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Collana Divergenze

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Accade nella storia del pensiero che piccole differenze iniziali vadano
sempre più accentuandosi fino a rendersi molto intense e palesi, ap-
prodando così a profonde diversificazioni. Ma il “pensiero unico” che
propugna la “fine della storia” vuole normalizzare le “divergenze”.
Porsi ai confini della cultura omologata significa ricercare, divergendo,
diversità di orizzonti di senso.

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In copertina:
Saverio Mazzeo, Gianfranco La Grassa, meccanico del marxismo
Acrilico su tela, 30x40 cm, Gennaio 2016.

Piotr Zygulski,
Il meccanico del marxismo.
Introduzione critica al pensiero di Gianfranco La Grassa

ISBN 978-88-7588-???-?

Copyright
 2016
editrice
petite plaisance
Associazione culturale senza fini di lucro Chi non spera quello
che non sembra sperabile
non potrà scoprirne la realtà,
Via di Valdibrana 311 – 51100 Pistoia
poiché lo avrà fatto diventare,
Tel.: 0573-480013 con il suo non sperarlo,
C. c. postale 1000728608 qualcosa che non può essere trovato
www.petiteplaisance.it e a cui non porta nessuna strada.
e-mail: info@petiteplaisance.it Eraclito

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Piotr Zygulski

Il meccanico del marxismo


Introduzione critica
al pensiero di Gianfranco La Grassa

Postfazione di Augusto Illuminati

petite plaisance

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ALL’ALMA DI COSTANZO PREVE
MAI TROPPO GRATI
IMPERITURA MEMORIA

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Ringraziamenti

Innanzitutto sono molto grato al professor Gianfranco La Grassa per la


continua e cordiale disponibilità a rispondere ad ogni mia richiesta di de-
lucidazione e per la segnalazione di alcune sviste. Sono assai riconoscente
nei confronti dei dottori Giuseppe Viola, Vincenzo Romano, Gabriele
Mirone, Raffaele Caterino e Marco Schito che mi hanno prontamente
corretto i restanti refusi. Uno speciale ringraziamento va ai tanti amici di
Costanzo Preve e della Dialettica Comunitaria – soprattutto a Giacomo
Babuin che mi ha ospitato in Veneto e ad Alessandro Volpi per i consigli
stilistici – e a tutti coloro che mi hanno incoraggiato a procedere nella
stesura di queste pagine. All’artista Saverio Mazzeo, che per l’occasione
ha realizzato il quadro di copertina, grazie infinitamente. Per il supporto
bibliografico ringrazio il professor Nicolò Bellanca, il dottor Gianni Petro-
sillo, l’Istituto di Studi sul Capitalismo di Genova e la Biblioteca di Scuola di
Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Genova, in particolare nella
persona della dottoressa Laura Testoni.

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Introduzione

Il presente saggio nasce come elaborato finale – che un tempo veniva


chiamato “Tesi” – per il corso di Laurea Triennale in Economia e Com-
mercio. La discussione è avvenuta il 15 febbraio 2016 presso l’Università
degli Studi di Genova e il docente di riferimento – che sino a qualche
anno fa si usava battezzare “Relatore” – è stato il professor Riccardo
Soliani, di Storia del Pensiero Economico. Di comune accordo, si è deciso
di approfondire l’opera di Gianfranco La Grassa, economista veneto di
apprezzabile rilievo per il contributo che ha apportato – e che continua
ad apportare – nell’ambito della teoria marxista prima, e post-marxista
poi. Tuttavia, egli raramente egli è stato considerato nella manualistica
accademica, come ha notato con rammarico il marxologo francese André
Tosel (2008). Ci si è indirizzati su La Grassa per proseguire idealmente un
percorso che si era aperto con l’approfondimento delle idee del filosofo
torinese Costanzo Preve in occasione dell’esame di maturità, per il quale
era stata elaborata una corposa “tesina”, qualche mese dopo pubblicata
da Petite Plaisance con il titolo Costanzo Preve: la passione durevole della
filosofia (Zygulski 2012), cui sono seguiti altri due contributi confluiti in
un volume collettivo (Zygulski-Volpe 2014a) e all’interno della rivista
Educazione Democratica (Zygulski 2014b).
Ed è a Costanzo Preve, come si vedrà in seguito, che si deve l’appel-
lativo di “meccanico del marxismo” per definire il lavoro di La Grassa.
Diversamente da molti altri “marxisti”, infatti, il professore veneto non ha
voluto “rianimare” la teoria di Marx (e dei suoi epigoni) con nuovi aneliti,
speranze e desideri, bensì analizzarla, smontarla e tentare di rimontarla
con pezzi nuovi; quella vecchia carcassa, quindi, non necessita tanto di
nuovi autisti, quanto di un nuovo motore, per esplicitare la metafora.
La difficoltà principale però sta nell’individuare le parti difettose e nel
proporre sostituzioni efficaci; se poi con le modifiche attuate si tratti
sempre di una Trabant oppure la vettura sia stata talmente snaturata
da non esserlo più, è questione di identità e di labili etichette. Eppure
l’operazione del meccanico è indispensabile. A meno che, per comodità,
non si intenda salire per opportunismo sul bolide del vincitore dell’oggi;
seduzione storicistica alla quale né Preve né La Grassa hanno mai ceduto.

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Introduzione

I due si conobbero negli anni ’70 e la loro bibliografia si intrecciò sva-


riate volte, come si evince da alcuni volumi in cui compaiono entrambi
come autori (1982, 1983b, 1990b, 1994a, 1995a, 1995b, 1996a, 1997), sep-
pure con sezioni distinte, e da altri testi di La Grassa (2002a, 2003) che
riportano introduzioni firmate da Preve. Successivamente, una serie di
divergenze teoriche, accentuate dal carattere fortemente polemico dei
due professori, ha portato ad una rottura, in qualche modo ricomposta
solamente durante gli ultimi mesi di vita di Preve, che dal suo letto di
ospedale espresse riconoscenza e apprezzamento per il dono ricevuto
di quello che allora era l’ultimo libro di La Grassa (2013), continuando
ad attestare l’elevata stima che serbava per lui. Preve e La Grassa, nelle
convergenze e nelle divergenze, hanno avanzato proposte teoriche in-
novative per uscire dalle secche ove si sarebbe incagliato il marxismo,
ivi comprese le correnti “eterodosse” che ricevettero linfa anche dal loro
comune maestro Louis Althusser. Come il sociologo Gennaro Scala ha
osservato (2013), esiste una palese “complementarietà tra la filosofia
di Costanzo Preve e la teoria politica di Gianfranco La Grassa”: i due
studiosi sarebbero gli unici tra quelli di formazione marxista, perlo-
meno in Italia, ad aver portato avanti un radicale “ripensamento del
marxismo e dell’esperienza storica del comunismo, senza rinnegare la
propria storia o ricadere in un’ideologia pre-marxiana” ed evitando la
“difesa di un’ideologia cristallizzata, come nel caso dei tanti gruppetti
di «testimoni di Marx»”.
Infatti, a differenza di molte altre parabole di militanti, politici e teorici
– tra le quali è emblematica quella di Lucio Colletti1 – Preve e La Grassa
mostrano come sia possibile dar seguito ad una secessione personale dal
cosiddetto “popolo di sinistra” e mettere persino in discussione i cardini
teorici del marxismo e del pensiero marxiano, senza però abbandonare
uno sguardo critico nei confronti della totalità sociale in cui siamo gettati,
bensì prefiggendosi di “uscire dalla porta del marxismo”, e specificata-
mente quella. In altre parole, si tratta di procedere “con le categorie di
Marx” (1998f) “oltre Marx secondo Marx” (La Grassa-Turchetto 1978: 47).
Prendendo atto del fallimento non solo dell’esperienza conclusa del Co-
munismo Storico Novecentesco (cfr. La Grassa, Preve 1997), ma pure degli
innumerevoli tentativi di rinnovare il marxismo, La Grassa avvia la sua
“navigazione a vista” mantenendo saldi due riferimenti del marxiano
“porto in disuso” (cfr. 2015a) di partenza: “a) che la teoria di Marx resta
1
Per un approfondimento si veda ad esempio Tambosi (2001), affrontato criticamente in
Preve (2003: 131-137).

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Introduzione

comunque la più avanzata teoria critica dell’attuale formazione sociale


b) che essa tuttavia non può più rendere conto in modo adeguato della
sua struttura e dinamica essenziali” (1998a: 5).
L’articolazione del presente elaborato è pensata per aiutare il lettore
ad orientarsi nell’ampia produzione teorica di La Grassa senza trascu-
rare la congiuntura storica in cui si muoveva, indispensabile per una
valutazione corretta del suo pensiero (cfr. 2002a: 7). A tal fine, si avrà
innanzitutto un capitolo bio-bibliografico che sorvolerà sulle tematiche
da lui analizzate, facendo affiorare le intuizioni fondamentali emerse
nel corso degli anni. Parimenti, il capitolo successivo sarà introdotto da
un paragrafo dedicato alla teoria marxista nella lettura che ha portato lo
studioso a compiere un passo successivo. Quest’ultimo verrà illustrato
schematicamente nel secondo paragrafo, con le conseguenze di un
nuovo paradigma esplicativo fondato sulla congettura del “conflitto tra
strategie (e loro portatori, gli agenti) per la supremazia sociale” (2009: 99).
Nelle formazioni sociali capitalistiche esso peculiarmente si estende, per
mezzo delle imprese, nella sfera economica, ma anche in quella politica e
ideologica; ne saranno vagliate le significative ripercussioni. Sempre nel
medesimo capitolo si accennerà all’impostazione metodologica dell’au-
tore e al ruolo della scienza sociale per una teoria critica della società,
sotto la recente ipotesi di un flusso di squilibrio incessante che sarebbe
soggiacente al conflitto stesso. Infine, la terza parte tenterà di valutare la
portata del pensiero di La Grassa mediante un raffronto con altri autori,
da quelli che lo hanno maggiormente influenzato a quelli che si sono
accostati ai suoi testi, segnalandone i nodi da sbrogliare.
In tutto ciò, si è voluto mantenere un taglio critico per rifuggire ad
un tempo dalla riverenza ossequiosa e dalla irrispettosa sfrontatezza
nei riguardi di un siffatto pensatore, che lo scrivente, già in contatto con
lui sin dal 2011, ha avuto la possibilità di conoscere di persona lo scorso
novembre 2015 a Conegliano, in occasione del seminario organizzato
dai “lagrassiani” del blog Conflitti&Strategie.
Se è permessa un’osservazione addizionale, si precisa che il pre-
sente testo è il frutto di un autunno di studi sul materiale elaborato da
Gianfranco La Grassa in ottantun anni d’età, di cui quasi cinquanta di
pubblicazioni. Nell’impossibilità di reperire l’opera omnia del professo-
re, sono stati individuati circa trenta titoli che ho letto integralmente in
ordine cronologico, al fine di averne una panoramica e di evidenziare
meglio lo sviluppo del pensiero dell’economista veneto, come si cercherà
di fare nella prossima parte.

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Capitolo I

Vita e opere

Gianfranco La Grassa è nato nel 1935 a Conegliano, nella provincia


veneta di Treviso, da una famiglia con ascendenze sicule. Dal settembre
del 1953, ultimo anno delle superiori – reduce da un mese a Palermo,
dove restò affascinato, frequentando una libreria, dai volumi di Karl
Marx e di Iosif Stalin, morto qualche mese prima – aveva iniziato a pro-
fessarsi comunista e sostenitore del PCI, del quale cominciò a prendere
parte assiduamente alle riunioni, tuttavia senza mai tesserarsi. Nel 1954
conseguì il diploma presso la storica scuola enologica di Conegliano
e, compiuto un anno di gavetta all’interno di un’azienda vinicola a
Bologna, andò a lavorare per alcuni anni nel settore tecnico-produttivo
dell’industria del padre, che metteva sul mercato vini e vermut. In quel
periodo si iscrisse all’Università di Venezia, ma non ne seguì le lezioni;
fu uno scambio epistolare con Antonio Pesenti che lo convinse, nel 1959,
a trasferirsi all’Università degli Studi di Parma, in cui l’allora senatore
PCI aveva la cattedra di Scienza delle Finanze e di Diritto Finanziario.
Nel frattempo l’appartenenza ideale di La Grassa al PCI si stava
incrinando; egli si era sempre mostrato contrario alla “via italiana al
socialismo” proposta dal segretario Palmiro Togliatti e la cosiddetta de-
stalinizzazione inaugurata con il XX congresso del PCUS non incontrava il
suo entusiasmo. In tale “svolta” di Nikita Chruščëv che attribuiva errori
e crimini unicamente alla persona di Stalin, La Grassa continuava a rav-
visare i metodi stalinisti; si accostò dunque alle posizioni del maoismo.
Dovettero però passare altri avvenimenti storici – tra cui la Conferenza
di Mosca degli 81 partiti comunisti (novembre 1960) e la crisi dei missili
di Cuba (ottobre 1962) – per convincerlo a prendere le distanze dal PCI
nella primavera del 1963, al termine di una serrata riunione di partito
col Comitato Federale di Treviso. Come conseguenza, si mise a scrivere
ciclostilati di analisi politica con i quali muoveva accuse di “neorevisio-
nismo” al PCUS e al PCI, scorgendone l’appoggio alla grande borghesia
(cfr. 2002a: 14), e non solo a quella “piccola”, come ripetevano molti
critici extraparlamentari. Si avvicinò alle Edizioni Oriente di Milano – ne
faceva parte Mario Geymonat, figlio di Ludovico – che si occupavano
della traduzione e della diffusione in Italia di testi maoisti cinesi, eppure

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Capitolo I

evitò la diretta militanza nelle sigle marxiste-leniniste italiane che, a suo


dire, mostravano un livello di analisi teorica del tutto insufficiente e una
prassi politica grossolana.
Tornando agli studi universitari, nel luglio 1964 La Grassa si laureò
con lode in Economia e Commercio discutendo la tesi Modelli di sviluppo
e dualismo in un’economia, che ottenne un premio attribuitogli dalla rivista
della Confindustria; allora Pesenti si era spostato all’Università di Pisa,
dove fu chiamato a insegnare all’interno della facoltà di Giurisprudenza.
Il professore, dopo aver annunziato al padre del neolaureato la volontà
di averlo al suo fianco, fu raggiunto da Gianfranco già nel novembre del
1964 in qualità di assistente volontario – e poi di ruolo, dalla primavera
del 1968 – di Economia Politica; in quel periodo, La Grassa frequentò
un corso di specializzazione allo SVIMEZ, un dottorato di ricerca ante
litteram.
Risale al 1970 la sua prima opera di rilievo, ovverosia l’appendice
microeconomica ai due tomi del Manuale di Economia del Pesenti, uscito
con gli Editori Riuniti prima che La Grassa partisse per la Francia. Infatti,
nel biennio parigino 1970-1971, presso la sezione di Scienze Economiche
e Sociali dell’École pratique des hautes études (EPHE) – nel 1975 divenuta
École des hautes études en sciences sociales (EHESS) – egli seguì i corsi di
Charles Bettelheim sul libro che l’economista francese aveva appena fatto
uscire con il titolo Calcolo economico e forme di proprietà (Bettelheim 1970),
approfondendo pure le tematiche della scuola althusseriana; da allora
continuò a recarsi a Parigi quasi annualmente sino al 2005, coltivando
amicizie anche con Georges Labica, Jean-Marie Vincent, Jacques Texier
e Bernard Chavance, allievo principale di Bettelheim.
Tornato in Italia, nel 1972 divenne professore incaricato a Pisa e ini-
ziò a collaborare con numerose riviste, tra cui Ideologie diretta Ferruccio
Rossi-Landi, Utopia di Mario Spinella, Che Fare di Francesco Leonetti,
Problemi del socialismo di Lelio Basso, e soprattutto Critica Marxista, l’or-
gano teorico del PCI; pur non essendone un simpatizzante, dopotutto,
il giovane docente manteneva buoni rapporti con le dirigenze, in virtù
delle apprezzate collaborazioni con il suo maestro, che nel 1973 venne
a mancare. In tali interventi, La Grassa condusse attenti studi dei testi
di Marx letti in chiave althusseriana – “ma con sostanziale originalità”
(Bellanca 2008) – per portare avanti una critica al codice ideologico
storicistico imperante nel marxismo italiano e offrire il suo apporto al
dibattito incendiato da un articolo di Emilio Sereni, cui risposero Cesa-
re Luporini e molti altri, generando discussioni quasi “teologiche” di

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Vita e opere

elevato livello. Su patrocinio di Giorgio Amendola, all’interno di Critica


Marxista si crearono alcuni gruppi di studio indirizzati ai diversi modi di
produzione: quello schiavistico (coordinato da Aldo Schiavone), quello
asiatico, quello feudale e quello capitalistico. In tale periodo si collocano
tre saggi che La Grassa pubblicò con gli Editori Riuniti (1973a, 1975,
1977); in particolare, il primo è una serie di interventi eterogenei ove
si ricerca “la concezione più generale e basilare che fa da impalcatura”
alla teoria marxiana, individuata nella centralità “della forma delle re-
lazioni fra produttori (rapporti sociali di produzione2)”. In altre parole,
“l’articolazione complessiva del modo di produzione” sarebbe data dalla
“forma dei rapporti sociali di produzione (e la conseguente struttura
di classe della società), entro cui si attua la produzione dei beni” (1973:
9-10). Rapporti di produzione (“forma”) e forze produttive (“contenuto”)
interagiscono reciprocamente, tuttavia si sottolinea che “ogni direzione
e ogni tipo di sviluppo, a loro volta, riproducono e rafforzano una certa
struttura dei rapporti sociali di produzione, delle relazioni tra le clas-
si” (1973: 26). Il modo di produzione, che ingloba entrambi gli elementi,
risulta difficilmente connotabile quando si è all’interno di una fase di
passaggio – la cosiddetta “transizione” – verso un sistema differente,
quando forze e rapporti entrano in “contraddizione” tra loro (1972a:
93-95). In tale circostanza, il concetto leniniano di formazione economico-
sociale sarebbe uno strumento valido per designare “un complesso di
modi di produzione” (1972a: 93-95) – si pensi alla presenza contestuale
di produzione artigianale indipendente e di lavoro salariato – tra i quali
uno è dominante e gli altri subordinati ad esso3.
Nel 1978 il sodalizio con l’allieva Maria Turchetto – laureatasi a Pisa
nel 1976 – lo porterà ad una disamina del socialismo reale nel volume
Dal capitalismo alla società di transizione, all’interno del quale il debito
nei confronti di Bettelheim, “costante punto di riferimento teorico”, è
esplicitato sin dalla dedica, che lo celebra quale “unico studioso e comu-
nista che abbia dato un contributo decisivo a un’analisi rigorosamente
marxista della transizione” (1978: 7). Sottolineando l’importanza per
Marx della “struttura delle relazioni sociali di produzione” (1978: 274),

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Per il concetto di “rapporti di produzione” si rimanda ad Althusser (1968: 182-183).
3
Per un tentativo di critica si veda Nicola Simoni (2008: 131 e sgg.); per quanto riguarda la
debole accusa di porre “di fatto sullo stesso piano forze produttive e rapporti di produzi-
one” (ivi: 132), anche qualora non fosse smentita dal medesimo testo, sarebbe sufficiente
sfogliare i saggi immediatamente successivi, ove si insiste molto sulla centralità teorica
dei rapporti di produzione.

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Capitolo I

gli autori rigettarono sia l’economicismo “pseudomaterialistico” foca-


lizzato sullo sviluppo delle forze produttive, sia l’empirismo soggettivi-
stico che profetizza un “uomo nuovo” tentando ibridazioni “con le più
svariate mode ideologiche borghesi” (1978: 10). Analogamente, essi non
credettero alle supposizioni, “estremamente politicistiche, del comando
globale da parte del Capitale, vero Moloch, entità supposta unitaria e
compatta, dotata di automovimento coscientemente pianificato” (1994b:
114), concezione presente in molti documenti di quell’epoca. Differen-
ziandosi in parte dalla scuola althusseriana e operando una “parziale
revisione autocritica” (1978: 35), La Grassa giunse ad affermare che la
collocazione dei rapporti capitalistici sarebbe insita non tanto nella “do-
minanza politico-ideologica” (2002a: 138, cfr. 1978: 50), quanto nelle forze
produttive, “nel preciso senso che l’articolazione tecnico-organizzativa
del processo di lavoro è la forma di esistenza empirica di tali rapporti,
è il supporto materiale della loro riproduzione” (1978: 43). La divisione
sociale del lavoro sarebbe quindi “sussunta sotto quella tecnica” (1978:
44); per una ipotetica “transizione” al socialismo sarebbe innanzitutto
indispensabile “una radicale ristrutturazione dell’intera articolazione
tecnica e organizzativa dei processi di lavoro” che elimini la scissione
tra “lavoro intellettuale e manuale” e tra “direzione” ed “esecuzione”
(1978: 235). Sempre nello stesso testo, “l’aspetto essenziale e dominante
della riproduzione del rapporto di produzione capitalistico” venne in-
dicato nel “continuo «approfondimento» dello stesso” dovuto ad una
serie di fattori, tra cui il “continuo aumento del comando (dominio) del
capitale sul lavoro (comando inscritto nella forma materiale dei processi
lavorativi)” (1978: 46). Tra le intuizioni sviluppate più recentemente, nel
commentare le Glosse a Wagner (Marx [1880] 1975: 1476) riconobbe che
“il capitalista è egli stesso «funzionario» della produzione, naturalmente
nella sua forma capitalistica; è dunque «funzionario» del capitale” (La
Grassa-Turchetto 1978: 56).
Nel 1979 La Grassa ottenne una cattedra all’Università Ca’ Foscari
di Venezia e sino al 1981 mantenne anche quella di Pisa. Veniamo dun-
que agli anni Ottanta, un decennio che vide nel 1985 l’ascesa di Michail
Gorbačëv nell’URSS; nonostante i fervori e le speranze di molti – compre-
so Bettelheim – che pensavano ad una reale possibilità di democratizza-
zione del socialismo reale, il Nostro invece (pre)vide la fase liquidatoria
dell’intero “baraccone”, cosa che avvenne puntualmente. In questo pe-
riodo, dopo una breve esperienza nel circolo di Ludovico Geymonat con
Francesco Leonetti e Aurelio Macchioro, l’economista veneto fondò nel

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Vita e opere

1983 a Milano il Centro Studi di Materialismo Storico (CSMS), frequentato


da una decina di marxisti italiani, con i quali curava una collana edita
da Franco Angeli. Per continuare a contrastare l’economicismo, l’influsso
indiretto di Renato Panzieri – senza però mai condividerne l’operaismo
(cfr. La Grassa 1982: 204) né l’“estensione del piano capitalistico dalla
fabbrica alla società” (1985a: 107) – spinse La Grassa a porre una sempre
maggiore enfasi sulle nuove tecnologie e sull’organizzazione del proces-
so di lavoro, come mostra tutta la bibliografia di questo periodo, sino a
giungere alla stesura de Il capitalismo lavorativo e la sua ri-mondializzazione
(1990), scritto con l’allievo Marco Bonzio, toltosi la vita qualche anno
dopo. Tra i punti maggiormente interessanti di quegli anni vi è l’attenzio-
ne verso il processo “di trasformazione del sistema capitalistico”: una vera
e propria “crisi” che avrebbe portato quel modo di produzione non ad un
crollo catastrofico, ma ad una sua “disarticolazione e «decentramento»”
(1983a: 15). Si iniziava perciò a parlare di “strategie pluridirezionali”
che complicherebbero la concezione del conflitto tra classi (1983a: 24)
e di “squilibrio” quale regola dell’“anarchia del mercato” (1983a: 19).
La Grassa continuò ad approfondire i vari movimenti “orizzontali” e
“verticali” insiti nelle dinamiche strutturali del capitalismo, concepito
quale modo di produzione in cui il dominio “entra immediatamente nel
processo di estrinsecazione dell’attività lavorativa” (1986a: 36). Nondi-
meno, l’attenzione venne gradualmente spostata dall’orizzontalità della
parcellizzazione dei processi lavorativi ad un meccanismo impersonale
(cfr. La Grassa-Bonzio 1990: 71) di separazione tra direzione ed esecu-
zione (cfr. 1986a: 37) che porta ad ulteriori scissioni successive sempre
più complesse e “in conflitto reciproco” (1986a: 81), e non ad una pola-
rizzazione tra borghesia e proletariato (cfr. 1986a: 52). Nonostante ciò,
l’autore continuava a definirsi “uno dei non molti marxisti non pentiti
rimasto in circolazione” (1986a: 89).
Successivamente La Grassa – nel frattempo erano crollati il Muro di
Berlino e l’URSS – lavorò al carteggio tra Charles Bettelheim e Paul M.
Sweezy, curandone l’introduzione all’edizione italiana (1992). Per di più
si rivelò un’occasione per riflettere sulla “miserevole fine della «costru-
zione del socialismo»” (1994b: 19) che, in un’ottica bettelheimiana, sa-
rebbe dovuta sostanzialmente alla permanenza del modo di produzione
capitalistico non adeguatamente trasformato. Si sarebbero mantenute,
infatti, la divisione tra dominati e dominanti e la separatezza conflit-
tuale tra le unità produttive sotto una coltre economicistica di proprietà
collettiva (giuridicamente espressa, senza potere di disposizione reale) e di

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Capitolo I

pianificazione formale (cfr. 2004: 34); la cosiddetta transizione – avviata,


ma presto regredita in seguito all’ascesa della nuova classe dominante –
sarebbe stata un’intensa modalità alternativa di accumulazione originaria
capitalistica, per dirla con Marx.
Il CSMS si sciolse verso il 1993; negli anni successivi La Grassa iniziò
a collaborare più ravvicinatamente con il filosofo Costanzo Preve, ex
dirigente di Democrazia Proletaria, prendendo parte ai seminari estivi
a Carrara organizzati dall’associazione culturale Punto Rosso di Milano,
contigua al neonato Partito della Rifondazione Comunista. I due pro-
fessori – che, per bocca di Preve, si definivano “marxisti e comunisti,
ma non più di sinistra” (1994b: 9) – diedero vita ad appunti teorici e di
commento all’attualità politica, stampati dalla medesima associazione e
dalla casa editrice Vangelista, per la quale si tentò una reinterpretazione
del “nuovo capitalismo” nell’ipotesi di una tripartizione dei raggruppa-
menti sociali: proprietari, imprenditori-manager e lavoratori subordinati
(cfr. 1994b: 92).
Nel 1996 La Grassa si ritirò dalla docenza universitaria e diede alle
stampe due opere sostanziose: La fine di una teoria (con Costanzo Preve,
1996a) e Lezioni sul capitalismo (1996b), in cui, anche a livello di chiarez-
za linguistica, la presa di distanza dal marxismo fu ancora più netta;
in buona sostanza, ne ammise il fallimento “radicale e irreversibile”
dovuto ad “una interpretazione del capitalismo che […] si è rivelata
largamente inesatta nel corso dell’ulteriore sviluppo di tale modo di
produzione” (1996b: 10). All’interno di questo lavoro troviamo la con-
statazione dell’esaurimento della borghesia e della classe operaia (cfr.
1996b: 52), l’alternarsi di fasi di sviluppo ciclicamente ricorsive (cfr. 1996b:
100) e la cruciale distinzione tra fabbrica e impresa (cfr. 1996b: 55-56), che
esamineremo nel capitolo seguente. Due anni più tardi egli riconobbe
senza sottintesi l’impossibilità di una “revisione e riformulazione del
marxismo dall’interno dello stesso” e quindi l’esigenza di uscirne “senza
rinnegarlo” (1998a: 5). La Grassa approfondì dunque le tematiche relative
alle ricorsività tra periodi di monocentrismo e policentrismo, compreso
quello incipiente (cfr. 1998a: 88), alle teorie dell’impresa (1998c) in rap-
porto con lo Stato (1999c), a quelle della crisi (1999a), palesando altresì
interessi epistemologici e di metodo (cfr. 1996b: 11; 1996c). Libero dalla
costrizione di certi stilemi marxistici e accademici, nel commento degli
avvenimenti politici e geopolitici di quegli anni – che videro la parte-
cipazione del PRC al primo Governo Prodi e l’aggressione NATO alla
Jugoslavia avvallata anche dal primo Governo D’Alema con il sostegno

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Vita e opere

del PdCI – si accesero le divulgazioni pamphlettistiche (1999b). L’autore


mise per iscritto un suo netto

“[…] rifiuto ed una aperta rottura con la cultura dominante della


sinistra odierna, o apertamente filocapitalistica (rappresentando
politicamente il capitalismo peggiore, quello del grande capitale
imprenditoriale e finanziario) o incapace di almeno reiniziare a pen-
sare a un anticapitalismo che non sia miserabilista e quasi religioso
(comunque moralistico e “romantico”) oppure fermo alle sclerotiche
e ormai inefficaci analisi e prescrizioni politiche di un tempo; e che
spesso avevano assai poco di marxismo” (1998a: 7).

Dopo aver chiarito cosa lo avesse spinto all’autocritica nei confronti


delle precedenti tesi sul capitalismo lavorativo – non “un semplice rinnega-
mento del lavoro svolto in quegli anni” (2002a: 65), bensì il rimarcarne la
mancanza di una “corretta sintesi teorica” (2002a: 72) da svolgersi “fuori
dalla corrente” del marxismo – le pubblicazioni del nuovo millennio
rappresentarono una fucina orientata all’individuazione di nuovi fon-
damenti interpretativi. Si ebbero infatti alcune ricognizioni del concetto
leniniano di imperialismo (cfr. 2003) rivisitato nell’ottica delle ricorsività di
fase e la proposta di un nuovo paradigma basato sul conflitto strategico (cfr.
2004, 2005a, 2005b) – soprattutto tra dominanti (cfr. 2002a: 266) – sancito
e, seppur a grandi linee, reso coerente ne Gli strateghi del capitale (2005c).
Qui il comunismo fu ridotto ad una semplice scommessa pascaliana, ferma
restando, per l’autore, la necessità di “coltivare la speranza e il desiderio di
comunismo, continuando a battersi per esso; senza però sostenere che
esso è indubitabilmente inscritto nel nostro futuro” (2005c: 23-24).
Nel medesimo anno gli scritti di La Grassa approdarono sul web con
il portale Ripensare Marx, confluito poi nel blog Conflitti&Strategie, dove
il commento degli avvenimenti congiunturali in ambito politico ed
economico prevale sugli scritti più astrattamente speculativi. Di essi, lo
spazio online costituisce comunque un incubatore e un mezzo per stimo-
lanti discussioni con i suoi lettori; le riflessioni che resistono al logorio
del tempo, invero, vengono sistemate e fatte uscire in forma cartacea
(cfr. 2008a). La recente crisi economica internazionale non è riuscita
a scalfire l’impianto teorico del pensatore veneto, che dedicò al ruolo
della finanza un’opera in cui la descrisse come “un fattore fra altri, non
isolabile, dello scontro per la supremazia fra i gruppi dominanti” (2008b)
e alcune sezioni di un saggio dell’anno seguente (2009) per concentrarsi
nuovamente sulle tendenze di fondo nelle trasformazioni dei rapporti

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Capitolo I

sociali, con elementi ricorrenti (il “tutto torna”) e peculiarità da cogliere


nella loro specificità (“ma diverso”).
Risale al 2010 un libro in cui La Grassa dimostra che il suo interesse
filologico per la lettera marxiana non si era mai assopito. A differenza
dei primi anni ’70 non vi è più l’esigenza di credere in quanto scritto
dal rivoluzionario di Treviri fino a forzarne l’esegesi di qualche citazio-
ne; ora può coglierne tutti gli abbagli e i limiti non ancora avvertiti dai
“rigido-marxisti” (2010a: 58). L’economista di Conegliano, negli ultimi
anni, continua ad insistere sulla necessità di una “fuoriuscita da Marx”
cambiando passo teorico (2010a: 69); al contempo manda “a casa filologi
e dottrinari” (2010a: 91) in nome dello spirito scientifico marxiano, al
quale pensa di essere maggiormente fedele rispetto ad essi.
Nel volume Oltre l’orizzonte, ben strutturato, si parla di due disve-
lamenti: il primo, operato dalla teoria del valore marxiana, riguarda lo
sfruttamento nascosto dalla forma merce che consente lo scambio tra
capitale e lavoro come se fossero equivalenti; il secondo è invece quello
che l’autore cerca di compiere, mostrando “la centralità della politica, nel
senso della lotta di strategie per prevalere, anche nella sfera economica”
(2011: 68). Scorrendo le pagine, salta agli occhi, lapidaria, una sentenza:
“per me, comunismo e marxismo sono morti” (2011: 79); precedentemen-
te, egli aveva considerato il comunismo come una remota eventualità
statistica, “come lo è quella che entro qualche milione di anni la terra
venga centrata da un meteorite di grandezza sufficiente ad annientarla.
Temo anzi che questa eventualità goda di probabilità superiori a quella
del comunismo” (2006b: 123).
Nel 2013 esce L’altra strada, in cui, con minore sistematicità, si ripercor-
rono nuovamente i temi delle opere precedenti, designando lo “squilibrio
immanente alla realtà” (2013: 58) quale prius oggettivo che potrebbe
essere in grado di spiegare la dominanza del conflitto intersoggettivo
(cfr. 2013: 49). Attorno a questo squilibrio ruota l’ultima fatica (2015b),
mentre in quella precedente (2015a), che parte da una determinazione
della problematica studiata da Marx, La Grassa innanzitutto ne legittima
il tentativo di una teoria della società posta su basi scientifiche, per poi
sondare la natura delle crisi e dei conflitti odierni mediante un’applica-
zione del paradigma del conflitto strategico.
Questo capitolo probabilmente è stato di impatto straniante per il
lettore non uso alle tematiche trattate, ma si auspica che l’inquadramento
storico-temporale dello studio lagrassiano possa guidare la compren-
sione del capitolo seguente. Come si è potuto notare, nel condurre tale

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Vita e opere

perlustrazione si sono evitate periodizzazioni con cesure troppo nette e


“rotture epistemologiche”, privilegiando la continuità dell’elaborazione
del (post)marxista veneto e la presenza in nuce, sin dalle prime riflessioni,
di elementi poi sviluppati in vesti nuove. Ovviamente è possibile attuare
schematizzazioni alternative più drastiche (cfr. Preve 2004) che possano
compendiare il tutto sostanzialmente in tre fasi: marxismo critico, capi-
talismo lavorativo, conflitto strategico.

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Capitolo II

Il pensiero di Gianfranco La Grassa

1. Karl Marx: l’inevitabile porto di partenza

“Die Geschichte aller bisherigen Gesellschaft ist die Geschichte von Klassenkämpfen”
“La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi”
Marx-Engels (1848)

1.1. La teoria marxiana del (plus)valore: meriti di un primo disvelamento


Lo scopo precipuo di questa sezione non è ricostruire nei dettagli
il pensiero di Karl Marx, ma fornirne alcune coordinate marxiane di
base per poter poi saggiare la pertinenza delle critiche e delle proposte
alternative avanzate da La Grassa. Utilizzando le parole del professore
veneto, si tratta di una “ricognizione del porto di partenza” (La Grassa
2015a: 39-83) prima di intraprendere nuove rotte. Per questo motivo si
rifuggirà da un’eccessiva filologia dei testi del pensatore tedesco – sempre
puntuale e diffusa negli studi lagrassiani – o ulteriori ricerche attorno ad
un supposto “vero” Marx. Qui ci si accontenterà dell’esposizione fornitaci
direttamente da La Grassa, pur non esente da perplessità, come si potrà
osservare nel terzo capitolo.
Innanzitutto si pone un quesito preliminare: chi fu Marx? Il ritratto
che scaturisce dalla ricostruzione lagrassiana è quella di uno “scienziato
e rivoluzionario nel contempo” (La Grassa 2005c: 55) – si evitino forza-
ture in un senso o nell’altro (cfr. La Grassa 2005c: 32) – il quale avrebbe
rappresentato l’“evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza”, per
riprendere un’espressione engelsiana (Engels 1882; cit. in La Grassa 2005c:
51). Invero, anziché pensare alla pianificazione nei dettagli di una società
futura4, egli volle analizzare scientificamente le caratteristiche strutturali
della società del suo tempo e le condizioni di possibilità per una ridefini-
zione dei rapporti di classe. Nel fare ciò, fu convinto di aver individuato
alcune dinamiche intrinseche al modo di produzione capitalistico che
4
Il rimprovero che la Revue Positiviste avanzò a Il Capitale di Marx è quello di non aver
fornito “ricette (comtiane?) per l’osteria dell’avvenire” [“Recepte (comtistische?) für die
Garküche der Zukunft zu verschreiben”] (Marx 1872: 818).

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Capitolo II

avrebbero portato alla trasformazione comunista della società. Così ci si


sarebbe lasciati alle spalle la (prei)storia in cui vertevano tutte le società
precedenti – si veda la citazione che apre questo paragrafo, una “storia
di lotte di classi” (Marx-Engels 1848: 3) – per giungere alla vera e propria
storia, caratterizzata da un’armonica pace sociale (cfr. La Grassa 2005c:
52; 2013: 49) senza più alcun tipo di sfruttamento.
Per sottrarsi all’utopismo, Marx riteneva indispensabile una rappre-
sentazione metodicamente costruita che, nel pensiero, potesse riprodurre
la realtà “nella sua esatta strutturazione essenziale” (La Grassa 2013: 49)
ed esplorarne gli svolgimenti. Egli, in concreto, aprì alla scienza “un
nuovo «continente», quello della storia” (Althusser 2008: 223); a detta di
La Grassa, tale scoperta rappresenterebbe uno “spartiacque” dal quale
“la scienza sociale non può tornare indietro” (La Grassa 1998a: 28). In
questo modo si spiegano le stroncature marxiane nei confronti dei molti
utopisti che pure lavoravano per la causa socialista ma prescindendo
dall’esame rigoroso della materia storica; come riporta Giovanni Giraldi,
lo scienziato sociale tedesco “disprezzava Proudhon, Cabet, Fourier,
Ledru-Rollin, specie Bernstein” (Giraldi 1990: 6).
Se è indubbia la familiarità nel maneggiare gli strumenti degli econo-
misti classici – in particolare Smith e Ricardo – il rivoluzionario di Treviri
aveva finalità assai differenti da essi (cfr. La Grassa 1973a, passim), in
primis la critica della totalità sociale, a partire dalla “critica dell’economia
politica” (La Grassa 2005c: 33; cfr. La Grassa 1989b, 1994a, 1994c). Essa non
è solamente una proposta di emendamento delle teorie dominanti (cfr.
La Grassa 2006b), ma una vera e propria de-eternizzazione dei rapporti
sociali che l’economica del suo tempo aveva “naturalizzato”, statuendo
“leggi” sottratte allo scorrere del tempo: “Così c’è stata storia, ma ormai
non ce n’è più”5. Occorre precisare che l’oggetto dell’analisi marxiana, il
modo di produzione capitalistico, non è il mero “scambio mercantile” (La
Grassa 2005c: 36) – come talvolta si crede, riducendo il capitale ad una
cosa, o all’insieme di mezzi produttivi, o alla finanza, oppure ancora al
processo produttivo – bensì primariamente un “rapporto sociale”, coe-
5
“Dicendo che i rapporti attuali – i rapporti della produzione borghese – sono naturali,
gli economisti fanno intendere che si tratta di rapporti entro i quali si crea la ricchezza e
si sviluppano le forze produttive conformemente alle leggi della natura. Per cui questi st-
essi rapporti sono leggi naturali indipendenti dall’influenza del tempo. Sono leggi eterne
che debbono sempre reggere la società. Così c’è stata storia, ma ormai non ce n’è più. C’è
stata storia perché sono esistite istituzioni feudali e perché in queste istituzioni feudali si
trovano rapporti di produzione del tutto differenti da quelli della società borghese, che
gli economisti vogliono spacciare per naturali e quindi eterni” (Marx [1847]: II, 1).

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Il pensiero di Gianfranco La Grassa

rentemente con quanto già l’economista classico Edward G. Wakefield


aveva notato, con l’approvazione di Marx6. Dopo un’accurata indagine
della formazione del rapporto sociale capitalistico, evidenziando i pro-
cessi storici “decisivi” (La Grassa 1980a: 53) dell’accumulazione originaria,
dalla sottomissione formale alla sottomissione reale del lavoro al capitale7,
Marx scorge una forma di sfruttamento, sottilmente celata, che è possibile
far emergere applicando la teoria del valore lavoro formulata dagli econo-
misti borghesi. Nel modo di produzione vi sono due parti – il possessore
dei mezzi di produzione e il possessore della capacità di lavoro (detta
“forza-lavoro”) – che, differentemente da altri modi di produzione, si
scambiano ciò che hanno in condizioni di piena libertà8, contrattazione
permessa dalla forma merce generalizzata.
Di fatto, nel capitalismo il possessore della (sola) forza-lavoro è
formalmente assolto dalle catene servili e da qualsivoglia dipendenza
personale (cfr. La Grassa 2011: 14), tuttavia se intende sopravvivere
è costretto a vendere la propria capacità lavorativa – all’equivalente
(prezzo di mercato che gravita attorno alla media del valore9) di mer-
ce – che in potenza già contiene pluslavoro, il quale poi diverrà (plus)
valore (cfr. La Grassa 2015a: 33-35). La genesi del pluslavoro va ricercata
nella capacità dell’uomo di produrre di più rispetto al salario, composto
dalle risorse che gli abbisognano per la vita in società. A tal proposito

6
“Ha scoperto che il capitale non è una cosa, ma un rapporto sociale fra persone mediato
da cose” (Marx 1872: I, VII, 25). Altrove Marx scrisse che un macchinario in sé è un sem-
plice macchinario: solo se inserito nel rapporto storico sociale di produzione capitalistico
diventa capitale (cfr. Marx 1849).
7
Nella sottomissione (detta anche “sussunzione”) di tipo formale, in cui si generava
pluslavoro e plusvalore assoluti (ad es. da allungamento della giornata lavorativa; cfr.
La Grassa 2015a: 30) i lavoratori, pur non essendo proprietari dei mezzi produttivi, pos-
sedevano le conoscenze tecniche per produrre; nella sottomissione reale, in cui è divenuto
centrale il pluslavoro/plusvalore relativo (ad es. da innovazioni tecnico-organizzative
che aumentano la produttività del lavoro), i produttori hanno perso le conoscenze e si
pongono “in posizione realmente subordinata rispetto a chi possiede la preparazione tec-
nica e direzionale più complessiva” (La Grassa 1985a: 53).
8
Nella superficialità del mercato vige “la più completa parità di diritti, sancita dalla leg-
ge; coloro che la conculcano o aggirano mediante inganni vari sono in linea di principio
passibili d’essere perseguiti legalmente e condannati senza riguardo al loro status” (La
Grassa 2013: 164).
9
Pari al tempo di lavoro incorporato (cfr. Marx 1872: I, III, 5) nei beni necessari alla sus-
sistenza storico-sociale del lavoratore; esistono “attriti”, ma nell’ipotesi marxiana il salario
oscilla attorno alla media del valore della forza lavoro che ne giustifica il prezzo, pur
elevandosi tendenzialmente nel corso del tempo con lo sviluppo dei bisogni sociali (cfr.
La Grassa 2015a: 45-46).

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Capitolo II

La Grassa riconosce che Marx, sebbene accetti l’idea degli economisti


classici secondo cui il valore delle cose sarebbe dato dalla quantità di
lavoro, opera un’importante distinzione tra forza-lavoro in potenza e lavoro
in atto10 che ne rappresenta l’estrinsecazione (cfr. La Grassa 2015a: 39).
La merce decisiva, in questo specifico modo di produzione, sarebbe la
forza-lavoro (cfr. La Grassa 2011: 15), vale a dire l’“energia lavorativa”
insita nella corporeità del lavoratore (cfr. La Grassa 2015a: 41).
Il contratto che si stabilisce tra quest’ultimo e chi possiede i macchinari
– entrambi individui eguali di fronte alla legge – attribuisce al proprie-
tario delle condizioni oggettive della produzione il diritto di impiegare
la capacità lavorativa dei suoi dipendenti nella produzione, realizzando
nella fase dello scambio del prodotto il sopraindicato plusvalore; nel caso
più comune si ha plusvalore di tipo relativo, quando a parità di lavoro,
pagato al suo valore esatto – anche senza commettere alcuna ingiustizia
verso il lavoratore – aumenta il prodotto complessivo (e perciò i profitti)
scongiurando la compressione del salario in termini assoluti. Del plu-
svalore ne beneficia unicamente il proprietario dei mezzi e non chi ha
lavorato: ecco l’iniquità, ecco lo sfruttamento.
Questo è l’occultamento (il cosiddetto feticismo, in termini marxiani)
operato dalla merce, che sin dallo scambio di equivalenti (mezzi di
produzione contro forza-lavoro) sul mercato del lavoro nasconde lo
sfruttamento e la diseguaglianza mostrandosi sotto forma di libertà ed
eguaglianza (cfr. La Grassa 2015a: 80); in questo inganno starebbe la gran-
de resistenza nel tempo di tale formazione sociale (cfr. La Grassa 2015a:
31). Il plusvalore non si origina quindi sul mercato per l’imposizione di
una compravendita delle merci al di sopra (o al di sotto) del loro valore:
esso, comunque, sorge alle spalle della circolazione di superficie (cfr.
Marx 1872: I, II, 4) ove vige un contraccambio che mediamente potrebbe
essere a somma zero, se si supponesse la perfetta equità. Come si evince
da tali considerazioni, il pensatore tedesco non afferma che la proprietà
sarebbe un furto11, né “alla Dühring”12 parla di estorsioni “con la spada

10
Riccardo Bellofiore (1996), molto opportunamente, vi ritrova una chiara ascendenza
aristotelica: “La forza-lavoro è potenza di lavoro; il lavoro vivo è capacità lavorativa in
atto, e insieme valore in potenza. Il valore, a sua volta, è atto del precedente, in quanto
lavoro astratto in fieri, e allo stesso tempo denaro in potenza”.
11
Si fa riferimento alla celebre risposta di Proudhon alla domanda su cosa sia la proprietà:
“È un furto!” ([1840] 2002: 18).
12
L’Anti-Dühring è opera di Friedrich Engels (1878). Nel capitolo IV della seconda sezione
si conclude appunto l’esame della stolta “teoria della violenza” del Dühring.

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Il pensiero di Gianfranco La Grassa

in pugno” (cfr. La Grassa 2013: 164). Se ci fossero ancora dubbi, lasciamo


parlare il barbuto di Treviri:

“La sfera della circolazione, ossia dello scambio di merci, entro i cui limiti


si muovono la compera e la vendita della forza-lavoro, era in realtà
un vero Eden dei diritti innati dell’uomo. Quivi regnano soltanto Libertà,
Eguaglianza, Proprietà e Bentham. Libertà! Poiché compratore e venditore
d’una merce, per esempio della forza-lavoro, sono determinati solo dalla
loro libera volontà. Stipulano il loro contratto come libere persone, giuri-
dicamente pari. Il contratto è il risultato finale nel quale le loro volontà
si danno una espressione giuridica comune. Eguaglianza! Poiché essi
entrano in rapporto reciproco soltanto come possessori di merci, e scam-
biano equivalente per equivalente. Proprietà! Poiché ognuno dispone
soltanto del proprio. Bentham! Poiché ognuno dei due ha a che fare
solo con se stesso. L’unico potere che li mette l’uno accanto all’altro
e che li mette in rapporto è quello del proprio utile, del loro vantaggio
particolare, dei loro interessi privati. E appunto perché così ognuno
si muove solo per sé e nessuno si muove per l’altro, tutti portano a
compimento, per una armonia prestabilita delle cose, o sotto gli auspici
d’una provvidenza onniscaltra, solo l’opera del loro reciproco van-
taggio, dell’utile comune, dell’interesse generale” (Marx 1872: I, II, 4).

La teoria marxiana del plusvalore è allora uno strumento per svelare


l’inganno ideologico della scienza economica delle classi dominanti
che, nell’apparenza della sfera circolatoria, appiattisce tutti i membri
della società capitalistica a eguali possessori e scambiatori di merci, con
pari diritti. Lo sfruttamento – che in Marx è una sottrazione algebrica13,
dalla quale si ricava “la quantità di pluslavoro/plusvalore” (La Grassa
2015a: 31) – esiste anche nella società del capitale, ché garantisce ad una
delle parti, per l’appunto a chi possiede il controllo dei mezzi di pro-
duzione, un profitto permanente (cfr. La Grassa 2015a: 37) di cui si può
appropriare; dietro l’apparenza, vi è “un gioco a somma non zero” (La
Grassa 2010a: 61). Malgrado sul mercato del lavoro le merci sembrino
tutte uguali, nel processo produttivo si manifesta empiricamente la loro
sostanziale differenza qualitativa (cfr. La Grassa 2015a: 46), nonostante lo
sfruttamento potenziale esista già come “legge” in astratto nello scam-
bio tra lavoratore e capitalista, fase che logicamente precede l’aspetto

13
“Si parte dal valore del prodotto merce (tempo del lavoro erogato per produrlo) e gli
si sottrae intanto il valore della forza lavoro che è stata impiegata in tale produzione per
quel dato tempo” (La Grassa 2015a: 41).

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Capitolo II

quantitativo. Infatti, anche qualora per assurdo i lavoratori riuscissero a


farsi pagare un salario talmente alto da azzerare il plusvalore dei datori
di lavoro, resterebbe una sostanziale differenza tra il bene “forza-lavoro”
e il bene “mezzi di produzione” e quindi la grave dissimmetria tra le
due figure che si incontrano sul mercato (cfr. La Grassa 2010a: 61-64). La
Grassa è del parere che l’aver chiarito tutto ciò rappresenta il “merito
decisivo e imperituro della scienza marxiana” (2005c: 52-53), anche se
ritiene doveroso andare oltre.
Ad ogni modo, egli dichiara che in Marx sarebbe “prioritaria la ri-
produzione del rapporto sociale; il resto segue, è solo una modalità storico-
peculiare di detta riproduzione” (La Grassa 2013: 166). La Grassa vuole
appunto scansare la perversità economicistica che sostituisce, con la teoria
del plusvalore, la centralità teorica del modo di produzione capitalisti-
co – magari sminuito a “modalità tecnico-organizzative” di estrazione
del plusvalore – e rappresenta “un vero «tradimento» di Marx” (La
Grassa 1999a: 39). Questa inversione è stata ripetutamente consumata
per opera di quella “degenerata teoria marxista” (La Grassa 2002a: 202)
che ha assunto tale legge scientifica alla stregua di una teoria contabile,
per accodarsi all’espressione di Althusser (cfr. La Grassa 2005c: 39). Tra
i due “soggetti” sul mercato del lavoro, al contrario, vi è una differenza
non matematizzabile, costituita dalla proprietà dei mezzi di produzio-
ne – precondizione per il rapporto sociale compiutamente capitalistico
è la separazione tra chi possiede tali mezzi e chi invece ne è privo – e
a partire da questa caratteristica vengono delimitate le classi sociali:
quella borghese, che ha fabbriche e macchinari, e quella proletaria, che
può vendere esclusivamente la propria capacità lavorativa. Si origina un
riconoscimento reciproco tra le due classi, nella comune consapevolezza
che l’una ha bisogno della controparte per produrre e per sopravvivere.
Va puntualizzato che l’economista di Conegliano negli anni ’70 del
secolo scorso poneva continuamente l’accento sul potere reale di disporre
effettivamente delle oggettive condizioni del lavoro, identificando in
esso la “la proprietà decisiva (cioè quella che imprime forma specifica alle
relazioni sociali entro cui gli uomini producono, forma che a sua volta de-
termina le «modalità» concrete della produzione)” (La Grassa-Turchetto
1978: 54). Naturalmente era un modo raffinato per rimproverare l’URSS
pur restando nell’alveo del marxismo, spalleggiando Bettelheim (cfr. La
Grassa 2004: 21-29).
Inoltre è bene ribadire che è la separazione (“alienazione”) dei pro-
duttori rispetto ai mezzi di produzione – e del lavoro rispetto ai suoi

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Il pensiero di Gianfranco La Grassa

frutti (cfr. Marx 1872: I, VII, 21) – a definire il nucleo del rapporto so-
ciale capitalistico (cfr. La Grassa 2004: 26), il quale viene continuamente
prodotto e riprodotto (cfr. Marx 1871: I, VII, 21), giacché garantisce il
potere sui mezzi di produzione (e del plusvalore) ad una specifica classe
minoritaria (cfr. La Grassa 2013: 152) in sæcula sæculorum. Senz’altro non
si esclude qualche forma di scontro, per il fatto che il lavoratore intende
appropriarsi del plusvalore da lui generato, o perlomeno di una sua
parte; si tratta però di un conflitto di tipo distributivo, “sindacalistico/
tradeunionistico” direbbe Lenin (cfr. [1902] 1970).
Si ricordi che il capitale, per Marx, è una relazione sociale storica-
mente determinata; a sentire La Grassa, siffatta concezione è ancor oggi
“anni luce avanti” rispetto a chi ne vede “solo gli aspetti cosali: tecnici,
economici, finanziari, ecc.” (La Grassa 2013: 84). Va da sé che neppure
una redistribuzione dei redditi sarebbe in grado di determinare la tra-
sformazione dei rapporti sociali capitalistici; da una parte resterebbe il
datore di lavoro con la sua fabbrica, dall’altra i proletari, privi dei mezzi
produttivi.

1.2. La centralizzazione dei capitali che condurrebbe al socialismo


In che modo i rapporti vigenti nel modo sociale di produzione ca-
pitalistico possono essere rivoluzionati, secondo Marx? Nelle Glosse
a Wagner, il pensatore tedesco afferma che, durante le fasi iniziali del
capitalismo, il possessore dei mezzi di produzione avocava a sé un ruolo
di coordinamento: “Il capitalista non «estorce» semplicemente pluspro-
dotto, ma «contribuisce» alla «creazione» da parte dei produttori di ciò
di cui poi egli si appropria” (Marx [1880] 1975: 1476). Egli aveva una
duplice funzione: era sia un proprietario, sia un “direttore d’orchestra”
(La Grassa 2010a: 54).
Le vicende storiche avrebbero palesato un processo sociale di cen-
tralizzazione dei capitali, che implica “la modificazione progressiva del
rapporto capitalistico nel corso delle successive riproduzioni che rappresentano
l’evoluzione e sviluppo di questa formazione sociale” (La Grassa 2010a:
69). Nel corso di tale fase, con la concorrenza che concentra le moltissime
proprietà sminuzzate nelle mani di pochi, le fabbriche si ingigantisco-
no, i capitalisti rimasti si disinteressano alla direzione ed escono dalla
produzione in senso stretto, diventando dei “quasi-signori” parassitari
che godono di una rendita azionaria, bramosi più che altro delle cedole
dei dividendi, che sono assimilabili ad una “rendita”. Dall’altro lato, la
concorrenza che soccombe – perché “ogni capitalista ne ammazza molti

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Capitolo II

altri” (Marx 1872: I, VII, 24) – perde i mezzi produttivi e può vendere
solo la capacità di direzione che, sebbene sia maggiormente qualificata
rispetto alla manodopera semplice, rientra nella classe salariata che
mette sul mercato la propria forza-lavoro quale merce. I proprietari
si trasformano in “puri e semplici capitalisti monetari” e i dirigenti in
amministratori “di capitale altrui” (Marx 1872: III, V, 27).
Pertanto, la dinamica strutturale del capitalismo consocerebbe tutti
i lavoratori collettivi cooperativi “realmente attivi nella produzione dal
dirigente fino all’ultimo giornaliero” (Marx 1872: III, V, 27) in un corpo
sempre più cosciente di rappresentare la totalità della produzione e
contrapposto a “pochi usurpatori” sempre più inutili al fine della pro-
duzione. L’aggregazione qui descritta, non esente da contraddizioni,
farebbe emergere a livello di fabbrica una sorta di operaio combinato
– caratterizzato dalla non proprietà dei mezzi – che include sia le po-
tenze manuali, sia quelle mentali (la “direzione tecnica”) del processo
lavorativo; esso, rendendosi conto dell’intera ricchezza complessiva
da lui generata, facilmente riuscirebbe a scalzare l’esigua “aristocrazia
finanziaria” per restituire finalmente piena padronanza degli strumenti
produttivi ai lavoratori, ora riuniti in forma associata. Questa sarebbe la
base economico-sociale del modo di produzione socialistico, che Marx
già vedeva in modo lampante:
“La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del
lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro
involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della
proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati”
(Marx 1872: I, VII, 24).

Il parto è maturo e la rivoluzione proletaria potrebbe semplicemente


“abbreviare e attenuare le doglie”14: il suo ruolo si ridurrebbe a quello
di una “levatrice” che accelera la generazione di una “società nuova”
(Marx 1872: I, VII, 24). Lo scontro risolutivo non si avrebbe a livello di
fabbrica, bensì nella centralizzazione dei capitali, “che l’economicista
pseudomarxista ha ancora una volta – con spirito volgarmente empiri-
stico, incapace di astrazione scientifica – ridotto all’emergere del «regime
di mercato» denominato monopolio (o, più esattamente, oligopolio)” (La
Grassa 2013: 18). Marx in numerose occasioni ribadisce la convinzione
che il comunismo sarebbe “il movimento reale che abolisce lo stato di cose
presente” (Marx-Engels 1846: II); l’affermazione permette a La Grassa
14
Così Marx (1872) scrive nella prefazione alla prima edizione del suo Il Capitale.

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Il pensiero di Gianfranco La Grassa

di asserire che “non c’era alcun utopismo in Marx” (La Grassa 2002a:
53) perché scienza e rivoluzione, fuse insieme, conducono entrambe alla
formazione di quel soggetto che plasma i rapporti sociali in senso non
più capitalistico (cfr. La Grassa 2005c: 55).
Il principio del minimax – minimo mezzo dato un risultato, oppure
massimo risultato dato un mezzo – sulla base del quale nel capitalismo si
estrae sistematicamente il plusvalore relativo, sarebbe rimasto anche nel
nuovo modo di produzione, pur finalizzato ad altri scopi. Perciò, dopo
il rovesciamento dei rapporti sociali precedenti, l’efficienza minimax,
nel distribuire consapevolmente il tempo di lavoro tra i vari usi produt-
tivi, avrebbe garantito l’abbondanza nel comunismo, permettendo un
completo sviluppo della libera individualità umana (cfr. La Grassa 2011:
55); si sarebbe quindi impiegata la medesima razionalità economica del
Robinson, ma in modo “collettivo” (cfr. La Grassa 2015a: 55-58), al fine di
soddisfare i bisogni di ciascuno. La competizione per le cose futili forse
non sarebbe venuta meno in assoluto, ma sarebbe svanita quella per la
sopravvivenza. In fin dei conti, sarebbe stato il medesimo minimax, nel
coordinare e socializzare le forze produttive (centralizzazione dei capita-
li), a creare le summenzionate condizioni oggettive della trasformazione
del modo di produzione.
Ovviamente non si sottovalutava l’energica resistenza che avrebbe
posto la classe borghese, tuttavia essa – che per divertirsi nei propri
giochi finanziari avrebbe drenato la liquidità necessaria alla produzione
complessiva – sarebbe stata un ostacolo allo sviluppo delle forze produt-
tive, che oggettivamente prima o poi avrebbe dovuto essere rimosso (cfr.
La Grassa 2015a: 71). Marx era convinto che tale processo sarebbe stato
più rapido di quello che aveva portato il feudalesimo a trasformarsi in
capitalismo.
Infine sarebbe rimasto un ostacolo, ovverosia lo Stato, tetragono nella
difesa degli interessi dei proprietari-azionisti, ormai rentier assenteisti;
questa istituzione appunto sarebbe stata da abbattere perché garante
dei “diritti” borghesi. Le tattiche per perseguire la comune strategia
si biforcarono tra quella riformistica e quella rivoluzionaria. La prima
puntava numericamente al controllo parlamentare per adottare prov-
vedimenti legislativi in direzione di una trasformazione dei rapporti
di produzione; l’altra, invece, identificando gli apparati statali con gli
strumenti coercitivi, mirava all’abbattimento della macchina borghese
da sostituirsi con una dittatura della maggioranza proletaria.

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Capitolo II

Preso il potere, una serie di misure di per sé “economicamente


insufficienti e insostenibili” – tra cui la progressività delle imposte e
la coordinazione della produzione materiale con l’istruzione, da ren-
dersi pubblica e gratuita – avrebbero spinto la storia verso l’inevitabile
rivoluzionamento dei rapporti di produzione sino addirittura all’esau-
rimento delle classi sociali. Si sarebbe gradualmente estinto lo Stato
quale apparato di repressione e di monopolio della forza, non di certo
l’organizzazione amministrativa indispensabile per qualsivoglia società
civile. Nondimeno, si tenga presente che socialismo significa uso collet-
tivo – e non “proprietà statale” – dei mezzi di produzione; tale sistema
consentirebbe a chi lavora di disporre dei propri mezzi di lavoro (cfr.
La Grassa 2015a: 110).

1.3. La falsificazione delle previsioni marxiane: un’impasse da superare


Gli interrogativi si posero quando la “rivoluzione socialista” prevista
come imminente dallo scienziato sociale di Treviri stentò ad arrivare. Con
il senno di poi, a 150 anni da Il Capitale, possiamo affermare che il capitali-
smo, sopravvissuto a molti cambiamenti, peraltro non tali da rovesciarne
i rapporti sociali di produzione, sopravvive ancora (cfr. La Grassa 2013:
25). Seguendo le indicazioni del Nostro, cerchiamone i motivi.
Già sul finire del XIX secolo in Germania ci si rese conto che quel
lavoratore collettivo cooperativo non si andava formando, “si perse
anzi di vista proprio la concezione marxiana” (La Grassa 2013: 26). Il
“rinnegato” Kautsky identificò il soggetto rivoluzionario nel lavoratore
operaio addetto alle mansioni esecutive inferiori; di fatto si prese atto che
le “potenze mentali” della produzione, pur salariate, non stavano dalla
medesima parte della barricata degli operai. Eppure la classe operaia,
così intesa dal marxismo successivo a Marx, non si dimostrò capace di
alcuna egemonia complessiva né di trasformare il modo di produzione,
anche perché la sua base sociale era assai più ristretta, se confrontata
con la concezione marxiana originaria. Persino Lenin, nonostante il
suo anti-kautskismo, giunse a definire “specialisti borghesi” i dirigenti
tecnici di fabbrica, ma almeno intuì il pericolo del tradeunismo ([1902]
1970) – ovverosia della tendenza all’“economicizzazione del conflitto”
(Bauman 1987) – a suo dire fenomeno limitato all’Inghilterra di allora,
che vedeva l’ascesa di un’inerte “aristocrazia operaia”. La sua soluzione
ad hoc fu quella delle “alleanze di classe”, in cui si appellava alla classe
contadina – estranea alle rivendicazioni sindacalistiche e dunque più
rivoluzionaria rispetto a quella dei manovali di fabbrica – e a quella

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Il pensiero di Gianfranco La Grassa

intellettuale affinché si ponessero sotto l’avanguardia operaia nel Par-


tito bolscevico. Il rivoluzionario russo credeva di essere pienamente
nell’ortodossia marxiana; ironia della sorte fu che, nell’accusare di
revisionismo l’avversario Kaustky – effettivamente da esecrare “per il
suo atteggiamento da «traditore» (portatore soggettivo del tradimento in
quanto processo oggettivo) all’epoca della prima guerra mondiale” (La
Grassa 2013: 123) – Lenin eseguì una “revisione del marxismo (con suo
avanzamento teorico)” quando ammise implicitamente la

“non rivoluzionarietà della classe operaia, pur ritenuta ancora, dal mas-
simo dirigente del comunismo russo, la classe fondamentale del modo
di produzione capitalistico, quella classe che si supponeva sarebbe
divenuta numericamente maggioritaria nel corso dello sviluppo di
detto modo di produzione” (La Grassa 2005c: 59).

Mediante la sua “analisi concreta di una situazione concreta” (La Gras-


sa 2005c: 25), Lenin riuscì poi a sfruttare la (in)felice congiuntura della
Prima Guerra Mondiale per far esplodere la Rivoluzione d’Ottobre, ma
fu grazie al suo genio politico (cfr. La Grassa 2011: 83) che seppe cogliere
l’“anello debole” della catena (cfr. La Grassa 2011: 95), ossia quel punto
dove i dominanti si trovano maggiormente in difficoltà: nel suo caso, lo
sgretolamento dell’impero zarista, privo di una forte classe di capitalisti.
Larga parte della popolazione, esausta per il conflitto e allettata dalla
promessa di un’espropriazione delle terre dei grandi possidenti, non
esitò ad appoggiare Lenin. La storia poi andò come andò – qui non ci
addentriamo nello studio delle vicende dell’URSS, dietro la cui ideologia
“superficialmente marxista” si nascondeva “un assolutismo statalista
di tipo lassalliano”15 (La Grassa 1999a: 22) – ma preme sottolineare che
tutti i tentativi di “costruzione del socialismo” furono aggiunte posticce
per non ammettere le carenze intrinseche alla teoria dello scienziato
sociale tedesco. Al posto di una vera transizione, si ebbe un “modo di
produzione informe, capace di accumulazione originaria in base ad una
15
“Poiché l’elemento decisivo di tale teoria [marxista] consisteva nella supposta oggettiva
funzione emancipatrice universale della classe operaia – considerata nella sua (quasi) totalità
(le «masse proletarie») oppure con più specifico riferimento alla sua presunta avanguardia
che ne rappresentava la coscienza – il manifestarsi dell’incapacità rivoluzionaria di detta
classe, che non si volle mai riconoscere formulando una sequela di ipotesi ad hoc sempre più
inconsistenti, condusse infine al ripiegamento su una costruzione socialistica da parte dello
Stato. In definitiva, ebbe la sua rivincita il socialista di Stato Lassalle, aspramente criticato
e sbeffeggiato da Marx” (La Grassa 2004: 15).

33

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Capitolo II

utilizzazione del tutto irrazionale delle risorse” (La Grassa 1999a: 74).
Se nel tempo presente vigono ancora i rapporti sociali capitalistici non è
tanto per la vittoria dei “cattivi” controrivoluzionari – Marx sin dall’ini-
zio si esime dal colpevolizzare i “padroni”, che sono semplicemente
“maschere” di rapporti economici (cfr. Marx 1872: I, I, 2) – quanto per
alcuni limiti di fondo insiti nelle tesi marxiane con i quali occorre fare i
conti, se si è intenzionati a recuperare lo spirito scientifico di quella che,
nell’opinione di La Grassa, “rimane tuttora la più avanzata teoria della
società” (2010a: 91).
Accettando la sfida posta dall’epistemologo liberale Karl R. Popper,
che stabilì criteri di falsificabilità16 per discriminare le teorie scientifiche
da quelle non controllabili, La Grassa prova a ribaltarne le conclusioni:
il comunismo di Marx sarebbe scientifico in quanto “fallibile”, cioè “fon-
dato su una teoria passibile di falsificazione di alcune delle sue ipotesi
di base” (La Grassa 1998b: 6), una su tutte l’intermodalità della classe
dominata, in altre parole la capacità di porsi come classe universale in
grado di aiutare la transizione da un modo di produzione all’altro (cfr.
La Grassa 1998a: 102; 1999b: 22).
L’economista di Conegliano precisa che non sono da imputare errori
di valutazione allo scienziato di Treviri, il quale “ha compiuto nel mi-
glior modo possibile, tenuto conto dei suoi tempi, l’analisi del modo di
produzione capitalistico” (La Grassa 1998b: 24), mentre sarebbero molto
meno scusabili i dogmatici marxisti che cristallizzarono quelle teorie,
senza rendersi conto che la società stava procedendo in una direzione
differente e si stava delineando una forma di impresa non assimilabile a
quella di fabbrica. Se è vero che il lavoro dipendente è, oggi più di ieri,
ampiamente diffuso, è doveroso riconoscere che esso non si è coagulato
nel lavoratore collettivo cooperativo accomunato dalle medesime con-
dizioni; insomma, la società non è andata polarizzandosi tra una classe
proprietaria – dal punto di vista formale – parassitaria borghese e una
salariata produttiva proletari(zzat)a all’interno della quale si sarebbero
ricomposte potenze manuali e mentali, quest’ultime chiamate marxiana-
mente “general intellect”. All’opposto, sono fioriti i ceti medi e la “classe”
che non dispone dei mezzi di produzione si è disarticolata in tutta una
serie di strati sociali intermedi maggiormente differenziati per mansioni
e status sociale; i processi oggettivi di controllo reale dei mezzi da parte
dei produttori associati non si sono affacciati all’orizzonte della storia
16
Popper (1963) è tuttavia assai debitore nei confronti di Charles Sanders Peirce, del quale
estremizza la formulazione.

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Il pensiero di Gianfranco La Grassa

(cfr. La Grassa 2013: 91). Le altre dirigenze salariate, anziché cooperare


con la manodopera meno qualificata, si sono avvicinate ai proprietari – i
quali non hanno perso interesse per la produzione – e li hanno persino
scalzati nell’esercitare la funzione dominante nell’odierna formazione
sociale; lo si vedrà meglio nella sezione dedicata agenti strategici.
La fallibilità del comunismo di Marx, nell’accezione che è stata for-
nita, si è concretizzata in un fallimento di portata storica. A detta di La
Grassa questo “non necessariamente deve portare al rifiuto, in blocco,
della teoria marxista” (La Grassa 1999b: 5) per approdare ad un pane-
girico ideologico dell’attuale società, né a volontarismi messianici che,
inventandosi ipotesi giustificative ad hoc, abbandonino la portata scien-
tifica dell’analisi marxiana. Questa, con tutti i suoi limiti evidenziati, si
dimostrerebbe tuttora migliore delle “diverse teorie antagoniste proprio
perché concentra l’attenzione sulle differenti strutture di rapporti carat-
terizzanti successive grandi epoche storiche dello sviluppo delle società
umane” (La Grassa 2004: 37).
La Grassa è particolarmente allergico alle “pure fantasticherie e pii
desideri”, alle “chiacchiere senza controllo”, alle “chimere”, “fumisterie e
inutilità”; egli si scaglia – surtout pas trop de zèle – contro chiunque faccia
del comunismo “una semplice aspirazione etica, un bisogno di giustizia,
in base ad auspicati sentimenti di solidarietà e cooperazione tra uomini”
(La Grassa 2010a: 11-12). La sua pretesa, da studioso che è passato per
le carte di Marx, è quella che gli “si indichino movimenti sociali in date
direzioni, con realistica previsione di certe fattualità (e di pratiche dirette
a conseguirle)” (La Grassa 2010a: 12) che possano essere rilevabili entro
un determinato lasso di tempo, almeno per via indiziaria.
Esistono altre strade “per uscire dall’impasse teorica” (La Grassa 2013).
Quella, impervia, percorsa dall’autore qui in esame, passa per una radi-
cale decostruzione e ristrutturazione delle teorie marxiane, proseguendo
nell’intento di una teoria critica della società rigorosamente (ri)fondata,
anche a costo di abbandonare il marxismo. La Grassa è persuaso che
sia “necessario andare ben oltre Lenin, non tornare a Marx”, “perché gli
errori e i fallimenti prendono l’avvio proprio di lì” (La Grassa 2005c: 18).

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Capitolo II

2. Ipotesi per una teoria post-marxista

“Πόλεμος πάντων μὲν πατήρ ἐστι, πάντων δὲ βασιλεύς”


“Il conflitto è padre di tutte le cose e di tutte le cose è re”
Eraclito

2.1. Dalla fabbrica all’impresa


Esistono molti cammini che conducono all’altopiano del pensiero
di Gianfranco La Grassa; per uno sguardo che tenga conto anche delle
elaborazioni che si sono susseguite nel corso degli anni si partirà dall’at-
tenzione nei confronti del processo lavorativo, esaminato nel periodo a
cavallo tra gli anni ’80 e ’90. Sebbene il pensatore veneto non ami molto
quella fase di studi, essa ha rivestito un ruolo notevole nel definire le
peculiarità dell’impresa capitalistica che, così come la conosciamo oggi,
non è equiparabile alla fabbrica forgiata dalla Rivoluzione Industriale
descritta da Marx.
Se il nucleo predominante del modo di produzione capitalistico
avesse mantenuto tali caratteristiche, il compimento sarebbe stato quel-
lo previsto dallo scienziato sociale tedesco, con le dirigenze salariate
– concepite primariamente come tecnici, ingegneri e potenze mentali
della produzione – che si sarebbero gradualmente integrate nella classe
proletaria, pur vigendo un’organizzazione verticistica per “far suonare
armonicamente l’orchestra” di fabbrica. La classe non-proprietaria,
accomunata dagli interessi della produzione contrapposti a quelli della
rendita parassitaria, si sarebbe trovata in una polarizzazione crescente
che avrebbe portato allo scontro risolutivo con i proprietari quasi-signori
assenteisti, occupati a tempo pieno nelle speculazioni dei mercati azio-
nari, finanziate sottraendo risorse al ciclo produttivo (cfr. La Grassa
1996b: 48-51). Ebbene, la centralizzazione dei capitali teorizzata da Marx
comporta un mutamento della cellula del modo di produzione che egli
non ha potuto afferrare nella teoria.
Innanzitutto chiariamo cosa sia l’unità di trasformazione che La Grassa
circoscrive nella fabbrica: essa è “l’entità produttiva in senso stretto, in-
tendendo appunto per produzione il processo di trasformazione di dati
input («materie prime» in senso lato) in dati output («prodotti finiti»,
sempre in senso lato)” (1996b: 55). Possiamo dedurre che non si tratta
unicamente dello stabilimento industriale, ma pure delle varie sezioni, in
uno spettro di crescente autonomia, che includono la ricerca di materie
prime e di finanziamenti, la contabilità e l’amministrazione, il marketing,
la distribuzione e la commercializzazione sui mercati finali.

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Il pensiero di Gianfranco La Grassa

Senza soffermarci sulle casistiche specifiche, è da evidenziare che non


manca mai un coordinamento unitario “di una serie di dipartimenti17,
costituiti da vari comparti, settori e reparti, quindi da numerose «fab-
briche»” (La Grassa 1996b: 56); tale coordinamento è l’impresa. È arduo
stabilirne i confini, anche perché talvolta proprietà e controllo coincidono,
mentre sovente è un gruppo manageriale non proprietario a condurre
l’impresa (cfr. La Grassa 1999c: 19).
In genere, l’economia politica ha trascurato le acquisizioni su questo
versante e ha sempre disgiunto mercato e impresa quali soggetti con-
trapposti; in ambito aziendalistico, invece, sono fiorite numerose scuole,
una su tutte, la nuova economia istituzionale di Oliver E. Williamson (1985)
e di Ronald R. Coase, nota per aver elaborato il concetto di “costi di
transazione” (cfr. La Grassa 1996b: 65-71; 1999c: 9-14). Esse però danno
per scontata la parità degli agenti sul mercato dello scambio, da tempo
smentita da Marx, dunque renderebbero ostico il proponimento di La
Grassa di non gettare via le acquisizioni marxiane con l’acqua sporca.
Nella teorizzazione di Joseph A. Schumpeter (1939), imprenditore è chi
realizza le innovazioni – di processo e di prodotto, con la conseguente
modificazione delle funzioni di produzione – e l’impresa è costituita dalle
attività finalizzate a raggiungere questo obiettivo. La Grassa recupera
due elementi dell’ideazione schumpeteriana. In primis, la differenza tra
crescita e sviluppo permette di intendere quest’ultimo come un mutamento
delle proporzioni tra risorse da indirizzare verso settori innovativi, anche
se possono avvenire, alternativamente, aumenti quantitativi (appunto
la “crescita”) o decrementi dei dati economici (cfr. La Grassa 1996b:
58). Ancor più degna di considerazione è la seconda acquisizione che
discerne tra capitalista (puro proprietario di un pacchetto azionario rile-
vante), manager (dirigente della produzione in continuità con la gestione
passata) e imprenditore (colui che introduce le innovazioni, in posizione
mediana tra il capitalista e il manager). Queste tre figure sono funzioni
(o ruoli) che possono essere incarnati non necessariamente da individui,
ma finanche da una pluralità di soggetti fisici e giuridici. In taluni casi
possono convergere svariate funzioni a capo di un’unica persona; altre
volte è presente un minimo di conflittualità che non sfocia mai nel di-
retto antagonismo (cfr. La Grassa 1996b: 59-60). Ciò che non convince
17
La Grassa (1998c: 15) utilizza il termine “dipartimento” per riferirsi alle suddivisioni
funzionali (ad es. acquisti, risorse umane) e il termine “divisioni” per le sezioni riferite
ad una tipologia di prodotto o ad un mercato specifico; ogni divisione può avere più
dipartimenti.

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Capitolo II

pienamente La Grassa è l’individualismo metodologico che si focalizza


soprattutto sul “coraggio” del singolo imprenditore, una visione viziata
da un certo “romanticismo” che, oltre a continuare a raffigurare l’impresa
come una fabbrica produttiva, gli impedisce di cogliere tutta l’articola-
zione del modo di produzione capitalistico (cfr. 1996b: 62-63). Un altro
punto di perplessità, seppur coerente con le premesse schumpeteriane,
è la previsione di un ristagno del capitalismo (cfr. Schumpeter 1942)
dovuto alla burocratizzazione delle grandi imprese che avrebbe assopito
la creatività e l’inventiva (cfr. La Grassa 2004: 79).
Per prima cosa, l’economista di Conegliano imposta il problema ri-
scontrando la scissione tra il lavoro di tipo esecutivo e quello direttivo:
quest’ultimo deterrebbe il “potere decisivo”. Non sarebbe quindi la
proprietà dei mezzi, bensì la direzione imprenditoriale – che organizza
gerarchicamente tutti i ruoli ad essa subordinati – che esercita, in modo
autoriproduttivo, un potere preponderante. Se ultimamente sembrerebbe
avvenire un ricongiungimento tra proprietà e direzione – separatesi con
la rivoluzione manageriale tratteggiata da James Burnham (1941) – le due
funzioni devono comunque restare analiticamente separate, assegnando
priorità logica alla seconda; la proprietà sarebbe un “fenomeno in ogni
caso derivato” (La Grassa 2002a: 273).
La competizione tra le diverse imprese poi scinderebbe la direzione
in due, facendo emergere una figura “inedita”, dotata non tanto di saperi
tecnico-produttivi specializzati, quanto di abilità strategico-decisionali
d’ampio spettro, per esempio la conoscenza dei concorrenti, delle istitu-
zioni esterne, dell’influenza esercitabile sugli organismi di regolamenta-
zione, del sostegno da parte degli apparati statali e mass-mediatici, “e di
tutto ciò che possa favorire l’azione dell’impresa nello spazio economico,
politico, ideologico in cui essa si muove” (La Grassa 1999c: 21), in conti-
guità con la gestione finanziaria che fornisce i mezzi monetari indispen-
sabili al conflitto. Se da un lato permangono i dirigenti di fabbrica, che
possiedono le potenze tecniche atte alla trasformazione degli input in
output, dall’altro ci sono i dirigenti d’impresa, con capacità di mediazione
e di flessibilità di azione per sbaragliare gli avversari; tali agenti strategici
ricoprirebbero la vera funzione dominante nel capitalismo.
“L’impresa ingloba la fabbrica – osserva La Grassa (1996b: 89-90) –
anzi più «fabbriche», e dunque la direzione manageriale sta al di sopra
di quella tecnica”. Quando si parla di impresa, dunque, egli si riferisce
ad un’istituzione intermedia tra quella organizzata di fabbrica e quella
disorganizzata del mercato. Tra la tendenza dominante al conflitto e la

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Il pensiero di Gianfranco La Grassa

(subordinata) controtendenza al coordinamento, l’impresa avrebbe un


ruolo di mediazione, al di sopra di esse, con un “intreccio reticolare, in-
terrelazionale, delle azioni svolte dai vari vertici delle piramidi lavorative
in reciproca competizione” (La Grassa 1996b: 92). Insomma, abbiamo di
fronte un organismo “essenzialmente politico”, in grado di smussare le
ostilità e di evitare la disarticolazione complessiva cui andrebbero incon-
tro le singole entità produttive nel dispiegarsi della competizione inte-
rindividuale. Particolarmente in alcune fasi storiche, quando lo scontro
si fa acceso, il ruolo strategico assume un’importanza ancora maggiore;
l’unitarietà del vertice preserva l’impresa dalle turbolenze del “quasi
mercato” interno e da quelle provenienti dall’ambiente esterno, e non
solo economico. Essa, alla stregua di un “esercito” in lotta contro altre
forze (cfr. La Grassa 1999c: 24), sta sicuramente in posizione subalterna
rispetto al conflitto – con tutte le sue tendenze alla frammentazione, alla
scomposizione, all’imprevedibilità – non è in grado di arrestarlo.
Le conclusioni tratte da La Grassa sono pertanto opposte a quelle
del cosiddetto “operaismo” italiano: l’impresa, per l’economista veneto,
rappresenta l’impossibilità di considerare la società come un’immensa
fabbrica. Ad ogni buon conto, l’impresa è un “microcosmo del dominio”
(cfr. La Grassa 1999c) decisivo per la strutturazione totale della società,
conferendole quella straordinaria dinamicità che ha saputo dimostrare;
da essa scaturisce il gruppo sociale egemone del complesso imprenditorial-
finanziario, per dirla con La Grassa (cfr. 1999c: 24-25).

2.2. Dalla razionalità strumentale di Robinson a quella strategica di Tarzan


Il tema della razionalità dei criteri che stanno alla base delle assunzioni
delle scelte è stato assai dibattuto in economia. Ciononostante, tra l’on-
niscienza “olimpica” del soggetto postulata dalla Rational Choice Theory
e la più “soddisfacente” Bounded Rationality, che nel 1978 ha fruttato un
premio Nobel a Herbert A. Simon, non esiste vera discontinuità. Persi-
no Amartya Sen – anch’egli premio Nobel, ma vent’anni dopo – ritiene
che la teoria di Simon possa essere “accolta all’interno di un contesto
massimizzante generale, eliminando così la tensione tra soddisfacente e
ottimizzante” (Leghissa 2012: 126). Oltre ad essere prescrittiva per tutti
gli ambiti dell’agire umano, essa rientra nel “totalitarismo della teoria”
che – per citare il filosofo foucaultiano Leghissa18 – contraddistinguerebbe
18
In Zygulski (2014c) si è recensita l’opera di Leghissa (2012) che si rivela puntuale e
stringente nell’analisi della teoria neoliberale della “Scuola di Chicago”, individuando
analogie e differenze con il liberalismo classico della “Scuola Austriaca” e con i pensatori

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Capitolo II

il progetto neoliberale, teso a governare sotto un unico modello operativo


la vita di ogni agente sociale. Parimenti La Grassa, a proposito della teoria
della razionalità limitata, non esita a ironizzare sulla “scarsa attitudine
all’astrazione teorica, cardine di ogni pensiero scientifico”(2015b: 39),
che esibirebbe Simon, il quale è come se avesse criticato Galileo Galilei
per aver studiato le leggi del moto senza aver tenuto conto di attriti,
di attrazioni e di altri elementi presenti nell’empiria concreta (cfr. La
Grassa 2013: 150)
Senza disconoscere l’utilità della razionalità strumentale minimax,
tipica delle direzioni produttive di fabbrica, l’economista veneto
suggerisce l’esistenza di un altro principio soggiacente alle decisioni
imprenditoriali, che lui indica con il nome di razionalità strategica. Gli
agenti strategici d’impresa, infatti, operano in modo differente rispetto
ai tecnici; nelle strategie vi sarebbe un quid essenziale “che sfugge alla
razionalità puramente calcolante, qualcosa di «esuberante» rispetto a
quest’ultima” (cfr. La Grassa 2002a: 241). Secondo La Grassa, neppure
la teoria dei giochi riuscirebbe a comprendere appieno l’attività strategica
sotto il profilo logico-matematico, proprio perché le intuizioni che la
muovono sarebbero maggiormente vicine all’arte che non alla scienza (cfr.
2002a: 242). Le quote di mercato, il volume di affari e il profitto (cfr. La
Grassa 2002a: 272) – ossia quelli che, di volta in volta, sono stati indicati
sia dai marxisti sia dai neoclassici come il fine del sistema economico – in
quest’ottica sarebbero semplici mezzi per lo scontro inter-imprenditoriale,
giacché le dirigenze strategiche puntano, “a parità di ogni altra condi-
zione, al massimo vantaggio, che non è tuttavia il massimo guadagno”
(La Grassa 2004: 83).
La razionalità strumentale si pone nella prospettiva del singolo
individuo (o gruppo di individui) astraendo dai legami sociali, mentre
quella strategica è immersa nel conflitto, ab ovo; il tempo strumentale è
spesso lineare, quello strategico preferisce insinuarsi, viscido come un
serpente. Per restare nella metafora del selvaggio, sembra pertinente il
raffronto tra Tarzan19 e Robinson20 che il professor La Grassa ha illustra-
to nelle sue ultime opere (cfr. 2016). La scienza economica in molti casi
ha posto come caposaldo l’individuo robinsoniano, il naufrago portatore

“ordoliberali” tedeschi. Meno convincente, ma sintomatica dello spaesamento del tempo


presente, l’esitazione conclusiva di Leghissa tra l’utopismo neokantiano di Thomas Pog-
ge e il neoaristotelismo di Martha Nussbaum.
19
Tarzan of the Apes è un’opera di Edgar R. Burroughs (1912).
20
Robinson Crusoe dell’omonimo romanzo di Daniel Defoe (1719).

40

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Il pensiero di Gianfranco La Grassa

della razionalità strumentale anche su un’isola deserta, alle prese con la


penuria delle risorse; come abbiamo visto in precedenza, lo stesso Marx
si distanzia da queste robinsonate – a suo dire “invenzioni prive di fan-
tasia”21 – ma, di fatto, le traspone in chiave “socializzata”. Il professore
veneto preferisce partire piuttosto da Tarzan, prossimo alla razionalità
strategica: l’uomo allevato dalla scimmia Kala e cresciuto nella foresta
ostile, senza aver mai avuto contatti con la sua specie umana, sviluppa
una capacità riflessiva di molteplici livelli, prende coscienza del campo
di azione, delle forze in gioco e delle azioni pratiche non solo per so-
pravvivere, ma anche per assicurarsi la supremazia (cfr. La Grassa 2013:
178). Oltre a servirsi dell’istinto naturale, Tarzan matura un pensiero più
complesso, un’individualità non eccessivamente egoistica; La Grassa
ritiene che, se gli economisti fossero partiti da Tarzan, anziché dall’eroe
borghese di Defoe, la teoria economica probabilmente avrebbe preso una
piega assai diversa (cfr. 2015b; 37-41).
Un altro esempio che si presta all’argomentazione è quello delle
“commissioni”: se la razionalità strumentale permette di organizzare
tutta una serie di attività (come il recarsi in banca, in posta e in un ufficio)
ottimizzando il tempo di una mattinata per trovare meno fila, quella
strategica può aiutare a stabilire qualche “appuntamento” o “diritto
di precedenza” grazie ad un giro di telefonate che – con altri mezzi e
in altri contesti – può ridurre ulteriormente i minuti da impiegare (cfr.
La Grassa 2009: 59-60). Per meglio dire, la razionalità strategica supera
quella strumentale, senza annullarla del tutto (cfr. La Grassa 2004: 87).
Nondimeno, è impossibile quantificare la supremazia di un agente, per-
ché non si può stabilirne una massima, né una adeguata; forse è possibile
verificarne la stabilità, ma essa non si presta a raffronti matematizzabili
(La Grassa 2005c: 74-75).
Ai “funzionari del capitale”, perciò, non basta l’efficiente combinazio-
ne interna dei fattori produttivi, già garantita dai tecnici specialistici; gli
strateghi si muovono come i generali dello “Stato Maggiore” in guerra
(cfr. La Grassa 2004: 82), concentrati attorno a quel nucleo di condensa-
zione che è l’impresa. Rivolti all’esterno, “con finalità competitive o di
accordo, collusione e cooperazione, sempre però miranti al conflitto” (La
Grassa 2002a: 273), che pervade intimamente l’organizzazione imprendi-
toriale, essi sono simultaneamente agiti dal e agenti per il conflitto stesso.
21
“Il singolo ed isolato pescatore e cacciatore, con cui iniziano Smith e Ricardo, apparten-
gono a quelle invenzioni (Einbildung) prive di fantasia, che sono le robinsonate del XVIII
secolo, le quali in nessun modo significano (ausdrücken)” (Marx 1857: I).

41

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Capitolo II

Oltre a ciò, le dirigenze strategiche non utilizzano solo calcoli di


costi e benefici, in quanto le innovazioni di prodotto necessarie per la
supremazia – trascurate da Marx, ma non da Schumpeter – introduco-
no nuovi beni incomparabili, allentano il rigore delle quantificazioni
economiche e costituiscono un ponte con i responsabili delle mansioni
tecniche. Diversamente da questi, che rimangono subordinati, gli agenti
strategici potrebbero esigere addirittura un allungamento dei tempi di
produzione, se entrassero nella tattica del “temporeggiatore” romano
Fabio Massimo, oppure potrebbero impegnarsi in “campagne militari”
dall’esito incerto, con la sola speranza di togliere terreno ai competitori
(cfr. La Grassa 2014: 83). Potrebbero servirsi di armi poco corrette, “del
tipo dell’inganno, del raggiro, del ricatto, del dire una cosa e farne un’al-
tra, dell’accordo temporaneo (anche lungo) per poi romperlo e sferrare
più o meno improvvisi attacchi” (La Grassa 2014: 84). Di apprezzabile
rilievo è la scelta sequenziale delle mosse e dei momenti maggiormente
opportuni per difendere la propria posizione o occupare quella altrui con
interventi che implicano un dispiego assolutamente calibrato di energie
nei numerosi campi in cui vi è spazio per esercitare una preminenza.
Insomma, i soggetti capitalisticamente dominanti, al contrario di
quanto previsto dalla teoria marxiana, non sono né economicamente
efficienti come le potenze mentali della produzione né parassitari come
i proprietari rentier (cfr. La Grassa 2005c: 156); tutt’altro, il loro ruolo è
attivo nel mobilitare quei “distaccamenti di eserciti” che sono le divisioni
o i dipartimenti dell’impresa (cfr. La Grassa 1999c: 17). Quantunque siano
ampie le “zone grigie” intermedie (cfr. La Grassa 1999c: 52), semplifi-
cando si può dire che, se si vuole mantenere la classificazione marxiana
tra dominanti e dominati, è dominante chi occupa “i ruoli della lotta
per la supremazia” facendo “uso della razionalità strategica” (La Grassa
2004: 139). Ciò vale per tutte le configurazioni sociali, anche per quelle
precedenti, perché “la razionalità di carattere strategico è dominante in
tutte le forme storiche di società finora conosciute” (La Grassa 2005c:
74). Essa non sarebbe neppure assimilabile ad un’irrazionale “volontà
di potenza”, perché non può prescindere da un’attenta analisi dell’arena
in cui si muove, né da una solida conoscenza del passato, né da buone
capacità predittive degli scenari futuri (cfr. La Grassa 2008a, passim).
Con La Grassa si esce dall’impostazione individualistica che vede
nella singola impresa (o fabbrica) il soggetto principale e si entra in un
quadro generale, non soggetto a variazioni di particolari tecniche di
produzione (fordismo, taylorismo, toyotismo, e così via) o della rigidità

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Il pensiero di Gianfranco La Grassa

microstrutturale interna (cfr. 2002a: 276). L’imprenditore lagrassiano è,


sostanzialmente, un ruolo strategico (cfr. La Grassa 2009: 62) che, in virtù
dell’agire nel conflitto, anche tra soggetti economici, ricerca la supremazia
nelle formazioni sociali di tipo capitalistico (cfr. La Grassa 2005: 156).
Adesso la porta d’ingresso che si spalanca è di tipo politico; comincia a
cadere un velo ulteriore.

2.3. Dalla proprietà al conflitto strategico: un secondo disvelamento


A questo punto va precisato cosa sia, per La Grassa, la politica: essa è,
essenzialmente, “come tendenza di fondo anche se talvolta solo potenziale,
scontro di idee e di pratiche che mirano, consapevolmente o meno, a fare
gli interessi, non semplicemente ambientali, di gruppi sociali contrap-
posti” (2009: 15). Viene agile ricollegarsi al sottoparagrafo precedente,
con le intuizioni teoriche che ci accompagnano al disvelamento della
“centralità della politica, nel senso della lotta di strategie per prevalere,
anche nella sfera economica” (La Grassa 2011: 68).
Oggigiorno di frequente si sente parlare di “dominio della tecnica”;
secondo La Grassa, questo genere di discorsi contribuirebbe all’occul-
tamento ideologico dei veri dominanti strategici (cfr. 2002a: 140). Anche
la “fantasmagoria finanziaria” fungerebbe da paravento per nascondere
le finalità intimamente politiche, ovverosia conflittuali, di tali agenti
strategici (cfr. La Grassa 2013: 125). Senz’altro non mancano eccezioni,
per esempio l’economista austriaco Kurt W. Rothschild (1947: 307) che
consigliava di studiare la teoria dell’oligopolio sui manuali di guerra di
Carl von Clausewitz (cfr. La Grassa 2013: 151).
Tutto ciò ha spinto il Nostro, soprattutto nell’ultimo decennio, ad at-
tuare una “riconversione” del marxismo, accogliendo parte delle ipotesi
ma su un differente assunto centrale (cfr. La Grassa 2009: 99): si passa così
dalla proprietà al conflitto tra agenti strategici per la supremazia sociale.
A scanso di equivoci, La Grassa ribadisce che il nuovo paradigma del
conflitto strategico – “il campo di forze che innerva permanentemente l’intera
formazione sociale complessiva” (cfr. 2009: 91) – è cosa ben diversa dal
situare il potere (quasi esclusivamente) negli apparati ideologici dello Stato,
come aveva fatto Althusser, che insisteva sulla dominanza sovrastrut-
turale per emanciparsi dall’economicismo, cadendo però nell’abbaglio
opposto (cfr. La Grassa 2004: 28). L’economista veneto, invece, ancora
negli anni ’90 collocava il dominio nei vertici della sfera economico-
produttiva per non perdere la specificità del sistema capitalistico (cfr.
La Grassa 1999a: 43) – che altrimenti si farebbe indistinguibile dai modi

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Capitolo II

di produzione precedenti – mentre nei saggi più recenti ha affermato


l’impossibilità di determinare univocamente la sede di tale egemonia.
Fuor da ogni dubbio, gli agenti con attributi politici sono quelli
“strategici, non le alte burocrazie” (La Grassa 2004: 100); essi risultano
frammentati e in reciproco scontro, così come esistono ostilità tra i vertici
dirigenti delle imprese in campo. Senza mai confondere il potere con tali
soggetti – che continuano a configurarsi come “maschere” di rapporti
sociali – tra gli obiettivi che essi perseguono devono essere menzionati
la riproduzione allargata che permette lo sviluppo del sistema impren-
ditoriale, l’attenuazione dell’asprezza competitiva interindividuale e
l’estensione della propria sfera di influenza (cfr. La Grassa 2004: 101-103),
che è una sorta di “quota di mercato” espressa nell’inestimabile agone
politico (cfr. La Grassa 2005c: 138). Sin da qui è possibile scorgere che vi
sono ripercussioni anche a livello geopolitico.
Il ruolo dello Stato è presto detto: si tratta di uno dei tanti campi di
contesa, solo in apparenza unificato, compatto e neutrale, che ha facoltà
di imporre a tutti i suoi cittadini una norma generale per delimitare lo
spazio del conflitto, con la coercizione al servizio della regolamentazio-
ne (cfr. La Grassa 1999c: 63); per dirla con parole foucaultiane, anche se
con sfumature leggermente differenti, è uno spazio imperativamente
giuridico che il dispositivo22 neoliberale utilizza per imporre la propria
governamentalità23, come appiana Leghissa (2012).
Con l’elaborazione lagrassiana è ancora possibile teoreticamente tri-
partire lo spazio sociale nelle sfere economica, ideologica e politica. Per
quanto concretamente siano “inscindibili” (La Grassa 1999c: 51) – anche
perché sottomesse ad un’analoga organizzazione di tipo imprenditoriale
– l’ideologia, oltre alla scuola, ingloba tutti gli apparati culturali e me-
diatici, mentre la politica in tale accezione comprende le innumerevoli
propaggini intermedie che si diramano tra lo Stato e la cosiddetta “società
civile” (cfr. La Grassa 2002: 281). Tuttavia è impossibile attribuire una
dominanza definitiva ad una delle tre sfere, principalmente per il motivo
che la razionalità strategica permea tutto lo spazio, la cui distinzione è
solamente di comodo (cfr. La Grassa 2013: 70).

22
Insieme eterogeneo (discorsi, istituzioni, decisioni, oggetti) di punti di intersezione tra
vettori che stabiliscono reti di relazioni di potere e di sapere. Il dispositivo prende tali
relazioni, le “dispone”, le rende possibili e fornisce loro i “circuiti” su cui possano sta-
bilirsi.
23
L’insieme delle tecniche e delle procedure utilizzate per dirigere il comportamento
umano.

44

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Il pensiero di Gianfranco La Grassa

La peculiarità capitalistica potrebbe essere quella di una supremazia


che viene esercitata pure nel terreno economico, o meglio, la sfera produt-
tiva sarebbe divenuta un mezzo addizionale per assicurarsi il dominio
nella società; rispetto alle formazioni sociali precedenti cambiano gli
attori, cambiano i campi di battaglia e cambiano le modalità di combat-
timento, ma perdura il conflitto. La Grassa, soppesando intensamente
le parole, lo esplicita in questi termini:
“Il capitalismo non è, nella sua essenza, un modo di produzione strutturato
in base al rapporto decisivo tra proprietà capitalistica dei mezzi produttivi e
forza lavoro salariata; esso è una forma storicamente determinata del conflitto
per la supremazia tra gruppi dominanti, condotto non soltanto nella politica e
nell’ideologia come in altri tipi di società bensì, con modalità del tutto specifi-
che, nell’economia laddove esso è causa del particolare dinamismo produttivo
(e tecnico-scientifico) dell’attuale società” (2005c: 132).

Il potere resta l’elemento centrale della contesa, anche nel capitalismo,


malgrado l’esteriorità ponga in risalto il mercato (cfr. La Grassa 1999c:
73) – che è la conseguenza del conflitto (cfr. La Grassa 2005c: 155) – e la
sfera produttiva che, effettivamente, per la prima volta nella storia viene
invasa da questo tipo di scontro. L’economia è pur sempre al servizio
della politica intesa come scontro; gli apparati imprenditoriali sono
un modo per irreggimentare enormi apparati economici in tensione
conflittuale – innescando un ampio sviluppo di forze produttive – per
affrontare la contesa tra strategie differenti.
Per tale motivo, la lotta più aspra non è quella meramente mercan-
tile, ma quella per ampliare le sfere di influenza e, servendosi di ogni
mezzo, conseguire una supremazia nella società. Il mercato rappresenta
la scena; dietro le quinte vi sono i complessi disegni interconflittuali di
diverse fazioni della classe dominante che perseguono la redistribuzio-
ne del potere, a seconda delle esigenze, vuoi con la sconnessione, vuoi
(subordinatamente) con la riconnessione stipulando “alleanze per il con-
flitto” (cfr. La Grassa 1999a: 67-72). Quest’ultimo pervade l’intera società,
innervandosi nel tessuto produttivo; come tutti i modi di produzione
precedenti, anche l’attuale si riproduce tramite il conflitto. A costo di
ripetere nuovamente il medesimo concetto, si rammenta che la strategia
deve essere pensata come
“una sequenza, non preordinata, di mosse che – a partire da una data,
e analizzata con metodi scientifici, configurazione di un campo di

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Capitolo II

battaglia e delle forze in campo: «truppe» e mezzi materiali – inseri-


sce elementi di novità e sorpresa, in quanto singolarità «eccedenti» le
indicazioni generali fornite dall’analisi. La strategia consiste appunto
in questa eccedenza di novità capace di volgere la situazione a favore
della propria prevalenza” (La Grassa 2010: 126).

Si evince quindi che essa “è politica di direzione di un conflitto per


la preminenza” (La Grassa 2009: 61). Se La Grassa ripudia chiaramente
ogni economicismo, non si può dire lo stesso per il marxismo. Ricollocato
sulla base del conflitto strategico, il primo libro de Il Capitale di Marx
(1872) resta una pietra miliare che segnala un aspetto più generale: “il
capitalismo è competizione: non semplicemente quella di classe, tra
dominanti e dominati, ma anche quella infradominanti” (La Grassa
2004: 51). Il motto che aveva aperto la sezione su Marx viene così tra-
sfigurato: “la storia delle società finora esistite è soprattutto storia di
conflitti tra dominanti” (La Grassa 2005c: 15). In sintesi, gli scontri “più
acuti e decisivi” sarebbero quelli che si consumano all’interno dei settori
egemoni (La Grassa 2002: 266) – in un siffatto paradigma conflittuale
chiamarla classe “borghese” diviene impossibile, parimenti è svanita la
classe proletaria con una sua coscienza unitaria (cfr. La Grassa 1999b:
124) – e sarebbe tale lotta per la supremazia a trainare “la locomotiva
della storia”, dando un vigoroso impulso alle scoperte tecnologiche e
scientifiche (La Grassa 2002a: 95 e 21).

2.4. Dalle teorie “crollistiche” dell’imperialismo alle ricorsività di fase


Nella sua dimensione più estesa, il conflitto interdominanti si gioca
tra potenze geopolitiche, dal momento che gli Stati – così come gli apparati,
i gruppi sociali e gli individui – possono essere assimilati ad agenti stra-
tegici, sempre tenendo presente che, a loro volta, sono mossi da accese
conflittualità interne dovute a strategie antitetiche. Non si parla solo di
lobby settoriali, ma di veri e propri ambienti come quelli che si coagula-
no attorno ad un’opzione di politica estera in senso espansionistico (o,
viceversa, isolazionistico) per meglio difendere i propri interessi.
Il marxismo non ha affatto trascurato il conflitto tra Stati, ma in
genere lo ha concepito come conseguenza della centralizzazione dei
capitali e/o lo ha visto, storicisticamente, come uno stadio che avrebbe
preluso all’avvento del comunismo. Kautsky (1914), per esempio, parlò
di (ultra)imperialismo riferendosi ad una delle possibili politiche del
capitale qualora nella borghesia predominassero gruppi finanziari con

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Il pensiero di Gianfranco La Grassa

mire coloniali. Rosa Luxemburg (1913) ne ricercò le cause nell’esigenza


di nuovi mercati di sbocco per le merci prodotte all’interno dei paesi
capitalistici in cui, per l’esigenza di tenere bassi i salari dei lavoratori, la
produzione sarebbe stata superiore alla domanda; insomma, permase
nella medesima identificazione tra imperialismo e colonialismo. Per
inciso, il suo ispiratore indiretto, il liberale John A. Hobson (1902), non
escluse una redistribuzione dei redditi che avrebbe fatto venir meno le
motivazioni sottostanti.
Frontalmente contrapposto a Kautsky, tuttavia anch’egli influenzato
dagli studi di Hobson, rispose Lenin [1917], che condensò in 5 punti le
sue tesi, così esposte da La Grassa (2003: 14):

1) “Centralizzazione monopolistica dei capitali quale stadio


supremo del capitalismo”;
2) “Formazione del capitale finanziario in quanto simbiosi tra
capitale bancario e capitale industriale”;
3) “Sviluppo relativamente maggiore dell’esportazione di
capitali rispetto a quello di merci”;
4) “Competizione tra grandi concentrazioni monopolistiche
per la spartizione del mercato mondiale”;
5) “Conflitto tra Stati (grandi potenze) per la divisione
del mondo in zone di influenza”.

Secondo il rivoluzionario bolscevico, l’affermazione decisiva sarebbe


la prima, che sintetizzerebbe le altre; il professore veneto, invece, nella
sua rivisitazione, riconduce l’imperialismo alla quarta e alla quinta,
innestandole nella sua nuova elaborazione.
La prima tesi presuppone due assunti marxiani che La Grassa ritiene
entrambi smentiti: la focalizzazione sulla proprietà dei mezzi (con la
mancata distinzione tra fabbrica e impresa) e la conseguente tendenza de-
terministica lineare alla centralizzazione dei capitali, con il nuovo modo
di produzione socializzato che sarebbe alle porte. Identificare tout court
il gigantismo dimensionale delle unità produttive con l’effettivo mono-
polio sarebbe però segno di economicismo; all’opposto, La Grassa nota
che la centralizzazione monopolistica esisterebbe solo in alcune epoche
in cui il conflitto si attenua, mentre qualora si scatenasse violentemente
avverrebbe il contrario. Per il Nostro, lo scontro incessante è prioritario
rispetto all’efficienza massimizzante; qualsiasi supremazia prima o poi
verrebbe messa in discussione e, per tale motivo, l’imperialismo non po-

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Capitolo II

trebbe mai essere definito come fase “ultima” né tantomeno “suprema”


del capitalismo. Ad ogni modo, La Grassa ammira le intuizioni di Lenin
dalle quali ne consegue che l’imperialismo esaspera il conflitto tra le varie
formazioni economico-sociali al fine della prevalenza e che il monopolio
è l’intensificazione ad un livello più elevato della concorrenza, e non la
sua soppressione.
Anche la seconda tesi, pur apprezzabile per aver notato la simbiosi
tra capitale bancario e capitale industriale, sarebbe alquanto sterile se
inserita nella concezione marxiana che sostiene la dominanza di una
classe di rentier “tagliatori di cedole” avulsi dalla produzione, invece di
considerare la finanza come un semplice strumento del conflitto. Così
pure la terza affermazione di Lenin peccherebbe di economicismo; se
non invalidata, sarebbe comunque da considerarsi derivata rispetto
al nocciolo del problema, chiarito nelle ultime due tesi: competizione
tra monopoli e conflitto tra Stati. Depurando il pensiero leninista dagli
eccessi “cosali” che si soffermavano precipuamente sugli effetti quantifi-
cabili – e per farlo si appella a Marx, per il quale il capitale è anzitutto un
rapporto sociale – l’economista di Conegliano indica come caratteristiche
dell’imperialismo
“la competizione tra gruppi di agenti dominanti strategico-imprendito-
riali per le quote di mercato, e il conflitto tra gruppi di agenti dominanti
politici (con i loro “prolungamenti” militari) per le sfere di influenza;
cui va aggiunto il confronto tra agenti portatori di ideologie diverse
per l’egemonia culturale” (2003: 17).

In tal guisa, La Grassa ritiene di aver finanche rafforzato le tesi


leniniane, nuovamente utilizzabili per poter analizzare il contesto con-
temporaneo. Se si incorpora nella teoria ciò che Lenin con la sua pratica
aveva solamente percepito, le contraddizioni tra dominanti – gli “anelli
deboli” – si potrebbero sfruttare al fine di eventuali rivolgimenti sistemici;
perciò, a detta di La Grassa, sarebbe caldeggiabile l’aperto estrinsecarsi
delle ostilità tra agenti direttivi (cfr. 2009: 30). Inoltre, un approfondimen-
to delle dinamiche del conflitto potrebbe far rifulgere la legge leniniana
dello “sviluppo diseguale” che sancisce le irregolarità spaziali e temporali
con cui avvengono i processi di espansione economica, proprio a causa
dei contrasti locali dai quali si originano turbolenze di vario tipo (cfr. La
Grassa 2005c: 159-163).
Adottando il medesimo paradigma del conflitto strategico e coeren-
temente con le argomentazioni sopra richiamate, La Grassa è giunto a

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Il pensiero di Gianfranco La Grassa

riconoscere, tra il nucleo della riproduzione capitalistica storicamente


determinata e le singolarità transeunti, il riproporsi – “ma diverso” (cfr.
2009) – di “eventi ricorsivi, ciclici, non con direttrici di sviluppo unili-
neari” (cfr. La Grassa 1996b: 13). In seguito, studiando i tratti di queste
“pulsazioni periodiche” (cfr. 1998a: 56), egli ha individuato due tipologie
di ricorsività24: quelle monocentriche e quelle policentriche.
Il monocentrismo si ha quando una formazione sociale capitalistica
coordina nel suo insieme la scena mondiale (cfr. La Grassa 1998a: 148).
Esso è connotato da una relativa tranquillità monopolistica che favorisce
l’ascesa di gruppi manageriali (con scarsa o nulla proprietà azionaria)
che si collocano poi nei vertici di dirigenza strategica; certune imprese
operano in sinergia con gli apparati statali e si ha una sorta di mono-
polizzazione dei mercati. Imponendosi un ruolo centralizzato stabiliz-
zatore, in politica economica hanno la meglio gli orientamenti di tipo
“keynesiano”, nelle due varianti “sociale” e “militare”; sostanzialmente
sono frutto di accordi tra gli agenti politici del paese centrale e quelli
strategico-imprenditoriali per scongiurare le crisi da sottoconsumo/
sovrapproduzione tipiche della ricorsività monocentrica (cfr. La Gras-
sa 1998a: 76). In tale fase il conflitto sembra assopito, ma perdura una
“guerra di posizione”.
Viceversa, il policentrismo rompe il precedente monocentrismo e de-
scrive una marcata competizione tra molteplici centri capitalistici che
si contendono l’egemonia, “o almeno la leadership, sull’intero campo”
(La Grassa 1998a: 148). Sovente gli agenti strategico-imprenditoriali si
servono della proprietà giuridica come strumento difensivo, coadiuvato
offensivamente da operazioni di acquisto azionario; eventuali alleanze
e tendenze espansive sono finalizzate alla competizione. Le crisi più
comuni nelle ricorsività policentriche sono date innanzitutto dal conflitto
stesso, ma anche dagli scompensi settoriali e dalla marxiana “caduta
tendenziale del saggio di profitto”, ove si manifesterebbe la necessità di
reperire risorse soprattutto per sviluppare innovazioni (cfr. La Grassa
1998a: 81). In tale fase si ha una “guerra di movimento” che esige la
rapida movimentazione di ingenti risorse facilmente liquidabili, con
conseguente espansione del settore finanziario, generalmente sottoposto
ad una regolamentazione meno severa. Sarebbe proprio nel policentri-
smo ad affermarsi l’imperialismo – definito lagrassianamente – in cui il

La predilezione semantica per “ricorsività” è per evitare la connotazione eccessiva-


24

mente economica che ha assunto la parola “ciclo” (cfr. La Grassa 1996b: 148).

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Capitolo II

gigantismo imprenditoriale non va di pari passo con il monopolismo,


bensì con la flessibilità.
Un’altra cosa da sottolineare è che, tra le due ricorsività, il policentri-
smo sarebbe la regola, mentre il monocentrismo l’eccezione (La Grassa
2009: 91); lo si capirà ancora meglio nel prossimo paragrafo, quando
verrà esplicitata l’ipotesi fondamentale dello squilibrio.
Per condurre la propria lotta, gli agenti strategici si servono di armi
economiche come le fusioni, gli scorpori, i collegamenti, le holding e
il decentramento; restano imprescindibili i processi innovativi e la
costruzione di reti di relazioni esterne – ad esempio con ambienti di
tipo governativo – per assicurarsi posizioni di supremazia. In alcune
congiunture possono essere dominanti i vertici della sfera economica, in
altre quelle statali, ma sono sempre segnate internamente dal conflitto
(La Grassa 2003: 57). Inoltre, il professore veneto ritiene che le sue teorie
sugli agenti strategici del conflitto possano smentire la “distinzione netta
e irriducibile tra privato e pubblico”, poiché dietro “l’interesse generale
della collettività” si eclisserebbero “gli interessi di dati gruppi politici
legati a quelli imprenditoriali”, in particolare di quelli meno dinamici che
vogliono preservare la propria posizione di rendita (La Grassa 2013: 208).
Rivolgendo lo sguardo agli avvenimenti a noi vicini, con la “ri-
mondializzazione” del capitale – termine che La Grassa preferisce a
quello più diffuso, ma prescrittivo25, di “globalizzazione” – il conflitto
pare essersi riacceso: da un’epoca sostanzialmente monocentrica (seppur
bi-polare nel confronto con il campo del Comunismo Storico Novecente-
sco) si sarebbe entrati in una fase di incipiente policentrismo, iniziato
a livello inter-imprenditoriale ma ora riattivatosi anche nel confronto
geostrategico tra USA e Russia, oltre all’emergere degli altri paesi BRI-
CS. La Cina, tuttavia, potrebbe incontrare impedimenti interni dovuti
alla peculiare struttura sociale (cfr. La Grassa 2003: 61) che occorrerebbe
studiare minuziosamente.
Nel condurre la sua analisi di fase – nello spirito leninista e maoista
dell’“analisi concreta di una situazione concreta” – La Grassa è solito
chiamare multipolarismo l’attuale congiuntura, dapprima battezzata
“policentrismo monco” (2002a: 75) o “semi-imperialismo” (2003: 58). Il
multipolarismo, che vede una forte concorrenza economica accompagna-
25
Così si esprime Preve nell’introduzione a La Grassa (2003: 5): “La cosiddetta «global-
izzazione» non esiste [perché] è in un’autorappresentazione, ad un tempo apologetica
e prescrittiva, delle oligarchie dominanti (non solo economiche) dell’imperialismo USA
[meglio definirlo “monocentrismo”; NdR] e dei suoi alleati”.

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Il pensiero di Gianfranco La Grassa

ta da un conflitto tra entità statuali non ancora pienamente dispiegato,


si può risolvere o in direzione di un nuovo (precario) monocentrismo,
oppure verso una fase di scontro policentrico ancora più infiammato.
Al momento sembra prospettarsi una fase di “stagnazione”, tuttavia
essa è attraversata da “rapidi spostamenti di campo e di alleanze” (La
Grassa 2003: 68) che sin da ora promanano un’evidente “sensazione di
caos e di scoordinamento” (2003: 73). Si noti che già all’alba degli anni
’80, quando ancora non era approdato alla teoria del conflitto strategico,
La Grassa invitava a non sottovalutare quegli
“intensi processi di trasformazione che vanno maturando nell’ambito
di questa (come già delle precedenti) fase di stagnazione «generale»;
processi che possono benissimo sfociare – dopo un’intera epoca di radicali
sconvolgimenti – in una nuova riarticolazione del capitalismo attorno a
nuovi settori (e paesi o gruppi di paesi) dominanti e trainanti, con una
nuova ripresa dello sviluppo (macroeconomico) e dell’accumulazione
e valorizzazione del capitale” (1983a: 7-8).

Sebbene poco ascoltato, l’ammonimento è ancora valido per tutti i


“catastrofisti” di ieri e di oggi.

2.5. Cenni su squilibrio, realtà, scienza


Soprattutto negli ultimi tempi e all’interno delle sue riflessioni diffuse
online, Gianfranco La Grassa ha concentrato gli sforzi nel determinare un
fondamento oggettivo alla sua proposta teorica. Per il pensatore veneto,
infatti, né la “lotta di classe” né il conflitto strategico da lui proposto
per il superamento del marxismo riuscirebbero a collocarsi al di sopra
del piano dell’intersoggettività. Proviamo a capirne il motivo: venendo
meno i “soggetti” in lotta, siano essi individuali o collettivi, svanirebbe
anche lo scontro. La Grassa, nel voler conservare un’oggettività strut-
turale – che Marx aveva individuato nella base economica della società
costituita dai rapporti sociali – ritiene che le funzioni assolte dai soggetti
precederebbero gli individui, i quali sarebbero portatori di un ruolo e al
contempo agenti con proprie peculiarità all’interno dello scontro, che in
ogni caso avvierebbe il movimento sociale. Egli ha provato a cercare la
causa del conflitto sia nella “volontà di potenza”, sia in un certo istinto
biologico di sopravvivenza/autoconservazione, ma la cogenza di queste
argomentazioni gli è sembrata insufficiente.
Nel procedere, La Grassa ha postulato una realtà esterna ai soggetti,
svincolandola però dalla cosiddetta teoria del rispecchiamento che implica

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Capitolo II

la possibilità di conoscerla, in modo più o meno perfetto o perfettibile.


L’ultima ipotesi formulata sarebbe quella di un “flusso reale inconosci-
bile”, ossia di una realtà fluida, in continuo movimento e caoticamente
imprevedibile. Per poter agire è necessaria una stabilizzazione, serven-
dosi ad esempio di teorie e sistemi ideologici, che poi necessitano di
riaggiustamenti e di vere e proprie “azioni di rottura” (cfr. 2015b: 11),
proprio perché la realtà sarebbe in mutamento incessante. Se non ci si
accorgesse sin da subito di aver interpretato il flusso in moso scorretto,
lo si vedrebbe palesemente dai risultati altamente imperfetti; viceversa,
si potrebbe dire che una data teoria è dotata di un qualche realismo
qualora essa garantisse risultati soddisfacenti, senza che da ciò ne possa
conseguire la possibilità di conoscere la realtà in divenire (cfr. 2015b: 49).
Pertanto, a detta del professore sarebbe impossibile immergersi pro-
priamente nel fluire ininterrotto, che sarebbe null’altro che lo “scorrere
del tempo”, di fronte al quale tutto è destinato a perire (La Grassa 2013:
191), come già Eraclito ebbe modo di notare. In questo modo, La Grassa
lascia molto spazio all’incertezza senza cadere nel crudo disfattismo;
semplicemente afferma di voler accettare la precarietà dell’esistente e la
caducità delle medesime ipotesi che inevitabilmente devono essere fatte.
Per portare una metafora da lui utilizzata, è come se si stesse facendo
surf sulla cresta di un’onda; si confermerebbe quindi la necessità di creare
una tavola, in altre parole dei campi di stabilità in grado di analizzare, in
via temporanea, la fase del flusso “immanente” (La Grassa 1998a: 75; cfr.
2013: 58) per mezzo di una sua scomposizione razionale e relazionale.
Si menzionavano appunto le teorie: esse sono guidate da prospettive
esterne che “tagliano” (cfr. 1996b: 27) il fluire squilibrante della realtà.
La scienza costruirebbe delle ipotesi – che sarebbero “schizzi” (cfr. La
Grassa 2009: 12) e “griglie interpretative” (cfr. 2009: 18) – per indagarne la
struttura caotica, quindi al fine di prevederne la dinamica per evitare di
essere travolti dal suo moto ondoso. In un senso più generale, svolgono
funzioni stabilizzanti tutti quei “campi da gioco” in cui si estrinseca il
conflitto tra agenti (strategici) che lottano per mantenerli, modificarli, o
sovvertirli (cfr. 2013: 45).
Nonostante lo squilibrio abbia assunto un ruolo fondativo solamente
negli ultimi scritti, anche per via dello scenario sociale sempre più con-
fuso e indecifrabile con le mappe usuali, esso non è una novità assoluta
nel pensiero di La Grassa. Negli anni ’80, associandolo alle “crisi” da va-
lorizzazione del capitale, egli ne aveva riconosciuto una certa prevalenza
a causa dell’anarchia dei mercati (cfr. 1983a: 18). Nello stesso periodo, la

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Il pensiero di Gianfranco La Grassa

“prospettiva (dominante) del disquilibrio” (1986a: 84) sarebbe stata la


precondizione per una trasformazione non deterministica del modo di
produzione capitalistico, il quale non avrebbe alcuno sbocco necessitato.
A partire dal decennio successivo, la sua enunciazione si fece più affine
a quella inquadrata nei testi più recenti:

“Personalmente non credo che la realtà abbia senso, che sia veramente
sistematica e solidamente strutturata, che si muova in direzioni de-
terminate […] le ipotesi teoriche sono comunque i nostri sensori, sono
indispensabili al nostro muoverci e agire nel mondo, con l’alternanza
di successi e fallimenti in questa azione (la «prassi»). Le teorie debbono
dare stabilità e determinatezza allo squilibrio e all’ambiguità; altrimenti
ne consegue la paralisi d’ogni attività” (La Grassa 1996b: 11-12).

È con l’anno 2013 che il tema viene posto come aspetto oggettivo
alla base dell’aspetto superficiale del conflitto strategico, che sarebbe la
manifestazione dello squilibrio sottostante (cfr. 2013: 58). Per compren-
dere meglio quanto si è affermato, un’altra citazione è assai significativa:
“Lo squilibrio spiega il motivo per cui, malgrado i desideri e le aspi-
razioni degli umani, il conflitto (con il corredo delle strategie, cui è
subordinata la razionalità del minimo mezzo) è l’elemento dominante
nelle azioni dei «soggetti» (individui, gruppi sociali, formazioni par-
ticolari), mentre la cooperazione esiste solo in quanto funzionale alla lotta.
Lo squilibrio situa ogni «soggetto» in posizione dissimmetrica rispetto
agli altri quanto a rapporti di forza, generando reazioni tese a recuperare
la simmetria” (La Grassa 2013: 49).

Procedendo in siffatta maniera, la causa oggettiva da cui dipenderebbe


l’intersoggettività del conflitto tra agenti strategici per la supremazia
sociale è riconosciuta in questo squilibrio incessante (cfr. La Grassa
2015b: 19) che “genera il movimento”, il quale a sua volta “ha come effetto
il conflitto e la formazione di «punti di condensazione» rappresentati
dai portatori soggettivi, dagli «attori» che fra loro appaiono in lotta nella
realtà più «visibile»” (La Grassa 2015a: 198) in superficie. Al contempo,
La Grassa sembra prendere in parte le distanze dalla sua precedente
rappresentazione del processo conoscitivo quale un “calarsi in un pozzo
senza fondo, incontrando a varie profondità diaframmi successivi da
infrangere per continuare la discesa” (2011: 78); il flusso non sarebbe del
tutto assimilabile ad un pozzo, proprio perché si tratta di un prius logico
in continuo mutamento.

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Capitolo II

Tuttavia, per il pensatore di Conegliano la stessa ipotesi del flusso


inconoscibile può essere senz’altro ridiscussa; egli la suppone genuina-
mente in quanto ragionevole spiegazione oggettiva che getta le fonda-
menta per l’intersoggettività del conflitto strategico, cuore della proposta
post-marxista lagrassiana. Per concludere, il Nostro non tradisce l’intento
scientifico marxiano volto a disvelare il movimento reale nascosto dietro
a quello apparente (2010a: 9) e riesce anche a far propria la concezione
weberiana secondo la quale essere “superato” non solo sarebbe lo scopo
dello scienziato, ma addirittura il suo destino (2010a: 34).

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Capitolo III

Analisi critica

3. Influenze e confronti

“Il ne faut pas (se) raconter d’histoires”.


“Non dobbiamo raccontar(ci) storie”.
L. Althusser

1.1. La formazione marxista: Pesenti, Bettelheim, Althusser


Nel capitolo che ha ripercorso la vita e le opere di Gianfranco La Gras-
sa si è fatto cenno a tre importanti pensatori che hanno, direttamente o
indirettamente, formato la sua elaborazione teorica. È possibile partire,
in ordine cronologico, dall’economista Antonio Pesenti. Già ministro
delle finanze nell’ultimo governo presieduto dal demolavorista Ivanoe
Bonomi, a cavallo tra il 1944 e il 1945, Pesenti era Senatore del PCI nella
terza Legislatura della Repubblica Italiana quando rispose ad una lettera
del giovane militante comunista Gianfranco La Grassa, che da poco ave-
va superato la maggiore età. Come si è detto, quello scambio epistolare
persuase La Grassa a iscriversi alla facoltà di Economia dell’Università
degli Studi di Parma. Nel 1960, in seguito al trasferimento di Pesenti a
Pisa, La Grassa decise comunque di terminare gli studi a Parma, dove
insegnava il cattolico sociale Franco Feroldi. Dopo la laurea andò a
risiedere nella città della “torre pendente” per diventare assistente del
professore comunista – che sino al 1968 era nel Comitato Centrale del
PCI – con cui era rimasto in contatto. In tutte le questioni economiche
e finanziarie, Pesenti era il principale riferimento del suo Partito; La
Grassa lo descrive come uno “scienziato marxista” sempre attento alla
congiuntura storica concreta e ne ha suddiviso l’elaborazione teorica
grosso modo in due fasi. La prima è ben rappresentata dalla rivista Critica
Economica, che Pesenti fondò nel 1946 e diresse per un decennio; siffatto
“laboratorio intellettuale economico del PCI” mostrava soprattutto una
significativa “apertura al dibattito scientifico e politico con studiosi ita-
liani e stranieri di vario orientamento e grande prestigio” (Soliani 2011).

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Capitolo III

Sempre in questo periodo, tra il dicembre del 1955 e l’aprile successivo,


il Senatore tenne presso l’Istituto di Studi Comunisti alcune lezioni di
altissimo livello, in cui rivisitava gli strumenti teorici della tradizione
marxista utili per affrontare le questioni di attualità. Nella fase seguente,
dal 1956 sino al 1973, anno della sua morte, accordò una sempre maggiore
importanza strutturale ai “ceti medi produttivi”, in precedenza ritenuti
“residuali”; il mutamento di prospettiva fu dovuto principalmente alla
trasformazione dell’economia italiana innescata dal boom economico, con
un capitalismo che da concorrenziale si era fatto oligopolistico. La propo-
sta fondamentale era quella di un’alleanza tra ceti medi e classe operaia
che, nell’accrescimento del ruolo delle imprese pubbliche a discapito di
quelle private, avrebbe portato alla costituzione di un blocco sociale di
potere in grado di attuare “riforme strutturali” verso la costruzione del
socialismo in Italia, al fine di migliorare la condizione delle masse popo-
lari; nel rigettare il keynesismo interno al sistema economico capitalistico,
al contempo Pesenti ne evidenziava gli elementi che potevano andare
in direzione di una socializzazione delle forze produttive (cfr. Preve
1993: 173). L’ultima edizione del Manuale di Economia Politica (1970), cui
collaborò anche l’allievo La Grassa con un’appendice microeconomica, è
una valida sintesi della materia, considerata da una prospettiva marxista
conciliata con gli economisti “classici”. Politicamente, quello dell’eco-
nomista marxista era un “riformismo” di marca amendoliana e fedele a
Togliatti, che andava di pari passo con lo “stalinismo”; pertanto non è
errato parlare di “uccisione psicanalitica del padre” per descrivere “la
genesi di una produzione teorica originale” (Preve 2004) com’è quella
lagrassiana.
Ma non sarebbe bastato il parricidio nei confronti di Pesenti per
permettere a La Grassa di conseguire ciò che abbiamo illustrato nelle
precedenti sezioni. La figura chiave è quella di Charles Bettelheim,
che gli fu maestro nel biennio parigino 1970-1971. L’economista veneto
conserva vivida la memoria di quel periodo particolarmente fruttuoso:
prima delle lezioni serali di Bettelheim all’EPHE di Boulevard Raspail,
affollate da centinaia di studenti provenienti da ogni parte del mondo,
ogni due giovedì dalle ore 15 alle 17 La Grassa aveva appuntamento con
il Maestro, nello studio di Rue des Feuillantine, per discutere i testi di Louis
Althusser che gli affidava da leggere da una volta a quella successiva.
In quel modo La Grassa ebbe la fortuna di attingere, in un colpo solo, al
pensiero dei due studiosi francesi. Bettelheim è stato per lui un grande
esempio educativo, con una guida discreta e dotata di spirito, che lo ha

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Analisi critica

aiutato a vincere il dogmatismo prevalente nel marxismo dell’epoca e le


eventuali ingenuità che potevano emergere durante il confronto. Già in
quegli anni, Bettelheim era uno dei pochi ad aver analizzato, con rigore
scientifico, i limiti del socialismo reale sovietico che si sarebbe avviato
verso la sconfitta; maggiori auspici potevano invece venire dal maoismo
della Rivoluzione Culturale cinese che, almeno nelle intenzioni, era
volta a superare la frattura tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Si
cercavano nuovi strumenti teorici e – se n’è accennato – una delle intui-
zioni principali fu separare la proprietà formale dall’assai più importante
potere di disposizione (possesso reale) dei mezzi di produzione, il che
consentiva serrate critiche alla natura sociale dell’URSS pur continuando
a collocarsi all’interno del marxismo. Il teorico francese si impegnò an-
che concretamente a favore dei paesi del “terzo mondo” che si stavano
emancipando dal giogo coloniale, senza risparmiare rimproveri a Che
Guevara che avrebbe desiderato per Cuba una rapida industrializzazione
su ampia scala.
Nel libro di Bettelheim (1970), affrontato durante le lezioni, si osservò
nel dettaglio la formazione sociale di transizione al socialismo, con le laceranti
lotte di classe interne che possono protrarsi a lungo, con la possibile re-
gressione ad un modo di produzione compiutamente capitalistico, come
poi avvenne a vent’anni di distanza. Insomma, egli era interessato alla
struttura dei modi di produzione determinati dai rapporti sociali di produ-
zione, e non tanto allo sviluppo delle forze produttive; quest’ultimo, invece,
nella corsa alla conquista dello spazio, agli occhi di molti comunisti creava
non pochi miraggi riguardo un’imminente vittoria del campo sovietico
su quello capitalista.
Le riflessioni di Bettelheim, a loro volta, avevano subito il fascino
della lettura di Louis Althusser, che nel 1965 aveva pubblicato Lire le
capital (1968) e Pour Marx (2008). È possibile individuare alcuni elementi
del pensiero althusseriano che hanno avuto una portata dirompente nel
marxismo occidentale e che, rispondendo pienamente all’esigenza di
radicalità che nel suo tempo stava emergendo, lo hanno reso un riferi-
mento innanzitutto per coloro che non si riconoscevano nel “socialismo”
di Mosca. Althusser restò formalmente iscritto al Partito Comunista
Francese filorusso ma, nei fatti, fu una sorta di portavoce teorico del
maoismo in Europa. Non aveva particolari interessi di carriera univer-
sitaria, anzi, il suo costante riferimento erano le masse lavoratrici – per
le quali intravvedeva una nuova stagione di marxismo – ma alla fine,
proprio per l’incapacità della “classe operaia” di cogliere le novità da

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Capitolo III

lui avanzate, l’althusserismo anziché riportare il marxismo nelle piazze


si rovesciò in una setta accademica residuale26. Se qui si osa operare una
brutale riduzione all’osso dei difetti che il professore francese riscontrò
nel marxismo dogmatico, lo si fa nel solco di Costanzo Preve (1993: 192-
193), che ebbe modo di avvicinarlo e di condividerne in gioventù le sue
idee. Althusser criticò tre caratteristiche nocive presenti nel marxismo:

1) Umanesimo, ovverosia la sostituzione della credenza in


Dio con quella nell’Uomo che porrebbe fine allo sfruttamento.
Egli temeva che dietro le raffigurazioni umanistiche di Marx,
allora in voga27, si nascondessero tendenze riformistiche, “revi-
sioniste” e interclassiste che avrebbero impedito le lotte di classe
necessarie all’interno delle formazioni sociali di transizione,
come quella sovietica;
2) Storicismo, ovverosia la concezione accrescitiva di un tem-
po storico omogeneo e cumulativo in cui l’Uomo svilupperebbe
il progetto umanistico sempre progredendo dal punto di vista
morale e scientifico. Lo storicismo implica il triplice mito di
un’Origine primigenia da ricomporre, di un Soggetto che avrebbe
dovuto realizzare tale progetto e del Fine, cioè una concezione
destinale della storia in un apice culminante in cui si sarebbero
attuate tutte le sue potenzialità intrinseche. Ne è un esempio
il materialismo dialettico con le sue leggi unificate della storia e
della natura, secondo le quali da un modo di produzione ine-
vitabilmente ne sorge un altro: dallo schiavismo il feudalesimo,
dal feudalesimo il capitalismo, dal capitalismo il socialismo.
3) Economicismo, ovverosia la focalizzazione sul calcolo
del plusvalore e sullo sviluppo tecnico-scientifico delle forze
produttive, ritenute neutrali, anziché sui rapporti sociali di
produzione. Anche qui si opponeva all’impostazione sovietica:
si pensi al fenomeno dello stacanovismo28.

Applicando il metodo epistemologico di Gaston Bachelard (1934) alle


scienze sociali, Althusser pensò di aver trovato una “rottura epistemo-
26
Costanzo Preve (2008) parlò appunto di “paradosso dell’althusserismo”.
27
Si può citare Roger Garaudy per quanto riguarda la Francia, altrimenti il polacco Adam
Schaff, l’italiano Lucio Lombardo Radice, i tedeschi Ernst Bloch e Robert Havemann (cfr.
Preve 2012: 79).
28
Forse più propagandistico che non strettamente economicistico.

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Analisi critica

logica” (coupure épistémologique) nel pensiero di Karl Marx che, a partire


dal 1845, avrebbe abbandonato completamente la filosofia per dedicarsi
alla scienza dei modi di produzione. Sotto una stretta sorveglianza delle
ipotesi, facendo ampio uso di “violenza ermeneutica” (Preve 2012: 85) e
di “letture sintomali” (Preve 2012: 185), Althusser falciò così ogni riferi-
mento marxiano all’alienazione e al feticismo in quanto residui metafisici
hegeliani-feuerbachiani. Poiché aveva conosciuto Hegel attraverso la
mediazione di Alexandre Kojève – che effettivamente descriveva il gran-
de filosofo in modo esasperatamente storicistico – Althusser si oppose
frontalmente a quell’Hegel e cercò di depurare Marx da ogni sillaba che
potesse avere un retrogusto hegeliano, sebbene in alcuni casi si trattasse
di tracce di progressismo positivistico. Non entriamo troppo nei dettagli,
anche se ci sembra ragionevole pensare che la teoria del rivoluzionario
di Treviri sia basata indubbiamente sulla nozione di modo di produzione
e non su “un fantomatico Uomo in Generale” (Preve 2003: 86), ma essa
diventerebbe espressiva politicamente solo se collocata all’interno di
una filosofia della storia universale, dove l’Uomo sarebbe l’unificazione
concettuale del molteplice empirico (Preve 2012: 79), con un’impostazio-
ne schiettamente aristotelica. Althusser ripudiò sia l’umanesimo teorico
(assente in Marx) sia l’umanesimo pratico (implicito in Marx) e rifiutò
ogni tentativo di “grande narrazione”29, salvo però, negli ultimi anni
della sua vita, approdare ad un anarchico “materialismo aleatorio”, che
è un’anti-filosofia della storia le cui ascendenze andrebbero riconosciute
in Epicuro, Machiavelli, Spinoza, Hobbes, Rousseau, Heidegger e Marx.
L’esclusione althusseriana della scienza filosofica di Marx, pensatore
a tutto tondo ridotto a mero scienziato dei modi di produzione, porta
a disgiungere l’unità di conoscenza e valutazione – che nel pensatore
di Treviri era ancora viva – risultando alla fine incapace di un’adeguata
fondazione del comunismo. Nonostante la lungimirante descrizione del
capitalismo quale “processo senza soggetto” e la sovrastruttura ideo-
logico-politica che assume maggiore importanza rispetto alla struttura
economica, in Althusser la filosofia resta solo una “lotta di classe nella
teoria” e il “materialismo aleatorio” è quello che Preve ha definito una
“religione irrazionalistica del culto della casualità e della contingenza,
che ognuno riempie poi come vuole nella più totale arbitrarietà” (Preve
2013: 369).

29
Utilizziamo questa espressione di Jean-François Lyotard (1979) per sottolineare, a pre-
scindere dalle finalità quasi opposte, un rimarchevole parallelismo tra i due autori.

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Capitolo III

Gianfranco La Grassa non ha sposato quest’ultima deriva, tuttavia


le riflessioni che il professore francese ha elaborato tra gli anni ’60 e
gli anni ’70 del secolo scorso hanno lasciato in lui un segno indelebile.
Senza tentennamenti si può dichiarare che l’economista veneto ha in-
carnato anch’egli il celebre motto althusseriano: dobbiamo smetterla di
raccontare storie agli altri e a noi stessi! Abbandonare le vecchie illusioni
è una grande sfida che va raccolta, tenendo presente che il marxismo,
privato dell’oppio storicistico senza proporre basi filosofiche alternative
– diversamente da quanto auspicava Althusser – non solo potrebbe non
risollevarsi, bensì trapassare definitivamente.

1.2. Il rapporto con Costanzo Preve


È possibile scorgere analogie e differenze tra Gianfranco La Grassa e
il filosofo torinese Costanzo Preve, venuto a mancare nel novembre 2013.
I due marxisti si incontrarono nel 1978 in ambienti althusseriani; in quel
periodo Preve stava gradualmente abbandonando l’impostazione del
teorico francese per approssimarsi a quella dell’ontologia dell’essere sociale
proposta dall’ungherese György Lukács (cfr. Preve 2013), poi rimodulata
negli ultimi tempi in modo creativo. Negli ultimi testi previani, per essere
precisi, egli sottolineava sempre più la necessità di uno spazio filosofico
autonomo fondato sull’anima umana (cfr. Zygulski-Volpe 2014a) che
possa accogliere sia la genesi storico-sociale dei frutti del pensiero, sia
la loro verità, che risulta eterna e universale dopo l’intervento sintetico
della ragione dialettica, la quale permette di superare le contraddizioni
del reale. Risuona in queste parole una pregevole riscoperta di Hegel,
considerato l’autore che, correggendo in anticipo alcuni aspetti di Marx,
potrebbe aprire orizzonti comunitari30 alternativi allo scenario del ca-
pitalismo contemporaneo giunto nella sua fase assoluta-speculativa31.
In un saggio del 1993, Costanzo Preve affermava che La Grassa è “il
massimo di innovazione” del marxismo, nonostante l’apparenza formale
di una “accurata, precisa, spesso pedante filologia marxiana e marxista”
30
Più precisamente, un “comunismo comunitario” inteso quale “interpretazione forte-
mente comunitarista della teoria classica comunista”; è una “correzione democratica del
comunismo” in cui vi sarebbe “sintesi tra individuo e comunità” per poter sviluppare
tutte le potenzialità sociali, razionali e generiche dell’uomo, anche se praticamente ciò
può concretizzarsi solo in uno scenario geopolitico emancipato da ogni trazione unipo-
lare (cfr. Zygulski 2012: 61-64).
31
Per seguire la periodizzazione filosofica del capitalismo proposta da Preve in termini
hegeliani, si tratta della terza fase della triade dialettica, dove assoluto significa “sciolto da
ogni vincolo” – come ad esempio lo erano le dicotomie borghesia/proletariato o destra/

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Analisi critica

in cui “troneggiano entità anonime e un po’ noiose, come la divisione


del lavoro, l’astrazione delle categorie sociali, le transizioni capitalisti-
che, il capitalismo lavorativo” (Preve 1993: 206); nello stesso volume lo
definiva mirabilmente “un meccanico del marxismo, che ne smonta i
pezzi e li sostituisce quando è necessario” (1993: 207), definizione insu-
perata. Ancora all’inizio nuovo millennio Preve continuava a elogiare
La Grassa in virtù dell’analisi “pertinente e sensata” (La Grassa 2002a:
7), animata da uno “severo scetticismo” (La Grassa 2002a: 23) foriero di
“una prospettiva inquietante per le «anime belle», e nello stesso tempo
di una prospettiva maggiormente realistica delle illusioni oggi diffuse
da quello che resta della cultura di opposizione” (La Grassa 2002a: 30).
Il piemontese si rammaricava del fatto che La Grassa fosse rimasto
“sostanzialmente inascoltato nell’ambiente italiano togliattiano-ope-
raistico” (La Grassa 2003: 8), però negli ultimi tempi si era fatto molto
insofferente nei confronti dei sempre più abbondanti e appassionati
improperi lagrassiani contro i filosofi, o meglio, “con quelli che trattano
Marx da filosofo” (La Grassa 2013: 138). I propositi di La Grassa sovente
sono espressi in una terminologia che il filosofo torinese non digeriva
troppo facilmente. E non era tanto lo “stile volutamente scorretto, bel-
licoso, talvolta gratuitamente viscerale” (Brancaccio-Pantalano 2010)
di La Grassa a infastidire Preve – che era dotato di una vis polemica non
meno edulcorata – quanto le invettive contro “l’attività filosofica in
quanto tale”, che costituirebbero “il solo aspetto veramente fastidio-
so di La Grassa” (Preve: 2008). Quest’ultimo riteneva indispensabile
soffermarsi sull’analisi strutturale marxiana e sulle dinamiche sociali
che intercorrono tra i vari agenti in conflitto, a suo dire ancora troppo
oscurate dalle “colossali fanfaluche sempre raccontate a uso e consumo
dei «deboli di mente»” (La Grassa 2011: 120)32. Preve, dal canto suo,
ribadiva che tutto ciò poteva essere sottolineato anche senza reiterare
gli strali anti-umanistici, che negli anni ’70 potevano avere un senso
per contrastare la “chiacchiera filosofica spoliticizzata della Sorbona”
(Preve 2008), ma a quarant’anni di distanza sarebbero stati fuori tempo
massimo. L’anti-umanesimo epistemologico, cioè l’evitare di considerare
il singolo individuo come agente o di personificare una nazione nel suo

sinistra, che entrambe sarebbero venute meno – mentre l’aggettivo speculativo rimanda
all’auto-contemplazione del concetto, come in uno specchio (cfr. Zygulski 2012).
32
Parimenti, La Grassa non risparmia critiche a chi “ama tanto il Bene, il Giusto, il Meglio
e non so quali altri fanfaluche da «teste nelle nuvole»” che nella storia avrebbero creato “i
più grandi disastri” (La Grassa 2008c).

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Capitolo III

leader, poteva essere accettato volentieri, tuttavia non quello “pratico”


che ripudia l’unificazione concettuale (ovverosia idealistica) della storia
umana, compiuta in Marx attraverso lo studio dei modi di produzione.
Nonostante le aperte contraddizioni, lo stesso “materialismo” marxia-
no, a detta di Preve, sarebbe una metafora per indicare primariamente
la prassi rivoluzionaria emancipativa dell’uomo nel corso della storia.
In alcuni estratti La Grassa si spinge ad azzardare che “Marx aveva
un’opinione assai amara degli individui umani” (2015a: 1999), quasi hob-
besiana, ignorando totalmente il retaggio dell’etica aristotelica33; è però il
medesimo economista veneto, nella sua analisi filologica, a menzionare
una frase che in qualche modo potrebbe rivelare che l’umanesimo del
barbuto di Treviri era presente anche dopo il 1845:
“[…] le determinazioni che valgono per la produzione in generale
debbono venire isolate in modo che per l’unità – che deriva già dal
fatto che il soggetto, l’umanità, e l’oggetto, la natura, sono gli stessi –
non vada poi dimenticata la differenza essenziale” (Marx 1857; cit. in
La Grassa 2015: 88, corsivo nostro).

Comunque sia, nelle fasi di maggiore insofferenza tra i due profes-


sori, Preve lamentava la “sgradevole asimmetria nell’attenzione reci-
procamente prestata”: nonostante il torinese continuasse a leggere e a
commentare gli scritti lagrassiani, il “gentiluomo veneto che di fronte
alla filosofia reagisce come un toro di fronte ad un panno rosso” gli
avrebbe risposto con “il nulla assoluto ed un disprezzo totale” per il suo
lavoro e i suoi interessi (Preve 2008). Preve era giunto a definire l’amico
di Conegliano “sordo ed autoreferenziale”, tuttavia egli riconosceva che
l’irritazione non inficiava “nell’essenziale la pertinenza e l’intelligenza
dei suoi rilievi”, così elencati (Preve 2008):
1) “Rottura con la concezione deterministica, teleologica, storicistica
e progressista del capitalismo”;
2) “Rottura con la mitologia sociologica operaia e proletaria, caratte-
ristica dell’intera storia del marxismo”;
3) “Corretta concezione del concetto marxiano di modo di produzione,
che il ridicolo operaismo italiano, in tutte le sue versioni, ha sempre
confuso con la tecnologia di fabbrica”;
4) “Presa in considerazione della razionalità strategica della ripro-
duzione capitalistica, a fianco di quella semplicemente strumentale”.
33
Aristotele è tra gli autori maggiormente citati da Marx, come possiamo vedere qui: “nel
senso più letterale, l’uomo è uno ζῷον πολιτικόν” (Marx 1857: I).

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Analisi critica

Nel medesimo articolo del 2008, le debolezze di La Grassa sono


compendiate nei seguenti punti:

1) “La totale incapacità di capire che la teoria marxiana della storia


si fonda su di una preventiva indispensabile filosofia della storia”;
2) “La confusione, di origine althusseriana (ma che in GLG assume
forme pittoresche di turpiloquio intollerabile), fra spazio filosofico,
spazio epistemologico e spazio ideologico”;
3) “Il totale disprezzo per le azioni dei dominati, e il solo ossessivo
interesse per le azioni «strategiche» dei dominanti”;
4) “L’approdo ad una teoria interamente aleatoria del socialismo, che
se verrà, verrà come la caduta di un meteorite”;
5) “L’approdo ad un economicismo ed ad uno scientismo totali e fu-
riosi, proprio da parte di un autore che aveva iniziato la sua carriera
teorica come maoista occidentale, seguace della banda dei Quattro e
critico della cosiddetta «teoria reazionaria delle forze produttive»”.

Il primo rimprovero si basa sul riorientamento gestaltico – autentica


frattura epistemologica che sarebbe intercorsa tra Marx e gli economisti
classici – dovuto all’innesto del concetto economico di valore su quello
filosofico di alienazione. Si tratta della nota “ipotesi Colletti-Napoleoni”
sposata da Preve e non da La Grassa; qui l’inconciliabilità è già in parten-
za. Per il secondo, il filosofo torinese era convinto che la riduzione della
filosofia a epistemologia o a ideologia avrebbe restaurato “lo storicismo,
il relativismo ed il nichilismo, fino alla capriola del determinismo in
aleatorismo” (Preve 2008).
La Grassa definì “fuori tema” tale critica, obiettandogli il fatto che,
per rincalzare le sue ipotesi sugli agenti strategici, leggeva volentieri
le opere di Henri Bergson, che non sarebbe né un epistemologo, né
un anti-umanista. Tuttavia – come dimostra la recente indagine sullo
squilibrio in cui si richiama persino a Pascal per scovare assonanze
“squilibranti” – l’esigenza di una base oggettiva al pensiero lagrassiano
si sta facendo pressante e si può dubitare che egli possa trovarla stabile
in modo “scientifico”, al di fuori del terreno proprio della filosofia. Di
certo è arduo ricavare la necessità di “agire in favore del policentrismo”
e di parteggiare, nello scontro, per il settore dei dominanti maggior-
mente innovativo che può perseguire una reale autonomia a livello
internazionale (cfr. La Grassa 2009: 32; 2011: 118). Sembra altrettanto
impossibile trovare l’esigenza di una teoria critica della società in una
mera epistemologia, tant’è vero che, pur sottolineando la loro insuffi-

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Capitolo III

cienza nell’agire pratico, La Grassa ammetteva che “il disgusto e l’odio


per i dominanti di oggi sono il presupposto anche di ogni analisi teori-
ca” (1999a: 97). L’“atteggiamento fortemente anticapitalistico” sarebbe
poi ritenuto “lecito e doveroso […] non solo per motivi morali, ma per
la consapevolezza delle conseguenze sempre più gravi che il conflitto
interdominanti (intercapitalistico) comporta” (La Grassa 2005c: 182).
Se il pensatore di Conegliano non intende accettare “l’idea che tutto è
relativo, e che quindi sarebbe sciocco indignarsi per alcunché si verifichi
in ogni data contingenza” (1999b: 17), non è però dato sapere per quale
motivo egli rifiuti siffatto relativismo; la genesi della moralità non è mai
spiegata, neppure per via scientifico-evoluzionistica34 e manca un metro
di misura per valutare le “conseguenze sempre più gravi”.
La centralità dello scontro tra agenti strategici dominanti è una delle
peculiarità dell’elaborazione di La Grassa, che seppe abilmente contro-
battere ai rimproveri in merito sciogliendo un fraintendimento: egli non
ha mai creduto che la trasformazione radicale della società potesse essere
prodotta da tale scontro, il quale è capace solamente di “rivoluzioni
dentro il capitale”. Tuttavia, la conflittualità policentrica apre spazi per
attività rivoluzionarie in cui entrano in gioco i dominanti, che possono
assumere direzioni radicali, anche se non è detto che riescano ad uscire
dalla logica capitalistica (cfr. La Grassa 2008a). Egli, ad ogni modo, da-
rebbe per assodato che “si presenteranno ancora, in periodi diversi e in
parti varie del capitalismo mondiale, crisi congiunturali, fasi di apertura
di possibilità” (2005c: 183).
La quarta asserzione polemica di Preve indubbiamente descrive bene
l’“agnosticismo” lagrassiano nei confronti del comunismo; in qualche
modo è il coronamento di una disillusione generazionale verso quell’er-
rore epistemologico che prometteva di traghettare la società verso il
modo di produzione delineato da Marx. La Grassa riesce a pensare il
comunismo solo nei termini “scientifici” e, rifiutando ogni elucubrazio-
ne su una presunta armonia comunitaria da instaurare a suon di buoni
propositi, lo ritiene statisticamente poco probabile35. Il filosofo torinese
aveva compreso dove andava a parare il ragionamento lagrassiano,
pertanto mise in luce la distinzione tra probabilità e potenzialità (dynamei
34
Si vedano, a titolo esemplificativo, gli ottimi studi di Frans De Waal (2006).
35
“Il comunismo è una possibilità, come lo è quella che entro qualche milione di anni la
terra venga centrata da un meteorite di grandezza sufficiente ad annientarla. Temo anzi
che questa eventualità goda di probabilità superiori a quella del comunismo” (La Grassa
2006b: 123).

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Analisi critica

on), che era la categoria aristotelica in cui meglio si sarebbe riconosciuto


Marx (Preve 2012: 112-113).
Infine, l’ultima affermazione di quelle elencate può di primo acchito
apparire ingenerosa ma non è del campata per aria, perché fa riferimento
a invettive lagrassiane di questo tenore:

“Non è, ad esempio, accettabile vedere una massa di insegnanti ter-


rorizzati dal progresso tecnico, che esorcizzano alla guisa di antichi
sciamani. È molto negativo che si diffonda l’ideologia della decrescita,
della coltivazione nel giardino di casa, della spesa a km zero, e altre
idiozie varie. Il «pubblico» è diventato il ricettacolo di strati sociali
«pregalileiani», è fonte di reddito per dequalificati, per gente che grava
sulla spesa pubblica; spesso direttamente e altrettanto frequentemente
in modo indiretto. Si pensi allo stuolo di intellettuali «umanistici»,
prescientifici, pagati dai gruppi capitalistici arretrati e legati allo «stra-
niero» (di cui detto sopra) con i sussidi statali che tali gruppi succhiano
dalle casse dello Stato – alimentate dall’imposizione sui ceti medi e
popolari che producono – grazie all’interessamento dei politicanti
eletti da questi strati sociali, parassitari nel senso già considerato” (La
Grassa 2013: 207-208).

Si lasciano stabilire al lettore le conclusioni. Purtroppo non è qui


possibile sviscerare dettagliatamente ogni singola critica avanzata dal
filosofo torinese; basti pensare che da parte sua si confessava incontro-
vertibilmente che “il corpus teorico di GLG avrebbe meritato a tutti gli
effetti di essere preso in considerazione e soprattutto riconosciuto”. La
Grassa avrebbe raggiunto “il punto più alto dell’althusserismo italiano”,
“ma stimare per me vuol dire polemizzare, se è necessario” (Preve 2008).
Quando si è di fronte a due giganti del pensiero, non solo gli errori da
loro commessi possono essere grandi, ma grandi al quadrato possono
essere pure le incomprensioni reciproche.

1.3. La ricezione del pensiero di Gianfranco La Grassa


Tra vari autori che si sono avvicinati alle pagine dell’economista ve-
neto vi è Gennaro Scala. Si tratta di un sociologo che risiede a Bologna
e che, all’esterno di qualsivoglia ambiente accademico, è approdato ad
una posizione sintetica tra la proposta teorica di La Grassa e quella di
Costanzo Preve. Se sunteggiamo un lungo intervento di Scala (2013), egli
parla della “scoperta della politica” che avrebbe portato il pensatore di
Conegliano ad un’eccellente analisi del conflitto, specialmente tra domi-

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Capitolo III

nanti, che può essere accettata anche dal piemontese; essa sarebbe “per-
fetta per iniziare una prassi politica, favorire il multipolarismo, inserirsi
nello scontro tra i dominanti, svelare le strategie che sono alla base delle
scelte politiche”. Nondimeno, si può sempre adombrare il pericolo di
una “metafisica del conflitto” forte di una “volontà di potenza” analoga
a quella di Friedrich Nietzsche o di Carl Schmitt; nel caso di La Grassa,
questi si potrebbe salvare di striscio mediante le ipotesi dello squilibrio
immanente alla realtà e di un “centro regolatore” che intervallerebbe fasi
policentriche. Eppure, La Grassa non riesce a fornire adeguata risposta a
numerosi interrogativi, proprio perché non risolvibili scientificamente;
uno su tutti: “Perché opporsi ad alcuni dominanti e non ad altri?”. Tali
vicoli ciechi si potrebbero scansare pensando contemporaneamente al
conflitto e alla cooperazione “quali modalità fondamentali e inscindibili
secondo cui si modellano le relazioni umane”, ma soprattutto tenendo
ferma “l’idea di una società diversa”.
Gli verrebbe in aiuto Costanzo Preve, il cui comunismo comunitario
deve essere liberato da un doppio travisamento: egli non intendeva
riproporre “un generico umanitarismo ed universalismo”, e nemmeno
un tribalismo “basato sulla priorità delle singole comunità, con tutte
le ristrettezze di vedute che esso comporta”; si trattava invece di ri-
percorrere l’intera storia della filosofia per scoprirne a fondamento la
“comunità umana pensata come ente naturale generico”. Se per La Grassa
la politica coincide con lo scontro, con la scienza e con il materialismo,
il pensatore torinese invece preferiva un’altra equazione: “filosofia =
idealismo = comunità”. Entrambi i punti di vista sarebbero necessari e
complementari; Preve avrebbe sbagliato ad escludere il conflitto dalla
comunità umana, mentre l’errore dell’economista veneto starebbe nel
pensare il conflitto, seppur strategico, senza inserirlo “all’interno dello
sviluppo dell’intera comunità”.
Il Dizionario del Marxismo Contemporaneo di Jacques Bidet e Stathis
Kouvelakis ospita alcune righe di André Tosel (2008) consacrate a Preve
e altre a La Grassa. Di quest’ultimo si menzionano le numerose opere,
ispirate da Althusser e Bettelheim, nelle quali svolge una critica all’eco-
nomia politica e alla teoria economica. L’insufficienza esplicativa della
teoria del valore lo avrebbe portato a sviluppare una disamina del modo
di produzione in cui la centralità della proprietà nel capitalismo contem-
poraneo sarebbe stata rimpiazzata dal “conflitto strategico tra agenti
sociali dominanti”, con una lotta che si dispiega nell’economia, nella
politica, nell’ideologia e nella cultura, portando maggiori trasformazioni

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Analisi critica

rispetto a quanto potesse generare la lotta di classe tra dominanti e domi-


nati. Si sottolinea la ripresa del motto althusseriano sul non raccontarsi
storie, e tra queste viene incluso il mito della transmodalità della classe
operaia. Nel complesso, La Grassa fornirebbe le basi per un rinnovato
anticapitalismo, non riconducibile ad un’istanza etica, le cui condizioni
risiederebbero nell’analisi scientifica delle trasformazioni sociali.
Nicola Simoni (2008) dedica una decina di pagine ad uno dei primi
articoli di La Grassa (1972a) sui rapporti di produzione. Simoni dubita
che si possa parlare di formazioni sociali di transizione costituite da
“una pluralità di modi di produzione” (Simoni 2008: 131), anche perché
il concetto medesimo di modo di produzione sarebbe utilizzato da La
Grassa in maniera troppo vaga; viene criticata “una certa frettolosità”
che si manifesterebbe, nello specifico, nella pretesa di ricavare da una
singola citazione di Lenin una limitazione dell’espressione formazione
economico-sociale ai soli aspetti strutturali della società, escludendo
l’estensione sovrastrutturale all’intero “«scheletro rivestito di sangue»”
(Simoni 2008: 128). Oltre a ciò, è insostenibile, anche alla luce degli scritti
seguenti, l’obiezione di Simoni secondo cui il Nostro porrebbe sullo stes-
so piano forze produttive e rapporti sociali di produzione (cfr. Simoni
2008: 132), quando sembra evidente che l’impostazione appresa da La
Grassa nel biennio parigino lo ha portato a dare maggiore importanza
ai rapporti sociali.
Una trattazione più ampia del pensiero lagrassiano è contenuta nel-
la Storia dei marxismi in Italia di Cristina Corradi (2011). La studiosa si
concentra in particolar modo sulle opere degli anni ’80 che trattavano
del capitalismo lavorativo, accennando più sbrigativamente alla pur “si-
gnificativa revisione del precedente modello teorico […] del paradigma
dell’astrazione-lavoro” (Corradi 2011: 350). Di quest’ultimo, la Corradi
riconosce “due grandi meriti”: la capacità di indagare le trasformazioni
del processo produttivo e la messa in discussione della tradizionale
“opposizione binaria tra capitalismo concorrenziale e capitalismo or-
ganizzato” (2011: 350). Le teorie di Gianfranco La Grassa e Maria Tur-
chetto – che si contrapponevano a quelle focalizzate sulla “connessione
circolatoria puramente mercantile” (2011: 308) – per giunta prevengono
il luogo comune che profetizza il tramonto degli Stati nazionali, banalità
che sarebbe invece il rovesciamento di un’eccessiva enfatizzazione “del
primato della politica” (2011: 303). Nel volume si accenna comunque
alle fasi ricorsive del capitalismo e agli agenti strategici di impresa (cfr.
2011: 335).

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Capitolo III

Augusto Illuminati (2008), professore di Storia della Filosofia presso


l’Università di Urbino, osa invece definire La Grassa un filosofo a sua
insaputa, che “appartiene di diritto e documentariamente all’indirizzo
althusseriano”, all’interno del quale lo stesso recensore si inserisce. La
scomposizione del processo lavorativo che rende impossibile la creazione
di un soggetto rivoluzionario intermodale e l’alternanza tra fasi capitali-
stiche monocentriche e policentriche sarebbero le principali acquisizioni
lagrassiane sino agli anni ’90, mentre dell’ultima fase Illuminati elogia la
“scoperta” della razionalità strategica e del flusso di energia conflittuale,
sulla cui base si condenserebbero gli agenti strategici in perenne scontro.
Il pessimismo del breve-medio periodo sarebbe bilanciato dall’eventua-
lità che alcuni strati veramente dominati della società possano inserirsi
nelle fratture causate dalla lotta tra dominanti, inaugurando possibilità
rivoluzionarie; ciò “riprende sostanzialmente la logica di un incontro
machiavelliano-althusseriano” (Illuminati 2008: 43), ma fuggendo da
illusioni movimentiste.
Anche il commento del professor Nicolò Bellanca (2004), docente di
Economia nel Polo di Scienze Sociali della Università di Firenze, suscita
notevole interesse. Nella sua indagine sul capitalismo nel marxismo
italiano egli offre ampio spazio al pensatore veneto e la prima citazione
che propone all’attenzione del lettore è quella che apre le Lezioni sul capi-
talismo: “I marxisti hanno finora preteso di trasformare il mondo; è ormai
tempo che tentino di comprenderlo” (La Grassa 1996b: 5), confrontabile
con il proposito di Ernesto Screpanti: “I marxisti hanno solo variamente
riletto Marx; il problema è però di riscriverlo” (cit. in Bellanca 2004).
Bellanca parte dalle riflessioni lagrassiane sul concetto di astrazione che
consentono di scendere in profondità “dal livello fenomenico della merce
(I sezione) al livello dell’autoriproduzione del capitale (VII sezione)” (Bel-
lanca 2004), indi ne riporta analiticamente le conseguenze in merito alla
divisione tecnica del lavoro che “comanderebbe” l’articolarsi di quella
sociale; siamo ancora alle intuizioni degli anni ’70 che preludono alla
fase del “capitalismo lavorativo”, che tuttavia rivelerebbe le “difficoltà
teoriche alle quali l’autore tenterà di offrire una risposta più meditata e
costruttiva con l’elaborazione recente”. Ulteriori sottoparagrafi affron-
tano le transizioni capitalistiche e il passaggio dalla fabbrica all’impresa;
qui emergerebbe un superamento dell’impasse incontrata tra gli anni ’80
e ’90, che per Bellanca “sembra in larga parte dovuta al residuo di deter-
minismo e di economicismo di cui s’imbeveva”, ad esempio nel tentativo
di dedurre scrupolosamente la complessa divisione sociale da quella tec-

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Analisi critica

nica del lavoro. Apprezzando quindi l’“interessante rivalutazione delle


istanze politiche e soggettive” – ma senza scivolare nel soggettivismo
– che La Grassa prospetta con gli agenti strategici dominanti in reciproco
conflitto, Bellanca definisce l’elaborazione dell’economista veneto quale
“abbozzo di una sintesi teorica che documenta le potenzialità ancora
vive di un marxismo (o post-marxismo) rigorosamente pensato” (2004).
La rivista Poliscritture ha divulgato un intervento, a firma del direttore
Ennio Abate (2011), in cui di La Grassa si rimarca un aspetto che nel pre-
sente elaborato non è stato ancora segnalato: l’intento storiografico delle
vicende italiane, eminentemente di quelle svoltesi negli anni Settanta. Di
quel “decennio cruciale” alcuni avvenimenti sono caduti nel dimentica-
toio, ad esempio la lettura che Enrico Berlinguer, allora Segretario del
PCI, diede al colpo di stato cileno del 1973, oppure il viaggio di Giorgio
Napolitano a Washington nel 1978. Essi sarebbero stati determinanti per
quella “ormai evidente (pur mascherata) svolta del PCI” (La Grassa, cit.
in Abate 2011: 110) dal campo sovietico a quello atlantico, scegliendo di
subordinarsi agli Stati Uniti d’America anziché tentare il mantenimento
di una socialdemocrazia autonoma in Italia. Tra le congetture di La Grassa
prese in considerazione da Abate possiamo menzionare la sua critica
al movimento del Sessantotto e le ipotesi controcorrente sul sequestro di
Aldo Moro. Giudicando poco dopo la lettura di Marx e la prospettiva
epistemologica lagrassiana, Abate non è persuaso dall’invito ad una
rigorosa analisi scientifica della realtà che a suo dire si precipiterebbe,
a causa dell’eccessiva indignazione impaziente, verso “l’invocazione di
figure mitiche, come quelle del «Grande Chirurgo» che dovrebbe sanare
il corpo in cancrena della nazione” (Abate 2011: 115). Tale collera sareb-
be poco efficace dal punto di vista comunicativo e in un certo senso ne
appannerebbe lo sguardo scientifico; Abate perciò si domanda se i due
elementi siano contraddittori oppure coerenti. Egli termina invitando a
non soffermarsi smisuratamente sulla pars destruens di La Grassa – del
quale ammira il “realismo lucido” – e a procedere oltre, ma ripensando
anche l’“esperienza storica del comunismo e l’insegnamento del Marx
filosofo”. L’atteggiamento di Abate è quindi riassumibile in una “cauta
adesione” che lo coinvolge in un “confronto schietto” (2011: 116).
Dello stesso anno è la recensione, pubblicata in versione ridotta anche
sul quotidiano il manifesto, che gli economisti Emiliano Brancaccio e Rosa-
rio Pantalano (2011) riservano al libro Finanza e Poteri (La Grassa 2008b).
I commentatori sostengono che sul piano teorico generale il contributo
di La Grassa non riuscirebbe nell’ambizioso intento di una resa dei conti

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Capitolo III

ultimativa con il marxismo, pur offrendo importanti spunti di riflessione


per una presa di posizione di tipo politico: “è soprattutto per questo mo-
tivo che esso merita di esser letto e attentamente valutato”. Brancaccio
e Pantalano notano con curiosità che l’“alleato inatteso” di La Grassa è
l’economista tedesco ottocentesco Friedrich List, che il pensatore veneto
utilizzerebbe per auspicare l’avvento di una fase policentrica in grado di
scalzare il dominio monocentrico statunitense; sarebbe tale “carattere di
indeterminatezza e di apertura” verso un nuovo scenario geopolitico a
rendere assai stimolante la veduta lagrassiana. Essa avrebbe “il merito di
condurre alle estreme conseguenze l’analisi dei rapporti internazionali
e della loro evoluzione” e costringerebbe il lettore a schierarsi “in coda
al monocentrismo americano oppure sulla punta della lancia di un pos-
sibile futuro policentrismo”. I due commentatori però non trascurano
che il modo di esprimere tali concetti è “talvolta discutibile, sul piano sia
analitico che politico”; l’errore principale sarebbe quello di sbarazzarsi –
in una furia anti-teleologica – di ogni “legge di tendenza”, una su tutte
“quella alla centralizzazione dei capitali”, che ai loro occhi sembra “una
delle poche costanti generali” del capitalismo in continua trasformazione.
Così facendo, La Grassa avrebbe travalicato il “giusto attacco al
messianesimo ortodosso” finendo per indebolire le sue tesi. Difendendo
“l’analisi del processo di centralizzazione quale detonatore del conflitto
inter-capitalistico e della crisi politica che può conseguirne”, Brancaccio
e Pantalano ritengono che in essa sarebbero già implicite “sia la razio-
nalità strumentale che quella strategica”. La forma di difesa nazionale
potrebbe invece essere intesa come una reazione strategica che contrasta
la spinta monocentrica alla centralizzazione dei capitali. Inoltre, i due
temono che l’abbandono lagrassiano della “soggettività di classe di tipo
marxista” possa condurre ad una classificazione “ancor più ambigua”.
Per fare ciò obiettano che il “caso Lenin” si lascerebbe indagare meglio
con le categorie di Marx piuttosto che con quelle di La Grassa; esse, tut-
tavia, sono finalizzate ad una teoria di fase per orientarsi nello scenario
contemporaneo, e non in quello di cent’anni fa.
Vi sono poi gli studiosi Oliviero Calcagno e Gianfranco Ragona (2012)
che menzionano la “prospettiva originale sul nesso tra critica dell’econo-
mia politica ed emancipazione sociale” portata avanti da Gianfranco La
Grassa, le cui modalità e i tempi di decostruzione del marxismo – “senza
riverenze neppure per il padre fondatore” – sono paragonate a quelle di
Costanzo Preve. I due autori notano che per il Nostro sarebbero due i
nodi critici del marxismo: la concettualizzazione del modo di produzione

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Analisi critica

capitalistico definito dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e il


finalismo che discende dalla dinamica della teoria del valore. La Grassa
avrebbe quindi operato una riqualificazione della tessitura politica “del
discorso marxiano, ben sintetizzata nell’affermazione che «il capitale
non è una cosa, ma un rapporto sociale»”. In seguito, Calcagno e Ragona
rilevano che, a sua volta, la teoria del conflitto strategico presenterebbe
due difficoltà:
“sul piano teorico, la tendenza a sfumare la specificità storica del modo
di produzione capitalistico, una volta semplicemente sostituita, e non
variamente articolata, la centralità della categoria di merce con quella
di riproduzione di rapporti sociali subordinati; sul piano politico, la
resa all’amara diagnosi della non-rivoluzionarietà delle classi domi-
nate, le cui pur legittime lotte di resistenza potrebbero avere esito
rivoluzionario soltanto se favorite o addirittura promosse da scontri
tra i soggetti sociali dominanti” (2012: 53)

Soprassedendo sullo sconcerto del blogger Eugenio Orso (2010)


nei confronti della “deriva teorica” di La Grassa e dei suoi seguaci
di Conflitti&Strategie, violentemente accusati di trascurare le lotte e le
condizioni dei subordinati36 e di accettare il capitalismo quale destino
immutabile, la presente rassegna si conclude con la presenza prestigiosa
di Emanuele Severino (2002). Il noto filosofo italiano, nel recensire due
opere dell’economista di Conegliano (La Grassa 2002a e 2002b), espone
la convinzione che il pensiero di Marx sia fondamentalmente filosofico,
e se lo si volesse negare occorrerebbe mostrarne il motivo, quindi ci si
ritroverebbe inevitabilmente a filosofare. Severino, pertanto, invita La
Grassa – del quale apprezza la serietà dello studio su Marx, che sarebbe
cosa rara – ad approfondire “il senso e le implicazioni” del ricondurre
tutte le “verità” marxiane in semplici “ipotesi”, poiché si tratterebbe di
“un tema troppo decisivo”.
L’altra osservazione riguarda invece il ripensamento del processo
rivoluzionario e soprattutto del suo soggetto; venuto meno il “proletaria-
to”, La Grassa non sarebbe in grado di scorgerne altri in modo adeguato.

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Eugenio Orso si mostrava particolarmente indignato per l’appoggio tattico che
Gianfranco La Grassa, nel segnalare lo sfacelo della sinistra italiana asservita agli inter-
essi statunitensi, ha temporaneamente accordato all’ex Presidente del Consiglio dei Mini-
stri Silvio Berlusconi, che sembrava capace di una maggiore autonomia sullo scacchiere
internazionale. La Grassa perse anche tale speranza dopo che Berlusconi tradì l’amicizia
con Muammar Gheddafi, avallandone l’uccisione e il bombardamento della Libia.

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Capitolo III

Che fare, allora? Anche in questa occasione Severino suggerisce che


“la tecnica è appunto quel soggetto, ossia è l’autentico fattore, interno
al capitalismo, capace di spingere il capitalismo alla negazione di se
stesso. Un discorso, questo, che certo non ha nulla a che vedere con
qualsiasi «fede», scienza, filosofia comunista o marxista” (Severino
2002).

Indirettamente, proprio nel libro recensito dal filosofo, La Grassa


aveva bollato come ideologiche tutte le concezioni basate su quel “tempio
della razionalità strumentale” chiamato “Dominio della Tecnica” (La
Grassa 2002a: 139). Quest’ultimo sarebbe congeniale “alla supremazia
della effettiva classe dominante, quella degli agenti strategici, e non
tecnici, nelle sfere (sottostrutture) economiche e politico-ideologiche
della struttura sociale capitalistica” (La Grassa 2002a: 140); certamente
l’economista veneto non esclude il ruolo degli attori tecnici, ma ben più
importante sarebbero quelli strategici.
La non comunicabilità tra i due pensatori parrebbe massima, se non
si scorgesse un equivoco: la Tecnica, per Severino, non è la mera razio-
nalità strumentale minimax come la intende La Grassa, ma è un processo
che “mira non a uno scopo specifico e escludente, bensì all’incremento
indefinito della capacità di realizzare scopi” (Severino 1998), ovverosia
un accrescimento illimitato della potenza, alla cui radice vi sarebbe la
volontà. Forzando la somiglianza, la Tecnica severiniana potrebbe quindi
essere più vicina all’agire strategico lagrassiano che non alla logica del
minimo mezzo dato uno scopo, o del massimo risultato date risorse
scarse, anzi, quello – nello specifico, l’incremento in(de)finito del profitto
privato – sarebbe il capitalismo, per come la vede il filosofo, accettando
la tradizionale definizione economicistica.
Recentemente Severino ha prospettato un “capitalismo senza futuro”
(2012), proprio perché la Tecnica illimitata sovrasterebbe lo stesso capita-
lismo che l’aveva utilizzata per perseguire il proprio essenziale obiettivo,
circoscritto, dell’efficienza economica massimizzante. Tanto più che egli
ammette il permanere della conflittualità, nonostante il dominio tecnico
che si manifesta “nella forma della novità prodotta dall’incessante dive-
nire del mondo” (Severino 2012); analogamente La Grassa concepisce il
flusso squilibrante su cui si muoverebbero gli agenti in conflitto. Si può
cogliere quasi una convergenza tra i due professori, a prescindere dalle
impostazioni di fondo inconciliabili e da una soggettivizzazione della
Tecnica che difficilmente il Nostro potrebbe adottare. Forse se ne potreb-

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Analisi critica

be venire a capo solo con un ripensamento, che non abbia vergogna di


proclamarsi filosofico, di tutti i nervi scoperti in queste pagine; si potreb-
be così assicurare una più salda strutturazione ontologica alle analisi di
Gianfranco La Grassa, anche a costo di uscire dal solco da lui tracciato.

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POSTFAZIONE
di

Augusto Illuminati

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Questo pregevole studio sul pensiero di Gianfranco La Grassa, dopo
aver fornito le coordinate biografiche e storico-politiche degli anni di
elaborazione, cerca una sistemazione evolutiva della sua opera suddi-
videndola per fasi e paradigmi in esse prevalenti. Pur nella sostanziale
continuità vengono individuate tre fasi che trapassano per gradi l’una
nell’altra: marxismo critico, capitalismo lavorativo e conflitto strategico
(per usare di volta in volta e sommariamente il paradigma prevalente).
Nella prima fase, che comprende (dopo l’apprendistato accademico
con Antonio Pesenti, 1959-1970) la lettura althusseriana e la frequenta-
zione con Charles Bettelheim dalla metà degli anni ’70, La Grassa riflette
sulla fine miserevole della costruzione del socialismo “reale”, che aveva
mantenuto una struttura sostanzialmente capitalistica, di separazione fra
dominanti e dominati e fra unità produttive conflittuali, sotto una veste
economicistica di proprietà collettiva solo giuridica, senza un’effettiva
incidenza. Ancor più negativo è il giudizio sulla politica del PCI, che ha
rinunciato perfino a una trasformazione giuridica del regime di proprietà
mediante transizione riformista. L’accento portato sulla sottomissione
reale, con conseguente espropriazione delle conoscenze operaie, e sul
potere reale di disposizione sulle condizioni di lavoro spinge a svalutare
gli aspetti giuridici della proprietà e quindi le illusioni di trasformare
per via riformistico-parlamentare l’assetto dei rapporti di produzione
(l’illusione della sinistra del Pci e dei gruppi filosovietici), mentre nel
contempo assai tiepido sarà il giudizio sul movimentismo degli anni ’60 e
’70, ricondotto a una variante dei conflitti di tipo distributivo e sindacale
– in seguito il giudizio diverrà assai più negativo. In questa fase la teoria
che emerge dalla lettura critica di Marx e dalla lezione althusseriana è
quella del capitalismo lavorativo, in cui La Grassa prende atto delle nuove
tecnologie produttive che eludono la crisi e ne fanno uno strumento di
riorganizzazione della produzione e dello stesso assetto delle classi.
La diffidenza verso l’operaismo teorico, che corona la sfiducia
nel movimentismo libertario del ’68 e dintorni, è motivata dal rifiuto
dell’ipotesi marxiana secondo cui al processo di centralizzazione dei
capitali corrisponderebbe la formazione di un operaio combinato col-

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Augusto Illuminati

lettivo, comprendente sia le potenze manuali che quelle mentali della


produzione, proletari e tecnici disposti a subentrare in forma associata
a un’esigua aristocrazia finanziaria. La Grassa fa risalire già alla fine
dell’Ottocento il mancato schieramento dei tecnici (le “potenze mentali”)
dal medesimo lato degli operai, tanto che la stessa rivoluzione lenini-
sta userebbe in modo rivoluzionario, con direzione esterna, una classe
operaia di per sé tradeunionistica e non rivoluzionaria. Oggi il lavoro
dipendente non si è coagulato e ricomposto nel lavoratore collettivo
cooperativo contrapposto a una borghesia parassitaria, tanto meno si è
formato un general intellect, ma la classe che non dispone dei mezzi di
produzione si è disarticolata in strati sociali intermedi assai differenziati
per mansioni e status, fallendo completamente un progetto di controllo
reale sulla produzione da parte dei produttori associati.
In questo passaggio dalla fabbrica all’impresa, dall’entità produttiva
in senso stretto al coordinamento di diverse unità e comparti sotto una
direzione manageriale innovativa e organizzativa, di cui Schumpeter fu
il primo teorico, emerge l’impossibilità di considerare la società come
una grande fabbrica e si nega, dunque, sia l’utopia fordista sia la contro-
utopia del primo operaismo, quello di Tronti, per intendersi. Non stiamo
qui a discutere la legittimità dell’operazione teorica (tanto meno della
sua estendibilità al post-fordismo), quanto piuttosto a rilevare come si
apra così la strada a una valutazione del ruolo degli agenti strategici e
del complesso egemonico imprenditorial-finanziario, che segna la terza
fase, in apertura del nuovo millennio, del pensiero di La Grassa. In essa
il dominio economico-politico, più che l’intensità dello sfruttamento e il
livello del profitto, costituisce l’obbiettivo dell’impresa: alla razionalità
strumentale subentra quella strategica, che pone sullo stesso piano logico
le imprese economiche individuali e le grandi forze geopolitiche. Gli
agenti strategici d’impresa operano in modo differente rispetto ai tecnici,
si occupano infatti di conseguire (oltre ma a volte perfino a scapito del
guadagno) un vantaggio in termini di potere: la razionalità strumentale
resta nell’ambito di una prospettiva individuale o di gruppo, quella
strategica vive nel cuore di un conflitto multilivello per la supremazia,
non per la semplice sopravvivenza o la massimizzazione immediata
dei vantaggi. La logica di Tarzan, non quella di Robinson, con tutte le
implicazioni di carattere prettamente militare – dalla metis alla violenza
aperta e senza riguardo alle particolarità produttive e organizzative delle
singole micro-unità operative (fordismo, toyotismo, ecc.).

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Postfazione

Centrale è la dimensione politica, non quella tecnica, Clausewitz


o Sun Tzu più che Taylor. Il potere strategico comprende ma eccede
quello esclusivamente politico e sovrastrutturale degli althusseriani
Apparati ideologici di stato, distribuendosi fra le sfere economica,
politica e ideologica, senza una specifica dominanza, ma con caratteri
comuni di tipo imprenditoriale con un privilegiamento del dinamismo
produttivo e tecnico-scientifico. Il mercato è solo la scena, dietro le cui
quinte si agitano le differenti fazioni che si contendono e ridistribuiscono
il potere. La storia è conflitto fra dominanti, mentre, con il proletariato
unitario, passa in secondo piano quello fra dominanti e dominati e la
classe operaia perde la speranza di essere una categoria transmodale,
che cioè assicura il passaggio da un modo di produzione all’altro, come
lo fu la borghesia fra feudalesimo e capitalismo. L’imperialismo, rispetto
alle definizioni classiche, tende a ridursi a competizione fra le grandi
concentrazioni monopolistiche per la spartizione del mercato mondiale
e al conflitto fra le grandi potenze per la divisione del mondo in zone di
influenza – con una sinergia di imprese e apparati statali e secondo fasi
ricorsive alterne di monocentrismo e policentrismo, cioè di egemonia di
una formazione capitalistica dominante o di competizione fra molteplici
centri capitalistici. Nel primo caso è frequente il ricorso al keynesismo
“sociale” o “militare” per scongiurare le crisi di sottoconsumo/sovrap-
produzione, nel secondo predomina la deregulation del settore finanziario
e la flessibilità del lavoro ­– come ben si vede nell’attuale globalizzazione
(o meglio ri-mondializzazione) del capitale e incipiente policentrismo
economico e multipolarismo geopolitico o semi-imperialismo.

Questa – a volo d’uccello – è la ricostruzione che Piotr Zygulski offre


del pensiero di La Grassa, con l’aggiunta di un paragrafo in cui si studia
in particolare il suo rapporto con Costanzo Preve, alla cui memoria il
testo è dedicato. A mio parere tale rapporto fu abbastanza intenso nel
periodo che va 1978 alla fine del secolo, per poi degradare asimmetri-
camente, per la polemica antimetafisica di La Grassa e il rimpianto di
Preve per l’indifferenza dell’economista alla filosofia e alla filosofia della
storia. In realtà, l’essenzialismo hegeliano di Preve era incompatibile con
l’anti-umanesimo teorico di La Grassa e i suoi presupposti non dichiarati
(Bergson, per esempio, o una certa propensione allo scientismo). Preve,
proprio grazie al suo essenzialismo, coglie però il limite principale del
suo interlocutore, “il totale disprezzo per le azioni dei dominati e il
solo ossessivo interesse per le azioni «strategiche» dei dominanti”, che

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Augusto Illuminati

in effetti definisce un punto di forza dell’analisi sociale ma anche una


radicale estraneità ai movimenti rivoluzionari, privando i dominati di
qualsiasi praticabile transmodalità e speranza di riscatto.
Non vogliamo rimproverare a La Grassa un limite effettuale di
schieramento e tanto meno (come Preve) una debolezza filosofica, ma
proprio un difetto di analisi, per il suo escludere il conflitto di classe dalla
scena primaria della storia, relegandolo alla combattiva negoziazione
tradeunionistica del salario. Non gli imputiamo, alla Preve, una teoria
“aleatoria” del socialismo (Althusser aveva ben diversamente declinato
tale assunto in favore della rivoluzione e della forma-movimento rispetto
ai partiti), ma proprio che, di fatto, il cambiamento del modo di produ-
zione venga escluso nella forma di un rinvio sine die o di una prospettiva
catastrofista. La sordità di La Grassa alle tesi operaiste lo estranea ancor
più da quelle del post-operaismo teorico, impedendogli di entrare nel
merito delle analisi sul ciclo di sviluppo, che incorporano, soprattutto
dopo l’abbandono delle forzature di Impero, un giudizio non dissimile
sul policentrismo.
Per un verso, le considerazioni sul conflitto strategico sono di gran-
dissimo rilievo, per l’altro l’estromissione di un attore quale l’insieme
degli oppressi (sia classe operaia o moltitudine o qualsivoglia variante
sociale o geopolitica) rende indecifrabile quel dispositivo in assenza di
resistenze interne o esterne che superino la semplice contesa distributiva.
Ne scaturisce un atteggiamento quasi irritato verso tutti i tentativi di
opposizione che si sono susseguiti dal 1968 in poi fuori della complicità
subalterna delle socialdemocrazie e della filiera PCI-PDS-PD. Non che
manchino le ragioni per diffidare delle acrobazie teoriche e politiciste
che hanno ammorbato l’opposizione extra- o semi-parlamentare italiana
negli ultimi decenni, ma è uno spreco bollarne opportunismo e castro-
nerie nell’ambito di una dichiarata impossibilità di cambiare il modo di
produzione – ciò che escluderebbe a priori qualsiasi velleità di riflessione
e iniziativa. Ne è riprova la curiosità mostrata talvolta da La Grassa (per
fortuna non nella produzione teorica) verso varianti improbabili del
pollaio dei dominanti, che per paradosso lo avvicina alla (giustamente
rifiutata) inclinazione del suo critico Preve verso soluzioni populiste ed
equivoci essenzialismi.
Assai rilevante resta, invece, la sua analisi non solo degli schiera-
menti geopolitici, ma anche del legame intercorrente fra paesi domi-
nanti e gruppi dominanti collocati in una scala discendente di potere,
cioè i gruppi subdominanti, che hanno pur sempre capacità decisionali

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Postfazione

nell’ambito degli apparati statali addetti alla politica, alle mosse da


compiere per giungere a certe finalità interne ed esterne. Tali capacità
sono però subordinate a quelle dei gruppi dominanti dei paesi egemoni,
secondo una gerarchia storicamente variabile. In Italia, per esempio, con
una crescente subalternità e una minore autonomia rispetto agli USA
dopo la fine della I Repubblica. In conformità al suo rifiuto di giudi-
care reale la tendenza a costituire un lavoratore collettivo cooperativo
contrapposto a una borghesia sempre più assenteista e parassitaria, La
Grassa privilegia il conflitto fra le strategie di più gruppi sociali anche
non direttamente attivi nella sfera produttiva rispetto alla dicotomia fra
due classi, proprietari e non-proprietari dei mezzi produttivi. Esclude
pertanto l’esistenza di una dinamica, intrinseca all’attuale formazione
sociale di tipologia capitalistica, diretta alla sua trasformazione in altra
nettamente differente, insomma una fase di transizione a una qualsiasi
forma di socialismo o comunismo. Resta, beninteso, la dimensione riven-
dicativa, gestita da cerchie minori di decisori, ininfluente sulle strutture
produttive essenziali ma pure legittima, per difendere in ordine sparso
condizioni di vita aggredite dal capitalismo neo-liberale.
I conflitti più acuti e significativi sono allora quelli tra Stati, il cui
andamento si riflette anche all’interno dei singoli paesi e delle singole
economie. La contesa fra le varie élites nazionali verte anche su come
gestire il rapporto fra subdominanti e dominanti e decisivo appare allora
il grado di autonomia relativa che il nuovo assetto tendenzialmente poli-
centrico consente. Senza entrare nel merito delle conseguenze sovraniste
e di alleanza tattica con la Russia, quale principale alternativa al dominio
statunitense, che ne trae La Grassa, osserviamo che tale schema getta luce
su alcune dinamiche europee internazionali di sicuro rilievo.

Se volessimo, in conclusione, muovere un’obiezione di fondo all’im-


postazione pur originale e suggestiva dello studioso di Conegliano,
dovremmo rimarcare che le sue critiche valgono senza dubbio rispetto
a un marxismo ortodosso largamente diffuso in ambiti della sinistra
riformista e radicale e dotato di una lunga e consolidata tradizione, ma
sono meno pregnanti se si cambia l’angolo prospettico. In particolare, la
questione della transmodalità della classe operaia rinvia in diretta alla
definizione di questa. Se la si intende come una categoria sociologica,
per quanto si stiri o aggiorni la figura dell’operaio tradizionale e anche
dell’operaio massa, non si arriverà mai che a uno strato residuale, per
quanto importante e perfino crescente in paesi di capitalismo meno

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Augusto Illuminati

maturo: al massimo potremmo scioglierla in un tessuto indistinto dei


“poveri” o del 99%. Se invece valutiamo il proletariato una categoria
politica per essenza, che si definisce per il fatto di occupare una posizione
(il posto dell’impossibile, per dirla con Althusser), dunque struttural-
mente indefinito, non identificabile con una figura sociale particolare
ma di volta in volta portatore delle istanze emergenti di chi è escluso
dal gioco precedente, se insomma la facciamo finita con il soggettivismo
politico e con la teologia storica, allora la teoria del passaggio fra modi
di produzione va riscritta.
Se il comunismo è il movimento reale che abolisce lo stato di cose
presente, esso non ha un soggetto che lo pratichi ed esaurisca, avvi-
cendandosi in questo ruolo una pluralità di parti escluse dal gioco
delle classi dominanti ma sprovviste di una missione storica e di una
precisa composizione sociale definita una volta per tutte. Quest’ultima
dipende invece dalle metamorfosi dei rapporti di produzione e dal suc-
cesso o meno dei tentativi di transmodalità, che possono far presa e poi
disintegrarsi oppure forzare una trasformazione parziale del modo di
produzione senza fuoriuscirne. Il proletariato è stato il prodotto equi-
voco di una congiunzione fra composizione di classe e azione politica
e tali saranno i suoi successori, comunque saranno chiamati: cioè come
espansioni del vecchio paradigma o secondo nuovi paradigmi – solita
farsa epistemologica!
La sfida di La Grassa – che non richiede di condividerne il pessimi-
smo e talune implicazioni politiche – sta nel mettere in mora un vecchio
modo di concepire la transizione. Ciò significa ­continuare a lavorarci,
cercare tenacemente un approdo dopo essersi spinti al largo, come nel
progetto editoriale “Marxismo in mare aperto” cui negli anni ’90 col-
laborammo. Questo saggio sul suo pensiero ha il merito di scandirne
gli elementi essenziali e di offrirli, speriamo, a un pubblico più vasto e
attento dell’informazione mainstream di questi anni.

Augusto Illuminati,

già Professore ordinario di Storia della Filosofia


presso l’Università degli Studi di Urbino

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Bibliografia

1. Pubblicazioni di Gianfranco La Grassa

In ordine cronologico, si riporta l’elenco delle principali opere dell’eco-


nomista veneto. Sono presenti i titoli di tutte le monografie in lingua
italiana e gli interventi maggiormente significativi pubblicati all’in-
terno di volumi collettivi, riviste e siti web.

La Grassa G. (1970) “Appendice II: Microeconomia”, in Pesenti A. Ma-


nuale di Economia Politica, I, Roma: Editori Riuniti.
La Grassa G. (1972a) “Modo di produzione, rapporti di produzione e
formazione economico-sociale”, Critica Marxista, anno X, n. 4, pp. 84-108.
La Grassa G. (1972b) “Forze produttive e rapporti di produzione”, Critica
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La Grassa G. (1973a) Struttura economica e società. Roma: Editori Riuniti.
La Grassa G. (1973b) “Elementi per una discussione sul valore della
forza-lavoro”, Critica Marxista, anno XI, n.1, pp. 63-90.
La Grassa G. (1974a) “In tema di «critica» dell’economia politica”, Critica
Marxista, anno XII, n.2, pp. 147-156.
La Grassa G. (1974b) “Sul problema del lavoro «astratto»”, Critica Mar-
xista, anno XII, n. 5, pp. 39-56.
La Grassa G. (1975) Valore e formazione sociale. Roma: Editori Riuniti.
La Grassa G. (1976a) “«Crisi» della teoria economica o «critica» della
economia politica?”, in Carandini G., La Grassa G., Lippi M., Pedo-
ne A., Somogyi G., Vercelli A. Crisi della teoria economica e crisi del capita-
lismo. Milano: Franco Angeli.
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marxiano”, in Badaloni N., Calabi L., Carandini A., La Grassa G., Lukács
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Roma: Editori Riuniti.
La Grassa G. (1977a) Riflessioni sulla merce. Roma: Editori Riuniti.
La Grassa G., Turchetto M. (1977b) “Espropriazione reale dei produttori
e problemi della «transizione»”, Problemi del socialismo, anno XVIII, n. 5,
pp. 55-82.

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La Grassa G. (1989a) L’«inattualità» di Marx. Milano: Franco Angeli
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Marxista, n. 5.
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capitalismo. Pistoia: CRT.
La Grassa G. (1999b) Considerazioni del dopoguerra. Insegnamenti dell’ag-
gressione USA (e NATO) alla Jugoslavia, Pistoia: CRT.
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tinuità e trasformazioni nel capitalismo contemporaneo. Milano: Unicopli.
La Grassa G., Coglitore M., Fullin G. (2000) Passo doppio. Le classi dirigenti
italiane nel passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica. Milano: Unicopli
La Grassa G. (2002a) Fuori della corrente. Decostruzione-ricostruzione di una
teoria critica del capitalismo. Milano: Unicopli.
La Grassa G. (2002b) L’ascia e lo scalpello. Scritti di teoria e congiuntura.
Carrara: Francesco Rossi Editore.
La Grassa G. (2003) L’imperialismo. Teoria ed epoca di crisi. Pistoia: CRT.
La Grassa G. (2004) Capitalismo oggi. Dalla proprietà al conflitto strategico.
Pistoia: Petite Plaisance.
La Grassa G. (2005a) Gli agenti strategici della trasformazione. Dentro e contro
il capitale. Milano: La Giovane Talpa.
La Grassa G. (2005b) Perché il conflitto strategico? Milano: La Giovane
Talpa.
La Grassa G. (2005c) Gli strateghi del capitale. Una teoria del conflitto oltre
Marx e Lenin. Roma: Manifestolibri.
La Grassa G. (2006a) La teoria come pratica. Critica del mercato e del (processo
di) lavoro. Contro destra e sinistra, correnti politico-ideologiche del capitalismo.
Carrara: Società Editrice Apuana.
La Grassa G. (2006b) Il gioco degli specchi. Destra e sinistra: due facce di una
politica in decomposizione. Potenza: Ermes.
La Grassa G. (2007) “Intervista” a cura di Graziani T., Eurasia. Rivista di
studi geopolitici, anno IV, n.3, pp. 161-174.
La Grassa G. (2008a) Contro. L’ideologia e la politica del capitalismo (sub)
dominante. Potenza: Ermes.
La Grassa G. (2008b) Finanza e poteri. Roma: Manifestolibri.
La Grassa G. (2008c) La crisi: occasione per un nuovo pensiero e, possibilmente,

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La Grassa G. (2011) Oltre l’orizzonte. Verso una nuova teoria dei capitalismi.
Lecce: Besa.
La Grassa G. (2012) Centocinquant’anni bastano. Uscire da Marx con Marx.
Narcissus.me.
La Grassa G. (2013) L’altra strada. Per uscire dall’impasse teorica. Milano-
Udine: Mimesis.
La Grassa G. (2015a) Navigazione a vista. Un porto in disuso e nuovi moli.
Milano-Udine: Mimesis.
La Grassa G. (2015b) La realtà è “assenza” (in squilibrio incessante). E-book
di Conflitti&Strategie venduto da Amazon Media EU.
La Grassa G. (2016) Tarzan VS Robinson. Silea: Piazza Editore.

2. Altre opere citate


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orig. Lire le Capital. Paris: Éditions François Maspero).
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psychanalyse de la connaissance objective. Paris: Librairie philosophique J.
Vrin.
Bauman Z. (1987) Memorie di classe. Preistoria e sopravvivenza di un concetto.
Torino: Einaudi.
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Bibliografia

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spero.
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plasma la realtà” in Brancaccio E. La crisi del pensiero unico. Nuova edizione
con saggi inediti sulla crisi economica globale, 2a ed. Milano: Franco Angeli.
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Luxemburg R. (1913) Die Akkumulation des Kapitals. Ein Beitrag zur öko-
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Bibliografia

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Marx K. (1857) Introduzione a Per la Critica dell’Economia Politica. La tra-
duzione italiana utilizzata, a cura di Stefano Garroni, è tratta dal sito
web https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1857/introec/
index.htm (consultato in data 10 giugno 2016).
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blog-filocapitalista-mascherato-di/ (consultato in data 10 giugno 2016).
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Preve C. (1993) Ideologia italiana. Saggio sulla storia delle idee marxiste in
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Intervento pubblicato sul blog di Comunitarismo. Risorsa web reperibile
all’indirizzo http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_artico-
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Bibliografia

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complementarieta-tra-la-filosofia-di-costanzo-preve-e-la-teoria-politica-
di-gianfranco-la-grassa (consultato in data 10 giugno 2016).
Schumpeter J. (1939) Business Cycles. A Theoretical, Historical and Statistical
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Schumpeter J. (1942) Capitalism, Socialism and Democracy. New York:
Harper and Roe Publishers.
Sereni E. (1970) “Da Marx a Lenin: la categoria di «formazione economico-
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Severino E. (2002) “La rivoluzione non è del proletariato”, Liberal Bime-
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Severino E. (2012) Capitalismo senza futuro. Milano: Rizzoli.
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economico-sociale. Napoli: La Città del Sole.
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economico italiano, anno XIX, n. 1, pp. 117-138.
Tambosi O. (2001) Perché il marxismo ha fallito. Lucio Colletti e la storia di
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Pezzano G. (a cura di) Invito allo straniamento. I. Costanzo Preve filosofo.
Pistoia: Petite Plaisance.
Zygulski P. (2014b) “Costanzo Preve e l’educazione filosofica”, Educazione

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Bibliografia

Democratica. Rivista di pedagogia politica, n. 7, pp. 242-251.


Zygulski P. (2014c) “Recensione di Piotr Zygulski del libro di Giovanni
Leghissa «Neoliberalismo. Un’introduzione critica» (Mimesis, 2012)”,
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http://www.correttainformazione.it/giovanni-leghissa-neoliberali-
smo/8169796.html (consultato in data 10 giugno 2016).

3. Siglario

BRICS: Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica


CSMS: Centro Studi di Materialismo Storico
EHESS: École des hautes études en sciences sociales
EPHE: École Pratique des Hautes Études
GLG: Gianfranco La Grassa
NATO: North Atlantic Treaty Organization
PCI: Partito Comunista Italiano
PCUS: Partito Comunista dell’Unione Sovietica
PD: Partito Democratico
PdCI: Partito dei Comunisti Italiani
PDS: Partito Democratico della Sinistra
PRC: Partito della Rifondazione Comunista
SVIMEZ: Associazione per lo Sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno
URSS: Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche
USA: Stati Uniti d’America

91

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Indice dei nomi

A Brancaccio, E. 61, 69, 70, 88


Burnham, J. 38, 88
Abate, E. 69, 87 Burroughs, E. R. 40, 88
Althusser, L. 10, 15, 24, 28, 43, 55,
56, 57, 58, 59, 60, 66, 80, 82,
87 C
Amendola, G. 15
Amin, S. 85 Cabet, È. 24
Amoroso, B. 85 Calabi, L. 83
Arrighi, G. 85 Calcagno, O. 70, 71, 88
Atvater, E. 85 Cangiani, M. 84
Cappelletti, F. A. 84
Carandini, A. 83
B Carandini, G. 83
Caterino, R. 7
Babuin, G. 7 Chavance, B. 14
Bachelard, G. 58, 87 Chruščëv, N. 13
Badaloni, N. 83 Ciabatti, G. 84
Baracca, A. 85 Cillario, L. 85
Baratta, G. 84 Clausewitz, C. von 43, 79
Basso, L. 14 Coase, R. R. 37
Bauman, Z. 32, 87 Coglitore, M. 86
Bazzi, G. 84 Colletti, L. 10, 90
Bellanca, N. 7, 14, 68, 87 Consiglio, F. 84
Bellofiore, R. 26, 88 Corradi, C. 67, 88
Bergson, H. 63, 79 Corradini, D. 84
Berlinguer, E. 69 Covi, A. 84
Berlusconi, S. 71
Bernstein, E. 24
Bettelheim, C. 14, 15, 16, 17, 28, 55,
56, 57, 66, 77, 85, 88 D
Bidet, J. 66, 90
Bini, P. 87 D’Alema, M. 18
Bloch, E. 58 Defoe, D. 40, 41, 88
Bonomi, I. 55 De Marchi, E. 84, 85, 86
Bonzio, M. 17, 85 De Waal, F. 64, 88
Borutti, S. 84 Dühring, K. E. 26
Bosco, B. 85

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Indice dei nomi

E I
Engels, F. 23, 24, 26, 88, 89 Iacono, A. M. 84
Epicuro 59 Illuminati, A. 68, 75, 82, 84, 85, 88
Eraclito 2, 36, 52
K
F
Kautsky, K. 32, 33, 46, 47, 88
Finelli, R. 55, 85 Kojève, A. 59
Fiorani, E. 84 Kouvelakis, S. 66, 90
Fourier, C. 24
Fullin, G. 86
Fumagalli, A. 85 L
Labica, G. 14
G La Grassa, G. 2, 7, 9, 10, 11, 13, 14,
15, 16, 17, 18, 19, 20, 23, 24,
Galilei, G. 40 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32,
Garaudy, R. 58 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40,
Garroni, S. 89 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48,
Geymonat, L. 13, 16, 84 49, 50, 51, 52, 53, 55, 56, 60,
Geymonat, M. 13 61, 63, 64, 65, 66, 67, 68, 69,
Gheddafi, M. 71 70, 71, 72, 73, 77, 78, 79, 80,
Giancotti, E. 84 81, 82, 83, 84, 85, 86, 87, 89
Giannoli, G. I. 84 Ledru-Rollin, A. 24
Giraldi, G. 24, 88 Leghissa, G. 39, 91
Gorbačëv, M. 16 Lenin, V. I. 29, 32, 33, 48, 86, 88, 90
Graziani, T. 86 Leonetti, F. 14, 16
Guevara, E. R. (Che) 57 Levrero, R. 85
Guidi, M. L. 88 Lipietz, A. 84
Lippi, M. 83
List, F. 70
H Lombardo Radice, L. 58
Havemann, R. 58 Lukács, G. 60, 83
Hegel, G. W. F. 59 Luporini, C. 14, 83
Heidegger, M. 59 Luxemburg, R. 47, 88
Hobbes, T. 59 Lyotard, J.-F. 59, 89
Hobson, J. A. 47, 88

94

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Indice dei nomi

M Pezzano, G. 90
Piccioni, L. 84
Macchioro, A. 16, 87 Pogge, T. 40
Machiavelli, N. 59 Popper, K. R. 34, 89
Manelli, B. 86 Preve, C. 5, 7, 9, 10, 18, 21, 56, 58,
Mangano, A. 84 59, 60, 61, 62, 63, 65, 66, 70,
Marx, K. 9, 10, 13, 14, 15, 16, 18, 20, 79, 80, 84, 85, 89, 90
23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, Prodi, R. 18
31, 32, 33, 34, 35, 36, 41, 42, Proto, M. 86
46, 48, 51, 58, 59, 61, 62, 63, Proudhon 24, 26
64, 65, 68, 69, 71, 77, 84, 85, Proudhon, P. 90
86, 87, 88, 89, 90
Mazzeo, S. 2, 7
Mazzone, A. 83
Meissner, O. von 89 R
Meszaros, I. 85
Mirone, G. 7 Ragona, G. 70, 71, 88
Moro, A. 69 Ricardo, D. 24, 41
Ricoveri, G. 85
Ripepe, E. 84
N Rodano, F. 89
Romani, R. 87
Napolitano, G. 69 Romano, V. 7
Nardelli, M. 86 Rossi-Landi, F. 14
Nietzsche, F. 66 Rothschild, K. 90
Nobile, M. 86 Rothschild, K. W. 43
Nussbaum, M. 40 Rousseau, J.-J. 59

O
Orso, E. 71, 89 S
Scala, G. 10, 65, 90
P Schaff, A. 58
Schiavone, A. 15, 83
Pantalano, R. 61, 69, 70, 88 Schito, M. 7
Panzieri, R. 17 Schmitt, C. 66
Papagna, M. 86 Schumpeter, J. 38, 42, 90
Pedone, A. 83 Schumpeter, J- A. 37
Pesenti, A. 13, 14, 55, 56, 77 Screpanti, E. 68
Petrillo, A. 86 Sen, A. 39
Petrosillo, G. 7 Sereni, E. 14, 90

95

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Indice dei nomi

Severino, E. 71, 72, 90 V


Simon, H. A. 39, 40
Simoni, N. 15, 67, 90 Veca, S. 84
Smith, A. 24, 41 Vercelli, A. 83
Soldani, F. 84 Vincent, J.-M. 14
Soldani, S. 84 Viola, G. 7
Soliani, R. 9, 55, 90 Volpe, A. 60, 90
Somogyi, G. 83 Volpi, A. 7
Spinella, M. 14
Spinoza, B. 59 W
Sportelli, S. 84
Stalin, I. 13 Wagner, A. 89
Sun Tzu 79 Wakefield, E. G. 25
Sweezy, P. M. 17, 85 Williamson, O. E. 37, 90

T Z

Tablada, C. 85 Zygulski, P. 9, 39, 60, 61, 79, 90, 91


Tambosi, O. 10, 90
Taylor, F. 79
Testoni, L. 7
Texier, J. 14
Tosel, A. 9, 66, 90
Tronti, M. 78
Turchetto, M. 10, 15, 16, 28, 67, 83,
84, 85, 86, 87

96

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Sommario

Ringraziamenti 7
Abstract 9

INTRODUZIONE 11

Capitolo I: Vita e opere 15

Capitolo II: Il pensiero di Gianfranco La Grassa 25


1. Karl Marx: l’inevitabile porto di partenza 25
1.1. La teoria marxiana del (plus)valore: meriti di un primo disvelamento 25
1.2. La centralizzazione dei capitali che condurrebbe al socialismo 31
1.3. La falsificazione delle previsioni marxiane: un’impasse da superare 34
2. Ipotesi per una teoria post-marxista 38
2.1. Dalla fabbrica all’impresa 38
2.2. Dalla razionalità strumentale di Robinson a quella strategica di Tarzan 41
2.3. Dalla proprietà al conflitto strategico: un secondo disvelamento 45
2.4. Dalle teorie “crollistiche” dell’imperialismo alle ricorsività di fase 48
2.5. Cenni su squilibrio, realtà, scienza 53

Capitolo III: Analisi critica 57


1. Influenze e confronti 57
1.1. La formazione marxista: Pesenti, Bettelheim, Althusser 57
1.2. Il rapporto con Costanzo Preve 62
1.3. La ricezione del pensiero di Gianfranco La Grassa 67

POSTFAZIONE di Augusto Illuminati 77

BIBLIOGRAFIA 85
1. Pubblicazioni di Gianfranco La Grassa 85
2. Altre opere citate 89
3. Siglario 93

Indice dei nomi 95

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Collana
divergenze

1. Gianfranco La Grassa, Dai Tre Mondi alla “globalizzazione capitalistica”.


2. Gianfranco La Grassa, Microcosmo del dominio. Critica delle ideologie economici-
stiche dell’impresa.
3. Gianfranco La Grassa, Il comunismo fallibile. A 150 anni dal “Manifesto”.
4. Costanzo Preve, Il crepuscolo della profezia comunista. A 150 anni dal “Manife-
sto”.
5. Costanzo Preve, L’alba del Sessantotto. Una interpretazione filosofica.
6. Costanzo Preve, Marxismo, Filosofia, Verità.
7. Andrea Cavazzini, Teoria, Ideologia, Storia. Note critiche su un inedito di Althus-
ser.
8. Costanzo Preve, Destra e Sinistra. La natura inservibile di due categorie tradizio-
nali.
9. Costanzo Preve, La questione nazionale alle soglie del XXI secolo.
10. Andrea Cavazzini, La forma spezzata. Note critiche sulla tarda filosofia di Lukàcs.
11. Costanzo Preve, Le stagioni del nichilismo. Un’analisi filosofica ed una prognosi
storica.
12. Costanzo Preve, Individui liberati, comunità solidali. Sulla questione della società
degli individui.
13. Costanzo Preve, Contro il capitalismo, oltre il comunismo. Riflessioni su una
eredità storica e su un futuro possibile.
14. Federico Dinucci, Materialismo aleatorio. Saggio sulla filosofia dell’ultimo Al-
thusser.
15. Marino Badiale, La Mappa e il Paesaggio. Osservazioni critiche sull’epistemologia
del Novecento.
16. Fedrico Dinucci, Marx prima di Marx. Teoria del valore e processi di globalizza-
zione.
17. Diego Melegari, Il problema scongiurato. Note su Antonio Negri e il “partito” del
General Intellect.

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18. Giancarlo Paciello, Quale processo di pace? Cinquant’anni di espulsioni e di
espropriazioni di terre ai palestinesi.
19. Massimo Bontempelli, La disgregazione futura del capitalismo mondializzato.
20. Costanzo Preve, La fine dell’URSS. Dalla transizione mancata alla dissoluzione
reale.
21. Costanzo Preve, Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi.
22. Costanzo Preve, Le avventure dell’ateismo. Religione e materialismo oggi.
23. Andrea Cavazzini-Costanzo Preve, Un nuovo manifesto filosofico. Prospettive
inedite e orizzonti convincenti per il pensiero.
24. Costanzo Preve, Hegel, Marx, Heidegger. Un percorso nella filosofia contempo-
ranea.
25. Costanzo Preve, Scienza, Politica, Filosofia. Un’interpretazione filosofica del No-
vecento.
26. Andrea Cavazzini, Evento e Concetto. Filosofia e Storia della Filosofia.
27. Gianfranco La Grassa, La tela di Penelope. Conflitto, crisi e riproduzione nel
capitalismo.
28. Marco Salvioli, Kenosi e De-centramento. Il concetto di Dio tra J. Derrida e M.
C. Taylor.
29. Gianfranco La Grassa, Considerazioni del dopoguerra. Insegnamenti dell’aggres-
sione USA (e NATO) alla Jugoslavia.
30. Andrea Cavazzini, Introduzione dello Spirito. Meditazioni su Libertà e Contin-
genza.
31. Costanzo Preve, Il Bombardamento Etico. Saggio sull’Interventismo Umanitario,
sull’Embargo Terapeutico e sulla Menzogna Evidente.
32. Antonio Areddu, Cristianesimo e marxismo nel pensiero di Italo Mancini. Una
rilettura in memoriam.
33. Giancarlo Paciello, La nuova Intifada. Per il diritto alla vita, ad ogni costo.
34. Costanzo Preve, Marxismo e Filosofia. Note, riflessioni e alcune novità.
35. Gianfranco La Grassa, L’imperialismo. Teoria ed epoca di crisi.
36. Costanzo Preve, Un secolo di marxismo. Idee e ideologie.
37. Costanzo Preve, Le contraddizioni di Norberto Bobbio. Per una critica del Bob-
bianesimo cerimoniale.
38. Giancarlo Paciello, La conquista della Palestina. Le origini della tragedia palesti-
nese.
39. Gianfranco La Grassa, Dalla proprietà al conflitto strategico. Per una teoria del
capitalismo.

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40. Marco Apolloni, La religione in Jean-Jacques Rousseau.
41. Costanzo Preve, Il marxismo e la tradizione culturale europea.
42. Costanzo Preve- Eugenio Orso, Nuovi signori e nuovi sudditi. Ipotesi sulla
struttura di classe del capitalismo contemporaneo.
43. Costanzo Preve- Roberto Sidoli, Logica della storia e comunismo novecentesco.
L’effetto sdoppiamento.
44. Eugenio Orso, Alienazioni e uomo precario. Prefazione di Costanzo Preve. In
Appendice: Costanzo Preve, Introduzione ai “Manosciritti economico-filofici del
1844” di Karl Marx.
45. Linda Cesana - Costanzo Preve, Filosofia della verità e della giustizia. Il pensiero
di Karel Kosík.
46. Piotr Zygulski, Costanzo Preve: la passione durevole della filosofia. Presentazio-
ne di Giacomo Pezzano.
47. Pietro Piro, Marginalia. Brevi annotazioni di un lettore vivo.
48. Carmine Fiorillo, Il secchio e il vento.
49. Pietro Piro, Il dovere di continuare a pensare.
50. Marco Apolloni, Rousseau e la filosofia dell'originario.
51. Piotr Zygulski, Il meccanico del marxismo. Introduzione critica al pensiero di
Gianfranco La Grassa. Postfazione di Augusto Illuminati.

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