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Why Unthink?

- Pag. 9-10 importante!!!

Ho intitolato questo libro "sbarazzarsi della scienza sociale" e non "ripensare la


scienza sociale". È abbastanza normale per gli studiosi e gli scienziati ripensare le
questioni. Quando nuove prove importanti minano le vecchie teorie e le previsioni
non reggono, siamo spinti a ripensare le nostre premesse. In questo senso, gran
parte della scienza sociale del diciannovesimo secolo, sotto forma di ipotesi
specifiche, viene costantemente ripensata. Ma, oltre al ripensamento, che è
"normale", credo che abbiamo bisogno di "sbarazzarci" della scienza sociale del
diciannovesimo secolo, perché molti dei suoi presupposti - che, a mio parere, sono
mentalità fuorvianti e costrittive - hanno ancora una presa troppo forte sulle nostre
mentalità. Questi presupposti, un tempo considerati liberatori dello spirito, servono
oggi come la barriera intellettuale centrale all'analisi utile del mondo sociale. Voglio
essere chiaro fin dall'inizio. Non sto proponendo qui un nuovo paradigma per il
nostro lavoro collettivo in quelle che preferisco chiamare le scienze sociali storiche.
Piuttosto, sto cercando di smascherare ciò che considero altamente dubbio e
ristretto nei punti di vista dominanti. Spero così di incoraggiare la ricerca di un
nuovo paradigma che richiederà tempo e sforzi considerevoli da parte di molti per
essere costruito. Vedo questo libro come parte di uno sforzo per eliminare il
sottobosco di una foresta molto densa e organizzativamente ben definita che sta
bloccando la nostra visione.
Senza dubbio molti non saranno d'accordo con la mia descrizione dell'epistemologia
della scienza sociale del XIX secolo e con la mia analisi della storia sociale di questa
epistemologia. Ho l'impressione che i difensori dell'attuale epistemologia dominante
non siano né timidi né auto-riflessivi nell'esprimere le loro opinioni.
Ho anche la sensazione che coloro che criticano l'epistemologia dominante
esistente, anche quando le loro critiche sono serie e pertinenti, spesso rimangono
comunque meno che pienamente liberati dalla Weltanschauung a cui rinunciano.
Sento di non essere esente da questo arretramento/scivolamento all'indietro.
Questo mi ha solo confermato nella mia visione di quanto siano forti questi
presupposti metodologici su di noi, e quindi quanto sia critico "sbarazzarsi" di questi
presupposti. Ho diviso questi saggi in sei temi. Il primo riguarda la storia sociale
dell'epistemologia in questione. Cerco di localizzare l'invenzione delle scienze sociali
storiche come categoria intellettuale all'interno dello sviluppo storico del sistema
mondiale moderno. Cerco di spiegare non solo perché le scienze sociali storiche si
sono istituzionalizzate come modalità di conoscenza nel diciannovesimo secolo, e
solo nel diciannovesimo secolo, ma anche perché hanno sviluppato la particolare
epistemologia che hanno fatto, incentrata su ciò che io penso come la falsa
antinomia nomotetico-idiografica. Cerco poi di spiegare perché, negli ultimi 20 anni,
e solo allora, questa epistemologia ha cominciato a essere messa in discussione,
presentandoci i dilemmi intellettuali del presente.
Una volta argomentato il contesto storico, rivolgo la mia attenzione a quello che mi
sembra il concetto chiave, e più discutibile, della scienza sociale del diciannovesimo
secolo, il concetto di "sviluppo". Per essere precisi, la parola "sviluppo" è diventata
di uso comune solo dopo il 1945, e poi inizialmente in quello che sembrava il regno
marginale di spiegare gli attuali sviluppi nel "Terzo Mondo", o le zone periferiche
dell'economia mondiale capitalista. Credo tuttavia che l'idea di sviluppo sia
semplicemente un avatar del concetto di "rivoluzione industriale", e che quest'idea
sia stata a sua volta l'asse non solo della maggior parte della storiografia ma di tutte
le varietà di analisi nomotetiche. Ecco un'idea che è stata eminentemente influente,
altamente fuorviante (proprio perché, nella sua parziale correttezza, è sembrata così
persuasivamente autoevidente), e coerentemente generatrice di false aspettative
(sia intellettualmente che politicamente). Eppure sono davvero pochi quelli che sono
pronti a scardinare veramente questa nozione centrale. Poi mi sposto dallo
sviluppo, che, se fuorviante come concetto, è almeno ampiamente discusso, al
tempo e allo spazio, o a quello che io chiamo Tempo-Spazio. Uno dei risultati più
notevoli dell'epistemologia che ha dominato le scienze sociali è stato quello di
eliminare TimeSpace dell’analisi. Non è che non si sia mai parlato di geografia e
cronologia. Certo che lo sono state, e abbastanza estesamente. Ma sono stati
considerati come varianti fisiche, e quindi variabili esogene, piuttosto che creazioni
sociali altamente fluide, e quindi variabili non solo endogene ma critiche per la
comprensione della struttura sociale e della trasformazione storica. Ancora oggi,
raramente consideriamo la molteplicità dei Tempo-Spazio che ci troviamo di fronte,
e quindi raramente ci preoccupiamo di quali utilizziamo, o dovremmo utilizzare,
nella decifrazione delle nostre realtà sociali. Avendo tentato di mostrare i limiti del
concetto di sviluppo, centrale nel paradigma ottocentesco, e l'assenza di quello che
avrebbe dovuto essere un concetto centrale, lo Spazio-Tempo - essendo le due cose
logicamente e intimamente correlate - rivolgo poi la mia attenzione a due grandi
pensatori che possono essere di qualche aiuto per liberarci dai vincoli della scienza
sociale del XIX secolo: Marx e Braudel.
Karl Marx è stato naturalmente una figura importante della scienza sociale del
diciannovesimo secolo. È stato chiamato - con una certa giustizia, secondo me -
l'ultimo degli economisti classici. Condivideva gran parte delle premesse
epistemologiche del mondo intellettuale europeo del suo tempo. Quando Engels
disse che il pensiero di Marx aveva le sue radici in Hegel più Saint-Simon più gli
economisti classici inglesi, lo stava confessando. Eppure Marx sosteneva di essere
impegnato in una "critica dell'economia politica", un'affermazione che non è senza
qualche serio fondamento. Marx è stato un pensatore del suo tempo che ha cercato
di elevarsi al di sopra delle limitazioni del suo tempo. Non mi interessa qui valutare
in che misura Marx sia riuscito o meno in questo compito. Piuttosto, osservo che le
idee di Marx sono entrate nel nostro discorso comune in gran parte nella versione
che è stata assemblata dal marxismo dei partiti, e che questa versione, piuttosto che
perseguire la critica dell'economia politica, ha partecipato pienamente
all'epistemologia dominante. Mi interessa qui rivisitare l'altro Marx, quel Marx che
resisteva alle prospettive dominanti della scienza sociale del XIX secolo.
Credo sia utile anche rivisitare Fernand Braudel. Braudel era una figura molto
diversa da Marx. Non era consapevolmente un "teorico" o un "metodologo". Era
uno storico impegnato in una ricerca archivistica dalla quale sperava di costruire una
"histoire pensée". Parlava raramente di questioni epistemologiche in sé. Ma aveva
istinti sicuri che lo portavano di fatto a mettere in discussione le verità
storiografiche, e di conseguenza (a volte esplicitamente, a volte solo implicitamente)
a indicare nuove vie d'uscita da vecchi dilemmi. L'ho rivisitato, per vedere fino a che
punto ci aiuta a ripensare la scienza sociale del XIX secolo, e in particolare per
arrivare a una comprensione del capitalismo nella longue durée che non sia basata
sulla premessa dello "sviluppo" e sull'assenza di TimeSpace.
Infine, mi rivolgo all'analisi dei sistemi mondiali, come prospettiva contemporanea
sul mondo sociale, che rende centrale lo studio del cambiamento sociale a lungo
termine e su larga scala. L'analisi dei sistemi-mondo vuole essere una critica della
scienza sociale del diciannovesimo secolo. Ma è una critica incompleta, incompiuta.
Non è ancora riuscita a trovare un modo per superare l'eredità più duratura (e
fuorviante) della scienza sociale del diciannovesimo secolo - la divisione dell'analisi
sociale in tre arene, tre logiche, tre "livelli" - l'economico, il politico e il socio-
culturale. Questa trinità sta in mezzo alla strada, nel granito, bloccando il nostro
progresso intellettuale. Molti la trovano insoddisfacente, ma a mio parere nessuno
ha ancora trovato il modo di fare a meno del linguaggio e delle sue implicazioni,
alcune delle quali sono corrette ma la maggior parte delle quali probabilmente no.
Forse è che il mondo deve cambiare ancora un po' prima che gli studiosi siano in
grado di teorizzarlo in modo più utile.

Ma sono convinto che è questo enigma che dovrebbe preoccuparci, prima di ogni
altro, e che il superamento di questa aporia, lo svelamento di questo mistero, la
disanima di questa metafora sono essenziali se vogliamo ricostruire le scienze sociali
storiche.

18.
CALL FOR A DEBATE ABOUT THE PARADIGM

L’analisi dei sistemi-mondo non è una teoria sul mondo sociale, o su una parte di
esso. È una protesta contro i modi in cui l'indagine scientifica sociale è stata
strutturata per tutti noi al suo inizio nella metà del diciannovesimo secolo. Questo
modo di indagine è diventato un insieme di presupposti a priori spesso indiscussi.
L'analisi dei sistemi-mondo sostiene che questa modalità di indagine scientifica
sociale, praticata in tutto il mondo, ha avuto l'effetto di chiudere piuttosto che aprire
molte delle domande più importanti o più interessanti.
Indossando i paraocchi che il diciannovesimo secolo ha costruito, non siamo in
grado di svolgere il compito sociale che vorremmo svolgere e che il resto del mondo
vorrebbe che svolgessimo, cioè presentare razionalmente le alternative storiche
reali che si trovano davanti a noi. L'analisi dei sistemi-mondo è nata come protesta
morale e, nel suo senso più ampio, politica. Tuttavia, è sulla base di rivendicazioni
scientifiche, cioè sulla base di rivendicazioni relative alle possibilità di conoscenza
sistematica della realtà sociale, che l'analisi dei sistemi-mondo sfida il modo di
indagine prevalente. Questo è un dibattito, quindi, sui fondamenti, e tali dibattiti
sono sempre difficili. Prima di tutto, la maggior parte dei partecipanti ha impegni
profondi sui fondamenti. In secondo luogo, è raro che una prova empirica chiara, o
almeno semplice, possa risolvere o anche solo chiarire le questioni. Il dibattito
empirico deve essere affrontato a un livello molto complesso e olistico.
La somma delle teorizzazioni derivate a partire da una o da un'altra serie di
premesse comprende le descrizioni note della realtà in modo più "soddisfacente"?
Questo ci coinvolge in ogni sorta di dilemmi secondari. Le nostre "descrizioni" note
della realtà sono in qualche misura una funzione delle nostre premesse; le
"descrizioni" future possono naturalmente trasformare il nostro senso della realtà.
La "teorizzazione" che oggi si dice comprenda la realtà, la comprende davvero? E
infine, cosa significa comprendere la realtà "in modo soddisfacente"? Quest'ultimo
criterio è qualcosa di più di un'aggiunta estetica?
Non solo i dibattiti sui fondamenti sono frustranti per tutte queste ragioni, ma ogni
parte ha un handicap incorporato. I difensori dei punti di vista esistenti devono
"spiegare" le anomalie, da cui la nostra sfida preliminare. Ma gli sfidanti devono
offrire "dati" convincenti in una situazione in cui, rispetto ai circa 150 anni di
indagine scientifica sociale tradizionale, hanno avuto molto meno tempo per
accumulare "dati" adeguatamente rilevanti. In una materia intrinsecamente
recalcitrante alla manipolazione sperimentale, i "dati" non possono essere
accumulati rapidamente.
Così una disputa sui fondamenti può essere pensata come analoga a un incontro di campionato dei pesi
massimi, ma senza un arbitro e tra due pugili un po' dispeptici, ciascuno con la mano sinistra legata dietro
la schiena. Può essere divertente da guardare, ma si tratta di boxe? È scienza? E chi deciderà? In un certo
senso, saranno gli spettatori a decidere - e probabilmente non guardando i pugili, ma combattendo loro
stessi. Allora perché preoccuparsi? Perché i pugili sono parte degli spettatori, che naturalmente sono tutti
pugili.

Per non perderci in analogie, permettetemi di tornare alla discussione sui


fondamentali. Mi propongo di prendere sette presupposti comuni dell'indagine
scientifica sociale e di indicare cos'è che mi fa sentire a disagio in essi. Poi esplorerò
se ipotesi alternative (o addirittura opposte) non sono altrettanto plausibili o più
plausibili e indicherò la direzione in cui queste ipotesi alternative ci porterebbero.

I.

Le scienze sociali sono costituite da un certo numero di "discipline" che sono


raggruppamenti intellettualmente coerenti di materie distinte tra loro.
Queste discipline sono più frequentemente elencate come:
antropologia,
economia,
scienze politiche
e sociologia.
Ci sono, per essere sicuri, potenziali aggiunte a questa lista, come la geografia.
Se la storia sia o meno una scienza sociale è una questione controversa, e ci
torneremo più tardi (vedi sezione II).
C'è un dibattito simile sulla psicologia, o almeno sulla psicologia sociale.
È stata una moda crescente, almeno dal 1945, deplorare le inutili barriere tra le
"discipline" e sostenere i meriti della ricerca e/o dell'insegnamento
"interdisciplinare".
Questo è stato argomentato su due punti.
1) Uno è l'affermazione che l'analisi di alcune "aree problematiche" può
beneficiare di un approccio che combina le prospettive di molte discipline.
Si dice, per esempio, che se vogliamo studiare il "labor", mettere insieme le
conoscenze offerte dalle discipline dell'economia, delle scienze politiche e
della sociologia potrebbe essere di grande vantaggio. La logica di un tale
approccio porta a gruppi multidisciplinari, o a un singolo studioso che "impara
diverse discipline", almeno per quanto riguarda il "labor".
LABOR: lavoro, manodopera, forza-lavoro

2) La seconda presunta base della ricerca "interdisciplinare" è leggermente


diversa. Mentre portiamo avanti la nostra indagine collettiva diventa chiaro, si
sostiene, che alcuni dei nostri argomenti sono "al confine" di due o più
discipline.
La "linguistica", per esempio, può essere situata in un tale "confine".
La logica di un tale approccio può portare alla fine allo sviluppo di una nuova
"disciplina autonoma", che per molti versi è quello che è successo allo studio
della linguistica negli ultimi 30 anni.

Sappiamo che esistono più discipline, poiché esistono più dipartimenti accademici
nelle università di tutto il mondo, lauree in queste discipline e associazioni nazionali
e internazionali di studiosi di queste discipline. Cioè, sappiamo politicamente che
esistono diverse discipline. Hanno organizzazioni con confini, strutture e personale
per difendere i loro interessi collettivi e assicurare la loro riproduzione collettiva. Ma
questo non ci dice nulla sulla validità delle rivendicazioni intellettuali di separatezza,
rivendicazioni che presumibilmente giustificano le reti organizzative. L'elogio dei
meriti del lavoro interdisciplinare nelle scienze sociali non ha finora minato
significativamente i punti di forza degli apparati organizzativi che proteggono le
discipline separate.
In effetti, potrebbe essere vero il contrario: ciò che ha rafforzato la pretesa di ogni
disciplina di rappresentare un livello di analisi separatamente coerente legato a
metodologie appropriate è la costante affermazione da parte dei professionisti delle
varie discipline che ciascuna ha qualcosa da imparare dall'altra che non potrebbe
conoscere perseguendo il proprio livello di analisi con le sue metodologie specifiche,
e che questa conoscenza "altra" è pertinente e significativa per la risoluzione dei
problemi intellettuali su cui ciascuna sta lavorando. Il lavoro interdisciplinare non è
in nessun senso una critica intellettuale di per sé dell'esistente compartimentazione
delle scienze sociali, e manca in ogni caso del peso politico per influenzare le
strutture istituzionali esistenti. Ma le varie discipline delle scienze sociali sono
davvero "discipline"? Per essere una parola così diffusa, ciò che costituisce una
"disciplina" è raramente discusso.
Non c'è una voce per questo termine nell'Enciclopedia Internazionale delle Scienze
Sociali né nell'Enciclopedia della Filosofia né nell'Enciclopedia Britannica. Facciamo
meglio andando all'Oxford English Dictionary, che ci dice che:

“Etimologicamente, la disciplina, in quanto pertinente al discepolo o allo studioso,


è antitetica alla dottrina, proprietà del medico o del maestro; quindi, nella storia
delle parole, la dottrina riguarda più la teoria astratta, e la disciplina la pratica o
l'esercizio.”
Ma dopo averci ricordato le origini del termine, l'OED non fa di meglio per noi nella
definizione attuale che descriverlo come "un ramo di istruzione o educazione; un
dipartimento di apprendimento o conoscenza; una scienza o un'arte nel suo aspetto
educativo". L'enfasi qui sembra essere sulla riproduzione della conoscenza (o
almeno sulla sua diffusione) e non sulla sua produzione. Ma sicuramente il concetto
di "disciplina" non può essere estraneo al processo di produzione della conoscenza.
(?)La storia delle scienze sociali è abbastanza chiara, almeno a grandi linee. Una
volta non esistevano le scienze sociali, o solo i "predecessori". Poi, lentamente ma
costantemente, è emerso nel corso del XIX secolo un insieme di nomi, e poi di
dipartimenti, gradi e associazioni, che entro il 1945 (anche se a volte prima) si sono
cristallizzati nelle categorie che usiamo oggi. C'erano altri "nomi" che sono stati
scartati e che presumibilmente comprendevano diversi "raggruppamenti" di
"materia". Ciò che è, o era, compreso da termini come "economia morale" o
Staatswissenschaft non è del tutto chiaro.
Questo non perché i loro sostenitori non avessero un pensiero sufficientemente
chiaro, ma perché una "disciplina" in un certo senso reale si definisce per un lungo
periodo nella sua pratica. Una pratica interrotta significa una disciplina incompiuta.
Per esempio, la famosa suddivisione quadripartita dell'antropologia (antropologia
fisica, antropologia sociale o culturale, archeologia e linguistica) era (e in qualche
misura lo è ancora) una "pratica" piuttosto che una "dottrina". Poi è diventata una
dottrina, insegnata e giustificata da dottori o maestri. Ma l'insieme ha costituito un
livello o una modalità di analisi coerente e difendibile, o solo una materia
isolata/segregata?
Sappiamo da dove vengono tutte queste divisioni della materia. Derivano
intellettualmente dall'ideologia liberale dominante del diciannovesimo secolo che
sosteneva che lo stato e il mercato, la politica e l'economia, erano domini
analiticamente separati (e in gran parte autonomi), ognuno con le sue regole
particolari ("logiche").
La società era invitata a tenerli separati, e gli studiosi li studiavano separatamente.
Poiché sembravano esserci molte realtà che apparentemente non erano né nel
dominio del mercato né in quello dello stato, queste realtà furono messe in un
sacchetto residuo che prese come compensazione il grande nome di sociologia.
C'era un senso in cui si pensava che la sociologia spiegasse i fenomeni
apparentemente "irrazionali" che l'economia e la scienza politica non erano in
grado di spiegare.
Infine, dato che c'erano popoli al di là del mondo civilizzato - lontani e con i quali era
difficile comunicare - lo studio di tali popoli comprendeva regole speciali e una
formazione speciale, che prese il nome un po' polemico di antropologia.
Conosciamo le origini storiche dei campi. Conosciamo i loro itinerari intellettuali, che
sono stati complessi e variegati, soprattutto dal 1945. E sappiamo perché hanno
incontrato difficoltà di "confine". Con l'evoluzione del mondo reale, la linea di
contatto tra "primitivo" e "civilizzato", "politico" ed "economico", è sfumata.
Il bracconaggio accademico è diventato un luogo comune. I bracconieri
continuarono a spostare i recinti, senza però abbatterli.
La domanda che ci si pone oggi è:
ci sono dei criteri che possono essere usati per affermare in modo relativamente
chiaro e difendibile i confini tra le quattro presunte discipline dell'antropologia,
dell'economia, della scienza politica e della sociologia?
L'analisi dei sistemi- mondo risponde con un inequivocabile "no" a questa
domanda.
Tutti i criteri presommati - livello di analisi, materia, metodi, presupposti teorici - o non sono più veri nella pratica o, se
sostenuti, sono barriere a ulteriori conoscenze piuttosto che stimoli alla loro creazione.

O, detto in altro modo, le differenze tra argomenti, metodi, teorie o teorizzazioni


ammissibili all'interno di una qualsiasi delle cosiddette "discipline" sono molto più
grandi delle differenze tra di esse.
Questo significa in pratica che la sovrapposizione è sostanziale e, in termini di
evoluzione storica di tutti questi campi, è in continuo aumento.
È giunto il momento di tagliare questa palude intellettuale dicendo che queste
quattro discipline non sono che una sola. Questo non significa che tutti gli
scienziati sociali debbano fare un lavoro identico. C'è tutto il bisogno e la
probabilità di specializzazione in "campi di indagine".
Ma ricordiamo l'unico esempio organizzativo significativo che abbiamo. Da qualche
parte nel periodo 1945-55, due "discipline" fino ad allora separate dal punto di vista
organizzativo, la botanica e la zoologia, si fusero in un'unica disciplina chiamata
biologia. Da allora, la biologia è stata una disciplina fiorente e ha generato molti
sottocampi, ma nessuno di essi, per quanto ne so, porta il nome o ha i contorni della
botanica o della zoologia.
L'argomento dell'analisi dei sistemi-mondo è semplice: le tre presunte arene
dell'azione umana collettiva - quella economica, quella politica e quella sociale o
socio-culturale - non sono arene autonome di azione sociale. Non hanno "logiche"
separate. Ancora più importante, l'intreccio di vincoli, opzioni, decisioni, norme e
"razionalità" è tale che nessun modello di ricerca utile può isolare i "fattori" secondo
le categorie economica, politica e sociale, e trattare solo un tipo di variabile,
tenendo implicitamente costanti le altre.
Stiamo sostenendo che c'è un unico "insieme di regole" o un unico "insieme di
vincoli" all'interno dei quali operano queste diverse strutture.
Il caso della sovrapposizione quasi totale dei presunti domini della sociologia e
dell'antropologia è ancora più forte.
Con quale sforzo di immaginazione si può affermare che Tally's Corner di Elliot Liebow e Street-Corner Society di
William F. Whyte - entrambe opere "classiche", una scritta da un "antropologo" e l'altra da un "sociologo" - siano
opere di due "discipline" diverse? Non sarebbe difficile, come ogni lettore sa, mettere insieme una lunga lista di tali
esempi.
II.

Metodi a confronto
Diverse impostazioni epistemologiche. 
Nomotetica: si propone di studiare i fenomeni secondo regolarità e cercando solo gli
elementi generali.
Idiografica: si propone di studiare i fenomeni secondo individualità, cercando solo elementi
specifici.

La storia è lo studio, la spiegazione del particolare come è realmente accaduto nel


passato. La scienza sociale è l'affermazione dell'insieme universale di regole con cui
si spiega il comportamento umano/sociale.
Questa è la famosa distinzione tra i modi di analisi idiografiche e nomotetiche, che
sono considerati antitetiche.
La versione "forte" di questa antitesi consiste nel sostenere che solo uno dei modi
(che varia a seconda delle proprie opinioni) è legittimo o interessante o addirittura
"possibile". Questa versione "forte" è ciò che riguardava il Methodenstreit.

La versione "debole" vede questi due modi come due modi di entrare nella realtà
sociale. Anche se intrapresi separatamente, in modo diverso, e per scopi dissimili
(anche opposti), sarebbe fruttuoso per il mondo degli studiosi combinare i due
modi.
Questa versione “debole” è paragonabile all'argomentare i meriti del lavoro
"interdisciplinare" nelle scienze sociali. Affermando i meriti della combinazione di
due approcci, si rafforza la legittimità intellettuale di vederli come due modalità
separate. Gli argomenti più forti delle scuole idiografica e nomotetica sembrano
entrambi plausibili.
La discussione della scuola idiografica è l'antica dottrina che "tutto è flusso". Se
tutto è sempre in cambiamento, allora qualsiasi generalizzazione che pretenda di
applicarsi a due o più fenomeni presumibilmente comparabili non è mai vera.
Tutto ciò che si può fare è comprendere empaticamente una sequenza di eventi.
Al contrario, l'argomento della scuola nomotetica è che è evidente che il mondo
reale (compreso il mondo sociale) non è un insieme di eventi casuali. Se è così, ci
devono essere regole che descrivono "regolarità", in questo caso c'è un dominio
dell'attività scientifica.
Le critiche più forti di ciascuna parte sull'altra sono anche plausibili.
La critica nomotetica della visione idiografica è che qualsiasi racconto di
"avvenimenti passati" è per definizione una selezione della realtà (come è realmente
accaduto) e quindi implica criteri di selezione e categorie di descrizione. Questi
criteri e categorie si basano su generalizzazioni non riconosciute, ma comunque
reali, simili a leggi scientifiche.
La critica alla visione nomotetica è che trascura quei fenomeni di trasformazione
(dovuti in parte alla riflessività della realtà sociale) che rendono impossibile
"ripetere" le disposizioni strutturali.
Ci sono vari modi di affrontare queste critiche reciproche. Un modo è quello di
"combinare" la storia e le scienze sociali.
Si dice che lo storico serva lo scienziato sociale fornendo a quest'ultimo serie di dati
più ampie e profonde da cui indurre le sue generalizzazioni di tipo legislativo.
Si dice che lo scienziato sociale serva lo storico offrendogli i risultati della ricerca,
generalizzazioni ragionevolmente dimostrate che offrono intuizioni per spiegare una
particolare sequenza di eventi.
Il problema con questa ordinata divisione del lavoro intellettuale è che presume la
possibilità di isolare "sequenze" soggette all'"analisi storica" e piccoli "universi"
soggetti all'analisi "scientifica sociale".
Tuttavia, in pratica la sequenza di una persona è l'universo di un'altra, e come fare
distinzione tra i due su basi puramente logiche rispetto a, diciamo, motivi stilistici o
di presentazione è un problema che attanaglia l’osservatore neutrale.
Il problema, tuttavia, è più profondo di questo. C'è una differenza significativa tra
sequenza e universo, tra storia e scienza sociale? Sono due attività o una sola?
La sincronia è analoga a una dimensione geometrica. Si può descrivere logicamente,
ma può essere disegnato solo falsamente sulla carta. In geometria, un punto, una
linea o un piano possono essere disegnati solo in tre (o quattro) dimensioni. Così è
nella "scienza sociale". La sincronia è un limite concettuale, non una categoria
socialmente utilizzabile.
Ogni descrizione ha un tempo, e l'unica questione è quanto ampia sia la fascia
immediatamente rilevante. Allo stesso modo, la sequenza unica è descrivibile solo in
categorie non uniche. Tutto il linguaggio concettuale presuppone confronti tra
universi.
Come non possiamo letteralmente "disegnare" un punto, così non possiamo
letteralmente "descrivere" un "evento" unico. Il disegno, la descrizione, ha spessore
o generalizzazione complessa.
Poiché questo è un dilemma logico inestricabile, la soluzione deve essere cercata su
basi euristiche.
L'analisi dei sistemi-mondo offre il valore euristico della via di mezzo tra
generalizzazioni transistoriche e narrazioni particolaristiche. (Transhistorical: occurring throughout all human  history)

Sostiene che, poiché la nostra struttura tende verso uno dei due estremi, tende
verso un'esposizione di minimo interesse e minima utilità.
Sostiene che il metodo ottimale è quello di perseguire l'analisi all'interno di quadri
sistemici, abbastanza lunghi nel tempo e abbastanza ampi nello spazio da contenere
le "logiche" di governo che "determinano" la maggior parte della realtà sequenziale,
mentre contemporaneamente si riconosce e si tiene conto che questi quadri
sistemici hanno inizio e fine e quindi non sono da concepire come fenomeni
"eterni".
Ciò implica, quindi, che in ogni istante cerchiamo sia il quadro (i "ritmi ciclici" del
sistema), che descriviamo concettualmente, sia i modelli di trasformazione interna
(le "tendenze secolari" del sistema) che alla fine porteranno alla scomparsa del
sistema, che descriviamo sequenzialmente.
Questo implica che il compito è singolare. Non c'è né uno storico né scienziato
sociale, ma solo uno scienziato sociale storico che analizza le leggi generali dei
sistemi particolari e le sequenze particolari attraverso le quali questi sistemi sono
passati (il tempo grammaticale qui deliberatamente non è il cosiddetto presente
etnografico). Ci troviamo allora di fronte al problema di determinare l'"unità di
analisi" all'interno della quale dobbiamo lavorare, il che ci porta alla nostra terza
premessa.
III

Gli esseri umani sono organizzati in entità che possiamo chiamare società,
le quali costituiscono i contesti sociali fondamentali all’interno dei quali
viene vissuta la vita umana.

Nella scienza sociale moderna nessun concetto è più diffuso di quello della società, e
nessun concetto è usato in modo più automatico e irriflessivo che quello di società,
nonostante le innumerevoli pagine dedicate alla sua definizione. Le definizioni del
libro di testo girano attorno alla domanda: “cos’è una società?” mentre le
discussioni che abbiamo appena fatto circa l’unità della scienza storico-sociale
portano a domandarci una domanda diversa: “quando e dov’è una società?
Le “società” sono concrete. Inoltre, “società” è un termine che faremmo bene a
mettere da parte a causa della sua storia concettuale e quindi delle sue connotazioni
praticamente inestirpabili e profondamente ingannevoli.
“Società” è un termine il cui uso nella storia e nelle scienze sociali è
contemporaneo all’emergere istituzionale della scienza sociale moderna nel XIX
secolo.
La “società” è una metà di una coppia antitetica, in cui l’altra metà è lo stato. La
Rivoluzione francese è stata uno spartiacque culturale nella storia ideologica del
moderno sistema-mondo, in quanto ha portato all’accettazione generalizzata
dell’idea che il cambiamento sociale, piuttosto che l’immobilismo sociale, è normale,
inteso sia in senso normativo che statistico della parola. Ciò ha posto così il
problema intellettuale di come regolare, velocizzare, rallentare o influenzare questo
processo normale di scambio ed evoluzione.
L’emergere della scienza sociale come un’attività sociale istituzionalizzata è stata
una delle maggiori risposte sistemiche a questo problema intellettuale. La scienza
sociale è arrivata a rappresentare l’ideologia razionalista che se si comprende il
processo (fatto ideologicamente o, più comunemente, in modo nomotetico) lo si
può influenzare in qualche modo moralmente positivo. (Anche i “conservatori”,
dediti a contrastare il cambiamento, possono acconsentire largamente a questo
approccio).
Le implicazioni politiche di una simile impresa non sfuggirono (e non sono
sfuggite) a nessuno. Questo è ovviamente il motivo per cui la scienza sociale è
rimasta controversa fino ad oggi. Ma è anche il motivo per cui nel XIX secolo il
concetto di “società” è stato opposto a quello di “stato”. I molteplici stati sovrani
che erano stati e che stavano per essere costituiti erano gli evidenti punti focali
dell’attività politica. Sembravano il luogo dell’efficiente controllo sociale, e perciò
l’arena in cui il cambiamento sociale potrebbe essere influenzato e realizzato.
L’approccio standard del XIX secolo alla questione politico-intellettuale riguardava la
questione di come “riconciliare” la società e lo stato. In questa formulazione, lo
stato può essere osservato e analizzato direttamente. Esso operava attraverso
istituzioni formali mediante regole (costituzionali) conosciute. La “società” è stata
interpretata per indicare il tessuto delle maniere e delle usanze che tenevano un
gruppo di persone insieme anche se senza o contro le regole formali. In qualche
senso la “società” rappresentava qualcosa di più durevole e “profondo” rispetto allo
stato, che meno manipolabile e certamente più inafferrabile.
Sin da allora c’è stato sempre un enorme dibattito riguardo come la società e lo
stato si relazionano tra di loro, qual era o dovesse essere subordinato all’altro e
quale incarnava i valori morali più alti. Nel processo a cui siamo abituati a pensare che i
confini della società e dello stato sono sinonimi, o se non dovrebbero (e alla fine lo sarebbero)
essere tali.
Quindi, senza affermare questa teoria esplicitamente, gli storici e gli scienziati sociali
sono arrivati a vedere gli attuali stati sovrani (proiettati ipoteticamente all’indietro
nel tempo) come le basiche entità sociali all’interno delle quali la vita sociale si
realizza. C’era qualche sporadica resistenza a questo punto di vista da parte degli
antropologi, ma resistettero in nome di una presunta entità politico-culturale
precedente la cui importanza rimase primaria e molti di loro furono sostenuti da
segmenti di popolazione mondiale.
Quindi, per vie traverse, e senza essere analizzata, un’intera storiografia e
un’intera teoria del mondo moderno fa la sua entrata come il substrato della storia
e della scienza sociale. Viviamo in stati. C’è una società che sta alla base di ogni
stato. Gli stati hanno storie e perciò tradizioni. Oltretutto, poiché il cambiamento è
normale, sono gli stati che normalmente cambiano o si sviluppano. Essi cambiano la
loro modalità di produzione; si urbanizzano; hanno problemi sociali; si arricchiscono
o declinano. Essi hanno confini, all’interno dei quali i fattori sono “interni” e al di
fuori dei quali i fattori sono esterni. Essi sono entità socialmente “indipendenti” tali
che, per scopi statistici, possono essere “comparati”.
Questa immagini della realtà sociale non era una fantasia, e quindi era possibile
per entrambi i teorici ideografici e nomotetici di agire con un ragionevole
autocontrollo usando questi presupposti riguardanti la società e lo stato, e per
mettere insieme alcune conclusioni plausibili. L’unico problema era che, siccome il
tempo passava, sempre più anomalie sembravano essere inspiegate all’interno di
questo schema, e sempre più lacune (di zone dell’attività umana non investigate)
sembravano emergere.
L’analisi del sistema-mondo rende l’unità di analisi un soggetto di dibattito.
Quando e dove emergono le entità nelle quali la vita sociale si realizza? Essa
sostituisce al termine “società” il termine “sistema storico” (“historical system”).
Ovviamente, questa è una semplice sostituzione semantica, ma ci libera della
connotazione che “società” ha acquisito, il suo collegamento allo “stato”, e perciò
della presupposizione riguardo il “dove” e “quando”. Inoltre, il “sistema storico”
sottolinea l’unità della scienza storico-sociale. L’entità è simultaneamente
sistemica e storica.
Avendo aperto la questione dell’unità di analisi, non c’è una risposta semplice. Io
stesso ho proposto l’ipotesi provvisoria che ci sono state tre forme conosciute o
varietà di sistemi storici, che ho chiamato mini-sistemi (mini-systems), imperi-
mondo (world-empires) ed economie-mondo (world-economies).

Ho anche suggerito che non è impensabile poter identificare altre forme o varietà.
Ho discusso due cose riguardo le varietà dei sistemi storici: una riguarda il legame
tra “logica” e forma; l’altra riguarda la storia della coesistenza delle forme. In termini
di forma, ho preso come confini di definizione di un sistema storico quelli entro i
quali il sistema e le persone al suo interno sono regolarmente riprodotti per mezzo
di una sorta di divisione del lavoro continua/in corso.

Sostengo che empiricamente ci sono state tre modalità del genere.

I “mini-sistemi”, così chiamati perché sono piccoli nello spazio e probabilmente


relativamente brevi nel tempo (durata di una vita di circa sei generazioni), sono
omogenei in termini di strutture culturali e di governo. La logica di base è una
“reciprocità” negli scambi.

Gli “imperi-mondo” sono vaste strutture politiche (almeno all’apice del processo
di espansione e contrazione che sembra essere il loro destino) e comprendono
un’ampia varietà di schemi “culturali”. La logica di base del sistema è l’estrazione di
tributo da altri produttori diretti autogestiti localmente (maggiormente rurali) che
viene trasferito al centro e ridistribuito ad una sottile ma cruciale rete di funzionari.

Le “economie-mondo” (“world-economies”) sono vaste catene irregolari di


strutture produttive integrate sezionate da molteplici strutture politiche. La logica di
base è che il surplus accumulato è distribuito in modo ineguale a favore di coloro
che sono capaci di raggiungere diversi tipi di monopoli temporanei nelle reti di
mercato. Questa è una logica “capitalistica”.

La storia della coesistenza delle forme può essere interpretata come segue.
Nell’era preagricola c’era una molteplicità di minisistemi, le cui morti costanti
potrebbero essere state in gran parte una funzione di incidenti ecologici più la
scissione dei gruppi diventati troppo grandi. La nostra conoscenza è davvero
limitata. Non c’era scrittura e siamo limitati alle ricostruzioni archeologiche. Nel
periodo tra 8000 a.C. e 1500 d.C. sulla terra coesistevano allo stesso tempo
molteplici sistemi storici di tutte e tre le varietà.

L’impero-mondo era la forma “forte” di quell’epoca, poiché ogni volta che si


espandeva, distruggeva e/o assorbiva sia i minisistemi che le economie-mondo e
ogni volta che si contraeva si apriva lo spazio per la ricreazione di minisistemi ed
economie-mondo.

La maggior parte di ciò che possiamo chiamare la “storia” di questo periodo è la


storia di tali imperi-mondo, il che è comprensibile grazie agli scribi che hanno
registrato tutto quello che accadeva.

Le economie-mondo erano una forma “debole”; quelle individuali non


sopravvivevano a lungo. Questo perché si disintegravano o venivano assorbite o
trasformate in un impero-mondo (dall’espansione interna di una singola unità
politica).
Intorno al 1500, un’economia-mondo del genere è riuscita a fuggire da questo
destino.

Per ragioni che necessitano di essere spiegate, il “sistema-mondo moderno” è


nato dal consolidamento di un’economia-mondo.

Quindi ha avuto tempo di raggiungere il suo sviluppo completo come un sistema


capitalistico. Dalla sua logica interna, questa economia-mondo capitalistica poi si è
estesa coprendo l’intero globo, assorbendo nel processo tutti i mini-sistemi
esistenti e gli imperi-mondo. Quindi dal tardo XIX secolo, per la prima volta
esisteva un solo sistema storico nel globo. Oggi siamo ancora nella stessa
situazione.

Ho rappresentato le mie ipotesi riguardanti le forme e la storia della coesistenza di sistemi


storici. Esse non costituiscono l’analisi dei sistemi-mondo. Esse sono un insieme di ipotesi
all’interno dell’analisi dei sistemi-mondo, aperte al dibattito, al perfezionamento, al rifiuto. La
questione cruciale è che definendo e spiegando le unità di analisi – i sistemi storici – diventa un
oggetto centrale dell’impresa scientifica.
All’interno della discussione che ho appena esposto si cela un ulteriore dibattito circa il mondo
moderno e le sue caratteristiche distintive. Questo è un dibattito in cui le due versioni principali del
pensiero ottocentesco – il liberalismo classico e il Marxismo classico – condividono alcune
premesse cruciali riguardo la natura del capitalismo.

IV
Il capitalismo è un sistema basato sulla concorrenza tra produttori liberi che sfruttano il lavoro
libero con merci libere, in cui per “libere" si intende la loro disponibilità per la vendita e
l'acquisto sul mercato.
I vincoli a tali libertà, dovunque essi si trovino, sono residui di un processo evolutivo incompleto, e
significano, nella misura in cui esistono, che una zona o un'impresa è "meno capitalista" rispetto
all’assenza di tali vincoli. Questo è, essenzialmente, il punto di vista di Adam Smith.
Smith pensava al sistema capitalista come l'unico sistema compatibile con la "natura umana", e
vedeva i sistemi alternativi a questo come l'imposizione di vincoli innaturali e non auspicabili
all'esistenza sociale. Ma questo era, sostanzialmente, anche il punto di vista di Karl Marx. Nel
caratterizzare il sistema, Marx pose particolare enfasi sull'importanza del lavoro libero. Egli non
considerava il sistema capitalista eternamente possibile, e non lo riteneva auspicabile. Ma lo
reputava uno stadio normale dello sviluppo storico dell'umanità.
La maggior parte dei liberali e dei marxisti degli ultimi 150 anni hanno considerato questa
immagine di "capitalismo competitivo" una descrizione accurata della norma capitalistica, e hanno,
perciò, esaminato tutte le situazioni storiche che coinvolgevano lavoro/produttori/merci non liberi
come deviazioni da questa norma, e quindi come fenomeni da spiegare.
La norma ha in gran parte riflesso un ritratto idealizzato di quello che si pensava fosse l'esemplare
per eccellenza (della norma) - l'Inghilterra dopo la "rivoluzione industriale", dove i lavoratori
proletari (essenzialmente operai delle città nullatenenti e disoccupati) lavoravano in fabbriche di
proprietà di imprenditori borghesi (fondamentalmente proprietari privati del capitale sociale di
queste fabbriche).
Il proprietario acquistava la forza-lavoro (pagava i salari) dei lavoratori - principalmente maschi
adulti - che non avevano altra alternativa, in termini di sopravvivenza, che cercare un lavoro
salariato. Nessuno ha mai finto che tutte le situazioni lavorative corrispondessero a questo modello.
Ma sia i liberali che i marxisti hanno avuto la tendenza a considerare ogni situazione che variava da
questo modello come meno capitalista nella misura in cui variava.
Se ogni situazione lavorativa potesse essere classificata su una scala di grado di capitalismo, per
così dire, allora ogni Stato, come luogo di tali situazioni lavorative, può essere designato come
discendente da qualche parte su quella scala. La struttura economica di uno Stato, quindi, può essere
vista come "più" o "meno" capitalista, e la struttura statale stessa può essere vista come
ragionevolmente congruente con il grado di capitalismo nell'economia, o come incoerente con esso
- nel qual caso ci potremmo aspettare che in qualche modo cambi nel tempo dirigendosi verso una
maggiore congruenza.
Cosa si deve fare delle situazioni lavorative che non sono pienamente capitaliste secondo questa
definizione? Possono essere viste come il riflesso di una situazione non ancora capitalista in uno
Stato che alla fine vedrà la struttura capitalista diventare preponderante. Oppure possono essere
viste come continuazione anomala del passato in uno Stato in cui le strutture capitaliste sono
preponderanti.
Come l’"egemonia" di un particolare modo di strutturare le unità di lavoro all'interno di un'entità
spaziale (lo Stato) possa essere determinata non è mai stata del tutto chiara. In una famosa sentenza
della Corte Suprema degli Stati Uniti, il giudice William Brennan scrisse sulla definizione di
pornografia: "La riconosco quando la vedo".
In un certo senso, sia i liberali che i marxisti hanno definito il dominio del capitalismo in
modo simile: lo riconoscevano quando lo vedevano. Ovviamente, c'è implicitamente un criterio
quantitativo in questo approccio. Ma nella misura in cui c'è un certo conteggio di teste, è cruciale
sapere quali teste vengono contate. E c’è tutta una storia a questo proposito.
È stata fatta una distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo. Anche se le definizioni esatte
dei fisiocratici, di Saint-Simon e di Marx erano molto diverse, tutti volevano definire certi tipi di
"attività economica" come non lavoro, cioè come non produttiva.
Questo ha creato un'enorme e utilissima scappatoia nella definizione del capitalismo.
Se tra i vari tipi di attività escluse in quanto non produttive ne rientra un numero significativo che
non soddisfa il modello di una situazione di lavoro capitalista - il più ovvio, ma certamente non
l'unico esempio, è il lavoro domestico - allora diventa molto più facile sostenere che la
"maggioranza" delle situazioni di lavoro in alcuni Paesi sono del tipo descritto nel modello, e quindi
abbiamo davvero alcuni Paesi "capitalisti" in termini di definizione. Tutta questa manipolazione
non è necessaria se la "norma" dedotta è di fatto la norma statistica. Ma non lo era, e non lo è. La
situazione di lavoratori liberi che lavorano per un salario nelle imprese di liberi produttori è
una situazione minoritaria nel mondo moderno. Questo è certamente vero se la nostra unità di
analisi è l'economia mondiale. È probabilmente vero, o in gran parte vero, anche se
intraprendiamo l'analisi nell'ambito dei singoli Stati altamente industrializzati del ventesimo
secolo.
Quando una "norma" dedotta risulta non essere la norma statistica, cioè quando la situazione
abbonda di eccezioni (anomalie, scarti), allora dovremmo chiederci se la definizione della norma ha
una qualche funzione utile.
L'analisi dei sistemi-mondo sostiene che l'economia mondiale capitalista è un particolare
sistema storico. Quindi, se vogliamo appurare la norma, cioè la modalità di funzionamento di
questo sistema concreto, il modo ottimale è guardare l'evoluzione storica di questo sistema. Se
troviamo, come succede, che il sistema sembra contenere ampie zone di lavoro salariato e non
salariato, ampie zone di forme di proprietà e capitale mercificate e non, allora dovremmo almeno
chiederci se questo "binomio" o combinazione del cosiddetto libero e non libero non sia essa stessa
la caratteristica che definisce il capitalismo come sistema storico.
Una volta aperta la questione, non ci sono risposte semplici. Scopriamo che le proporzioni delle
combinazioni sono ineguali, nello spazio e nel tempo. Possiamo allora cercare le strutture che
mantengono la stabilità di ogni particolare combinazione di combinazioni (di nuovo le tendenze
cicliche), così come le pressioni sottostanti che possono trasformare, nel tempo, la combinazione
delle combinazioni (le tendenze secolari). Le anomalie ora non diventano eccezioni da spiegare ma
modelli da analizzare, invertendo così la psicologia dello sforzo scientifico. Dobbiamo concludere
che la definizione di capitalismo che ha dominato il pensiero ottocentesco sia dei liberali che dei
marxisti rende conto della cruciale intuizione storiografica che ci è stata lasciata in eredità.

V
La fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo rappresentano una svolta cruciale nella storia del mondo,
in quanto i capitalisti hanno raggiunto finanziariamente il potere socio-statale negli Stati chiave.

I due grandi "eventi" che si verificarono in questo periodo, la rivoluzione industriale in Inghilterra e
la Rivoluzione Francese, furono, si sostiene, cruciali nello sviluppo della teoria sociologica. Un
semplice controllo bibliografico confermerà che una parte notevole della storia mondiale è stata
dedicata a questi due "eventi". Inoltre, una parte ancora maggiore è stata dedicata all'analisi di altre
"situazioni" in termini di come si confrontano con questi due "eventi".
Il legame tra la centralità storica accordata a questi due "eventi" e la definizione corrente di
capitalismo non è difficile da chiarire. Abbiamo già segnalato che il concetto di gradi del
capitalismo conduce necessariamente a un esercizio implicito di quantificazione per poter accertare
quando il capitalismo diventa "dominante". Questa teoria presupponeva che un divario tra dominio
"economico" e potere socio-statale fosse possibile, e che potesse essere superato.
La rivoluzione industriale e la Rivoluzione Francese sono interessanti perché presumibilmente
rappresentano il superamento di un divario. La Rivoluzione francese mette in evidenza la scena
politica. Secondo l'ormai fortemente contestata ma a lungo predominante "interpretazione sociale",
la Rivoluzione Francese fu il momento in cui la borghesia spodestò l'aristocrazia feudale dal potere
statale e quindi trasformò l'ancien régime precapitalista in uno stato capitalista. La rivoluzione
industriale evidenzia i frutti di tale trasformazione. Una volta che i capitalisti raggiungono il potere
statale (o in termini smithiani riducono l'interferenza dello Stato), allora è possibile espandere
significativamente le possibilità di un sistema capitalista di trionfare.
Dati questi presupposti, è possibile trattare entrambi questi fenomeni come "eventi" e concentrarsi
sui dettagli di ciò che è successo, e perché è successo in quel particolare modo. I libri sulla
rivoluzione industriale generalmente riflettono su quale fattore (o fattori) sia stato più importante
per il suo verificarsi, quale sia stata la sua precisa datazione e quale delle varie caratteristiche del
periodo sia stata la più consequenziale per le future trasformazioni. I libri sulla Rivoluzione
Francese generalmente trattano di quando iniziò e quando finì, quale fattore o fattori la scatenarono,
quali gruppi furono coinvolti nei processi chiave, come e quando ci furono cambiamenti nel quadro
di personaggi, e quale eredità la rivoluzione lasciò.
Naturalmente un esame così ravvicinato e fondamentalmente idiografico di questi "eventi" genera
inevitabilmente scetticismo. Ci sono sempre più voci che dubitano di quanto siano state
rivoluzionarie le rivoluzioni. Ciononostante, praticamente tutte queste analisi (sia dei seguaci che
degli scettici) presuppongono il quadro analitico di riferimento che ha portato all'individuazione di
questi due "eventi" in primo luogo: il presupposto che il capitalismo (o il suo surrogato, la libertà
individuale) doveva in qualche modo "trionfare", ad un certo punto, all'interno di particolari Stati.
Inoltre, per evitare che si pensi che la storia sia rilevante solo per gli storici, bisogna notare come
essa sia diventata immediatamente determinante negli esercizi analitici dei sociologi. L'idea della
rivoluzione industriale" si è trasformata nel processo di una rivoluzione industriale" o di
"industrializzazione" e ha generato tutta una famiglia di sottocategorie e, quindi, di sotto-tematiche:
l'idea di un "decollo", entrambe le nozioni di società "pre-industriale" e "post-industriale", e così
via. L'idea di "rivoluzione borghese" è diventata l'analisi di quando e come una "rivoluzione
borghese" (o la classe media al potere) potrebbe o dovrebbe avvenire. Non suggerisco che questi
dibattiti non riguardino il mondo reale. Chiaramente, il Brasile del ventesimo secolo può essere
discusso in termini di industrializzazione, o del ruolo della borghesia nazionale, o del rapporto delle
classi medie con i militari. Ma ancora una volta, sono state fatte delle ipotesi chiave che dovrebbero
essere prese in esame.
Ciò che l'analisi dei sistemi-mondo richiede è una valutazione della centralità di questi presunti
"eventi" chiave in termini di longue durée del sistema storico all'interno del quale si sono verificati.
Se l'unità di analisi del moderno sistema-mondo è l'economia mondiale capitalista (e questo rimane
un "se"), allora dovremo chiederci se le distinzioni delle categorie accettate - agricoltura e industria,
proprietario terriero e industriale - rappresentano o meno un leit-motiv attorno al quale si è
incentrato lo sviluppo storico. Possiamo essere in una fase post-industriale solo se c'è stata una fase
industriale. Possono esistere separazioni dei detentori del potere statale e del potere economico solo
se abbiamo a che fare con gruppi analiticamente separati. Tutte queste categorie sono ormai così
radicate nel nostro subconscio che difficilmente possiamo parlare del mondo senza usarle. L'analisi
dei sistemi-mondo sostiene che le categorie che costituiscono la nostra storia si sono formate
storicamente (e per la maggior parte solo un secolo fa). È tempo che vengano sottoposte ad un
nuovo esame.
Naturalmente, questa storia imperante è essa stessa costituita dalla metafisica dominante del mondo
moderno. Il trionfo di questa metafisica moderna ha richiesto una lunga lotta. Ma ha trionfato,
nell'Illuminismo, il che ci porta alla sesta premessa.

VI
L'eredità umana è progressiva, e inevitabilmente tale.
Certo, l'idea di progresso ha avuto i suoi detrattori, ma per due secoli sono stati in una minoranza
distinta. Non conto in questa minoranza tutti coloro che hanno criticato la visione nativa del
progresso e hanno concentrato i loro sforzi sulla spiegazione del cosiddetto irrazionale. Queste
persone hanno reso razionale l'irrazionale. Né includo il crescente numero di credenti disabituati
che abbracciano una sorta di mancanza di speranza o disperazione per il progresso. Sono un po'
come i cattolici decaduti in un romanzo di Graham Greene, sempre alla ricerca della fede che
avevano una volta. I veri conservatori, quelli che non credono che il cambiamento sistematico o il
miglioramento del mondo sia un'attività collettiva desiderabile o fruttuosa, sono in realtà piuttosto
rari nel mondo moderno. Ma notate ancora una volta come le ipotesi dominanti hanno circoscritto
gli scettici e gli oppositori. Alla nozione che il progresso è inevitabile, l'unica risposta sembra essere
stata la disperazione: disperazione perché la tesi è sbagliata, o disperazione perché è corretta.
L'analisi dei sistemi mondiali vuole rimuovere l'idea di progresso dallo status di traiettoria e aprirla
come variabile analitica. Ci possono essere sistemi storici migliori e peggiori (e si può discutere sui
criteri con cui giudicare). Non è affatto certo che ci sia stata una tendenza lineare verso l'alto, verso
il basso o verso il futuro. Forse la linea di tendenza è irregolare, o forse indeterminata. Se questo
fosse possibile, si aprirebbe immediatamente una nuova arena di analisi intellettuale. Se il mondo ha
avuto molteplici istanze e tipi di sistemi storici, e se tutti i sistemi storici hanno un inizio e una fine,
allora vogliamo sapere qualcosa sul processo attraverso il quale si verifica una successione (nel
tempo-spazio) di sistemi storici. Questo è stato tipicamente discusso come il problema delle
"transizioni", ma le transizioni sono state analizzate nel quadro delle trasformazioni lineari. Si
dettaglia il processo di trasformazione verso un qualche inevitabile punto finale che si presume
essere, essere stato, l'unica vera alternativa storica. Ma supponiamo che la costruzione di nuovi
sistemi storici sia un processo stocastico (casuale). Allora abbiamo davanti a noi un'arena di attività
intellettuale totalmente nuova. Il dibattito sul "libero arbitrio" contro il "determinismo" è vecchio.
Ma è stato tradizionalmente portato avanti come una posizione "uno contro uno". Ciò che fa la
riapertura della questione delle transizioni, transizioni come realmente avvenute, transizioni come
movimento verso esiti incerti, è suggerire una diversa formulazione di questo dibattito. Forse è il
caso che quello che chiamiamo "determinismo" è in gran parte il processo interno ai sistemi storici
in cui la "logica" del sistema si traduce in un insieme di strutture istituzionali che si muovono e si
rafforzano da sole e che "determinano" la traiettoria a lungo termine. Ma forse è anche vero che ciò
che chiamiamo "libero arbitrio" si verifica in gran parte nel processo di "transizione" quando,
proprio a causa della rottura di queste stesse strutture, le vere scelte storiche sono ampie e difficili
da prevedere. Questo porterebbe la nostra attenzione collettiva allo studio di come funzionano
precisamente questi processi stocastici. Forse si scoprirà che non sono affatto stocastici ma hanno
una chiave interna nascosta, o forse la chiave interna è qualche processo che mantiene questi
processi stocastici (cioè, non realmente soggetti alla manipolazione umana). O forse, meno
accettabile per l'attuale abitante del globo senza dubbio, Dio gioca a dadi. Non lo sapremo a meno
che non guardiamo. Naturalmente potremmo non saperlo nemmeno allora. Ma come guardiamo?
Questo ci porta all'ultimo e più profondo dei presupposti, i presupposti riguardanti la natura della
scienza.

VII
La scienza è la ricerca delle regole che riassumono nel modo più succinto perché tutto è così com’è
e come accadono le cose.
La scienza moderna non è figlia del XIX secolo. Risale almeno al sedicesimo, forse al tredicesimo,
secolo. È giunta fortemente sul lato determinista dell'equazione, sul lato della linearità e della
concisione. Gli scienziati hanno portato sempre più domini dell'universo sotto la loro egida
(protezione, difesa), il mondo principale è senza dubbio l'ultimo di questi domini. È in nome di
questa tradizione che si è affermata la scienza sociale nomotetica (normativa, relativa al fare leggi).
La metodologia che la scienza nomotetica locale ha adottato emula i principi di base del suo
predecessore di successo sociale, le scienze naturali: indagine empirica sistematica e precisa, poi
induzione che porta alle teorie. Più elegante è la teoria, più avanzata è la scienza. Seguiranno
ovviamente delle applicazioni pratiche. La scienza sociale nomotetica è stata tormentata dalle
inadeguatezze, in un confronto con la fisica, ma sostenuta dalla sua certezza che la scienza fosse
cumulativa e non lineare. Nei nostri dubbi sulle ipotesi precedenti è stata implicita, ora dovrebbe
essere chiaro, un'altra visione della scienza. Se rifiutiamo l'utilità della distinzione nomotetico-
idiografica, allora stiamo mettendo in dubbio l'utilità della visione newtoniana della scienza. Non lo
facciamo, come facevano gli idiografi, sulla base della peculiarità dell'indagine sociale (gli esseri
umani come attori riflessivi). Dubitiamo della sua utilità anche per le scienze naturali (e infatti è
emersa negli ultimi due decenni una spinta verso una scienza naturale non lineare, in cui i processi
stocastici sono centrali). In particolare, per quanto riguarda quelle che abbiamo chiamato scienze
sociali storiche, ci chiediamo se il metodo di passare dal concreto all'astratto, dal particolare
all'universale, non debba essere invertito. Forse la scienza sociale storica deve iniziare con l'astratto
e muoversi in direzione del concreto, finendo con un'interpretazione coerente dei processi di
particolari sistemi storici che spieghi in modo plausibile come hanno seguito un particolare percorso
storico concreto. Il determinato non è il semplice ma il complesso, anzi l'ipercomplesso. E
naturalmente nessuna situazione concreta è più complessa dei lunghi momenti di transizione in cui i
vincoli più semplici crollano. La storia e le scienze sociali hanno preso le loro attuali forme
dominanti nel momento del più completo trionfo incontrastato della logica del nostro attuale
sistema storico. Sono figli di questa logica. Ora, però, viviamo nel solitario momento di transizione
in cui le contraddizioni di quel sistema hanno reso impossibile continuare a regolare il suo
meccanismo. E questo periodo è incomprensibile sulla base dei presupposti di quel sistema.
L'analisi dei sistemi mondiali è un appello alla costruzione di una scienza sociale storica che si
senta a proprio agio con le incertezze della transizione, che contribuisca alla trasformazione del
mondo illuminando le scelte senza fare appello. L'analisi dei sistemi mondiali è una chiamata ad
aprire le persiane che ci impediscono di esplorare molte aree del mondo reale. L'analisi dei sistemi-
mondo non è un paradigma della scienza sociale storica. È un appello per un dibattito sul
paradigma. alla stampella di una credenza nell'inevitabile trionfo del bene.

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