varie viste dal mondo. La tesi
benjaminiana, secondo cui l’artista moderno è una specie di rigattiere che raccoglie rifiuti e riesce
a dargli significati nuovi, fornisce esempi di opera- collezione. I precursori degli attuali artisti-
collezionisti sono stati Feldmann e Kardos.

Feldmann ha prodotto taccuini in cui raccoglieva foto fatte da lui, foto di famiglia, o riproduzioni
ottenute da riviste, disponendole per temi o per cronologia (per esempio ritratti di cento persone
nate in cento anni consecutivi) senza accompagnarle da testi.

Kardos ha iniziato ad appassionarsi alle fotografie anonime degli anni Settanta. La sua collezione,
costituita da materiale raccolto in 120 categorie, la chiamò “Horus Archive”. Horus nella mitologia
egizia è il simbolo della pienezza. Kardos arrivò alla conclusione che collezionare è un atto di
creazione. Nella sua collezione si nota un gusto per gli errori, i difetti e le luci sbagliate.

3. I nuovi enciclopedisti

L’incontinente produzione di immagini fa sì che si moltiplichino le pratiche per imprigionare le


immagini raccogliendole in cataloghi. Con l’opera-collezione si cerca di recuperare la volontà di
Diderot e D’Alembert, in un’ottica di nuovo Illuminismo.

Parr incarna la figura del fotografo-collezionista per eccellenza. Riutilizza immagini di carta
stampata che hanno sfondi parzialmente colorati per evidenziare un soggetto e cornici per dare un
taglio all’inquadratura.

Kessels, invece, si focalizza sulle forme più banali di fotografia e organizza i suoi bottini in
pubblicazioni sorprendenti. Nella raccolta “Black dog” si trovano fotografie di una vecchia coppia di
sposi, il cui cane nero era la gioia dei loro occhi. La loro incapacità tecnica nello scattargli
fotografie, però, fanno precipitare la sua testa in un’oscurità spettrale, esilarante per un
osservatore esterno. In un’altra raccolta, dedicata alla fotografia pornografica (che di solito ha
schemi monotoni), alcune foto rasentano lo stereotipo, mentre altre sono stranamente fantasiose:
l’infermiera che fa la corte al chirurgo o il vecchio professore grasso con la studentessa. Isolate dal
loro contesto, queste immagini svelano situazioni incomprensibili, quanto divertenti in maniera
imbarazzante.

Brendan Corrigan compra un’enorme quantità di macchine fotografiche smarrite, rubate o vendute
in mercatini di seconda mano. Recupera i rullini esposti a metà e ristampa le istantanee, creando
una collezione di esperienze altrui.

Emilio Chapela Pérez parte da ricerche incrociate su Wikipedia e Google per proporre risultati che
uniscono critica e ironia. La sua opera video Guns proietta le prime cento immagini ottenute su
Google mettendo come chiave di ricerca la parola “Gun”(arma).

Joachin Schmid crea una collana di novantasei libri che riuniscono una selezione di immagini
raccolte da internet. Ogni volume stabilisce possibili metodi per categorizzare il mondo e ci mostra
ciò che la gente ama fotografare: tramonti, cani, piedi in spiaggia... Schmid attualizza l’opera di
Diderot e D’Alembert.

4. Immagini impulsive

La post fotografia da’ la priorità al proposito di raggruppare le immagini creando strutture di senso
che prevalgono sui valori delle immagini prese autonomamente.

Roberto Pellegrinuzzi ha scattato sempre e ovunque per un anno intero fino ad esaurire il
potenziale del sensore della sua fotocamera. In tutto ha ottenuto 275000 istantanee, che ha
stampato in piccolo formato e appese ad un filo, costruendo una specie di nebulosa in cui il
pubblico era invitato ad immergersi. Ogni immagine rappresenta un ricordo che rimane lì,un evento
casuale usa e getta: ciò che è importante è la struttura globale.

In un’altra opera-collezione gli artisti del gruppo After Facebook partono da immagini prese da
internet e presentano una collezione di schermate di pagine commemorative, per esaminare morte
e lutto nell’era post fotografica. Il fatto che, dopo la morte di un individuo, permangano profili o
pagine “alla memoria” fa sopravvivere un’identità più in là della sparizione del corpo. Queste
pagine funzionano come “camere ardenti virtuali”, sempre visitabili. Facebook mette a
disposizione l’illusione di un altro tipo di immortalità. L’installazione del gruppo After Faceb00k
simula un cimitero virtuale: negli schermi appesi al soffitto si susseguono migliaia di foto prese da
pagine commemorative. Non ci sono più maschere funerarie, ma foto sulla bacheca di Facebook.

Capitolo quindicesimo La foto-vudù

1. Exposure

La differenza tra la fotografia e la post-fotografia risiede anche nel fatto che la prima, a differenza
della seconda, ha componenti fisiche e chimiche. La sua superficie è formata da un’emulsione
che contiene molecole di materiale fotosensibile, che viene depositata su un supporto solido. La
fotografia non è altro che un deposito di atomi d’argento. La fotografia digitale, invece, è un
mosaico di pixel, privo di corporeità. Non si ha più deposito di carattere materiale, solo linguaggio
numerico (smaterializzazione). Di conseguenza la fotografia entrerà in crisi e la storia personale
rischia di andare perduta.

2. Autopsia dell’album fotografico

A proposito dell’album fotografico due sono le esposizioni che secondo l’autore meritano
particolare menzione. Una, di Francois Cheval, con approccio più archeologico, metteva in risalto il
ruolo dell’album come trasmissione di una memoria di gruppo. L’altra, di Kessels, aveva un
atteggiamento più nostalgico verso gli oggetti dell’era analogica, che mettevano in risalto
un’estetica dell’imperfezione, di cui l’album fotografico era un importante contenitore. Esistono dei
precedenti e una copiosa bibliografia in merito a questo tipo di studio. Ora però si fa un’analisi
delle caratteristiche degli album con la consapevolezza che alla base ne esiste una certificazione
di morte.

I primi album apparvero nel 1860 ed erano un progetto che coinvolgeva varie generazioni. Il
risultato ricordava antiche gallerie di ritratti degli antenati, con ordine vagamente cronologico. Più
in là nel tempo, la comparsa delle macchine fotografiche ha trasformato l’album in una sorta di
reportage sociale: vi si trovavano immagini di feste e cerimonie, viaggi, corredate da nomi, date e
luoghi. Nei primi album non mancavano ritratti dei defunti o scene funebri, ora bandite a favore di
grandi sorrisi. Negli anni Quaranta e Cinquanta gli album non sono più transgenerazionali, ma
generazionali, fino a diventare sempre più personali. La cronaca familiare è sempre più spesso
sostituita dell’autobiografia e i laboratori commerciali spingono sempre di più verso album
dedicati ad eventi speciali. L’immagine passa a decorare abitazioni, porte dei frigoriferi e cruscotti
delle auto. Alla gente piace circondarsi dei propri ricordi piacevoli. Il declino dell’album di famiglia è
giustificato inoltre dalla crisi dell’organizzazione familiare, con la nascita di sistemi di convivenza
che sfidano il concetto classico di parentela. Inoltre, la gestione dell’atto fotografico in passato era
destinata agli adulti: gli unici con una competenza tecnica sufficiente, che avevano l’autorità per
decidere quali erano i momenti familiari degni di essere conservati. Ora giovani e adolescenti
fanno più fotografie dei loro genitori e, di conseguenza, le consuete scene familiari vengono
sostituite da situazioni di svago o tempo libero. Se definiamo l’album come un insieme di
caratteristiche formali, è ovvio che la sua esistenza è agli sgoccioli. Così come è in crisi il libro, che
sta cedendo ai formati elettronici. Sta accadendo una migrazione dell’immagine verso altri
supporti, primi fra tutti i social network: qualcosa di simile ad un diario intimo che si apre ad un
pubblico indiscreto e globale. Si fotografa senza freni banalizzando il risultato. Inoltre, la fotografia
non si stampa più, ma salta da schermo in schermo.

3. Quadri di riferimento

Molti sono gli artisti che hanno dato la caccia agli album, dopo la loro morte, rielaborando
artisticamente l’album di famiglia. Jacques-Henri Lartigue ha posato il suo sguardo su una cerchia
di amici e parenti, realizzando istantanee che nel 1963 hanno meritato il plauso del MoMa di New
York. Nan Goldin, invece, ha realizzato un contro- album personale concentrandosi su tensioni,
dolori e la morte, mostrando anche frammenti di vita reale che si allontanano dalle immagini
idilliache degli album di famiglia. Manuel Sendon fotografa pagine di album dalle quali sono state
staccate fotografie e in cui ne rimangono le tracce. I segni lasciati dalle foto scomparse sono
ancora lì: questi dettagli ricordano le rovine del passato. Inaki Bonillas , dopo aver consultato per
anni l’archivio di suo nonno, ha riprodotto le annotazioni trovate sul retro di molte foto, portando
alla luce un repertorio di descrizioni. L’artista svizzera Claudia Breiischmid, nel suo lavoro
“Welcome Back” (2011- 2012) separa le foto dai loro supporti e le libera dalla loro condanna a
funzione narrativa, mettendole, voltate, una accanto all’altra. Gonzalo Gutiérrez mette alla prova la
riconoscibilità di quelle situazioni tipiche degli album di famiglia, sfigurando i personaggi con un
effetto pixel esagerato.

4. Dis-ritratti

Lo stalinismo e gli altri regimi totalitari ci hanno abituato ai ritratti di gruppo di politici, in cui la
vicinanza o la lontananza dal leader esprime una gerarchia ben precisa. Tagliare una persona da
una fotografia in cui era presenta significa defenestrazione politica. L’azione delle forbici e
dell’aerografo imperversa negli archivi fotografici.
Mutilare le immagini o bruciarle sono forme di violenza che aspirano a piegare l’opinione pubblica
e la conoscenza storica. Il caso opposto si ha in certe manifestazioni, in cui i partecipanti sollevano
i cartelli con le immagini delle persone scomparse. La fotografia agisce come reminiscenza
spettrale di un essere assente con il quale si mantiene però una certa capacità di interazione:
stregoneria più conosciuta del vudù. Le fotografie sono dunque assimilabili alle bambole-
vudù: feticci di aspetto più o meno umano, che vogliono essere rappresentazioni di persone. Nei
riti vudù lo stregone mette aghi nella bambola- feticcio, ma è la persona reale ad avvertire il dolore.

In questa sezione l’autore affonda le viscere nei depositi fotografici delle famiglie, a caccia delle
tensioni nascoste. Mario Vargas Llosa, che ha avuto un rapporto difficile con il padre violento,
racconta di aver vissuto un episodio di aggressione tramite la fotografia. Mentre lui e la madre
preparavano le valigie per andarsene di casa, si accorse che il padre aveva tagliato molte delle
fotografie che la madre teneva sul comò, eliminando lei e lui, mentre in altre aveva piantato degli
spilli. Quando non si hanno feticci a disposizione, le foto dell’album familiare vengono
utilizzate per sfogare la nostra rabbia. Anche Paul Auster nell’opera “L’invenzione della
solitudine” si riferisce a una situazione simile: in un ritratto di famiglia appare il padre, all’età di un
anno, seduto in braccio alla nonna, accanto agli altri fratelli. La foto appare strana, come se una
sutura attraversasse la parte centrale vuota. A questo punto Auster svela il segreto dell’assassinio
da parte di sua nonna di suo nonno, per questioni di gelosia, che avrebbe segnato il padre per
sempre. Auster fa capire che la nonna ha scacciato il nonno dalla fotografia per rendere giustizia
alla realtà. L’esposizione di Chalon-sur-Saone conserva un piccolo sfondo di foto-vudù: un
centinaio di anonime foto di famiglia meticolosamente mutilate e trasformate in un dis-ritratto.
Qualcuno si è dedicato a praticare incisioni con una specie di bisturi, disfandosi del volto della
persona di sesso maschile che appare nelle foto di coppia. Invece di sbarazzarsi delle foto, chi ha
praticato le mutilazioni ha preferito conservare il ricordo dei bei momenti, togliendo la persona non
gradita dalla storia. Si nota che si ha la sparizione del volto, come sede dell’anima, ma non del
corpo. Perché allora le foto non vengono eliminate dopo la mutilazione? Perché le immagini
sopravvivono come ricordo del torto subito, perché non si dimentichino il male e il torto
subito. L’arista Rosangela Renno ha riferito un caso diffuso dalla stampa brasiliana, in cui una
contadina ha reclamato all’ex- marito la metà delle foto del matrimonio e la metà del negativo in cui
appariva il suo volto, poiché l’ex-marito già conviveva con un’altra donna. Le fotografie sono
dunque spesso oggetto di un litigio simbolico. Il regista messicano Roberto Duarte nel
documentario “Los tachados” (I cancellati), risolve un suo tabù familiare: la nonna ha cancellato,
grattandoli, i visi di due suoi figli dalle foto. L’enigma piano piano nelle sue ricerche giunge a una
soluzione: i figli avevano deciso di andarsene e la nonna, a sua detta, li ha cancellati anche per
rispettare la loro decisione. Duarte però riesce a ritrovare i negativi delle foto e agisce come il
sacerdote vudù che pratica il bene, ridando un volto ai dis ritratti della nonna. Los tachados è una
storia universale, perché tutte le famiglie hanno un segreto nascosto. Con la
smaterializzazione dell’immagine la fotografia perde il suo valore di feticcio. La perdita del potere
dell’immagine- cosa, trova un residuo di resistenza nei touch.

Capitolo sedicesimo
La fotografia con(tro) il museo

1. Musealizzare l’invisibile
Molti altri ambiti risento della smaterializzazione. Internet è stato riconosciuto come terreno di
operazioni nelle quali si possono subire o provocare danni reali. Riguardo a questo lo storico di
internet, Andrew Keen è pessimista, e afferma che tutto quanto ormai è determinato da un clic. È
vero anche, però, che le idee più innovative, che ci aiutano ad affrontare le sfide del futuro,
provengono da internet, piuttosto che dalle istituzioni di arte contemporanea. Il grande boom della
fotografia nel collezionismo e nel circuito internazionale dell’arte si è avuto con i tableaux di
grandissimo formato di Jeff Wall e Andreas Gursky. Ma la fotografia e il museo hanno
mantenuto sempre un rapporto conflittuale, dovuto a divergenze strutturali e ontologiche.

2. Museo e fotografia: un braccio di ferro

Quando a metà degli anni Novanta un gruppo di musei europei, tra cui il Centre Pompidou di Parigi
e il MACBA di Barcellona, presentò una prospettiva sul movimento situazionalista, fu uno
scandalo, poiché molte proposte artistiche entravano nei musei. I responsabili sottolinearono che
l’esposizione di questi materiali legittimava il museo a compiere il suo compito: il diritto del pubblico
alla conoscenza e alla cultura. I conservatori non si accorgevano di sottrarre alla realtà un pezzo
imbalsamato di vita, trasformandola in non-vita. Ne sono un esempio gli animali imbalsamati dei
musei di storia naturale. Il dibattito sull’opportunità del museo e sulla museificazione è stato
portato avanti da proposte artistiche, dal dada all’agit-prop, che hanno combinato innovazione
estetica e attivismo politico, ma anche da quei fenomeni, come la Land-art, che hanno proposto
un’arte tangibile ed esperienziale. La fotografia nel 1839 è arrivata ad insediare i musei. Il
rapido diffondersi della fotografia andava contro lo status autoritario del museo. Walter Benjamin
diagnosticò che non era tanto il dibattito se la fotografia fosse o meno un’arte a essere rilevante,
quanto in che modo la nozione di fotografia stravolgesse la nozione stessa di arte. Di conseguenza
era necessario decidere se la fotografia potesse entrare nei musei. Il primo museo che ammise la
fotografia nel suo patrimonio fu fondato a Londra nel 1852. L’istituzione evidenziò l’impossibilità di
ignorare il nuovo mezzo (erano appena nate le invenzioni di Daguerre e Fox Talbot). Il museo aprì
subito uno studio fotografico permanente, guidato da Charles Thurston Thompson, che aveva il
compito di riprodurre opere della collezione per il suo inventario grafico. All’inizio incominciarono
ad arrivare al museo esemplari di arte decorativa (come dettagli architettonici o calchi di gesso).
Venivano fotografati e le copie messe in vendita o a disposizione delle scuole. In parallelo, fu
sviluppato un programma di acquisizioni di fotografie che dovevano fornire informazioni sulle opere
esposte nel museo. Nel 1882 venne creata una terza collezione di fotografie come parte delle
raccolte scientifiche del museo. Molti degli elementi selezionati finirono per dar luogo a quella che
sarebbe stata la collezione artistica. Thompson dovette quindi ingaggiare personale che doveva
occuparsi della crescente richiesta di documentazione fotografica. I lavoratori dei dipartimenti
fotografici erano identificati come “operatori”, non come “artisti” o “scienziati”.

Vid Ingelevics, fotografo canadese, è stato il curatore di un progetto ancora più ambizioso.
Nel 1994, assorto nella consultazione dell’archivio fotografico del museo in cui operava Thompson,
scoprì alcuni album di Roger Fenton, che aveva realizzato migliaia di fotografie di opere presenti in
varie collezioni, con lo scopo di creare un repertorio di schede fotografiche. Tra le più conosciute vi
erano alcune schede di anatomia, che riproducevano repliche di sculture classiche.
Originariamente queste schede, composte da negativi su vetro, furono portate al museo di
Thompson, per poi essere rispedite al British Museum, che le ha considerati un ingombro
svendendole come materiale di scarto. Ma paradossalmente, vent’anni dopo, il British avrebbe
acquisito alcune fotografie di Fenton di cui si era originariamente liberato, come ad esempio uno
scheletro di un uomo e di una scimmia). La stessa immagine si trovava conservata come opera
d’arte della collezione fotografica del museo e nell’archivio fotografico del seminterrato.

3. Vite spasmodiche

Dopo la scoperta Ingelevics realizzò un’installazione intitolata “Axis: a Tale of Two Stories”, che
avrebbe fatto parte della sua installazione presso il Museum of Modern Art di Oxford. Come un
sistema di coordinate mise sull’asse delle ascisse una serie di foto scattate da lui delle pagine
d’album che contenevano i Fenton-documenti, e nell’asse delle ordinate le riproduzioni dei Fenton-
opere d’arte, scattate dall’anonimo fotografo del museo. Nell’intersezione si trovava l’immagine che
riuniva l’affermazione e la negazione della possibile museificazione. Dalla proposta di Ingelevics si
evince che la macchina fotografica è arrivata ad instaurare una nuova cultura visiva. Il museo
appariva come una carcassa disfunzionale. La fotografia è giunta per dirci che alcune regole
devono cambiare.

Capitolo diciassettesimo La furia delle immagini

1. Foto indignate.

Nella primavera del 2011 la città di Barcellona è stata teatro di una serie di proteste popolari contro
il sistema politico. Nella Plaza de Catalunya i cittadini indignados si sono ritrovati per settimane
riunendosi per trovare proposte e discutere la situazione. Per il 22 maggio erano indette le elezioni
comunali in tutto il Paese. Fino al giorno delle elezioni i rappresentanti politici facevano
dichiarazioni in cui predicavano il rispetto dei diritti degli indignados. Dopo il voto, ovviamente, le
cose cambiarono. In quegli stessi giorni l’FC Barcellona, la squadra di calcio della città, avrebbe
disputato la finale di Champions League. Le autorità temevano che i festeggiamenti per
un’eventuale vittoria (che poi avvenne) avrebbe potuto causare conseguenze rischiose, se i tifosi si
fossero ritrovati faccia a faccia con i partecipanti all’occupazione. 450 agenti parteciparono
all’operazione, registrata da reporter e telecamere, rendendo evidente un accanimento nei
confronti di persone che non opponevano resistenza. Le immagini mostravano le forze dell’ordine
che trascinavano persone e le colpivano con manganelli. Il responsabile della catena di comando
accusò i mezzi d’informazione di una scarsa imparzialità. Secondo lui erano state omesse le
provocazioni nei confronti delle forze delle forze dell’ordine. I giornalisti hanno reagito chiedendo le
immagini delle registrazioni video che mostravano lo sgombero nella sua interezza. Si chiese
quindi al responsabile di visionarle. Lui rispose di essere troppo impegnato per poterle visionare,
ma che aveva avuto l’idea di incorporare nell’elmetto degli agenti una telecamera che registrerà le
loro azioni. Ovviamente non si rese conto che in tal caso avrebbe avuto più di un singolo filmato da
visionare. E se anche i manifestanti fossero stati muniti di telecamere ci sarebbero stati centinaia
di punti di vista.

L’artista canadese Steve Mann ha battezzato con il termine Sousveillance la prospettiva di


vigilanza “dal basso”, che permetterebbe di vigilare il vigilante. Un esempio di Sousveillance fu
affrontato da Hasan Elahi, professore universitario americano, che è stato incluso per errore nella
lista dei terroristi ricercati dall’FBI. Si è quindi auto monitorato da solo con il cellulare, inviando foto
e video all’FBI. Ai Weiwei, dissidente cinese ai domiciliari, ha installato videocamere di
sorveglianza all’interno di casa propria, ridicolizzando la sorveglianza alla quale era sottoposto
dall’esterno.

2. Il “robocop”- fotografo

Dopo l’episodio riguardante gli indignados, Steve Mann diede altri importanti contributi alla
fotografia computerizzata. Il suo repertorio di interfacce impiantabili, che uniscono tecnologia
cyborg a fotocamere dei cellulari, ne è solo un esempio. L’iniziativa del responsabile della catena
di comando della questione-indignados fornisce due riflessioni importanti: 1. Investiamo molto
più tempo nel fare fotografie che nel guardarle;
2. Esiste ancora una forte discrepanza tra i metodi di produzione digitale di immagini e i
metodi di lettura delle stesse. Gli ipotetici video girati dagli agenti durante le operazioni
richiederebbero un esercito di persone per visionarli.

L’artista iracheno Wafaa Bilal, professore di fotografia alla NYU, si è fatto impiantare
chirurgicamente una microcamera nella parte posteriore del cranio. Tramite connessione USB, il
sistema fotografava tutto ciò che si trova alle sue spalle, ad intervalli di un minuto, inviando le
immagini al Museo Arabo di arte moderna, che venivano viste in streaming. Per Bilal la fotocamera
sul cranio simboleggia ciò che ci si lascia dietro, le esperienze vissute.

La natura dell’uomo-videocamera ha una lunga tradizione nei film che anticipano il futuro (ad
esempio La morte in diretta). Di fatto, la realtà supera gli orizzonti partoriti dall’immaginazione degli
sceneggiatori: ne sono un esempio le esecuzioni in diretta fornitoci dallo Stato Islamico.

Il film The final Cut, del 2004, narra del Chip Zoe che, impiantato nel cervello delle persone fin
dalla nascita, ne registra l’intera vita. Alla morte il contenuto viene montato e proiettato durante il
funerale del defunto. Il personaggio interpretato da Robin Williams è il miglior montatore di
rememory: cancellando le colpe degli altri cerca di perdonare se stesso. Un giorno scopre nei
grovigli dei ricordi di un dirigente un’immagine della sua infanzia che lo ha tormentato tutta la vita,
e così comincia un viaggio verso la redenzione.

3. Fotografie: dal gregge al branco

Il denominatore comune di questi esempi sarebbe la nozione di frenesia: le immagini ci appaiono


come un flusso continuo, un corteo infinito. Il fenomeno dei memi cerca forme attive di
partecipazione collettiva che siano un inno alla trovata, all’assurdo, al gioco. Roy Arden è l’artista
che propone un’opera che consiste in una proiezione audiovisiva di diapositive sincronizzate
(28144 immagini catturate in internet) che ci ipnotizza per un’ora, 36 minuti e 50 secondi. Arden
fornisce la prova di una fascinazione precoce nella quale si è trasformata internet per i ricercatori
di immagini-tesori. L’opera è un’inno alla straordinaria diversità delle manifestazioni umane. Dina
Kelberman monta invece immagini affini per morfologia: la sua opera I’m Google è una reazione a
catena di immagini online, che tirano altre immagini secondo vincoli di parentela morfologica e
semantica.

Noah Kalina, artista newyorchese, ha iniziato all’età di diciannove anni a farsi un autoritratto ogni
giorno, rispettando sempre la stessa inquadratura. Montato il video, intitolato Everyday, al ritmo di
6 fotogrammi al secondo, presenta un percorso di invecchiamento che riguardano il nostro aspetto.
Questa formula si è moltiplicata in un’infinità di pratiche analoghe realizzate da altri internauti ed è
stata ripresa persino in una puntata de I Simpson.

Jean Gabriel Périot ci propone una narrazione simile, ma composta da migliaia di paesaggi: lo
spettatore fa un drammatico viaggio attraverso l’immagine. Durante il cammino si imbatte in
paesaggi diversi, ma tutto il tragitto finisce nei forni di Auschwitz, in una sorta di peregrinazione
dell’orrore.

4. Epilogo

Nelle opere enciclopediche le immagini occupano dunque una posizione passiva. Sul versante
della cascata delle immagini, invece, il movimento dona un significato.

In ogni caso la massificazione delle immagini ha sconvolto le regole con cui ci relazioniamo ad
esse. Diventa urgente disporre una nostra teoria delle immagini, se non vogliamo che i suoi effetti
ci sfuggano di mano. Perché risulta chiaro che abbiamo perso la sovranità sulle immagini, ed
è necessario recuperarla.

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