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gennaio
marzo 2015

Intellettuali di se stessi
Lavoro intellettuale in epoca neoliberale
a cura di Dario Gentili e Massimiliano Nicoli

Premessa 3
Massimiliano Nicoli L’etica del lavoro intellettuale
e lo spirito del capitalismo 7
Dario Gentili Cosmo e individuo. Per una
genealogia del lavoro intellettuale nell’epoca
neoliberale 21
Roberto Ciccarelli L’emergenza delle nostre vite
minuscole 37
Carlo Mazza Galanti Un curriculum a modo tuo 54
Federico Chicchi, Nicoletta Masiero Incrinature.
Posture e linee di fuga del lavoro cognitivo 66
Andrea Mura Debito e comune. Per un’etica del
non-tutto 84
Alessandro Manna La degradazione. Piccola
sociobiografia portatile di Lorena,
ricercatrice precaria 99
Vincenzo Ostuni Paranoia e capitale 121

INTERVENTI
Alessandro Di Grazia Coetzee e De Bruyckere
alla Biennale di Venezia 2013 139
Carlo Deregibus Responsabilità e progetto.
L’eredità di Enzo Paci ed Ernesto Nathan
Rogers 161
Luigi Azzariti-Fumaroli Walter Benjamin,
collezione privata 177
Sergio Benvenuto Merleau-Ponty
e l’allucinazione 188
Premessa

D
opo un fascicolo monografico dedicato
alla problematizzazione dell’insegna-
mento scolastico (La scuola impossibile,
358, 2013) e un altro dedicato alla critica dei dispositivi di valuta-
zione della ricerca (All’indice. Critica della cultura della valutazione,
360, 2013), “aut aut” mette ora a tema la condizione del lavoro
intellettuale in epoca neoliberale. In questo campo, le categorie
socio-politiche che organizzano gli spazi e i tempi delle professioni
saltano, rendendo estremamente complessa l’impresa di mettere
ordine tra figure del lavoro che proliferano, si ibridano, e molto
spesso si incorporano in una o più persone contemporaneamente.
La condizione del lavoro intellettuale emerge come stretta fra il
desiderio di indipendenza e di cooperazione, di un buon lavoro e di
una buona vita, da una parte, e il ricatto esistenziale, la sussunzione
reale della vita imposti dall’appartenenza a un eterno esercito in-
dustriale di riserva, dall’altra. Abbiamo pensato di definire questa
figura complessa e contraddittoria con l’espressione “intellettuale
di se stesso”, che segnala la penetrazione della forma di vita neo-
liberale dell’“imprenditore di se stesso” nell’ambito del lavoro
intellettuale, ma marca anche uno scarto rispetto alla figura che il
Novecento ci ha lasciato in eredità: quella dell’intellettuale a cui è
demandato il compito di pensare e farsi espressione di un collettivo,
di una classe, di un partito o di un’istituzione. L’intellettuale di se
stesso è piuttosto il rovescio neoliberale di quell’“intellettualità di
massa” che i movimenti degli anni settanta avevano delineato in

3
quanto esito dell’affermarsi del general intellect nell’ultima fase del
modo di produzione fordista. In seguito, il mercato neoliberista
ha organizzato in regime di concorrenza le potenzialità che un’in-
tellettualità diffusa produce, eleggendone l’individuo proprietario
a portatore unico.
Le questioni che si aprono sono diverse e tutte cruciali: è
possibile valorizzare il desiderio di autonomia del lavoro indi-
pendente senza che quel desiderio sia catturato, nella forma della
concorrenza, da parte del mercato neoliberista? È possibile quindi
praticare l’indipendenza e la cooperazione in modo non alterna-
tivo o contrapposto? Quella dell’intellettuale di se stesso è una
scelta o un’imposizione? Il lavoro intellettuale, in effetti, costituisce
una cartina di tornasole del livello di integrazione e commistione
fra pratiche di soggettivazione e modi di assoggettamento, se si
pensa alle forme di autodisciplina, autosorveglianza, così come di
ascetismo o di “marketing del sé” che pure appartengono a questa
condizione e alle sue forme di visibilità. Eppure, come emerge
dal fascicolo, questa profonda individualizzazione del lavoro in-
tellettuale delinea anche la possibilità di determinare una forma
di vita comune proprio laddove sembrano agire con la massima
efficacia i dispositivi di concorrenza e competizione che separano,
distinguono, isolano.
Le pratiche relazionali che hanno caratterizzato la composi-
zione di questo fascicolo non possono che partecipare a quella
forma di vita a cui abbiamo accennato, tanto quanto i contenuti
dei singoli contributi. Ci siamo rivolti, infatti, ad autori e autrici
il cui lavoro intellettuale non è quasi mai strutturato all’interno di
questa o quella istituzione, ma che partecipano, più o meno loro
malgrado, alla condizione dell’intellettuale di se stesso. Le nostre
discussioni intorno a questo tema si sono svolte tra un’application
da chiudere per una position nell’università straniera di turno, una
deadline incombente, un lavoro intermittente e un pagamento da
rincorrere, distanze geografiche da ridurre per e-mail o Skype –
insomma, tra vite i cui pezzi sono da tenere insieme quasi quoti-
dianamente. In questo quadro, l’intellettuale di se stesso non è una
categoria che ha la pretesa di una legittimazione/ricomposizione

4
teorica di una forma di vita così composita, variegata e contraddit-
toria, vuole piuttosto costituire uno spunto per aprire un discorso
che, attraverso e nonostante le sue pratiche e i suoi stili diver-
si – anche di scrittura, come questo stesso fascicolo mostra –,
tenti di sottrarre il lavoro intellettuale alla individualizzazione più
esasperata. [D.G., M.N.]

5
Archivio Enzo Paci

A oltre trent’anni dalla morte di Enzo Paci, con il moltiplicarsi degli studi e delle
iniziative legate alla sua opera, l’Archivio chiede a chi ha scritto e scriva su Enzo Paci
di voler gentilmente inviare copia del proprio lavoro all’Archivio stesso. Lo scopo
evidente è quello di riunire e fare conoscere lavori e ricerche, e i loro autori, per fa-
vorire altri studi. Nello stesso tempo si intende garantire la presenza di una collezione
completa di scritti di e su Enzo Paci nel luogo che ne conserva manoscritti e biblioteca.
L’invito si rivolge anche a chi abbia scritto una tesi di laurea o una dissertazione di
dottorato su Enzo Paci e/o sul contesto culturale in cui si è mossa la sua attività. Al
momento la collezione è parziale e sembra utile completarla. Si potrà in questo modo
compilare anche un elenco degli studiosi interessati.
Inoltre si è avviata l’acquisizione e la catalogazione dell’epistolario. Chiediamo per-
tanto a chi sia in possesso di lettere di Enzo Paci di collaborare, inviandoci fotocopia
delle lettere; se ne ha tenuto copia e non ha nulla in contrario, sono benvenute anche
fotocopie delle lettere del corrispondente.
L’indirizzo al quale inviare il materiale è:

Archivio Enzo Paci


via Beato Angelico 5
20133 Milano

Ringraziamo tutti anticipatamente e raccomandiamo di accludere al materiale anche


il proprio recapito.
L’etica del lavoro intellettuale
e lo spirito del capitalismo
MASSIMILIANO NICOLI

1.
Sarei tentato di cominciare questo testo con
una critica del titolo che io stesso ho scelto: è
troppo roboante e per di più cede alla moda
assai diffusa di parafrasare i titoli di opere capitali della cultura
occidentale. Senza contare le generalizzazioni indebite che esso
contiene e che il testo non sarà in grado di giustificare, come se
esistessero oggetti già ben definiti, e sui quali fosse possibile in-
tendersi senza troppe difficoltà, come “lavoro intellettuale” (con
la sua “etica”) e “spirito del capitalismo”. Il riferimento al libro
più celebre di Max Weber e all’importante e voluminoso saggio
di Boltanski e Chiapello,1 solo da poco tradotto in italiano, non
basterà certo a sciogliere i nodi problematici implicati da un tito-
lo che, pertanto, non andrà preso troppo sul serio. Dichiariamo
subito la posta in gioco che tale titolo – ironico, quindi, e un po’
provocatorio – sottende: si tratterà di provare a partecipare, con
un minuscolo contributo, alla lunga storia della riflessione critica
che si interroga sul rapporto fra le condizioni oggettive e soggettive

Massimiliano Nicoli, redattore di “aut aut”, attualmente è borsista F. Braudel presso il


Laboratorio di ricerca Sophiapol dell’Università Paris Ouest Nanterre La Défense. Si
occupa soprattutto di Foucault e di critica del management e ha appena pubblicato la
monografia Le risorse umane per le edizioni Ediesse di Roma.
1. Mi riferisco, ovviamente, a M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo
(1904-1905), trad. di A.M. Marietti, Rizzoli, Milano 2011, e a L. Boltanski, È. Chiapello,
Il nuovo spirito del capitalismo (1999), trad. di M. Schianchi, Mimesis, Milano-Udine
2014.

aut aut, 365, 2015, 7-20 7


della produzione intellettuale, l’organizzazione capitalistica del
lavoro e le forme di governo politico degli individui.2
Oggi, la formula “intellettuale di se stesso” sembra funzionare
come uno dei nomi di tale rapporto. Un chiarimento preliminare
è però necessario. L’espressione “intellettuale di se stesso” è stata
recentemente impiegata da Pier Aldo Rovatti in relazione, per l’ap-
punto, alle trasformazioni che la funzione e il ruolo dell’intellettua-
le stanno attraversando nel nostro presente e all’interno di quello
“stile” di governo degli individui che chiamiamo neoliberalismo.3
L’espressione è anfibola. Da un lato essa rinvia, con una smorfia,
al ritornello neoliberale che invita tutti e ciascuno a trasformarsi
in imprenditori di se stessi. In questo senso, l’espressione “intellet-
tuale di se stesso” costituirebbe in primo luogo la traduzione nel
campo intellettuale di quel ritornello, segnalando la penetrazione
della competizione, della concorrenza, dei principi del libero mer-
cato nella cosiddetta economia della conoscenza e l’affermazione
della forma-impresa come forma di vita dei lavoratori intellettuali.
In questa traduzione, “imprenditore” e “intellettuale” si sostitui-
scono e si sovrappongono, e il lavoratore della conoscenza appare
come un atleta della gestione manageriale del proprio “capitale
umano”, nel quadro della biopolitica neoliberale. Nello stesso
tempo, però, la traduzione tradisce qualcosa, e la sovrapposizione
fra i due termini non è senza resto.
“Intellettuale di se stesso” diventa anche, seguendo l’indicazione
di Rovatti, il nome di una potenzialità politica che inerisce a cia-
scuno quando lo sviluppo del general intellect fa decadere la figura
dell’intellettuale universale e si estinguono le guide veritative a cui
demandare il problema di distinguere il vero dal falso. In termini
marxiani,4 l’espansione del “sapere sociale generale” fa evaporare la
distinzione fra lavoro intellettuale o manuale e modifica il rapporto

2. Tema sul quale “aut aut” è più volte intervenuta, soprattutto negli anni settanta: cfr.
i fascicoli 142-143 del 1974 e 154 del 1976.
3. Cfr. P.A. Rovatti, Noi, i barbari. La sottocultura dominante, Raffaello Cortina, Milano
2011, p. 145.
4. Mi riferisco soprattutto al celeberrimo “Frammento sulle macchine” dei Grundrisse.
Cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (1939), trad. di E.
Grillo, La Nuova Italia, Firenze 1968-1970, pp. 389-411.

8
fra teoria e prassi all’interno della vita di ciascuno, così che ciascuno
può diventare intellettuale critico di se stesso: si delinea un mondo
senza maîtres de vérité a cui è assegnato l’incarico di pensare per
tutti. A ognuno la possibilità e il compito di criticare tutti i poteri che
ci attraversano sospendendone la necessità – come direbbe invece
Foucault, coniando in proposito il termine “anarcheologia”5 –, e
di impiantare nella concretezza dell’esistenza quel “poco di verità”
che serve alla vita.6 Contemporaneamente, si presenta l’occasione
di inventare nuove modalità di organizzazione del lavoro intellet-
tuale e della trasmissione dei saperi, nuove istituzioni che mettano
in discussione la separazione fra discorsi e pratiche, fra soggetto e
oggetto, fra – di nuovo – teoria e prassi. Ancora Marx, questa volta
nei Manoscritti,7 ci insegna che la soluzione delle opposizioni teo-
retiche è possibile solo in maniera pratica, è un compito che spetta
alla vita e non, per esempio, alla filosofia.
Le ricerche sociali che indagano i comparti del “lavoro cogniti-
vo” – l’università, il giornalismo, l’editoria, la comunicazione – ci
restituiscono altrettanta ambivalenza rispetto alla “postura” che
caratterizza questo tipo di lavoro:8 da un lato la knowledge-based
economy spinge gli individui verso un ethos intensamente autoim-
prenditoriale e competitivo, fino al limite dell’autosfruttamento
e della disponibilità al lavoro gratuito in cambio di una promessa
di visibilità9 o di una riga da aggiungere al proprio curriculum.

5. M. Foucault, Del governo dei viventi. Corso al Collège de France (1979-1980) (2012),
a cura di M. Senellart, trad. di D. Borca e P.A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 2014, p. 86.
6. Id., Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984)
(2009), a cura di F. Gros, trad. di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2011, p. 187. Cfr. anche P.A.
Rovatti, Quel poco di verità. Una lezione su Michel Foucault, Mimesis, Milano-Udine 2013.
7. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844 (1932), trad. di N. Bobbio, Einaudi,
Torino 1970, p. 120.
8. Mi riferisco, per esempio, all’inchiesta avviata nel 2013 da IRES Emilia Romagna, IRES
Toscana e IRES Veneto sui lavoratori della conoscenza e basata su un centinaio di interviste
individuali oltre che su circa 1100 questionari raccolti attraverso una piattaforma online. Si
veda in proposito F. Chicchi, N. Masiero, Posture e imposture del lavoro cognitivo. Ripensare
la pratica sindacale nel capitalismo delle reti e dei saperi, “Economia e società regionale”, 1,
2014, pp. 90-115.
9. Si tratta di quella “economia politica della promessa” di cui parla in modo acuto ed
efficace Marco Bascetta in un articolo del 22 ottobre 2014 sul quotidiano “il manifesto”,
consultabile online all’indirizzo: <ilmanifesto.info/leconomia-politica-della-promessa>.

9
Dall’altro, la cooperazione sociale che costituisce lo sfondo di
possibilità del lavoro intellettuale, la sua disponibilità smisurata,
la gratuità, le passioni tutt’altro che tristi, seppure incessantemen-
te suscitate e messe a valore dall’organizzazione complessiva del
lavoro, non sono del tutto sovrapponibili all’antropologia indivi-
dualista neoliberale, e costituiscono il terreno di formazione di
bisogni sociali che eccedono il management della conoscenza. La
“postura incognita”10 del lavoratore cognitivo è abitata da questa
ambiguità, che se da una parte alimenta autodisciplina e guerra
fra poveri – per così dire –, dall’altra lascia intravedere un supera-
mento possibile del lavoro salariato e delle sue forme di schiavitù,
attraverso il recupero o l’invenzione di pratiche di mutuo soccorso,
di cooperazione, di auto-organizzazione del lavoro indipendente.11
Oggi questa ambivalenza si presenta ancora come una impasse
da cui non si riesce a uscire: qualcosa inceppa la trasformazione
possibile delle pratiche e dei discorsi, e il lavoratore intellettuale si
ritrova impegnato ogni giorno nella cattura privatistica di pezzi del
“sapere sociale generale” per alimentare la costruzione della propria
impresa personale, sia che essa si collochi sul piano della visibilità
mediatica e spettacolare, sia che si situi nell’ambito delle istituzioni
accademiche di ricerca e di insegnamento e dei relativi dispositivi di
valutazione “meritocratica”. Per provare a dare conto di questo in-
ceppo, occorre probabilmente fare qualche passo indietro e cercare
la genealogia dell’etica del lavoro intellettuale all’interno della storia
più ampia delle pratiche di moralizzazione del lavoro in generale.

2. Il problema della moralizzazione dei lavoratori appare molto


presto nella storia del modo di produzione capitalistico. Seguendo
le analisi storiche di Foucault nel suo corso al Collège de France del
1973,12 osserviamo che, nel momento del passaggio dalla manifat-
tura del XVIII secolo alla grande industria del XIX, alla borghesia si

10. Cfr. F. Chicchi e N. Masiero, Posture e imposture del lavoro cognitivo, cit.
11. Cfr. G. Allegri e R. Ciccarelli, Il Quinto Stato. Perché il lavoro indipendente è il nostro
futuro. Precari, autonomi, free lance per una nuova società, Ponte alle Grazie, Milano 2013.
12. M. Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France, 1972-1973, EHESS-Seuil-
Gallimard, Paris 2013.

10
presenta il problema di contrastare un doppio tipo di “illegalismo
popolare” che potrebbe sabotare il buon funzionamento della
valorizzazione capitalistica. Il primo tipo di illegalismo concerne
l’apparato di produzione (dalle macchine alle materie prime, dagli
utensili agli stock di magazzino), sempre più complesso, sempre
più prezioso e contemporaneamente esposto al sabotaggio o al
furto da parte della classe operaia. Nel momento in cui si mette in
mano agli operai un apparato di produzione così costoso, occorre
iniettare nel rapporto tra il lavoratore e i mezzi di produzione un
“supplemento di codice” che accompagni e completi la legge del
salario: bisogna “rigenerare” e “moralizzare” la classe operaia.13
Prima istanza di moralizzazione.
Ma l’illegalismo più grave, quello più pericoloso, è quello che il
lavoratore può praticare non tanto sul corpo della ricchezza della
borghesia quanto sul proprio corpo, sulla propria forza-lavoro, che
il padrone acquista con il salario. È l’“illegalismo della dissipazione”:
l’ozio, la pigrizia, il rifiuto del lavoro e della famiglia, la festa, l’azzar-
do, il nomadismo.14 Seconda istanza di moralizzazione. Per combat-
tere questo tipo di illegalismo infra-legale che consiste in una cattiva
maniera di condurre se stessi, di gestire la propria forza produttiva,
il proprio tempo e la propria vita (ciò che forse oggi chiameremmo
“capitale umano”), occorre un apparato extra-giuridico in grado
di attingere il focolaio stesso dell’illegalismo, vale a dire il “corpo,
il desiderio, il bisogno dell’operaio”.15 La disciplina di fabbrica
scientificamente organizzata dall’ingegner Taylor16 si incaricherà di
svolgere questo compito di ortopedia morale nei luoghi di lavoro,
o di polizia della soggettività, secondo gli schemi disciplinari che
Foucault stesso analizzerà molti anni dopo in Sorvegliare e punire.17
Sappiamo bene come l’organizzazione produttiva disegnata da
Taylor e poi realizzata a partire da Ford abbia funzionato come

13. Ivi, p. 153.


14. Ivi, pp. 175-201.
15. Ivi, p. 178.
16. Cfr. F.W. Taylor, L’organizzazione scientifica del lavoro (1947), trad. di F. Garella, L.
Grandi, L. Zannini, Etas, Milano 2004.
17. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975), trad. di A. Tarchetti,
Einaudi, Torino 1993, pp. 147-213.

11
dispositivo di fabbricazione di individui utili, esercitati, docili e
produttivi: nelle intenzioni di Taylor, all’aumento della produttività
del lavoro che i suoi metodi determinano, si accompagna la cordiale
collaborazione fra capi e sottoposti, mentre i lavoratori divengono
uomini migliori, piccoli risparmiatori lontani dal vizio e in grado di
riscattare, attraverso il lavoro, la propria naturale pigrizia. Contem-
poraneamente, fuori dalla fabbrica, una rete di iniziative eterogenee
– dal libretto di risparmio alle prime forme di credito al consumo,
dalla costruzione delle cités ouvrières alle misure filantropiche di
moralizzazione della classe operaia – assicura la sorveglianza e la
valutazione del comportamento morale dei lavoratori lungo tutto il
corso della vita, fissandoli all’apparato di produzione e prevenendo
la dissipazione delle energie vitali in attività improduttive.18 Una
coalizione di micro e macro poteri si forma per sintetizzare in lavoro
il tempo e la vita degli uomini, convertendo una “energia esplosiva”
che è fatta di “piacere, discontinuità, festa, riposo, bisogno, attimi,
caso, violenza ecc.” in “una forza-lavoro continua e continuamente
offerta sul mercato”.19 È solo così – attraverso cioè questa sintesi
operata da una rete di poteri politici – che, secondo Foucault, il
lavoro diviene l’essenza concreta dell’uomo.20
Se proseguiamo a ritroso, pur in maniera affrettata e superfi-
ciale, lungo la strada di una genealogia che de-naturalizzi ciò che
genericamente chiamiamo etica del lavoro, rivelandone le con-
dizioni storiche di formazione, incontriamo – fra i tanti possibili
– un riferimento imprescindibile: L’etica protestante e lo spirito
del capitalismo di Weber. Se Foucault ci mostra come l’essenzia-
lizzazione del lavoro produttivo partecipi a un gigantesco sforzo
di assoggettamento disciplinare della società – e segnatamente in

18. A tal proposito si possono vedere: M. Foucault, La société punitive, cit., pp. 199-201;
Id., “Il gioco di Michel Foucault” (1977), in Follia e psichiatria. Detti e scritti 1957-1984, a
cura di M. Bertani e P.A. Rovatti, trad. di D. Borca e V. Zini, Raffaello Cortina, Milano 2006;
R. Castel, Le metamorfosi della questione sociale. Una cronaca del salariato (1995), trad. di C.
Castellano, A. Simone, C. Pizzo, Elio Sellino Editore, Avellino 2007; A. Gramsci, Quaderno
22. Americanismo e fordismo, Einaudi, Torino 1977.
19. M. Foucault, La société punitive, cit., p. 236.
20. Ibidem. Si veda anche Id., “La verità e le forme giuridiche” (1974), in Archivio
Foucault. Interventi colloqui, interviste 2. 1971-1977 Poteri, saperi, strategie, a cura di A. Dal
Lago, trad. di A. Petrillo, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 162-163.

12
quanto correlato di un’operazione di moralizzazione della classe
operaia –, Weber disegna lo sfondo culturale e religioso più ampio
che ha permesso a un’idea come quella di “dovere professionale”21
– l’idea cioè di un dovere che l’individuo deve sentire nei confronti
del contenuto della sua attività lavorativa – di divenire il summum
bonum delle società capitalistiche. Questa idea, che nelle civiltà
precapitalistiche sarebbe stata vissuta come espressione e frutto
di avarizia e rapacità, assurge a “maniera di vivere” che accomuna
e seleziona i soggetti economici della produzione capitalistica,
tanto gli imprenditori quanto gli operai.22 Essa non consiste solo
nella valorizzazione della propria forza-lavoro e del suo possesso
materiale “come capitale”, ma è costitutiva dell’“etica sociale della
civiltà capitalistica”.23 Questa idea non è nulla di naturale, deve
essere prodotta, ma la mera incentivazione economica (lavorare
indefessamente per guadagnare di più) non è all’altezza dello sco-
po.24 Occorre che il lavoro sia svolto come “se fosse assolutamente
fine a se stesso – ‘vocazione’ [Beruf]”.25
È ben noto quanto, secondo Weber, l’ethos del lavoro come
Beruf debba il suo radicamento nelle pratiche di vita di ogni in-
dividuo all’influenza religiosa del protestantesimo ascetico, razio-
nalizzata nella sfera economica mondana: il lavoro professionale
indefesso come condotta di vita è l’unico mezzo per raggiungere
la consapevolezza della propria predestinazione e del proprio stato
di grazia, e liberarsi così dall’angoscia di non poter conseguire la
salvezza. Ciò che qui è importante sottolineare è che, con Weber,
la dimensione ascetica e “autotelica” della prassi umana – che

21. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, cit., pp. 76-77.
22. Ivi, pp. 77-80.
23. Ivi, p. 77.
24. Weber nota giustamente come la pratica del cottimo si scontri contro la resistenza dei
lavoratori che preferiscono lavorare quanto basta per soddisfare i propri bisogni tradizionali.
Quando l’appello al senso del guadagno fallisce, è più efficace la riduzione dei salari che
obbliga i lavoratori a lavorare di più per guadagnare quanto guadagnavano prima (ivi, pp.
82-83). Se ne accorse ben presto la produzione taylorfordista, quando si vide che la politica di
“alti salari” commisurati alla produttività del lavoro – secondo i dettami di Taylor e Ford – era
inefficace senza un intervento sulla “motivazione” individuale di ciascun lavoratore.
25. Ivi, p. 85.

13
come tale eccede la razionalità strumentale – è collocata al cuore
del funzionamento della macchina capitalistica.26
Intravediamo in Weber una sorta di anticipazione della nozione
neoliberale di capitale umano (il reddito di ogni individuo come
valorizzazione della propria forza-lavoro in quanto capitale) e
soprattutto una porta di accesso alla comprensione dell’aspetto
etico, ascetico e pedagogico delle “antropotecniche” neoliberali27
e del lavoro postfordista. Intendo dire che non solo il lavoro come
Beruf e l’autodisciplina ascetica che esso impone a tutti i soggetti
attivi promuovono la produttività del lavoro nel senso capitalistico
del termine, ma costituiscono pure il lavoro professionale come
tecnologia del sé – per usare una formula foucaultiana –, con-
sentendo a ogni individuo di rispondere all’angosciosa domanda
che riguarda la propria identità. In un momento in cui ciascuno è
sollecitato a divenire imprenditore di se stesso per procurarsi un
reddito e accedere a una piena forma di cittadinanza, l’etica del
lavoro indefesso ben si adatta a un’oculata gestione del proprio
capitale umano che non ammette momenti di dispersione: il primo
peccato, quello più grave, era e resta quello di perdere tempo.
Inoltre, l’esercizio fine a se stesso del lavoro perpetuo conduce
alla consapevolezza del proprio stato di grazia, ovvero l’autentifi-
cazione di se stessi come soggetti di una performance di successo.
Qui l’assoggettamento disciplinare descritto da Foucault e l’ascesi
intramondana delineata da Weber si incrociano, gettando una luce
sinistra sulle tecniche di sé di cui lo stesso Foucault si è occupato
nell’ultima fase delle sue ricerche: soggettività e identità si saldano
sotto le insegne del lavoro produttivo in cui nessun istante è per-
duto e ogni attimo, ogni gesto sono messi a valore. Ma per chiarire
meglio questo punto, è necessario ritornare a una figura concreta
del lavoro: il lavoratore intellettuale, appunto.

26. A questo proposito, si veda E. Stimilli, Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo,
Quodlibet, Macerata 2011.
27. Sulla nozione di “antropotecnica”, mutuata da Peter Sloterdijk, in relazione
ai dispositivi governamentali neoliberali, rimando a G. Leghissa, Neoliberalismo.
Un’introduzione critica, Mimesis, Milano-Udine 2012.

14
3. Due polarità sembrano attrarre e determinare le forme di
esercizio di buona parte del lavoro intellettuale oggi: la visibilità
e la valutazione. Sappiamo che la visibilità – intesa innanzitutto
come visibilità del proprio “profilo” sul mercato del lavoro e
delle professioni intellettuali – costituisce la vera retribuzione
di quel lavoro gratuito che tiene in piedi interi comparti come
quelli dell’università, del giornalismo, dell’editoria, e non solo:
il reputation management e l’accumulo di “capitale relazionale”,
utili a guadagnare un posizionamento di alta visibilità personale,
soprattutto nei social network, sono considerati, più in generale,
come leve strategiche nell’ambito delle pratiche di organizzazione
e gestione di impresa.28 La possibilità di trovare altre occasioni
di lavoro è direttamente proporzionale alla visibilità del proprio
profilo, pertanto l’intensificazione della sua luminosità costituisce
un capitolo decisivo nell’ambito della gestione imprenditoriale
della vita da parte dell’intellettuale di se stesso, e giustifica il suo
pesante investimento in lavoro non retribuito (il che, naturalmen-
te, contribuisce a deteriorare sempre di più le condizioni salariali
del lavoro intellettuale, innescando e continuando ad alimentare
un degradante gioco al ribasso). Ma forse non è questo il punto,
o quanto meno non si tratta solo di questo: i casi di bancarotta
delle imprese personali per eccesso di lavoro gratuito, così come
l’esplosione delle bolle formative e finanziarie, o i crack esisten-
ziali che sgretolano le pratiche di indebitamento personale, non
sembrano disincentivare più di tanto l’investimento in visibilità e
lavoro non retribuito. Probabilmente non è solo in termini di ra-
zionalità economica e di calcolo degli interessi che si può rendere
conto del rapporto fra operosità del lavoro intellettuale e visibilità.
Il discorso è simile per ciò che concerne la questione della va-
lutazione. Sia che si parli delle pratiche di reclutamento a scuola
o all’università, di accesso ai finanziamenti per la ricerca, o di
pubblicazione di un articolo su una rivista scientifica, buona par-
te del lavoro intellettuale partecipa alla cultura della valutazione

28. Si veda, per esempio, C. Dossena, Reputazione, apprendimento e innovazione nelle


imprese. Il ruolo delle “online community”, Franco Angeli, Milano 2012.

15
meritocratica in cui ci troviamo, ed è sottoposto alla situazione di
esame e competizione permanenti che essa istituisce.29 Anche qui
si riscontra una proporzionalità inversa fra le reali possibilità di
accesso alle carriere che tali dispositivi consentono e il livello di
partecipazione degli individui ai processi di valutazione e autovalu-
tazione. A onta di una scarsissima probabilità di ottenere un posto
di lavoro attraverso le meritocratiche procedure di reclutamento,
la valutazione è tuttavia continuamente invocata, o per lo meno
tollerata, come se il problema non fosse quello di cambiare le forme
di organizzazione del lavoro intellettuale in modo da superare sia
la penuria di risorse economiche – a fronte, peraltro, di un’intel-
lettualità sempre più diffusa – sia gli effetti di individualizzazione
e concorrenza che tali procedure determinano, bensì quello di
mettere finalmente a punto una valutazione buona e giusta, oggetti-
vamente meritocratica. Come nel caso della visibilità, la razionalità
strumentale non spiega il fascino discreto della valutazione, anzi:
in nome delle leggi del mercato, il buon imprenditore di se stesso
dovrebbe abbandonare il business della ricerca e separare il suo
cammino da quello dell’intellettuale di se stesso.
In entrambi i casi, sembra essere in gioco una modalità di
costruzione ascetica e autodisciplinata del sé. Prima di tutto, il
capitale umano detenuto dall’intellettuale di se stesso deve trovare
adeguate occasioni di misurazione: egli deve disporre di specifici
dispositivi di valutazione in grado di restituirgli una misura og-
gettiva del proprio “potenziale” e dell’investimento su se stesso
realizzato nel corso di una vita. In secondo luogo, la continua
esteriorizzazione di sé attraverso un’opera oggettivata in un curri-
culum visibile e valutabile, secondo i modi e le forme che i regimi
di visibilità e di valutazione istituiscono puntualmente, fornisce
un’immagine speculare che chiama all’identificazione e alimenta
l’illusione di unità, compattezza e centralità dell’Io, la sua ansia di

29. Per una critica della cultura della valutazione come tecnologia di governo degli
individui, rimando al lavoro di Valeria Pinto, e soprattutto al suo Valutare e punire,
Cronopio, Napoli 2012; “aut aut” ha dedicato al tema della valutazione il fascicolo 360
del 2013, All’indice. Critica della cultura della valutazione, a cura di Alessandro Dal Lago.

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controllo e sorveglianza – ciò che con Lacan potremmo chiamare
l’“Io-crazia”30 dell’intellettuale di se stesso.
Il lavoro intellettuale come Beruf trova nell’accoppiata visibilità-
valutazione l’occasione della propria auto-remunerazione – sorta di
motore immobile e fine in sé –, vale a dire la possibilità di trovare
conferma e sostegno alle proprie identificazioni narcisistiche, di
scoprire la propria “anima” mediante lo stesso gesto che la produce,
insieme alla propria vocazione e al proprio merito, come se questi
fossero, oggi, i nomi della grazia. Quest’ultima non è garantita solo
dallo sgravio di una confessione,31 come direbbe Weber, ma dalla
messa in pratica di una forma di vita specifica e particolare che
coincide con l’intellettuale di se stesso visibile, produttivo e compe-
titivo, all’interno dell’economia della conoscenza. E la grazia non ha
prezzo, come dimostrava il fallimento del cottimo nelle fabbriche di
un secolo fa e come attesta oggi, nel campo del lavoro intellettuale,
la disponibilità al lavoro gratuito e il risentimento che spesso anima
le proteste dei knowledge workers, allorché non lamentano tanto il
peggioramento delle proprie condizioni materiali di lavoro – il che
li accomuna a tutti i lavoratori precari e sfruttati – quanto il mancato
riconoscimento di ciò che li distingue, cioè del proprio merito. Così
il lavoro (intellettuale) non cessa di essere un campo di battaglia in
cui si affrontano forze oggettivamente e soggettivamente antagoni-
ste: la produzione in comune di idee e di pratiche di trasformazione
collettive insieme alle forme di privatizzazione e neutralizzazione
che confermano e consolidano gli individui che già siamo.

4. Ma perché l’etica del lavoro intellettuale, incardinata sulla coppia


visibilità-valutazione, dovrebbe avere a che fare con lo “spirito del
capitalismo”, o per lo meno con le modalità di sfruttamento del
lavoro in generale nel capitalismo neoliberale e postfordista? Proba-

30. J. Lacan, Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicanalisi 1969-1970 (1991), a cura
di A. Di Ciaccia, trad. di C. Viganò e R.E. Manzetti, Einaudi, Torino 2001, p. 72.
31. Ometto qui tutto il côté di analisi possibili sulla produzione della propria interiorità
nei luoghi di lavoro a partire dalle riflessioni di Foucault sulla confessione e le modalità di
veridizione di sé nella cultura occidentale. Su questo punto mi permetto di rimandare a
M. Nicoli, L. Paltrinieri, Il management di sé e degli altri, “aut aut”, 362, 2014, pp. 49-74.

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bilmente proprio per via della capacità che essa rivela nell’annodare
soggettivazione e assoggettamento (e relative pratiche), facendo va-
cillare questa coppia intorno alla quale siamo abituati a organizzare
il pensiero critico che si esercita sulla questione della soggettività.
È qui che l’etica del lavoro intellettuale si mostra all’altezza della
governamentalità (neo)liberale, essendo il (neo)liberalismo quell’ar-
te di governo in grado di confondere disciplina e tecniche di sé,
fabbricando e poi devolvendo ai governati gli strumenti necessari
alla propria soggettivazione (o si tratta di un assoggettamento?). La
disciplina, il sequestro del tempo, la “continuità del punitivo e del
penale”, la produzione di un tessuto di buone abitudini come strate-
gia di moralizzazione del lavoro di cui Foucault parla nel 197332 – e
poi in Sorvegliare e punire – fanno sicuramente parte di questa sca-
tola di attrezzi. Ma la disciplina, in fondo, non è che un caso speci-
fico nella storia delle tecniche di produzione di quella “prigione
del corpo” che si chiama “anima”, di quella “realtà-riferimento”
(“psiche, soggettività, personalità, coscienza, ecc.”)33 che continua
a costituire la posta in gioco di ogni attività di governo.
Oggi, ciascuno è chiamato a lavorare incessantemente per
fabbricare la propria anima individuale attraverso i dispositivi di
visibilità e valutazione, a produrla come “schermo”, “vetrina”,
raddoppio tanto fantasmatico quanto “veritativo” del sé su una
superficie visibile: il diario di una pagina di Facebook, il dossier da
consegnare al valutatore di turno o il resoconto di sé necessario a
convincere un fornitore di reddito precario e/o di riconoscimento
professionale sono solo alcuni degli innumerevoli esempi della
possibilità di costruirsi un corpo incorporeo, un corpo-simulacro,
che funzioni come significante visibile della propria verità. Quando
banalmente si dice che si accetta di lavorare a condizioni umilianti
“per la visibilità” o per “fare curriculum” non si afferma soltanto
una scelta di differimento strategico del godimento, ma si lascia
intendere che la posta in gioco di tale lavoro è una costruzione
ascetica del sé, dell’imago sui, della propria verità in quanto sog-

32. M. Foucault, La société punitive, cit., pp. 191-201.


33. Id., Sorvegliare e punire, cit., pp. 32-33.

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getti: valori d’uso e valori di scambio in un mondo di identità
liquide e cangianti e in cui la propria visibilità, l’intensità della
luce che promana da ogni individuo o che ogni individuo riflette,
rappresenta il vantaggio competitivo di ciascuno contro l’altro.
Persino nel management delle risorse umane, la posta in gioco
delle tecniche di sviluppo della motivazione al lavoro diviene la
costruzione di un’autentica “immagine di sé” mediante una batte-
ria di strumenti manageriali di (auto)valutazione della personalità,
della propria biografia, delle competenze e del potenziale indi-
viduale di sviluppo, essendo l’immagine di sé una straordinaria
sorgente di motivazione “interna”, indipendente, come tale, dalle
condizioni esterne di tipo salariale.34 A prescindere dalle figure
concrete del lavoro, ma su un piano di immanenza rispetto a tutte,
il lavoro come Beruf, il lavoro moralizzato secondo un’etica di cui
l’intellettuale di se stesso è campione e modello, sembra corrispon-
dere all’istanza di fabbricazione di un’anima bella e vera, compatta
ma trasparente, visibile e seducente, competitiva e performante,
identificabile e riconosciuta, autovalorizzante e autoremunerati-
va – l’anima come capitale umano. È su questo piano che tutto
il lavoro diventa quasi intellettuale, ma non tanto perché tutto il
lavoro si arricchisca di conoscenza e contenuti immateriali, quanto
perché è l’etica del lavoro intellettuale che dispensa le linee guida
per la moralizzazione del lavoro di tutti.
Insomma, il patto che unisce intellettuale e imprenditore di sé
è siglato da una modalità di conduzione della propria vita che non
ammette dissipazione né tempi improduttivi – come nelle fabbriche
della disciplina –, e che sublima il lavoro indefesso in vocazione e
merito, portando in dono la grazia di un’individualizzazione. È una
storia antica che inizia all’alba del capitalismo industriale, percorre la
produzione fordista per poi riconfigurarsi, attraverso l’askesis della
visibilità e della valutazione, all’interno di un’arte di governo e di
un’organizzazione del lavoro che richiedono a ciascuno di prendersi

34. C. Lévy-Leboyer, Re-motiver au travail. Développer l’implication de ses collaborateurs,


Eyrolles, Paris 2007, pp. 102-116. Si veda anche M. Erez, P.C. Earley, Culture, Self-Identity,
and Work, Oxford University Press, New York 1993.

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cura del proprio assoggettamento (o si tratta di una soggettivazio-
ne?), di assumerne la responsabilità, di esserne attore protagonista
come soggetto della performance eccellente e della valorizzazione
del proprio capitale umano. E visto che sappiamo bene quanto
l’individuo non venga mai prima delle pratiche in seno alle quali
si produce, non resta che cambiare quelle pratiche, e precisamente
quelle che mettono in ordine il caleidoscopio del lavoro intellettua-
le. Forse è anche il caso di mettere fra parentesi la questione stessa
della soggettivazione di questa figura del lavoro finché non avremo
cambiato, o forse distrutto, le pratiche concrete che sostengono
l’intellettuale di se stesso come caricatura dell’individuo neoliberale,
ben sapendo che annunciare la necessità di trasformare una pratica –
come sto facendo io in questo momento – non coincide con il farlo,
e che ripetere senza sosta l’appello marxiano alla trasformazione
del mondo è forse il miglior modo per schivarne la responsabilità.
Sicuramente il problema di fronte al quale ci troviamo non è uno
scoglio facile da aggirare – nella misura in cui fa tutt’uno con la
cultura liberale che ci appartiene –, trattandosi nientemeno che del
problema di scollegare la funzione intellettuale dalla funzione indi-
viduale e di abolire l’idea che l’intelletto – come i diritti, peraltro –
sia una prerogativa assoluta di un individuo che si autentica nella
competizione economica. Ma come si diceva all’inizio, riprendendo
e parafrasando le parole del giovane Marx, spetta alla vita e alla sua
politica il compito di risolvere le opposizioni che si presentano nel
discorso: per sopprimere l’idea della proprietà privata dell’intelletto,
basta completamente il comunismo ideale, ma per sopprimerne la
proprietà privata reale, occorre un’azione comunistica reale…35

35. “Per sopprimere l’idea della proprietà privata, basta completamente il comunismo
ideale. Ma per sopprimere la proprietà privata reale, occorre un’azione comunistica reale.
[…] Quando gli operai comunisti si riuniscono, essi hanno primariamente come scopo la
dottrina, la propaganda, ecc. Ma con ciò si appropriano insieme di un nuovo bisogno, del
bisogno della società, e ciò che sembra un mezzo, è diventato uno scopo. Questo movimento
pratico può essere osservato nei suoi risultati più luminosi, se si guarda ad una riunione
di ‘ouvriers’ socialisti francesi. Fumare, bere, mangiare, ecc. non sono più puri mezzi per
stare uniti, mezzi di unione. A loro basta la società, l’unione, la conversazione che questa
società ha a sua volta per iscopo; la fratellanza degli uomini non è presso di loro una frase,
ma una verità, e la nobiltà dell’uomo s’irradia verso di noi da quei volti induriti dal lavoro”,
K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 137.

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