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Il lavoro nella storia: dall’800 ai giorni nostri

“L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al


popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.”

-Articolo 1 della Costituzione italiana


Il primo articolo della Costituzione italiana pone il lavoro come fondamento della Repubblica,
ciò significa che alla base di quest’ultima non ha alla base una “sovranità” che viene dal di
fuori o da sopra, ma è invece fondata sul contributo che ciascun cittadino dà al benessere
collettivo con il suo agire personale.
Ma quando e come si è sviluppato il concetto di lavoro moderno, quello che noi poniamo alla
base del funzionamento della nostra quotidianità, del nostro mondo?

Nelle società primitive non esisteva un concetto di lavoro con il significato che gli è stato
attribuito nel XX secolo, ossia un’idea di lavoro come applicazione delle capacità fisiche ed
umane per la produzione di beni e servizi. L’attività di formazione coincideva con quella di
riproduzione dell’individuo ed il tempo di lavoro corrispondeva al tempo di vita. Allo stesso
modo, anche gli uomini delle società pre-classiche non concepivano il tempo come strenua
divisione tra vita e lavoro. La parola lavoro, è quindi evidente, non si esplicava nell’accezione
moderna che si è sviluppata solo in concomitanza con l'avvento delle prime fabbriche. A questo
punto svolgere un lavoro inizia ad assumere un significato differente, l'uomo infatti inizia ad
entrare a far parte di una forza produttrice essenziale non solo per lo sviluppo, ma anche la
trasformazione ed il miglioramento della società.

L’industrializzazione, oltre a rivoluzionare l’idea di lavoro, determinò anche l’ascesa definitiva


di due classi sociali: la borghesia e il proletariato. La borghesia rivendicava una maggiore
rappresentanza parlamentare e un ruolo nella gestione politica dello stato mentre il proletariato
pretendeva una legislazione sul lavoro che lo tutelasse. Per rappresentare i diritti dei lavoratori
si sviluppò un movimento operaio, con la nascita dei partiti socialisti e il marxismo.
Karl Marx costruì un’analisi globale della società fondata sulla critica della società e
l’economia borghese. Nel saggio intitolato “Il capitale” Marx si propone di mettere in luce i
meccanismi strutturali della società borghese, al fine di “svelare la legge economica del
movimento della società moderna”; egli è convinto che non esistano leggi universali
dell’economia e che ogni formazione sociale abbia caratteri propri e leggi storiche specifiche
e ritiene inoltre che la società borghese porti in sé stessa contraddizioni strutturali che ne
minano la solidità. Queste considerazioni sfociamo in uno studio del capitalismo come una
struttura di elementi strettamente connessi e con carattere scientifico: secondo quest’analisi
scientifica il “capitalismo” è un sistema economico caratterizzato dall’accumulazione di
capitale e dalla scissione di proprietà privata e mezzi di produzione del lavoro salariato; tale
sistema però si regge sullo sfruttamento degli operai a vantaggio del profitto del capitalistico.
E’ evidente che l’aspetto più evidente dell’intera speculazione di Marx è la critica alla società
capitalistica ottocentesca, rivelando una spaccatura tra l’ottimismo che a metà Ottocento
pervadeva gli animi di fronte ai successi e ai progressi della scienza e l’effettiva miseria che
vivevano le masse operaie: un’epoca che sembrava promettere condizioni migliori per tutti si
era in realtà rivelata essere temperie di forti ingiustizie sociali che erano la prova tangente delle
contraddizioni del capitalismo.
In seguito all’industrializzazione, infatti, le figure sociali più deboli persero il loro ruolo e la
loro indipendenza, divenendo assoggettate al nuovo regime di fabbrica. Gli operai, per buona
parte dell'Ottocento, erano sottoposti a condizioni di lavoro quasi disumane: costretti a lavorare
12-14 ore al giorno senza alcuna tutela, in ambienti malsani e pericolosi, con ritmi intollerabili,
per poi chiudere la giornata ammassati nelle cosiddette “mushroom towns” affollate e
degradate.
L'operaio viveva inoltre una condizione di forte isolamento, alienata. Nella società capitalistica
descritta da Marx l’alienazione era la condizione base dell’operario salariato che, espropriato
del suo tempo, del suo lavoro e del prodotto della sua attività, si ritrovava come scisso da sé e
dalla propria umanità. Il filosofo riteneva che è proprio il lavoro a distinguere l’uomo dagli
animali e, di conseguenza, quando a un individuo viene sottratto l’oggetto del suo lavoro e lo
si costringe a un lavoro forzato, ripetitivo e unilaterale allora egli viene privato della propria
essenza umana, messo al pari di un animale.

La condizione alienata e spersonalizzata di cui parla Marx può


essere individuata nell’essenzialità delle linee e nei netti contrasti
cromatici dell’opera “Factories” (1926) dell’artista Franz
Seiwert.
L’uomo si realizza nel lavoro, anzi in qualche modo è il suo
lavoro: in primo luogo perché da esso trae i mezzi per la propria
sussistenza ma anche perché attraverso l’attività lavorativa trova un’occasione per relazionarsi
con gli altri e per esprimere sé stessi; nella società odierna, nella quale la crisi economia e la
disoccupazione dilaganti costringono molte persone e giovani ad accettare impieghi di fortuna,
a prescindere dalla realizzazione e dalla soddisfazione personale a causa delle condizioni
retributive, le parole di Marx acquistano un nuovo e amaro significato.

Lo stesso approccio scientifico che Marx applica nella sua analisi della società capitalistica,
era intrinseco anche della letteratura del Positivismo di inizio ‘800 che si concretizzava in
Francia con il Naturalismo. Gli autori del Naturalismo, si proponevano di descrivere la realtà
psicologica e sociale che gli circondava con gli stessi metodi usati nelle scienze naturali. Il
romanzo doveva porsi gli scopi e i metodi della scienza che basava la conoscenza
sull’osservazione, sulla sperimentazione e sulla verifica.

Lo scrittore doveva replicare la realtà in modo oggettivo ed impersonale, lasciando ai fatti


narrati il compito di denunciare lo stato della situazione sociale, evidenziare il degrado e le
ingiustizie.
In Italia, la corrente letteraria, si manifestava con il Verismo tra i cui massimi esponenti
troviamo Giovanni Verga a cui si attribuisce il merito di aver esposto la condizione sociale
delle classi povere dei contadini, principalmente del sud rimasti arretrati.
Le opere di Verga erano caratterizzate da un forte pessimismo perché non aveva fiducia nel
progresso, non credeva che questo potesse migliorare la condizione dell’uomo ma aveva, al
contrario, portato alla formazione di una società basata sul consumo in cui tutto era diventato
merce. Gli stessi autori erano costretti a conciliare le loro opere al marcato, a svendere la
propria letteratura e a ridurre le loro opere a merce che doveva essere accolta dal pubblico.
Nella novella, Rosso Malpelo, di Verga si narra la storia di un ragazzo che lavorava in una cava
di rena, Rosso Malpelo appunto, chiamato così da tutti per via del colore dei suoi capelli. Il
protagonista è un giovane debole e fragile, continuamente emarginato a causa dei pregiudizi
che la mentalità popolare siciliana attribuisce a chi ha i capelli rossi; isolato da tutti, egli non
riceve affetto nemmeno dalla madre e dalla sorella che non si fidano di lui e lo accusano di
rubare i soldi dallo stipendio che egli porta alla famiglia. Malpelo aiuta il padre, Mastro Misciu,
che è l’unico a non denigrarlo e al quale egli è molto legato, in quanto gli dimostra sincero
affetto. Spinto dal disperato bisogno di soldi, Mastro Misciu accetta di lavorare
all’abbattimento di un pilastro, ma una sera, mentre sta scavando, quel pilastro gli cade
addosso. Il figlio, che si trova proprio insieme a lui, nella disperazione implora aiuto, scavando
con tutte le sue forze, ma Mastro Misciu resta sepolto sotto le macerie e per lui non c’è nulla
da fare. Il dolore causato da tale perdita segna il ragazzo per sempre, ed è alla base di tutti i
suoi comportamenti successivi.

Il narratore di Rosso Malpelo è un narratore popolare, che ci racconta i fatti già conclusi e
corrisponde alla voce di tutto il popolo, un coro, il punto di vista della comunità. Ci troviamo
allora di fronte a un narratore inattendibile alle cui parole non possiamo credere perché non
riporta la verità, ma un punto di vista distorto. Questo narratore non capisce le azioni di Malpelo
e le attribuisce tutte alla sua presunta malvagità derivante dai capelli rossi.

Qual è la funzione di questo sistematico stravolgimento della figura del protagonista? E’


evidente che Rosso Malpelo, nonostante si sia formato in un ambiente disumano come quello
della cava, ha conservato alcuni valori autentici, disinteressati: la pietà filiale, il senso della
giustizia, l’amicizia, la solidarietà altruistica. Il punto di vista del narratore “basso”, con le sue
deformazioni, esercita su questi valori un processo di straniamento, che è alla base della
letteratura di Verga.

La novella, nella sua rappresentazione della negatività e del pessimismo legati all’idea propria
di Verga di una società in cui vige il Darwinismo Sociale e la legge del più forte, mette anche
in luce i sistemi di lavoro ancora primitivi, in una situazione nella quale non vi è nessuna
considerazione per la vita umana.

Gli operai sono sfruttati, considerati come bestie, e nonostante le loro sofferenze si
rassegnavano faticosamente al loro destino.

Le dure condizioni lavorative, oltre che su gli adulti, gravano anche sui minori, ancora nella
fase critica del loro sviluppo, avendo quindi ripercussioni sulla loro crescita e sulla loro
personalità.

Oggi ci sono legge volte alla tutela del lavoro minorile, e la stessa Costituzione italiana
stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato, garantendo il diritto di parità di
retribuzione a parità di lavoro, trattandosi sempre di una tipologia di lavoro che non abbia
conseguenze sullo sviluppo psicofisico del lavoratore minorenne.

Romena Qarraj, VD.

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