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STORIA DEL PENSIERO ECONOMICO – KARL MARX

Karl Marx nasce a Treviri (Trier) in Renania nel 1818 da una famiglia borghese, compie i suoi studi giuridici
all’univesità di Bonn e più tardi i suoi studi filosofici all’università di Berlino dove si laurea in filosofia.
Fra le sue opere in campo economico ricordiamo la “Critica dell’economia politica” (1859) e “Il capitale”
(1867).
Nel “Manifesto del partito comunista” (1848) Marx sostiene che la storia di ogni società è storia di lotte di
classi: liberi e schiavi, patrizi e plebei, signori e servi della gleba, sono sempre stati in conflitto fino alla
trasformazione della società in cui vivevano (con il termine classe Marx intende definire un gruppo sociale
con comuni interessi e condizioni economiche che occupi una certa posizione nei rapporti di produzione).
La società in cui vive Marx viene definita come capitalistica e vede contrapporsi la borghesia (proprietaria
dei mezzi di produzione) e il proletariato (la massa dei lavoratori salariati).
La teoria economica di Marx è una “critica dell’economia politica”, cioè della teoria economica classica, che
riteneva eterne, naturali e perciò immodificabili, le leggi di funzionamento della società capitalistica che
sono invece solo un prodotto storico e quindi relativo a un’epoca, non valide in assoluto e sempre.

La teoria economica classica si basa sul presupposto della proprietà privata, ma non la spiega, cioè non
spiega la divisione della società nelle due classi dei proprietari e dei non proprietari, dei capitalisti e degli
operai, e non spiega le ragioni della miseria di questi ultimi, che risiedono nell’esistenza dei primi.
Marx individua e descrive il processo di alienazione che caratterizza l’economia capitalista e colpisce il
lavoratore che dovrebbe realizzarsi nel lavoro ma che, in realtà, nel lavoro si aliena, poiché non può disporre
del prodotto del suo lavoro che invece appartiene al capitalista-imprenditore. L’economia politica classica
nasconde questa alienazione e questa è la principale critica di Marx.
Egli sviluppa la sua analisi economica a partire dall’opera di Ricardo, di cui sottolinea il valore e che metteva
in rilievo le tre categorie economiche fondamentali (il profitto, il salario e la rendita) pur considerandole
come naturali e non cogliendone, secondo Marx, la relatività storica e la possibilità quindi che potessero
essere superati da altre forme di organizzazione sociale ed economica.

La scienza economica e “Il capitale”


Nel primo volume de “Il capitale” Marx descrive le strutture e il modo di funzionamento dell’economia
capitalista, non solo facendo una critica delle teorie precedenti ma elaborando una nuova scienza economica.
Il sistema capitalistico viene definito come un’immane raccolta (produzione e scambio) di merci, laddove la
merce è un bene prodotto per essere immesso sul mercato. Essa ha nello stesso tempo un valore d’uso e un
valore di scambio.
Il valore d’uso (utilità) è presente in ogni società e senza di esso non c’è scambio ma, essendo legato a
preferenze individuali, non può costituire una misura delle diverse merci che si scambiano sul mercato.
Il valore di scambio, grazie al quale una certa merce può essere scambiata con un’altra, è invece misurabile
attraverso rapporti di equivalenza (es.: un’unità di merce x vale come tre unità di y).
La comune unità di misura delle merci è il tempo di lavoro necessario a produrle (ore e minuti di attività
lavorativa). Le merci quindi non hanno un valore in sé ma è il lavoro umano che dà loro tale valore.
Fin qui l’analisi marxiana si situa nel solco di quella classica.
Il capovolgimento del punto di vista si ha quando ci si chiede: se la circolazione delle merci si basa sullo
scambio di valori equivalenti o rapportabili tra loro, dove nasce il profitto dei detentori di capitale?
Marx risponde che anche il lavoro è una merce, che il suo proprietario, il lavoratore, vende in cambio di un
salario che dal punto di vista del capitalista è il prezzo giusto per quella merce in quanto compensa il lavoro
necessario a ri-produrla (cioè i mezzi di sussistenza con cui l’operaio mantiene in vita sé e la famiglia).
Ma la merce lavoro non è una merce come le altre in quanto è l’unica che produce a sua volta altre merci e
altri valori; inoltre ha un valore d’uso particolare perché con il suo utilizzo si produce valore in quantità
superiore a quello per cui è stata acquistata.
In altri termini, il valore d’uso della merce lavoro è superiore al suo valore di scambio. Fino a un certo punto
della giornata lavorativa la forza-lavoro produce merci il cui valore corrisponde al salario pagato, ma da quel
momento fino al termine della giornata tutto il lavoro erogato dal lavoratore salariato è un plus-lavoro, lavoro
in più, non pagato, che produce il profitto (plus-valore) incamerato dal capitalista.
Il ciclo D-M-D’
Marx descrive il ciclo economico capitalistico con la formula D-M-D’ cioè Denaro-Merce-Denaro.
Mentre in un’economia pre-capitalistica, il cui ciclo può essere rappresentato dalla formula M-D-M, il
denaro svolge unicamente la funzione di mediazione nello scambio delle merci di diverso valore d’uso,
nell’economia capitalista il denaro costituisce l’inizio e il termine del ciclo. Il denaro è capitale dal momento
che il suo impiego è finalizzato a produrre una quantità maggiore di denaro (D’>D).
Il denaro D viene impiegato nell’acquisto di merci (M) necessarie alla produzione, ossia di forza-lavoro
(capitale variabile) e macchinari, materie prime, strumenti vari (capitale costante). Le merci prodotte
vengono vendute realizzando una quantità di denaro D’ maggiore di quella investita nella produzione,
raggiungendo il vero scopo dell’intero ciclo e che ha la sua origine nel plusvalore incamerato dal capitalista
sfruttando la forza-lavoro.
Il capitalista tende ad aumentare il saggio (tasso) di plusvalore (P/Cv), o aumentando al massimo la giornata
lavorativa (nella fase di avvio del capitalismo, quando non esistono organizzazioni dei lavoratori né lotte
sindacali) o aumentando la produttività del lavoratore nell’orario di lavoro.
Per questo assume un valore strategico lo sviluppo tecnico, cioè l’adozione di macchine e metodi di
produzione più moderni, capaci di produrre di più nel minor tempo, aumentando il saggio di plusvalore.
In tale contesto, il capitalista deve però fare i conti con il saggio di profitto P/(Cv+Cc): in tale formula rientra
anche il capitale costante oltre al capitale variabile. La concorrenza tra capitalisti e la necessità di produrre
più merci con meno lavoro portano ad aumentare gli investimenti in macchinari e tecnologie più avanzate,
dapprima nelle fabbriche più competitive poi gradualmente in tutte le fabbriche rimaste sul mercato. Così il
capitale costante aumenta incessantemente determinando una tendenziale caduta del saggio di profitto che in
vari modi i capitalisti cercano di contrastare (aumentando lo sfruttamento, riducendo i salari o la forza -
lavoro, sviluppando la rete del commercio mondiale, acquistando all’estero materie prime a prezzi inferiori,
ecc.). L’anarchia del capitalismo porta i detentori di capitali a poter investire i capitali stessi là dove i profitti
sono di volta in volta più alti, disinvestendoli naturalmente dove sono più bassi.
Mentre la concorrenza tra capitalisti porta alla concentrazione del capitale in poche mani, cresce la massa dei
proletari (come dice Marx, “la centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro” si
sviluppano insieme). Inoltre si verifica una crescente sfasatura fra la massa di merci immessa nel mercato e
la capacità di acquisto dei consumatori-proletari, che determina periodiche crisi di sovrapproduzione. Con il
capitalismo ci si trova di fronte a un paradosso: mentre nel passato le crisi erano generate dalla penuria di
beni (a causa di carestie, guerre, epidemie) nella società capitalista esse hanno origine da un eccesso di
merci, che restano invendute. Il capitalista allora riduce la produzione, licenzia operai, chiude fabbriche,
mentre i prezzi si abbassano e le imprese più deboli vengono eliminate dalle più forti.
Da queste nuove condizioni riprende un nuovo ciclo di sviluppo, fino ad un’altra crisi.
La successione di cicli di sviluppo e crisi sempre più distruttive potrà portare a condizioni sociali nuove, ad
una forma nuova di organizzazione sociale e dei modi di produzione.

L’abolizione del sistema delle merci


La radice della critica marxiana alla modalità di produzione capitalistica non risiede nel fatto che all’operaio
viene sottratta – con il pluslavoro - una parte del valore prodotto; la questione è che mentre il modo di
produrre ricchezza è sociale, cioè collettivo (es. la fabbrica, luogo di produzione attraverso il lavoro di molti
operai), l’appropriazione di questa ricchezza è privata, cioè individuale (del capitalista-imprenditore).
Marx sostiene che non si tratta di estendere a tutti la proprietà ma di superare la proprietà privata come
condizione e forma dei rapporti tra gli uomini, non essendo i rapporti di proprietà espressione della natura
umana né costituendo un ordinamento sociale immutabile.
La società capitalistica da un lato estende a livelli inauditi la produzione delle merci e dall’altro accentua il
carattere privato del possesso dei mezzi di produzione, alimentando oggettivamente una contraddizione
insanabile tra i proprietari del capitale (dei mezzi di produzione) e coloro che posseggono solo la loro forza-
lavoro. Questa contraddizione è oggettiva perché l’imprenditore è costretto dal mercato a sfruttare al
massimo la forza-lavoro, per essere competitivo, quindi per non essere cacciato dal mercato ad opera di altri
capitalisti concorrenti.
L’accumulazione capitalistica non dipende allora dalle volontà individuali, ma da leggi oggettive e per
questo la contraddizione generata dal sistema (tra la concentrazione in poche mani della ricchezza e la
socializzazione della miseria) non è superabile se non in una prospettiva storica che preveda come sbocco
inevitabile una società nuova dove la proprietà privata sarà considerata un ostacolo, un impedimento a un
ulteriore sviluppo, a una socializzazione della ricchezza.

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