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Letteratura e cultura
nell’Italia
contemporanea
2021/2022
29/09/2021
Antonio Gramsci
Implicitamente, grazie a Marx, abbiamo notato una caratteristica tipica dell’intellettuale del suo
tempo: egli non è coinvolto nell’accumulazione capitalistica del capitale; l’intellettuale non è
coinvolto nel settore produttivo e si trova ai margini della società. Tale concezione dell’intellettuale
era proprio anche di Sartre, l’habitat prediletto dell’intellettuale e sovrastrutturale cime quello
dell’arte e dell’opinionismo politico per gli intellettuali militanti.
L’intellettuale, secondo Marx, agisce quindi a livello di ideologia. Questo è decisivo per Antonio
Gramsci in quanto insiste molto sul ruolo degli intellettuali all’interno della società a proposito delle
idee dominanti che vi circolano.
Se con Marx ed Engels eravamo completamente immersi nel mondo ottocentesco, con Gramsci
veniamo traghettati vero il Novecento italiano. Il rapporto, a un primo livello, tra Marx e Gramsci
può essere il seguente: Marx ci ha fornito una base teorica con il suo materialismo storico della
critica letteraria mentre Gramsci ci offre un esempio pratico.
Antonio Gramsci nasce a Cagliari nel 1891 e muore di malattia in un ospedale militare a Roma nel
1937. Viene riconosciuto da Mussolini come uno dei suoi principali nemici e lo fa incarcerare.
Gramsci si trasferì a Torino dalla Sardegna, studia nella facoltà di lettere e si laurea in glottologia.
A Torino scopre le fabbriche; Torino è la città nella quale era stata fondata la FIAT (“che così sia”
dal latino). A contatto col mondo operaio, molto giovane, decide di entrare nel partito socialista che
era stato fondato nel 1892. Scopre anche la strumentazione teorica più agguerrita che permetteva di
reggere il senso dell’esistenza delle fabbriche di fronte alle fabbriche, e questa disciplina era il
marxismo. Per non far riconoscere ai suoi carcerieri il fatto che si occupasse di materia marxista,
chiama il materialismo storico come filosofia della prassi. La prassi è l’azione concreta e pratica e
questo ha a che fare con l’idea di Marx sul fatto che la filosofia dovesse occuparsi di questioni
pratiche.
Gramsci, scoperte tutte queste cose, decide nel 1921 che è il caso di abbandonare il Partito
Socialista e fondare, con Amedeo Bordiga, il Partito Comunista Italiano attraverso una scissione
(la storia dei partiti di sinistra è tutta una storia di scissioni, è un lungo suicidio collettivo, negli
ultimi cinquanta anni c’è stata una corsa ad essere più “moderati”).
Oltre ad aver fondato il PCI (il secondo partito più importante del secondo ‘900 insieme al partito
democratico cristiano), ha anche fondato un quotidiano nel 1924 che si chiamava “L’Unità”.
In carcera ha passato una buona parte della sua vita, ma non per questo ha interrotto la sua attività
intellettuale. Il motivo principale per cui gli studiosi ricordano Gramsci è proprio per la sua
produzione intellettuale in carcere: “Quaderni del carcere”.
I “Quaderni del Carcere” sono una vastissima massa di appunti preparatori di materiali per una
colossale opera di ambito storico-filosofico-politico-sociologico sull’Italia. Naturalmente l’opera è
rimasta allo stato di abbozzo ma Gramsci è comunque riuscito a riempire in quegli anni 32 quaderni
che corrispondo a circa 1400 pagine stampate.
È stato un amico di Gramsci- Piero Sraffa -a procurare questi quaderni e le fonti dalle quali Gramsci
ha potuto continuare a informarsi sui temi che gli erano cari ed è stato lo stesso Sraffa a mettere in
salvo e conservare questi quaderni.
C’è una grande polemica su come la pubblicazione di questi quaderni sia stata gestita dal Partito
Comunista Italiano, che probabilmente ha apportato non poche censure.
I quaderni sono stati stampati fra il 1948 e il 1951 in 6 volumi ed in seguito alla polemica
sopracitata è stata pubblicata una versione più estesa dei quaderni nel 1975 e che consideriamo più
sicura. Non è detto che gli studi possano far saltare fuori delle pagine che non siano state salvate.
Quando sono stati pubblicati i sei volumi nel secondo dopoguerra, ben due volumi riguardavano
temi sulla letteratura e gli intellettuali:
Letteratura e vita nazionale
Gli intellettuali e l’organizzazione della letteratura
Gramsci sta nel libro di Turchetti proprio per questi volumi, il primo in maniera clamorosa
(letteratura nel contesto sociale). In entrambi i titoli vediamo che Gramsci, marxianamente,
considera la letteratura un elemento del mondo e non qualcosa da portare in laboratorio e studiare.
La letteratura diviene un documento storico.
Gramsci, come già detto, era Marxista e comunista. L’elemento storico fondamentale è un evento
che Marx, con la sua cronologia di vita, non ha intercettato mentre Gramsci invece ha vissuto già
intorno ai 25-26 anni, un’età importante nella vita di ciascuno: si tratta della Rivoluzione Russa.
Il Gramsci ventiseienne, impegnato in politico, che pensava già alla politica come emblema
fondamentale della sua esistenza insieme alla letteratura, quando vede che un paese contadino si
converte a un’impostazione marxista, inizia a sognare che lo stesso possa succedere in Italia.
A partire da questa esperienza e insieme agli studi su Marx elabora una personale interpretazione
del marxismo che attribuisce un grande spazio proprio alla politica. Un elemento sovrastrutturale, la
politica, insieme ad un altro elemento sovrastrutturale, la cultura, può forzare i tempi dell’economia.
Gramsci pensa che la rivoluzione vada preparata con una tenace lotta democratica, il cui obiettivo è
la rivoluzione raggiunta con la costruzione di un blocco sociale coeso che a poco a poco è andata
convincendosi della necessità di quella rivoluzione. Quindi per Gramsci è necessario convincere il
popolo: a partire dai contadini fino alla classe piccolo-borghese, oltre che il proletariato. Si tratta
quindi di una rivoluzione indolore, in quanto il popolo ha capito che è molto meglio un regime
solidale piuttosto che nel regime della meritocrazia.
Dunque, la rivoluzione si fa per via democratica, attraverso politica e cultura. Invece, in Russia le
cose erano andate diversamente: una piccola avanguardia di intellettuali aveva preso il potere,
conquistando il Palazzo d’Inverno a Pietrogrado- la residenza degli zar. Si tratta di un colpo attuato
da pochissimi, tantoché i cittadini nemmeno se ne erano d’accordo. La teoria Leninista,
consequenzialmente al fatto che il potere era improvvisamente stato preso da pochi e non con
l’approvazione di tutti, prevedeva una dittatura del proletariato (ovvero bisognava picchiare duro
contro gli oppositori).
Gramsci invece pensava a una lotta democratica che comprendesse l’approvazione del popolo.
Questo vasto consenso si costruisce con la pedagogia delle masse. Si tratta di fare arrivare alle
persone la comprensione reale dello stato di cose.
Quindi Gramsci, molto ingenuamente, pensava che una volta spiegato cosa fosse realmente il
socialismo allora ci si sarebbe mossi verso quello in maniera volontaria. Da qui capiamo anche la
creazione del giornale dal titolo “L’Unità”.
Spetta agli intellettuali il ruolo di convincimento del popolo, e tocca a loro rielaborare gli scritti di
Marx in maniera tale che il popolo possa comprenderlo. Era necessario filtrare la visione marxista
per fornirla anche al popolo.
Questa pedagogia delle masse ha un presupposto di base, quello per cui tutti gli uomini sono
portatori di ideali. Tutti siamo portatori di una ideologia che struttura il nostro modo di pensare.
Il popolo è il portatore di un’ideologia, quindi Gramsci cerca di combattere l’idea del popolo (in
particolare dei contadini) come delle persone che vivono senza nessuna consapevolezza e senza
nessun possesso di elementi culturali, Bisogna convincerli a compiere quell’azione fondamentale,
che qualsiasi intellettuale ed essere umano deve fare, che è la critica all’ideologia.
Gramsci studia la figura dell’intellettuale, individuandone due tipologie principali:
Intellettuali tradizionali o cosmopoliti; nella tradizione italiana sono sempre stati i più
numerosi. Si tratta degli intellettuali di mondo, coloro che hanno più legami col mondo
esterno e con intellettuali stranieri piuttosto che con i propri concittadini. Si tratta di una
“casta elitaria” i cui componenti dialogavano molto a livello internazionale e molto poco a
livello nazionale.
Intellettuali organici ovvero coloro che si riconoscono appieno in una determinata classe
sociale facendo propri -in maniera organica- i bisogni, i principi e gli ideali di quella classe.
Si può essere intellettuali organici a varie classi sociali.
Gramsci auspica che gli intellettuali diventassero organici alla classe popolare, creando una cultura
comprensibile al popolo ma di ottimo livello proprio perché realizzata dai massimi intellettuali della
nazione. Questa cultura viene definita “cultura nazionalpopolare” in quanto doveva essere molto
radicata nella nazione ma doveva anche rivolgersi al popolo.
Gramsci, inoltre, riserva alla letteratura un ruolo importante per la costruzione della sopracitata
cultura nazionalpopolare.
Perché proprio la letteratura? (D.E.)
Questo perché per Gramsci la letteratura ha una peculiarità decisiva, nella sua prospettiva. La
letteratura usa come proprio materiale la lingua naturale che tutti parlano, e quindi, a differenza
delle altre arti, ha un carattere spiccatamente nazionale ma anche popolare in quanto si tratta della
lingua parlata dalla gente.
Il linguaggio letterario, almeno in potenza, è legato alla vita delle moltitudini delle varie nazioni.
La letteratura, quindi, è importante per la costruzione di una cultura nazionalpopolare che porta
alla costituzione di quel blocco sociale coeso che poi diventa un blocco politico che porta, senza
spargimento di sangue, al cambio di modo di produzione.
Dietro all’economia ci sono sempre gli uomini, quindi anche le leggi del mercato sono leggi umane.
Gramsci è il primo a mostrare interesse e a studiare sistematicamente quella che viene definita è la
paraletteratura, ovvero la letteratura del popolo. Si tratta, cioè, di quella letteratura di basso livello
che va comunque a pari passo con quella più riconosciuta. In Italia, tuttavia, non era così diffusa
come in Francia e negli altri paesi.
Inizia ad occuparsi quindi dei romanzi d’appendice, ovvero quei romanzi che uscivano a puntate
nei giornali, collocati nella parte bassa delle pagine ma che avevano una grande diffusione presso il
popolo. L’idea che una persona qualsiasi, negli anni ‘20, si comprasse nel libro non era plausibile in
quanto erano molto costosi mentre queste puntate che uscivano sul giornale diventavano
immediatamente fruibili da chi non poteva permettersi un libro.
Dal punto di vista sociologico, Gramsci osserva che in Italia, proprio per la mancanza di intellettuali
organici alla classe popolare, mancavano romanzi d’appendice che interessassero al popolo e
fossero di qualità e lo stesso lo sostiene per i testi di carattere scientifico. Il popolo italiano che
leggeva si rifugiava nei romanzi francesi.
Perché in Italia non esiste una letteratura nazionale nonostante risulterebbe redditizia?
La risposta è duplice: da una parte mancavano, come detto in precedenza, intellettuali organici
alla classe popolare e dall’altra il risorgimento italiano non ha avuto un carattere popolare, ma è
stata un’opera di colonizzazione dell’impero sabaudo-piemontese sul Paese, tanto è vero che tutto il
fenomeno del brigantaggio meridionale si opponeva all’esercito sabaudo. “Abbiamo fatto l’Italia,
adesso dobbiamo fare gli italiani”: l’Italia non è stata fatta dal popolo. L’Italia, come nazione,
non ha un carattere popolare.
La rottura popolo-cultura, quindi, deriva anche dal fatto che la cultura italiana era sempre stata
appannaggio di un’élite.
Gramsci è un po’ un sognatore quando dice che la lingua nazionale è quella del popolo. Non c’era,
in realtà, questa tradizione antica.
Gramsci ci fornisce il primo abbozzo in assoluto di categorizzazione di letteratura popolare, più
specificamente del romanzo.
Individua sette tipi di romanzi:
Ideologico-politico (“Les Miserables”, Victor Hugo che aveva avuto un enorme successo.
Gli eroi dell’opera sono i popolani.);
Sentimentale
Di puro intrigo senza un preciso genere;
Storico;
Poliziesco (“Sherlock Holmes”, Arthur Conan Doyle)
Tenebroso (Noir o Gotico)
Scientifico, geografico (“20.000 leghe sotto i mari”, Jules Verne)
Gramsci segnala, alla fine del suo studio, che nessuna di queste tipologie ha avuto in Italia degli
scrittori di rilievo e di reale livello e quindi il popolo non ha potuto fruire di questo tipo di testi nella
propria lingua.
04/10/2021
Vittorio Spinazzola
«Da Gramsci mi è venuto il principio cardine che i gusti e le preferenze della gente comune vanno
esaminati con serietà»
Spinazzola (Milano, 1930) è un critico letterario militante. È l’unico che, a 30 anni di distanza, ha
recuperato l’eredità di Gramsci in quanto il suo discorso risultava ancora attuale.
Spinazzola parte dal presupposto che l’accento vada messo anche sui lettori: tutti sono diventati
potenzialmente dei lettori.
La comunicazione letteraria si da soltanto se c’è qualcuno che ne fruisce, ovvero un lettore. Un’idea
di letteratura che coinvolga anche i lettori era ancora rara, ma Spinazzola muove dal presupposto
che il rapporto è triadico: autore → testo → lettore.
Una volta messo l’accento sul lettore, è chiaro che la letteratura non diventa più soltanto
un’esperienza intellettuale ma diventa inevitabilmente un esercizio attraverso il quale ricavare una
gratificazione estetica; questo discorso comporta anche che una lettura possa essere interrotta nel
momento in cui non se ne trae più gratificazione.
Altro elemento che lega Spinazzola e Gramsci è la loro posizione in merito al ruolo degli
intellettuali; secondo Spinazzola, infatti, sono fondamentali gli intellettuali che fanno i critici
letterari in quanto dovrebbero svolgere una funzione essenziale di collegamento tra le opere e i
lettori, orientandoli. Questo perché l’offerto letteraria in quegli anni era cresciuta enormemente e
quindi il ruolo del critico doveva essere capire ciò che piace alle persone, alla massa, e orientare
loro in quell’ambito. Questa segna una differenza sulla concezione della letteratura rispetto ai tempi
prima quando i critici avrebbero dovuto occuparsi soltanto del sublime.
Il motivo che porta Spinazzola a riprendere l’atteggiamento di Gramsci è il boom economico che
tra le tante conseguenze porta all’allargamento del pubblico della letteratura; le cause di tale
espansione, quindi, sono economiche e per la prima volta la gente possiede anche il denaro e le
condizioni ideali per potersi permettere di godere degli svaghi intellettuali.
Inoltre, molto significativa è anche la scolarizzazione: nel 1962 la scuola media viene resa
obbligatoria.
Spinazzola richiama un dato oggettivo che è appunto l’ampliamento del pubblico della letteratura,
che prima era elitario. In questi anni la critica non può più lavorare come aveva fatto fino ad allora
in quanto il clima e l’istituzione letteraria hanno ormai cambiato faccia: più sono i lettori, maggiore
è l’offerta.
In generale, i critici letterari hanno percepito questo fenomeno come catastrofismo apocalittico in
quanto si stavano diffondendo opere di ogni tipo; veniva denunciata continuamente la produzione
mediocre che seguiva le pretese del pubblico e, secondo loro, la vera letteratura stava diventando
scadente.
Dove gli altri vedevano una omologazione vero il basso delle opere letterarie, Spinazzola vedeva
solo che la vita culturale del paese era ormai aperta a tutti e non più a una piccola élite
insignificante. Spinazzola vedeva dunque un arricchimento orizzontale del panorama letterario.
Alla base di questa posizione, c’è la convinzione che in ogni esperienza estetica ci sia una certa
qualità e dentro ogni persona ci sono momenti di usufruizione di letteratura diversi: chi riesce a
leggere i romanzi di livello più alto, è in grado di comprendere tutti gli altri mentre il processo
contrario è impossibile.
Spinazzola prende atto della democratizzazione della produzione letteraria. L’habitat letterario della
produzione moderano non è altri che il romanzo, ovvero il genere egemone della modernità.
C’è sempre una strategia da parte dell’autore che lo porta a raggiungere un determinato pubblico; il
pubblico inizia ad allargarsi verso la fine dell’Ottocento e gli autori, lentamente, cercano di
intercettare tale pubblico.
Il punto di partenza di questo discorso è Gabriele d’Annunzio con il suo sontuoso decadentismo;
egli ha costruito delle opere con una patina di elitismo che è in realtà è una farsa: le sue opere
potevano raggiungere anche un pubblico più basso, facendolo sentire parte di un gruppo elitario in
grado di comprendere opere di alto livello.
Altrettanto provocatoria è la lettura che Spinazzola fa del Futurismo e le avanguardie europee in cui
vede una volontà di provocare il pubblico medio, per conquistarlo e coinvolgerlo, non per
spaventarlo, pura opera di spettacolarizzazione.
Spinazzola riconosce la ripresa dell’aristocraticisimo castale della letteratura nell’Italia post-
bellica, anni 20/30. In questi anni, in Italia si impone l’ermetismo che manda in fuga il pubblico e
parallelamente nell0ambito della narrativa si sviluppa la prosa d’arte che presenta un linguaggio
elaborato e molto ricercato. Negli anni del fascismo, inoltre, il regime ha in mente una strategia di
popolarizzazione della letteratura, con esaltazione al regime. Negli anni del fascismo nasce anche la
fumettistica italiana.
La storia successiva alla guerra è quella del neorealismo (che si apre nel 1943 con il film
“Ossessione” di Luchino Visconti e si chiude nel 1955 con il romanzo “Metello”). In questi anni
torna il romanzo e l’impegno progressista, ma il nuovo romanzo neorealista naufraga precocemente
in quanto la qualità dei prodotti è spinta da binari opposti.
Negli anni 60, il fenomeno letterario più famoso è la neoavanguardia che condanna il neorealismo e
vuole colpire e scompaginare le forme istituzionali del romanzo.
Spinazzola è provocatorio anche nei confronti della neoavanguardia in quanto la vede come un
gruppo di intellettuali umanisti spaventati dalla massificazione e condannano tutto ciò che è
popolare mascherando questa volontà con sperimentalismo e rendendo la letteratura ermetica per
potersi elevare da soli. Questo tipo di letteratura sparisce nel ‘68 con la rivoluzione giovanile. I
movimenti vogliono subordinare lo sperimentalismo letterario all’ideologia. Spinazzola osserva che
si ricava una spinta dei testi letterari ad inserire nei testi un maggior grado di oralità e il romanzo si
vede scendere verso la volgarità e il parlato colorito.
Gli anni ’80 sono gli anni della post-modernità, e ad imporsi definitivamente è il gusto dei lettori;
finiscono qui gli sperimentalismi che fanno spazio a una prosa romanzesca. Viene inoltre
completata la ristrutturazione del sistema editoriale: sono gli scrittori che inseguono i desideri dei
lettori.
La fase successiva del discorso di Spinazzola è la contemporaneità; fa un bilancio degli anni ‘90 e
propone un ritratto dell’istituzione letterario avendo due bussole: da una parte le opere e dall’altra il
pubblico che le fruisce. Sulla base di questi due presupposti, Spinazzola fornisce quattro categorie.
I quattro livelli non costituiscono una gerarchia di valori, ma costituiscono una gerarchia di
complessità tecnica, le più complicate al livello più alto. Inoltre, i prodotti collocabili ai gradi
inferiori sono fruibili ai lettori delle fasce superiori.
Letteratura avanguardistico-sperimentale (iperletteratura). Alta complessità formale con
forte tendenza a sperimentare, conta l’imperativo del “nuovo”. Lo scrittore vuole essere
originale. A questo livello si trovano opere rivolte ad un pubblico d’élite. Opere: tutta la
poesia, prosatori particolarmente originali come Carlo Emilio Gadda (“La condizione del
dolore”), Tommaso Landolfi, Antonio Delfini e Giorgio Manganelli. In questo livello le
classificazioni di appartenenza di genere tendono a non rispondere facilmente ai generi
letterari; questo perché ciò che conta è l’individualità autoriale che rompe i confini dei
generi letterari.
Letteratura istituzionale. Testi che si rivolgono ad un pubblico scolarizzato ma non
specialista della letteratura. Troviamo testi che rispondono ad una letteratura famigliare. Con
questi tessi si famigliarizza grazie alla scuola. Caratterizzati da minore sperimentazione, si
riconosce una stabilità di appartenenza ad un genere letterario. Modernità settecentesca. Nel
Novecento, romanzi storici, psicologici, di formazione. Autori: Primo Levi, Leonardo
Sciascia, Umberto Eco (“Il nome della rosa”), Alberto Moravia (“La noia”), Elsa Morante
(“L’isola di Arturo”), Alessandro Manzoni (“Promessi Sposi”)
Letteratura d’intrattenimento. Pubblico ampio, i modelli del genere letterario sono
rispettati e talvolta semplificati. Romanzo giallo, noire, comici, erotici. Conta il pensiero del
lettore, meno il nome dell’autore. Autori: Stefano Benni, Piero Chiara, Sottero e Lucentini.
Romanzo di genere di buona qualità, il national-popolare che pensava Gramsci. In questa
categoria Spinazzola inserisce biografie (di Napoleone, JFK) e testi con lo scopo di
intrattenimento ma anche di insegnamento, come i libri che scrivono i giornalisti (Travaglio,
Vespa).
Letteratura marginale o paraletteratura. Peculiarità: viene venduta in edicola. Fumetto,
fotoromanzo (personaggi fotografati con fumetti/didascalia), romanzo rosa, romanzo
pornografico, romanzo western. Opere ripetitive, nessuna originalità (l’autore non c’è, firma
con uno pseudonimo). Letteratura totalmente rifiutata dalla critica letteraria. Non regna
un’uniformità amorfa e statica.
Spinazzola chiede al critico di farsi garante dell’orientamento dei lettori non professionisti in
questa vastità della letteratura.
06/10/2021
Jean-Paul Sartre
Sartre è l’emblema dell’intellettuale colto e borghese che si assume la responsabilità di prendere
parola per tutti a proposito di temi attuali. Insieme a Pasolini è uno degli intellettuali più autorevoli
della seconda metà del ‘900.
Nel 1964 vinse il premio Nobel per la letteratura ma, in quanto intellettuale militante, decise di
rifiutarlo poiché non voleva istituzionalizzare la sua figura e preferiva rimanere un’intellettuale che
sta al margine. Ciò significa che Sartre non voleva smettere di essere una coscienza inquieta critica
nei confronti della società.
Scrisse romanzi, drammaturgie, è stato critico letterario, teorico della letteratura, ma è stato
innanzitutto filosofo. Filosofo esistenzialista in una prima fase, dalla fine della Seconda guerra
mondiale fu influenzato dal marxismo (→Søren Kierkegaard e Fëdor Dostoevskij fondatori primo
novecenteschi dell’esistenzialismo).
La “Nausea” → romanzo esistenzialista di Sartre il cui protagonista è Roquetin che tenta di dare un
senso alla propria presenza nel mondo. La filosofia esistenzialista ragiona sul ruolo dell’Io nel
mondo.
I pilastri dell’esistenzialismo sono:
Ciascuno è uno → irriducibile singolarità e solitudine dell’essere umano
Non senso dell’esistenza → domande strettamente legate all’esistenza: nessuno ha chiesto
di nascere o morire e la nostra vita si svolge nel perimetro del non senso
Libertà e responsabilità individuale → sta all’uomo dare senso al non senso
Teoria della conoscenza → riflette su come l’uomo interagisce con ciò che lo circonda.
La teoria della conoscenza mette l’accento sulla coscienza soggettiva per fornire significato alla
realtà esterna. Sartre presuppone che la realtà esterna sia inerte, nella sua “datità” (dato
d’esistenza), è la coscienza individuale che stabilisce legami all’interno del in sé e crea
significati. Sartre chiama la realtà esteriore “in sé”, gli elementi della realtà non “si danno”, la
realtà è opaca. La coscienza individuale Sartre la chiama “per sé”, la coscienza attraversa il
reale, la coscienza rivela l’essere. La realtà esteriore non è data interessante perché non è dato
oggettivo, la realtà esterna non esiste, la realtà che esiste è solo quella che ciascuno di noi
percepisce.
Quindi:
In sé → realtà esterna inerte
Per sé → essere umano che porta la sua coscienza nell’in sé e ne usufruisce
Nel 1967 scrive “Che cos’è la letteratura”, diviso in tre parti:
1. Che cos’è scrivere?
Sartre individua una differenza strutturale (semiotica) tra arti figurative/musicali e
letteratura. Le prime usano gli ingredienti del loro linguaggio come se fossero delle cose (a
cosa corrisponde cosa) e ogni rappresentazione sta a rappresentare sé stessa mentre la
letteratura (eccezion fatta della poesia in quanto il poeta tende a scegliere le parole in basa
alla bellezza fonica e il senso della poesia risiede proprio nel suo valore fonico come nel
caso della musica e dei suoi suoni) presenta una prosa che utilizza le parole come un sistema
di segni, attribuendo loro una valenza puramente di significato e non estetica. La prosa
veicola i significati, attraverso i quali si compie un appello politico al lettore. Questi
significati diventano coscienza rivelatrice del mondo.
2. Perché scrivere?
L’uomo sente il bisogno di scrivere perché risponde al suo bisogno primario di creare
qualcosa che non c’era. Il creare qualcosa che non ci sarebbe stato altrimenti è un obiettivo
fondamentale secondo Sartre: diventando creatore a proprio volta si dà senso all’esistenza e
si diventa essenziali nei confronti di qualcosa che si è creato.
Nel momento in cui si crea qualcosa, non si è più rivelatori nei confronti di ciò che si è
creato: il creatore vede nell’oggetto solo il frutto di un procedimento e l’oggetto a chi lo ha
creato non si presenta mai nella sua datità assoluta; in un’opera in cui si è messo sé stessi
non si può non ritrovare sé stessi.
L’unico in grado a fruire completamente dell’opera è chi la usa e non chi la crea.
Per Sartre la letteratura esiste solo quando l’opera è letta da qualcuno, solo quando “la
trottola è in movimento”. Arte e letteratura esistono solo se il lettore le fa proprie.
Secondo Sartre, scrivere per sé stessi è il peggiore smacco in quanto l’arte esiste solo nelle
mani altrui, solo gli altri possono rivelare ciò che è stato creato da noi; il lettore è l’elemento
fondamentale.
Sartre è un precursore dell’estetica della ricezione, che verrà “al mondo” soltanto nel 1967
con Hans Robert Jauss. L’oggetto artistico impone le regole e le strutture ma è il lettore a
rivelare l’opera con la propria percezione personale che può essere variabile o meno. Le
opere possono essere percepite come trampolini da cui ognuno fa il suo salto, ovvero
ognuno legge secondo le proprie capacità e stato di forma del momento. Ogni autore,
quando scrive un’opera, fa un appello ai propri lettori per completarla.
3. Per chi si scrive?
A questo punto, però, entra in gioco il materialismo storico: ogni autore deve far fronte al
contesto che influenza sia l’opera che le aspettative dell’autore. Sartre individua una doppia
influenza del pubblico e tendenzialmente quando si scrive, ci si rivolge a quel pubblico con
cui sia condivide l’orizzonte temporale e sociale, ovvero i contemporanei.
Sartre dice “Le banane sono più buone consumate sul posto”, ossia i testi comunicano in
maniera più diretta con i contemporanei e ne consegue che lo scrittore deve rispondere alle
idee del suo tempo.
Il dialogo tra lettore e scrittore influisce anche prima della stessa scrittura dell’opera, in
quanto le aspettative dei primi sono un aspetto determinante nella fase di scrittura.
Vediamo un esempio: Richard Wright, scrittore nero statunitense degli anni 30 del
Novecento che vive in un paese razzista; egli, in quanto nero, non poteva che rivolgersi a
coloro che, come lui, vivessero sulla propria pelle quella condizione fondamentale che
riguardava i neri in quel tempo, ovvero la loro condizione di marginalità e sfruttamento,
oltre che l’essere vittime di sistematico razzismo. Il pubblico a cui si rivolgeva doveva
essere anche consenziente dei tempi che trattava e al suo modo di trattarli: semplicità e
linearità poiché i suoi lavori erano rivolti a una fetta di popolazione che non aveva largo
accesso a una grande cultura letterario. Persino il tono delle opere era complice, poiché
l’autore è consapevole di star parlando a persone che sono dalla sua parte.
Nella contemporaneità di Sartre, lo scrittore è un parassita in quanto non produce nulla di
utile o concreto all’economia (relativamente agli scrittori sperimentali la cui produzione è
volta solo al creare letteratura) e quindi è inutile e nocivo alla classe dominante, riflette
un’immagine della società. Vedere specchiata la propria immagine significa prendere nuova
coscienza dell’immagine, perdendo l’equilibrio che derivava dall’ignoranza di sé. Questo
succede perché lo scrittore, essendo parassita, vive ai margini della società; quindi, guarda la
realtà da un punto di vista elevato, fornendone una visione nuova, che può risultare
sconvolgente. Questo rende lo scrittore una coscienza inquieta, assume un ruolo critico, la
sua opera diventa strumento di coscienza. Il lettore deve liberamente acquisire una
consapevolezza nuova a partire dall’opera e a questo punto dovrebbe avere un nuovo
stimolo sull’agire nel mondo a partire dai principi che l’opera ha immesso nella coscienza
inquieta. L’opera deve spingere ad agire nel mondo, è un appello politico che si fa al lettore:
cambiare per migliorare.
08/10/2021
Pierre Bourdieu
Pierre Bourdieu (1930-2002) è uno dei sociologi più importanti della seconda metà del ‘900. Per
certi versi, è erede di Sartre in quanto intellettuale che prende posizioni su argomenti di attualità,
pur non essendo specialista; assume spesso posizioni contro le istituzioni e le dinamiche sociali. È
stato un punto di riferimento per la rivoluzione giovanile del ‘68.
Non proveniva da una famiglia borghese ricca e colta ma era figlio di un ferroviere e proveniva da
una zona periferica. Nonostante ciò, ha avuto un’ottima carriera scolastica che lo ha portato a ruoli
apicali nell’accademia francese.
Si è occupato molto di cultura e gusti culturali; è stato lui a coniare il concetto di “campo
culturale” e non è mai stato critico letterario.
Nel suo metodo di lavoro, coniuga Marxismo e Strutturalismo.
Lo strutturalismo viene dal metodo formalista di alcuni autori russi degli anni ‘20 e ‘30 e si è
successivamente diffuso in Francia. Si tratta di un metodo di lavoro teso a svecchiare il modo in cui
si faceva ricerca nelle discipline umanistiche, portandole a un grado di scientificità paragonabile a
quello delle scienze dure.
Bourdieu considera ogni oggetto di studio come delle strutture, ovvero come se fossero un tutto nel
quale ogni elemento è connesso con gli altri e si opera un’analisi che ci aiuta a capire come i dati
raccolti sono collegati insieme: la forma è contenuto.
Per esempio, se si considera un testo come un insieme di dati, bisogna analizzare ognuna delle due
parti che vengono considerato in relazione tra loro: si cerca di capire cosa tiene insieme questi dati,
come sono collegati tra di loro e come gli elementi formali siano strettamente legato al contenuto.
Ogni oggetto va studiato in ciascuna delle parti della sua struttura. Lo strutturalismo, però, analizza
solo le strutture e nulla all’infuori di quelle (contrariamente alla sociologia); si tratta di un approccio
specialistico e antistoricista in quanto non prende in considerazione l’evoluzione storica: si tratta
di un metodo sincronico e non diacronico.
Questo approccio può essere considerato anche anti-sartreiano in quanto viene ricavata l’oggettività
e non la percezione del singolo.
Secondo Bourdieu lo strutturalismo ha comportato uno studio sincronico che sacrifica la storia ma
ricerca tutte le caratteristiche di una data situazione in un dato ambito sociale, ovvero ricerca una
comprensione che va in profondo.
Questo approccio è conciliabile con il marxismo per quanto riguarda il materialismo e, in
particolare, per quanto riguarda il rapporto tra struttura e sovrastruttura.
Leggendo in profondità una situazione sociale, si arriva a comprendere che la struttura economica è
il motore di tutto; l’economia, anche dentro il singolo agente (da ago→fare→agire) sociale, è un
fattore determinante e quindi tutte le cose sono collegate da un rapporto di causa-effetto. La
profondità di analisi recupera la mancata attenzionale all’elemento storico, mentre Engels riteneva
che la rilevanza della struttura economica fosse visibile su lunghi periodi, Bourdieu scavando in
profondità è già in grado di comprendere la determinanza dell’economia.
Da Marx viene recuperato anche il concetto di capitale che viene applicato anche oltre l’economia;
secondo Bourdieu esistono diversi tipi di capitale:
Capitale economico
Capitale relazionale (o sociale)
Capitale culturale
Capitale simbolico (quint’essenza di tutti gli altri capitali; indica l’autorevolezza di una
persona)
Dal Marxismo, Bourdieu recupera anche l’ideologia; egli crede che la classe dominante imponga la
propria ideologia e tenta di svelare i meccanismi del dominio che caratterizzano le dinamiche
sociali, mettendo l’accento sulle gerarchie di potere anche laddove sembrano non esserci.
Tutto il lavoro di Bourdieu rientra sotto l’etichetta di “critica all’ideologia”.
A Bourdieu sta a cuore la questione della scuola. Critica alla scuola: negli anni ‘60 nasce la scuola
di massa ed osserva che si stava dando un’inflazione dei titoli di nobiltà culturale (titoli
scolastici) in quanto c’era un numero crescente di persone che riuscivano ad ottenerli. Ciò ha
comportato che i titoli scolastici perdessero di valore e nel momento in cui il solo diploma diventa
accessibile a tutti, la classe dominante fa sì che i propri figli vadano all’università per ottenere una
laurea (la dinamica di potere che ci sta sotto secondo Bourdieu è la seguente: la classe dominante
che un tempo era l'unica ad avere il diploma manda i figli a fare l'università, così che la classe
operaia, che ora può mandare i figli ad avere il diploma, resti comunque ad un livello inferiore alla
classe dominante, che ha titoli di valore maggiore).
Una cosa simile accadde nel Medioevo: inizialmente esisteva solo il titolo di barone, ma quando
questo iniziò a diffondersi, i vecchi baroni assunsero i titoli di “conte” o “marchese” in modo da
accrescere il valore del loro titolo nobiliare e differenziarsi dai nuovi baroni.
Quindi dietro ai titoli scolastici, si nasconde una gerarchia economico-sociale difficile da abbattere,
ma non per questo impossibile (lo stesso Bourdieu è passato dalla periferia ad essere un intellettuale
di spicco).
Inoltre, secondo Bourdieu non c’è niente di più ingiusto di una valutazione neutra in quanto non
tutti partono dallo stesso punto: la scuola, quindi, è espressione della classe dominante che instilla la
propria ideologia in tutti; chi non viene dalla classe dominante si ritrova spaesato in quanto il
contesto scolastico richiede ai propri allievi, indipendentemente dalla loro provenienza, di
performare secondo gli standard della lasse dominante e scambia per valore quella che in realtà è
un’eredità socio-economica.
Bourdieu, introduce il concetto di HABITUS (da habeo, avere abitudini). L’habitus è l’insieme
delle idee e delle abitudini che abbiamo acquisito per il fatto di appartenere a una certa classe
sociale; è la struttura profonda della nostra mente, il motore delle nostre azioni: è struttura
strutturata e struttura strutturante.
Struttura strutturata: tutte le esperienze che abbiamo fatto, da come la nostra mente si è
costruita in base alla nostra esperienza personale di vita;
Struttura strutturante: struttura delle nostre azioni, motore delle nostre azioni.
Nel 1979, viene pubblicato “La distinzione. Critica sociale del gusto”. Il libro è il frutto di
interviste sulle abitudini culturali e il gusto dei francesi (cultura intesa nel senso più vasto del
termine: a partire da ciò che si legge, i film che si guardano fino ad arrivare al cibo che si mangia).
Queste interviste vengono svolte a cada degli intervistati in quanto queste aggiungono qualcosa in
più su di loro.
Bourdieu vuole capire la distinzione tra persone e tra cosa è dominio e cosa è dominato.
Scrive un libro contro Kant che s’intitola “Critica sociale del giudizio”.
Secondo Kant, come dice ne “La critica del giudizio” pubblicata nel 1690, il gusto individuale
rimanda al gusto del singolo in base alle sue intuizioni e quindi la percezione del bello è
disinteressata e intrinseca all’individuo. Diversamente, secondo Bourdieu ogni opzione di gusto è
legata alle condizioni socioeconomiche dell’individuo. L’atteggiamento di fronte a un qualcosa di
estetico (sovrastruttura) deriva dalle condizioni economiche (struttura); c’è sempre il capitale alla
base di una reazione.
Secondo Bourdieu, per tutti noi lo scopo ultimo è distinguersi, ovvero guadagnare capitale
simbolico. : si fa proprio un gusto per far sì che ci si possa dare un certo tono, in quanto c'era
distinzione tra gusti legittimi (propri della classe dominante). Spesso si fingeva di avere un dato
gusto, così da sentirsi parte della classe dominante e cercare di distinguersi.
Bourdieu individua tre gusti per ciascuna classe:
Gusto legittimo: appartenente alla classe dominante
Gusto medio: appartenente alla classe media, la piccola borghesia
Gusto popolare: proprio della classe popolare che ha un rapporto superficiale con la
cultura.
Inoltre, Bourdieu chiarisce che il capitale culturale è diviso in:
Capitale scolastico
Capitale ereditario, detto anche capitale incorporato: agisce in quei settori dove la scuola
non arriva (es: gusti musicali, modo di vestire). Dove non c’è l’educazione scolastica si
percepisce chi siamo davvero.
Bourdieu percepisce due autodidatti: quello vero e proprio (che ha un’idea molto nozionistica del
sapere ed è una caricatura ridicola del sapere legittimo) e l’autodidatta legittimo (colui con
abbondanza di capitale culturale ed ereditario; non sbaglia mai in quanto ha intuizioni che lo
portano alle reali coordinate di qualcosa che ha un reale valore ed applica un’attenzione estetica
legittima ad ogni ambito di interesse).
Nelle sue interviste, Bourdieu distribuisce diverse fotografie (tramonti, alberi presi di scorcio e foto
astratte); nota che a mano a mano che il livello di istruzione e capitale culturale aumentano,
aumenta anche il gusto per la formalità e non solo il contenuto della foto. Al contrario, l’estetica
popolare prevede la subordinazione degli aspetti formali al contenuto, vale a dire che il popolo
ignora lo stile e la formalità e si focalizza sulla funzione e il contenuto.
11/10/2021
Ian Watt
Ian Watt (1917-1999) è un critico letterario inglese. La sua vita è divisa in due da un evento
collettivo, che è la Seconda guerra mondiale. Nel 1942 fu mandato in guerra sul fronte orientale
contro i giapponesi; dopo pochi giorni dal suo arrivo viene fatto prigioniero insieme a dei suoi
commilitoni e viene portato a fare lavori forzati→ costruzione della ferrovia della morte (chiamata
così perché la sua costruzione comportò la morte di circa 100000 prigionieri) tra Thailandia e
Birmania.
Watt è passato alla storia della critica letteraria perché si è occupato del romanzo moderno, nato in
Inghilterra nel XVIII secolo, ovvero durante gli anni della rivoluzione industriale. Ricordiamo,
inoltre, che il romanzo moderno è il genere egemone della modernità.
Nota: il concetto di moderno, in ambito storico, ha inizio con la caduta di Costantinopoli e la
scoperta dell’America, mentre dal punto di vista culturale ha inizio più tardi con l’invenzione della
macchina a vapore da cui poi deriva il sistema capitalistico. Questa invenzione segna una svolta
nella storia.
Nel 1957, Watt pubblica “La nascita del romanzo borghese. Studi su Defoe, Richardson e
Fielding”; con borghese si intende moderno in quanto la modernità che ha in mente Watt è quella
dei secoli in cui la borghesia diventa classe dominante. Prima di allora la classe dominante era
sempre stata la nobiltà che si era proposta come emanazione della tradizione e riuscivano a
mantenere lo status quo imponendo un’ideologia di invariabilità degli schemi sociali; tale ideologia
fu compromessa dalla nascita della macchina a vapore e la conseguente onda di cambio di
meccanismo economico che viene cavalcata dalla borghesia.
Il libro è strutturato come il titolo e sottotitolo. I primi due capitoli sono di stampo teorico e trattano
la nascita del romanzo borghese, successivamente vengono approfondite le opere paradigmatiche di
questo genere letterario:
Robinson Crusoe (1719) e Moll Flanders (1722) di Daniel Defoe
Pamela (1740) e Clarissa (1749) di Samuel Richardson
Rom Jones (1749) di Henry Fielding
Il primo capitolo s’intitola “Il realismo e la forma del romanzo”; Watt studia i presupposti storici
assunti dal romanzo del ‘700, caratterizzato da una forte aderenza alla realtà contemporanea. Il
romanzo è moderno, borghese e realista. Si parla di un nuovo realismo ottocentesco che tende a
restituire la concreta esperienza individuale di uomini e donne la cui caratteristica distintiva è di
essere persone normali e ordinarie; questa è una novità in quanto prima di allora i personaggi
erano molto convenzionali.
C’è una nuova attenzione rivolta alla realtà normale, alla vita di tutti i giorni e ciò avviene con un
tono serio e non più comico. La bassa società non veniva più rappresentata con un tono basso e
ironico come era stato fatto in precedenza. Queste novità si percepiscono dai titoli dei romanzi
stessi, che presentano personaggi dai nomi normali e ciò ci aiuta a comprendere l’ordinarietà di
queste opere.
Altro elemento realistico sono gli ambienti ordinari descritti con molta profondità e precisione; i
nessi causa-effetto sono molto importanti nei romanzi così come avvengono nella vita reale.
Alla base dell’ascesa del romanzo in Inghilterra, c’è la volontà di imporre narrazioni con ingredienti
che derivano dal reale.
L’originalità diventa più importante dell’imitazione che prima era un valore da perseguire (es:
Petrarchismo).
Dal ‘700 si instaura un nuovo canone, che è, appunto, quello dell’originalità e individualità
artistica. Di fatto il nome inglese del romanzo è novel e ciò annuncia questa novità in cui il punto di
riferimento diventa il reale.
A questo punto, Watt indaga le cause che hanno portato alla nascita di questa nuova sensibilità
verso la normalità e per fare ciò attua una critica sociologica che spiega le caratteristiche letterarie
del romanzo in relazione al contesto in cui questo è nato.
Nel XVIII secolo, l’uomo inglese ha vinto la sua sfida contro la natura (diversamente dall’Italia che
in quel momento ancora prevedeva che la natura schiacciasse l’uomo, es: Leopardi) con
l’invenzione della macchina a vapore. L’uomo non dà più per scontato che tutto sia immutabile e la
borghesia, al contrario della nobiltà, da molto valore all’affermazione individuale (es: Robinson
Crusoe narra la storia di un uomo borghese che naufraga su un’isola deserta e riesce a sopravvivere
grazie alla sua intelligenza, piegando l’ambiente che lo circonda alle sue necessità e al proprio
valore).
Il romanzo inglese rappresenta, infatti, l’apoteosi dell’ideologia borghese di auto-affermazione.
Oltre a queste motivazioni di tipo economico-storico-sociale, Watt trova altri tipi di cause che sono
di stampo filosofico.
Queste motivazioni vengono trovate nell’Empirismo e nel Sensismo, correnti filosofiche del
periodo. In particolare, prende in considerazione Cartesio e Locke che sostengono che la verità
(ovvero la comprensione del reale) è alla portata di tutti gli uomini attraverso i sensi (sensismo) e la
propria esperienza personale (empirismo), fondando una gnoseologia (teoria della conoscenza). La
verità dell’uomo non è dettata dal sapere tradizionale, Cartesio e Locke rifiutano l’ “ipse dixit”. La
lettura del reale non deve avvenire a partire dagli assiomi ereditati dalla tradizione per cui ciò che
era non poteva essere nient’altro.
Nel ‘600, con la Rivoluzione scientifica, l’uomo ritorna ad essere al centro di tutto:
“Cogito ergo sum” esisto in quanto essere pensante (René Descartes o Cartesio)
“Tabula rasa” (John Locke): l’uomo è una tavola pulita sulla quale vengono scritte le
esperienze
Nicolò Copernico o Mikolai Kopernik: l’uomo al centro dell’universo
Questa svolta razionalistica e scientifica sé il lascia-passare alla letteratura per poter iniziare a
parlare dell’uomo in una dimensione di normalità (fine Capitolo 1).
Il secondo capitolo pone le premesse sociali ed economiche della nascita del romanzo moderno.
Le premesse sociali affinché i romanzi potessero essere scritti partono dal fatto che c’era chi questi
romanzi gli avrebbe letti in quanto il pubblico letterario si era ampliato. Si trattava di un pubblico di
non-specialisti. Ma chi sono questi non-specialisti?
I ceti umili? No.
Ciò non è possibile poiché i ceti umili non sapevano leggere e non avevano nessun incentivo
affinché imparassero; inoltre, i libri erano molto costosi e le classi povere, oltre a non avere
il denaro per comprarli, non avevano il tempo e le energie per leggere. La lettura
presupponeva una certa intimità, comportava un’esperienza singolare, individuale che
doveva avvenire in maniera silenziosa e per leggere romanzi così lunghi c’era bisogno di un
luogo ideale, o di un momento della giornata ideale (che poteva essere la sera, quando non si
lavorava ma le candele avevano anch’esse un costo eccessivo e senza queste non si poteva
avere luce). Altro ostacolo era la tassa alle finestre che comprometteva la disponibilità di
illuminazione.
Nei ceti bassi solo i maggiordomi e domestici potevano permettersi di leggere in quanto
incontravano meno ostacoli rispetto ad altri.
I ceti medi? Sì.
I ceti medi (in particolare le donne), a differenza di quelli umili, disponevano del tempo e
del denaro necessario per poter leggere. La neonata industria permettere alle donne di
smettere di fare determinate mansione casalinghe (vestiti, sapone, candele che invece
venivano acquistati) e ciò lascia loro del tempo libero che viene impiegato nella lettura.
La borghesia era un pubblico che aveva voglia di imparare e il romanzo era un’occasione
per poterlo faro attraverso una forma di svago.
Inoltre, l’editoria e gli autori avevano a disposizione una nuova possibilità di guadagno; Watt
intuisce che nel mercato editoriale si trovava già un prodotto che rispondeva alle esigenze di
intrattenimento e informazione della borghesia: si tratta dei giornali [es: “The Tatler” (1709) e “The
Spectator” (1711)]. Tutti i giornali contenevano informazione, racconti e giochi che venivano
proposti con uno stile semplice e molto diretti. Inoltre, in questi anni nasce anche l’opinione
pubblica e l’editore diventa un lavoro a tutti gli effetti (di conseguenza viene a meno la figura del
mecenate).
Nasce, infine, la figura dell’intellettuale autonomo che vive del proprio lavoro: da un lato è
totalmente libero di esprimere la propria opinione (opinione che può avere rilevanza in ambito
politico-sociale) e dall’altro questa libertà può avere per l’intellettuale un alto prezzo.
13/10/2021
Il boom economico viene anche favorito dalla mano d’opera a basso costo che accresceva il
guadagno degli imprenditori; si stava verificando un’accumulazione del capitale che verso la fine
degli anni ’50 consente agli imprenditori di alzare i salari, fino al creare di un circolo vizioso:
< guadagno
↨
< salari
↨
< l’acquisto della merce da parte dei lavoratori
Il settore agricolo si svuota: rimangono 5000 lavoratori a partire dai 8000 che erano.
Tra gli anni ‘50 e ‘60 la produzione industriale aumenta dell’84% e l’Italia si specializza
nell’esportazione di prodotti tecnologici di medio livello.
Crescono i beni voluttuari (ovvero i beni non indispensabili) quali auto, moto, televisioni ed
elettrodomestici e cresce di meno il consumo dei beni primari.
Nel 1958 una famiglia su dieci è in possesso della televisione; nel 1960 una famiglia su cinque ha la
televisione; nel 1962 una famiglia su due ha la televisione.
Il popolo italiano diventa un popolo consumista: il criterio di acquisto non è più la necessità ma il
desiderio.
Il boom economico ha effetti per lo più al nord in quanto nel sud mancava una borghesia con
attitudine imprenditoriale, cosa che faceva invece comodo al mondo politico (→Clientelismo: ci si
assicurava voti in cambio di posti di lavoro) e al mondo industriale del nord in quanto un sud
povero poteva essere un bacino di mano d’opera a basso costo. Ciò portò a un forte fenomeno di
migrazioni interne verso i centri economici: 1.300.000 persone si trasferirono dal su al nord. Tra il
51 e il 61 ci furono 600.000 abitanti in più nella provincia di Milano.
Fra gli anni ’50 e gli anni ’64 ci fu speculazione edilizia: le abitazioni costruite ex-novo
aumentarono del 700%.
Vennero costruite nuove fabbriche, nuove abitazioni e si investì molto sul trasporto automobilistico
piuttosto che su quello ferroviario (di fatto la FIAT era molto influente sulla politica).
La televisione diventa molto importante: si apre un nuovo pantheon di dii che abitano il mondo
dello sport e dello spettacolo che aumento il sogno di successo dei cittadini.
Sul piano sociologico, inoltre, nasce la figura del giovane: ci troviamo in un mondo in cui si impone
il paradigma del nuovo e sono proprio i giovani a poter fare proprie queste novità.
15/10/2021
18/10/2021
Il pollo ruspante
Il Pollo Ruspante (1963) è uno dei quattro elementi che costituisce un’opera collettanea, ovvero
un’opera che riunisce più artisti, in questo caso sono quattro.
L’opera, nell’insieme, s’intitola “Ro.Go.Pa.G”, acronimo dei cognomi dei quattro registi:
Ro→ Roberto Rossellini (Illibatezza)
Go→ Jean-Luc Godard, uno dei più importanti registi francesi di questi anni, protagonista
della nouvelle vague (nuova ondata del cinema francese anni ‘50-‘60)
Pa→ Pier Paolo Pasolini (La Ricotta)
G→ Ugo Gregoretti, regista del segmento “Il pollo ruspante” che stiamo prendendo in
esame; è un regista molto giovane e promettente nel 1963.
I primi anni ‘60 sono un momento di straordinario sviluppo per l’arte e la cultura.
Il pollo ruspante è un’opera che si colloca sulla soglia di uscita dal boom economico e fornisce
un’idea chiara della vita dal boom economico in poi, tipo di vita che non è poi così diverso da
quello odierno in quanto è proprio da lì che il nostro presente ha radici.
Il cortometraggio è costituito da due narrazioni che corrono in parallelo: abbiamo una cornice
narrativa in cui vediamo uno studioso di marketing (disciplina allora neonata) italiano che ha
lavorato e studiato negli USA e spiega a grandi rappresentanti della borghesia italiana i segreti e il
funzionamento di questa nuova disciplina, convincendoli di come questa sia uno straordinario
strumento di comprensione della psiche del cittadino affinché questo possa diventare consumatore.
La psiche del consumatore è manipolabile.
Su questa cornice teorica di una conferenza sul marketing, viene inserita la storia di una famiglia
che è l’incarnazione nella vita reale di ciò che lo studioso di marketing propone.
Questa famiglia è alle prese con varie avventure di consumo di beni voluttuari; i personaggi
subiscono un’evoluzione fino a raggiungere un finale inaspettato.
Il titolo fa riferimento a una scena del cortometraggio nella quale il padre spiega al figlio che un
pollo ruspante è un pollo libero, allevato all’aperto e non al chiuso e nutrito con mangime
industriale come invece i polli d’allevamento; questa differenza è allegorica dell’uomo vittima del
consumismo e facilmente manipolabile che vive in una gabbia d’oro pensando di essere libero ma
non essendolo effettivamente; l’uomo è effettivamente libero quando non è vittima del consumo e
non ha costante necessità di un bene voluttuario dietro l’altro per essere felice.
Il corto può essere diviso in sette parti:
1. La conferenza che costituisce una cornice narrativa: lo studioso di Harvard parla con un
laringofono.
Perché parla con questo strumento? Quanto più in una narrazione un gesto non è necessario,
tanto più tale gesto assume un significato; in questo caso rappresenta come il personaggio
non parli con candore umano e onestà ma è invece disumanizzato da quell’oggetto che
restituisce una voce meccanica senza sentimento.
2. Primo oggetto di desiderio della famiglia: la televisione. Questa parte tratta in maniera
semplificata della dinamica dell’invecchiamento del prodotto, dinamica che tutt’ora ci
appartiene. Particolarmente significativa è la frase che il padre dice alla venditrice della
televisione: “Io mi fido di voi”. Tale fiducia è mal riposta, come si scopre durante il
carosello (programma con il quale si chiudevano le trasmissioni televisive la sera e
attraverso il quale venivano pubblicizzati prodotti attraverso sequenze narrative).
Il prodotto acquistato dal padre è già un modello superato; questo è un modo di manipolare
il consumatore: bisogna instillare nel consumatore uno stato di scontentezza sistematica.
3. Altro bene voluttuario: l’automobile. L’automobile era oggetto di desiderio degli italiani
in quegli anni. Questi beni voluttuari rappresentano lo status simbolo, sono il capitale
simbolico di cui parlava Bourdieu e quindi rappresentano l’autorevolezza con cui ci si
presenta in pubblico. Gli oggetti non sono il fine, sono lo strumento per mostrare che si è
ricchi e autorevoli.
Bisogna porre particolare attenzione sulle interazioni tra automobilisti: insulti, corna, auguri
di malattia. Gli altri non vengono più percepiti come umani ma come soldati che lottano gli
uni contro gli altri; la rappresentazione della strada sembra proprio quella di una guerra: c'è
un clima volgare e conflittuale.
l'imbrattamento dell'essere umano in un contesto consumistico. I rapporti umani sono giocati
sull'invidia e sull’antagonismo.
Si può notare anche in questa parte l'atteggiamento dei bambini: sono spugne assorbono ciò
che avviene attorno a loro. Il linguaggio della bambina è fortemente influenzato dalla
pubblicità e le canzoni in voga.
4. Sequenza dell’autogrill (che rassomiglia l’IKEA). L'autogrill ha una struttura fatta
appositamente per indurre il consumatore ad acquistare oggetti; da notarsi l'ironia del regista
che fa comprare alla madre un oggetto che nemmeno lei sa cosa serva.
Poi c'è la scena madre, quella del ristorante che spiega il titolo e racconta come viviamo in
una società standardizzata e omologante: la cameriera si rivolge ai clienti in una maniera
quasi robotica, inflessibile.
Conta solo il binario le relazionale venditore-consumatore. Anche i menù sono
standardizzati: non si ha la piena libertà di prendere ciò che si vuole nella misura in cui lo si
vuole. Con la scusa che si paga di meno rispetto alla somma dei singoli piatti se finisce per
acquistare più di quello che è necessario; i menù sono un’apparente offerta di guadagno
economico ma, in realtà, implementano il consumismo.
5. Sequenza della seconda cosa. il bambino quando vede il custode con il figlio si mette ad
urlare la parola “Napoli” che era diventata per sineddoche in nome attraverso il quale si
indicavano tutti gli immigrati meridionali. Si vede la popolazione completamente assorbita
dal boom economico da un lato e dall'altro si vede che il boom economico lo precede e non
ne ha assorbito le dinamiche: il progresso del nord al sud arrivava in maniera molto più
lenta.
I migranti interni (meridionali) sono portatori di un rapporto ancora sano con il mondo: di
fronte alla bambina che canta il figlio del custode si spaventa
Il custode è poco collaborativo ma anche lui, come il figlio, è spaventato anche se ha più
autocontrollo; non capisce l'umanità delle persone che ha davanti e sembra proprio che non
capisca la dinamica economica che sta cambiando la società e ciò si capisce da un gesto
estremamente naturale del custode, ovvero il coltivare un pezzo di terra per mantenersi.
Tuttavia, la terra nella logica capitalistica dovrebbe essere un mezzo per ricavare bene i
consumistici-voluttuari.
la quinta sequenza è significativa anche per la presenza delle due coppie (quella protagonista
e quella che passa). Entrambe hanno un momento di crisi e conflitto che parte dalla
frustrazione derivata da ragioni di tipo economico.
L'elemento della frustrazione è inevitabile: c'è sempre qualcuno che ha più soldi.
6. Reazione imprevedibile dei personaggi che hanno un momento di rinata lucidità e
smettono di litigare; realizzano che quando si aveva meno, si stava meglio e questa
realizzazione spezza il circolo vizioso del consumo-frustrazione.
Successivamente la famiglia virgola in macchina, fa un frontale in quanto al padre
continuano a ronzare in testa le voci sul consumo, la televisione, la casa nuova e così via;
probabilmente la famiglia muore. La morte della famiglia e simbolica in quanto si sono
espulsi dalla storia nel momento in cui hanno capito che c'è qualcosa di più profondo
importante del consumismo e quindi sono diventati inadatti alla vita in quel contesto.
7. Fine conferenza. In questo momento comprendiamo a chi parla lo studioso: si tratta di
personaggi della grande borghesia tutti di origine nobiliare. Tali personaggi stanno
imparando, grazie alla conferenza, le tecniche con cui far fiorire i loro affari; imparano come
vendere ciò che producono (pubblicità), indipendentemente dalla qualità del prodotto. Si
tratta proprio della classe dominante che studia per mantenere la propria posizione
20/10/2021
Gli intellettuali
Gli intellettuali sono uomini di sapere; vengono definiti da Massimo Cacciari come lavoratori
dello spirito.
Si tratta perlopiù di artisti, musicisti, pittori ma anche esperti di specifici ambiti come economisti e
scienziati.
Esistono diversi tipi di intellettuali, tra questi l'intellettuale militante (da Miles, soldato) che
prende parola sui fatti attuali della società ed è un'autorità pubblica sul piano socio-etico-morale che
si pone fuori dal proprio perimetro di competenza. L’intellettuale militante si propone come guida,
una sorta di eroe e punto di riferimento collettivo.
Per assumere questa posizione pubblica, sacrifica il proprio tornaconto; è livero ma anche
coraggioso e nel momento in cui prende parola è solo.
Pier Paolo Pasolini, Bourdieu e Sartre sono intellettuali di questo tipo.
Oggi i più famosi tra gli intellettuali militanti, corrono il rischio di essere spettacolizzati dai mass-
media: un esempio è Sgarbi. L’intellettuale, quindi, deve fare i conti con i mezzi di comunicazione.
Altra tipologia di intellettuale è lo specialista che si mantiene nel suo ambito del sapere.
Spesso succede che l’intellettuale militante e quello specialista coincidano in una persona (es:
Cacciari).
Oggi sono rari gli intellettuali che si esprimano sulla società ed abbiano eco in quanto i mezzi di
comunicazione non sono adatti a veicolare pensieri così complessi. Ci troviamo di fronte
all’impotenza dell’intellettuale che non può avere risonanza alle sue parole.
Sembra che non ci sia più bisogno di intellettuali militanti oggi e questi non hanno più
autorevolezza. Nella società odierna ad avere molta più importanza e a indicare come stare al
mondo sono i personaggi pubblici. Gli “influencer” sono diventati i nostri modelli di vita.
“L’intellettuale è un parassita. Deve essere mantenuto”; in cambio all’essere mantenuto, però, offre
un’interpretazione complessiva del reale.
L’INTELLETTUALE MODERNO nasce nel ‘700 grazie alla diffusione dei giornali nel
pieno dell’Illuminismo francese ed è proprio in questo periodo che nasce l’idea di intellettuale come
persona che si esprime pubblicamente su temi di attualità; inoltre, la borghesia ha bisogno di
qualcuno in grado di spiegare che bisogna fondare una società alla cui base ci sono il fare e il sapere
e il sapere di quanto sia ingiusto e assurdo l’assolutismo e le vecchie regole imposte dalla
tradizione.
È anche una questione di strategia di potere politico-sociale: abbiamo una classe- la borghesia -che
spiega che le vecchie regole andavano cambiate in favore di qualcosa di più moderno.
Prima di allora gli intellettuali dovevano mantenersi grazie a un mecenate o grazie ai signori di
Corte e ciò comportava un certo grado di censure di libertà limitata. Al contrario, nel ‘700,
l'intellettuale è più libero e può esprimere le sue idee senza dover dar conto alle sfere più alte che lo
limitavano.
Il pubblico diventa il nuovo signore; tale pubblico si raggiungeva attraverso il giornale (fu fondato
“Il Caffè” dai fratelli Verri; nome simbolico in quanto rappresenta i luoghi di ritrovo meno
formalizzati come anche i salotti delle dame di buona famiglia). Ci sono pure diverse Accademie
dove poter mettere in gioco le proprie posizioni.
A Milano, i fratelli Verri, fondano l’Accademia dei Pugni che prende questo nome poiché le
discussioni tra intellettuali tendevano a diventare molto accese e a sfociare in risse.
La misura della bontà e delle idee intellettuali non è l’azione ma il dibattito, la discussione e il
consenso che tali idee riescono a guadagnarsi.
Nel ‘700 si inizia a parlare di Repubblica delle Idee, ovvero la comunità di questi intellettuali che
si confrontano anche su temi di interesse generale e sono disposti a mettere il loro lavoro su
strumenti di comunicazione che diffondessero le loro idee a un pubblico più vasto.
L’intellettuale settecentesco inizia a diventare militante in quanto pensa a raggiungere an più ampio
raggio di persone. In questo contesto si inserisce l’Enciclopedia degli Illuministi che poteva essere
fruibile da chiunque ed era un elenco di tutto l’insieme del sapere.
Solo i borghesi avevano il livello di istruzione minima per poter comprendere le idee degli
intellettuali.
In questa fase nasce anche una nuova concezione di storia, autonoma da quella fornita
tradizionalmente dalla chiesa. La storia viene percepita come un precesso razionale, in qualche
modo controllabile, che porta sempre a un maggiore progresso fino a raggiungere il pieno sviluppo
del genere umano; viene proposta un’idea di uomo come essere perfettibile, che può lavorare su di
sé per migliorarsi sia individualmente che collettivamente.
Anche il materialismo storico deriva da questa nuova idea di storia. In questo modo, gli intellettuali
si danno un sacco di potere in quanto sono loro che hanno la capacità di comprendere che cosa è
bene e che cosa è male.
Nel ‘700 si sviluppano anche idee di tolleranza, giustizia e progresso.
Tutto questo è possibile perché in questo periodo stava sempre più emergendo la classe borghese
che aveva tutto l’interesse affinché i valori tradizionali venissero abbattuti in favore di un
movimento storico migliorativo in linea con i principi illuministi. Il ‘700 è il secolo in cui l’uomo
prende in mano il proprio destino e rifiuta l’idea di una predeterminazione divina.
Nel XVIII secolo di genera un’ambigua alleanza tra la nascente borghesia che prendeva il potere e
gli intellettuali. Si tratta di un’alleanza che avrebbe avuto breve vita in quanto tanti illuministi del
‘700 erano anche “suggeritori” dei monarchi più illuminati che rifiutavano quella nuova concezione
di storia.
Nell’800 la contraddizione di questa ambigua alleanza esplode mentre si apre quella che sarebbe
diventata una tradizionale frattura fra il potere e gli intellettuali in quanto la borghesia diventa
classe dominante e non ha più bisogno che gli intellettuali indichino quale sia il bene della società.
Non importa più accattivarsi il popolo facendo l’interesse di tutti perché ormai si piò cristallizzare
la società e controllarla; la borghesia non ha più bisogno di inseguire il sogno illuminista di un
popolo acculturato che prende parte attiva alla costruzione della vita pubblica in quanto conveniva
controllarlo, il popolo. Quindi gli intellettuali restano esclusi dal colloquio con il potere e vengono
relegati al mondo delle idee: frattura tra coloro che sanno e coloro che governano.
Questa frattura è servita a rafforzare il ruolo dell'intellettuale che si pone come giudice dell'agire
della classe borghese, è un detentore di una verità che tanto più viene ignorata dal potere tanto più si
presenta come preziosa. È proprio questo il momento in cui l'intellettuale si pone come sacerdote
che conosce le regole che possono portare al perfezionamento del genere umano.
L'intellettuale, escluso dal potere, diventa giudice del potere e diventa consigliere di chi non è
potente virgola di chi vuole cambiare la società ovvero di chi si pone sulla scia di Marx.
inizia anche una grave scissione interna degli intellettuali che lottano contro la classe sociale a cui
appartengono e coltivano un senso di colpa in quanto consumano un privilegio individuale ma, allo
stesso tempo, si scagliano contro tutti i privilegi e predicano la necessità che si instaura una società
di tipo socialista e quindi egualitaria, solidale, con una ridistribuzione della ricchezza.
L'intellettuale militante che prende parola in termini marxisti parla proprio con la propria classe
sociale: è un privilegiato che parla contro i privilegi.
Nel ‘900 diventa sistematico il fatto che l'intellettuale difende posizioni diverse da quelle del potere
costituito. All’intellettuale rimane la sola certezza di essere giudice della classe che governa; hanno
la necessità di guadagnarsi l’ascolto dell'opinione pubblica e per esprimersi pubblicamente devono
usare i mezzi di comunicazione di massa ma tali mezzi sono controllati dal potere medesimo contro
cui si si scagliano. Subito dopo la Seconda guerra mondiale si apre però un grosso vuoto di potere
politico dentro il quale gli intellettuali ritornano ad essere detentori della luce che indica la via dopo
il buio dell'epoca fascista, recuperando così l'autorevolezza che stavano a mano a mano perdendo.
La cultura diventa secondo intellettuali come Vittorini il principale strumento di progresso verso il
bene. Il 9 settembre 1945 Vittorini pubblica un articolo in cui rivendica la superiorità della cultura
su ogni altro agire umani; se si fossero ascoltati realmente gli intellettuali allora il fascismo non si
sarebbe imposto. È un esame di coscienza alla collettività e al potere. Serve una cultura militante
che sia uno strumento di azione nel mondo.
Tuttavia, l’anno successivo, il segretario Palmiro Togliatti, risponde a Vittorini che non c’è modo
che gli intellettuali si ergano autonomamente al ruolo di chi agisce in piena libertà senza dare conto
a nessuno.
Negli anni successivi, l’importanza degli intellettuali torna a deteriorarsi rapidamente e l’ultimo
rappresentante della figura dell’intellettuali militante sembra essere proprio Pier Paolo Pasolini, la
cui morte nel novembre del ’75 segna un punto di non ritorno. Viene a meno non solo la
considerazione degli intellettuali presso l’opinione pubblica ma anche la Repubblica delle idee, il
dibattito tra gli stessi intellettuali (soprattutto negli anni ’80 con la nuova ondata consumista).
Il regno del desiderio dei beni voluttuari non ha bisogno di qualcuno che faccia un esame di
coscienza al popolo in quanto diventa importante la felicità individuale. In questo nuovo contesto la
figura dell’intellettuale non ha più patria.
Perde autorevolezza non solo l’intellettuale militante, ma anche lo specialista e hanno più valore le
classifiche di vendita, le visualizzazioni e i like. È ormai sorda alle parole degli intellettuali anche
l’opinione pubblica.
Pier Paolo Pasolini è l’ultimo esempio di intellettuale che propone criteri concreti di giudizio del
mondo ed è l’ultimo che trova una tribuna si ascolto.
22/10/2021
Accattone
La Ricotta
“La Ricotta” è un cortometraggio del 1963, inserito in Ro.Go.Pa.G (come “Il pollo ruspante”),
l’opera filmica collettanea in cui hanno partecipato quattro registi.
“La ricotta" è la storia della passione di Cristo, in particolare l’oggetto è la crocifissione di Cristo.
Titolo e oggetto del film creano un certo attrito tra di loro, vediamo l’unione dell’“alto” il “basso”
Si tratta 35 minuti di cortometraggio costruito su due livelli narrativi, ovvero su una struttura a
matrioska russa di “film nel film”. Un film a colori, un film in bianco e nero.
Il film a colori è un film il cui regista è impersonato da Orson Welles. È il vero e proprio film sulla
passione di Cristo. Ci sono due scene principali a colori, che corrispondono a due opere pittoriche
di alcuni dei più famosi pittori italiani del ‘500.
Il regista esegue un film super erudito, le scene dei film sono infatti il tentativo di riprodurre,
attraverso degli attori in carne ed ossa, i due quadri. Dapprima la “Deposizione” di Rosso
Fiorentino del 1523 e poi “Il trasporto di Cristo” di Pontormo del 1526-28.
Si tratta di due pittori fiorentini che al tempo venivano definiti “manieristi” ma che oggi è il caso di
definire anticlassicisti. Si tratta di due pittori che reagiscono alla bellezza troppo raffinata di
Raffaello e del giovano Michelangelo; vanno oltre la rappresentazione realistica. Non vediamo una
rappresentazione abbellita della realtà, vediamo la rivendicazione della pittura come un valore fine a
sé stesso, come l’esercizio estetico di massimo livello.
Gli attori assomigliano anche ai personaggi (soprattutto a quelli di Pontormo).
A colori apparirà anche una natura morta di tipo caravaggesco.
L’erudizione altissima di questo film nel film, prevede anche che durante la messa in scena di una
delle pale d’altare si senta fuori campo il suggeritore che suggerisce all’attrice le battute che deve
dire. Si tratta due strofe di “Donna de paradiso” di Jacopone da Todi, una lauda di tipo teatrale che
avviene su Calvario (nome del monte sul quale Gesù è stato crocifisso), dove a parlare è la madre di
Cristo. Ne emerge che il regista sta tentando di creare qualcosa di altissimo livello culturale.
Quando non c’è la declamazione della lauda di Jacopone da Todi, troviamo un sottofondo di musica
barocca di Domenico Scarlatti, musicista del ‘700.
Il bianco e nero compare affinché sia possibile vedere ciò che succede nel “backstage”. Il
protagonista di questa parte è Giovanni detto “Stracci” (“Er Balilla” di Accattone), emblema del
sottoproletario: sempre in miseria, affamato, religioso a suo modo ma anche vitale, con
atteggiamento possibilista e positivo. È anche generoso: quando gli danno da mangiare sul set, corre
a portarlo alla sua famiglia. Essendo affamato, si traveste da donna per rimediare un secondo
cestino, che viene mangiato dal cagnolino della prima attrice del cast
Ad un certo punto, il regista (Welles) viene intervistato e tratta malissimo l’intervistatore,
definendolo un uomo “medio”. Finita l’intervista, legge una poesia di Pasolini.
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d'altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l'Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d'anagrafe,
dall'orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.
L’inizio del film avviene con due epigrafi, che provengono entrambe da due Vangeli.
Dopo le epigrafi, troviamo una premessa di Pasolini che dice che nonostante si aspetti dei giudizi
contrastanti sul film, secondo lui le storie raccontate dai vangeli siano le più belle mai create e
conferma così la sua fede. La sua religiosità è intesa come ammirazione e rispetto su una storia
comune, e non a livello spirituale.
Subito dopo, però, troviamo le comparse del film che compongono le pale ballare in modo sfrenato
a tempo di una musica di moda del tempo.
Stracci, nel film, interpreta il ruolo del ladrone buono e alla fine del corto muore.
Il film racconta la storia di Cristo, ma il vero Cristo che compie un percorso che porta alla morte
nel cortometraggio è Stracci.
Non è del tutto univoca la lettura di questa vicenda, ma noi vediamo quella più pasoliniana.
Stracci muore perché muore la classe sociale che lui incarna con l’arrivo della borghesia e non a
caso si vedono dei palazzi sullo sfondo della nuova Roma che rappresentano la borghesia che
avanza nelle campagne.
Come muore Stracci/Il sottoproletariato?
Il sottoproletariato muore portando a compimento il suo desiderio più grande in una società
consumistica, ovvero muore a causa di una grande abbuffata. Stracci, prima di essere messo in
croce per la scena finale di presentazione alla stampa, fa una grande abbuffata che porta ad una
grossa indigestione che lo porta alla successiva morte. Il sottoproletariato muore a causa di un
eccesso di consumo.
Significativo è anche il dialogo tra Stracci e l’attore che interpreta Gesù. Stracci afferma di star
bestemmiare, e Gesù gli risponde che se lo fa allora non lo porterà in paradiso. Successivamente
Gesù gli dice anche delle cose di tipo politico: gli fa notare il fatto che il partito che sostiene, la
Democrazia Cristiana, è anche quello dominante ed è quello responsabile della miseria
sottoproletaria. Il sottoproletariato non ha nessuna base politica, vota la Democrazia Cristiana
perché vede ciò come segno della sua fede.
Il rapporto tra l’intellettuale e il sottoproletariato non è così semplice.
Orson Welles non partecipa mai ai giochi del sottoproletariato, esprime sì i pensieri di Pasolini
(Welles ne è l’alter ego nel film), ma il rapporto con il popolo è diverso.
Nel film erudito i sottoproletari non riescono a sottostare alle indicazioni del regista (continuano le
risate anche durante il girato).
L’altra tipologia di personaggio che emerge è l’uomo medio, il piccolo borghese (il giornalista che
intervista il regista): emerge tutto l’odio di Pasolini che esprime nei confronti di questo nuovo ruolo
che stava diventando classe maggioritaria, è la classe ideale della nuova società consumistica che
stava nascendo.
Nell’intervista, Orson Welles denuncia l’ipocrisia del sistema mass-mediatico e le proprie
contraddizioni in quanto il datore di lavoro di entrambi è lo stesso, nessuno dei due è davvero
libero, sono entrambi limitati.
La poesia che Welles legge viene pubblicata da Garzanti nel 1964 in un volume della raccolta
“Poesia in forma di rosa”. Nel film, viene letta nella sceneggiatura di “Mamma Roma”, film di
Pasolini del 1962.
Pasolini sente che nel mondo in cui si trova e in cui vive, lui proviene dal passato: è il passato
della tradizione, della cultura e dell’arte millenaria.
Passa successivamente al presente. Si riconosce l’Io pasoliniano che adorava fare passeggiate
lunghissime nelle periferie romane. Ciò che è fondamentale per Pasolini sta venendo distrutto dalla
società borghese che avanza. Pasolini assiste al passaggio alla Dopostoria mentre le sue radici sono
ancora sepolte nel passato “medievale”: per anagrafe sta dentro la modernità, eppure per scelta
appartiene al passato. La Dopostoria è il momento nel quale, a causa del boom economico, finisce
la storia ed inizia un’enorme palude di omologazione, conformismo e fascismo capitalista.
La chiave retorica di Pasolini è l’ossimoro.
Pasolini si definisce “nato dalle viscere di una donna morta”, ossia dal passato popolaresco ormai
scomparso. Pasolini si definisce “più moderno di ogni moderno” perché cavalca l’onda della
modernità, non si chiude “a riccio”.
Pasolini si aggira, infine, alla ricerca di “fratelli che stanno morendo”, solito riferimento alla
scomparsa del sottoproletariato da lui amato.
03/11/2021
Il mondo dell’industria è il mondo dell’anonimato, un mondo in cui non c’è la possibilità di una
reale espressività ricca di sfumature come quella artistica. Lo slogan è l’unica forma di espressione,
ma si tratta di finta espressività in quanto è l’emblema della lingua tecnica che sostituisce quella
umanistica. Viene a meno la tradizionalità e si impone la tecnicità omologante.
“Sembra folle, ma un recente slogan, quello divenuto fulmineamente celebre, dei «jeans Jesus»: «Non avrai
altri Jeans all'infuori di me», si pone come un fatto nuovo, una eccezione nel canone fisso dello slogan,
rivelandone una possibilità espressiva imprevista.”
Lo slogan analizzato da Pasolini sfrutta una massima religiosa. Pasolini coglie l’evidente condotta
blasfema che troviamo alla base dello slogan, chiamando in causa il giornale del cattolicesimo,
“Osservatore romano” (un editorialista aveva infatti denunciato la blasfemia dello slogan.
Fino a questo momento, l’indignazione cattolica avrebbe portato a una denuncia e il potere sarebbe
già stato al lavoro per censurare favorevolmente alla Chiesa. Lo Stato però veniva meno allo spirito
di facciata che si autodefiniva “democratico-liberale” con la censura.
C’era un doppio legame di malafede tra Chiesa e Stato. Fino al 1965 la Chiesa era uno strumento
fondamentale per lo stato: la fede aveva svolto una funzione coesiva dentro la società, i valori
religiosi erano spesso valori di altissimo profilo ma in fin dei conti erano valori che servivano ad
evitare che la popolazione credente si opponesse al potere (accento posto sul futuro nell’aldilà, sul
buon agire). La Chiesa dava allo Stato una forma di controllo sociale che permette allo stato di
esistere e chiedeva in cambio di essere protetta limitando i comportamenti che stavano al di fuori
della morale cattolica. Si trattava, però, di una sorta di “patto con il diavolo” in quanto la borghesia
è quanto di ciò più lontano possibile dai valori della Chiesa.
“Il fascismo era una bestemmia, ma non minava all'interno la Chiesa, perché esso era una falsa nuova
ideologia”
Secondo Pasolini, inoltre, il fascismo storico non aveva portato nulla di nuovo o diverso all’Italia e
ad essere davvero incompatibile con la Chiesa era la società neocapitalista.
La borghesia rappresentava un nuovo spirito che dapprima sarebbe stato in competizione con la
religione in quanto si chiedeva alla popolazione di assumere comportamenti anticristiani e avrebbe
salvato soltanto la gerarchia ecclesiastica che viene sempre riconosciuta.
Lo Stato Borghese sarebbe finito col prendere il posto della religione imponendo una visione di
paradiso delle merci che diventa uno strumento di controllo del popolo.
Effettivamente, è ciò che è successo: il numero di fedeli è rapidamente declinato e nella società
odierna la Chiesa è quasi nemica dei nuovi valori consumistici e edonistici.
Per la religione e per la Chiesa oggi non c’è più spazio; le persone sono consumatori che lavorano
per trovare felicità in oggetti voluttuari in un circolo vizioso senza fine.
Lo slogan blasfemo che Pasolini analizza è significativo di come la borghesia abbia liquidato i
valori religiosi prima e la stessa religione dopo. È un atteggiamento di anti-religionismo
involontario, laico, in un nuovo contesto in cui la Chiesa non ha più potere ma resta soltanto con
funzione folcloristica.
Lo spirito dello slogan è lo spirito del neocapitalismo; nessuno ha ascoltato la denuncia della morale
cattolica e nessuno ha preso azione: il jeans ha vinto su Gesù, il consumo ha vinto sulla religione.
Pasolini ha uno spirito religioso ed è molto affezionato alla religione declinata in termini artistici,
culturali e popolari. Era un cattolico non credente, un’altra delle sue tante contraddizioni.
SVILUPPO E PROGRESSO pag. 175
Si tratta di un testo inedito in cui Pasolini teorizza la differenza tra il termine “Sviluppo” e il
termine “Progresso”.
“Ci sono due parole che ritornano frequentemente nei nostri discorsi: anzi, sono le parole chiave dei nostri
discorsi. Queste due parole sono «sviluppo» e «progresso». Sono due sinonimi? … Bisogna assolutamente
chiarire il senso di queste due parole e il loro rapporto, se vogliamo capirci in una discussione che riguarda
molto da vicino la nostra vita anche quotidiana e fisica.”
“la parola «sviluppo» ha oggi una rete di riferimenti che riguardano un contesto indubbiamente di
«destra». […] a volere lo «sviluppo» in tal senso è chi produce; sono cioè gli industriali. […] che
producono beni superflui. […] I consumatori di beni superflui, sono da parte loro, irrazionalmente e
inconsapevolmente d'accordo nel volere lo «sviluppo» (questo «sviluppo»). Per essi significa promozione
sociale e liberazione, con conseguente abiura dei valori culturali che avevano loro fornito i modelli di
«poveri», di «lavoratori», di «risparmiatori», di «soldati», di «credenti». […]”
Lo sviluppo economico è voluto dalla classe al potere e pone come elemento chiave i beni
voluttuari la cui produzione crea promozione sociale e liberazione dalla povertà. Nel mondo
tradizionale precedente al boom economico, il popolo era povero, sobrio, risparmiatore, credente.
Abbiamo un rifiuto dei valori tradizionali, si impongono i nuovi valori del consumo (es. Pollo
ruspante). Lo sviluppo è negativo, meramente consumistico. È lo strumento attraverso il quale la
classe dominante industriale pone nella società nuovi valori che fanno gioco a loro stessi come
produttori di certi beni, grazie ai quali possono arricchirsi.
“[…] Dunque: la Destra vuole lo «sviluppo» (per la semplice ragione che lo fa); la Sinistra vuole il
«progresso». Qui la Sinistra che vuole il «progresso», nel caso che accetti lo «sviluppo», deve accettare
proprio questo «sviluppo»: lo sviluppo dell'espansione economica e tecnologica borghese.”
Il progresso, invece, è voluto dalla sinistra. È voluto da una società che non ha valori gerarchici. La
sinistra che accetta lo sviluppo è una sinistra che viene meno a sé stessa.
“Un lavoratore vive nella coscienza l'ideologia marxista, e di conseguenza, tra gli altri suoi valori, vive
nella coscienza l'idea di «progresso»; mentre, contemporaneamente, egli vive, nell'esistenza, l'ideologia
consumistica, e di conseguenza, a fortiori, i valori dello «sviluppo». Il lavoratore è dunque dissociato.”
Nella coscienza di un lavoratore vive il progresso ma nel suo agire quotidiano accoglie i valori dello
sviluppo; anche il potere clerico-fascista è scisso e dissociato: da una parte “Jesus” e dall’altra i
“blue-jeans Jesus” ovvero da una parte un’antica difesa della religione e dall’altra una borghesia
consumistica che è antitetica rispetto ai valori religiosi. La gerarchia vaticana ha capito che il Jesus
dei jeans si stava imponendo.
“Accattone” e “La ricotta” erano due inni di amore al popolo che stava venendo meno. Dentro agli
“Scritti corsari” diventa dominante la distruzione dell’Italia popolare. Pasolini recensisce “Un po’ di
febbre” di Sandro Penna, serie di racconti degli anni ’40. Pasolini scrive questa recensione per
raccontare la bellezza dell’Italia sotto il Fascismo.
“Per esempio, c'è il modello che presiede a un certo edonismo interclassista, il quale impone ai giovani che
incoscientemente lo imitano, di adeguarsi nel comportamento, nel vestire, nelle scarpe, nel modo di
pettinarsi o di sorridere, nell'agire o nel gestire a ciò che vedono nella pubblicità dei grandi prodotti
industriali: pubblicità che si riferisce, quasi razzisticamente, al modo di vita piccolo-borghese.”
La religione del successo, del divertirsi, del tempo libero non è cultura popolare, bensì borghese
(declinata in termini piccolo-borghese) consumista. Il modello grande-borghese fa venire
“l’acquolina in bocca” al piccolo-borghese, si ha un’omologazione culturale di gusti e desideri che
viene inconsciamente assorbita. Il modello dell’edonismo interclassista presuppone il
raggiungimento della felicità inseguita attraverso il consumo e il bene voluttuario
Sentiamo l’eco di Bourdieu: i contadini che venivano bocciati a scuola non riuscivano a realizzare i
modelli della classe dominante e ciò generava in loro ansia e frustrazione.
“Oppure, c'è il modello della falsa tolleranza, della permissività. Nelle grandi città e nelle campagne del
centro-sud vigeva ancora un certo tipo di morale popolare, piuttosto libero, certo, ma con tabù che erano
suoi e non della borghesia, non l'ipocrisia, ad esempio, ma semplicemente una sorta di codice a cui tutto il
popolo si atteneva.”
Pasolini parla del modello della falsa tolleranza che fa riferimento ai tabù sociali e alle condizioni
dentro alle quali però c’era un grande libertà (→Decameron di Boccaccio).
Ad un certo punto il potere ha avuto bisogno di un diverso tipo di suddito che fosse in prima istanza
un consumatore che vive in una libertà fittizia. Pasolini definisce “libertà ipocrita” del mondo
borghese sul piano dei costumi sessuali. Alla borghesia piace soltanto perché fa parte del ritratto del
perfetto consumatore.
“O infine un terzo modello, quello che io chiamo dell'afasia, della perdita della capacità linguistica. […]
Tutta l'Italia centro-meridionale aveva proprie tradizioni regionali, o cittadine, di una lingua viva, di un
dialetto che era rigenerato da continue invenzioni, e all'interno di questo dialetto, di gerghi ricchi di
invenzioni quasi poetiche: a cui contribuivano tutti, giorno per giorno, ogni serata nasceva una battuta
nuova, una spiritosaggine, una parola imprevista; c'era una meravigliosa vitalità linguistica. Il modello
messo ora lì dalla classe dominante li ha bloccati linguisticamente: si è caduti in una specie di nevrosi
afasica; o si parla una lingua finta, che non conosce difficoltà e resistenze.”
L’afasia è l’assenza di parola. L’imposizione dall’alto del modello borghese ha portato in certe zone
all’afasia.
“Questo solo per dare un breve riassunto della mia visione infernale, che purtroppo io vivo
esistenzialmente. Perché questa tragedia in almeno due terzi d'Italia? Perché questo genocidio dovuto
all'acculturazione imposta subdolamente dalle classi dominanti? Ma perché la classe dominante ha scisso
nettamente «progresso» e «sviluppo». Ad essa interessa solo lo sviluppo, perché solo da lì trae i suoi
profitti. Bisogna farla una buona vota una distinzione drastica tra i due termini: «progresso» e «sviluppo».
Si può concepire uno sviluppo senza progresso, cosa mostruosa che è quella che viviamo in circa due terzi
d'Italia; ma in fondo si può concepire anche un progresso senza sviluppo, come accadrebbe se in certe zone
contadine si applicassero nuovi modi di vita culturale e civile anche senza, o con un minimo di sviluppo
materiale. Quello che occorre - ed è qui a mio parere il ruolo del partito comunista e degli intellettuali
progressisti - è prendere coscienza di questa dissociazione atroce e renderne coscienti le masse popolari
perché appunto essa scompaia, e sviluppo e progresso coincidano.”
Pasolini afferma che i partiti di sinistra devono aborrire lo sviluppo economico che distrugge tutto
ciò che non è sviluppo economico e devono migliorare le condizioni di vita degli italiani ma non a
prezzo di vendere sé stessi e il proprio passato.
Pasolini, per fascismo tradizionale, intende sia il fascismo mussoliniano (1922-1942) sia quello
della democrazia cristiana (1945-1965), non c’è soluzione di continuità. Per lui lo “stacco” storico
sociale politico è la fine del boom economico.
“[…] che si fondava sul nazionalismo o sul clericalismo, vecchi ideali, naturalmente falsi, ma in realtà si
sta assestando una forma di fascismo completamente nuova e ancora più pericolosa. Mi spiego meglio. È in
corso nel nostro paese, come ho detto, una sostituzione di valori e di modelli, sulla quale hanno avuto
grande peso i mezzi di comunicazione di massa e in primo luogo la televisione. Con questo non sostengo
affatto che tali mezzi siano in sé negativi: sono anzi d'accordo che potrebbero costituire un grande
strumento di progresso culturale; ma finora sono stati, così come li hanno usati, un mezzo di spaventoso
regresso, di sviluppo appunto senza progresso, di genocidio culturale per due terzi almeno degli italiani.”
Se la cultura popolare viene spazzata via dai programmi televisivi, questo è genocidio culturale.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che
cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che
non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e
frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare
l'arbitrarietà, la follia e il mistero.
L’intellettuale sa ciò che succede ma non ha le prove per poterlo dimostrare e non ha nemmeno il
potere politico necessario per fare la sua denuncia.
Il potere politico e il potere informativo (politici e giornalisti), sostiene Pasolini, hanno sempre una
doppia morale: ci sono sempre cose che sanno ma che non dicono. Questi personaggi, essenziali
nella gestione della collettività, dovrebbero avere la verità come faro e invece, nella realtà, sono
asserviti alla convenienza e al mantenimento del potere contro gli interessi dei cittadini.
L’uomo politico di governo, in uno stato liberale e borghese, è al potere non per fare gli interessi del
popolo ma per difendere quelli della grande borghesia: politica e borghesia (economia) in questo
senso sono l’uno il mandante dell’altro.
Lo stesso vale per i giornalisti che dovrebbero avere il dovere di informare e dire la verità ma che
sono a loro volta asserviti alla classe dominante perché è proprio la classe dominante ad essere
proprietaria degli enti per i quali i giornalisti lavorano.
Quindi una delle questioni che più sta a cuore a Pasolini è il genocidio, ovvero la sparizione del
millenario mondo popolare. Questa questione è ben visibile da un filmato del febbraio 1974, data
che rientra tra quelle in cui Pasolini stava scrivendo gli Scritti Corsari: ci troviamo a Sabaudia, costa
del Lazio a sud di Roma; Pasolini ribadisce il fatto che a Sabaudia- città fondata ex-novo dal
fascismo in seguito alla bonificazione delle paludi che all’epoca pullulavano ancora -tutto sembra
essere stato costruito secondo uno spirito popolare (“a misura d’uomo”) e pare costruita da un
architetto illuminato che progettato spazi umanamente abitabili e vivibili. Inoltre, Pasolini associa
Sabaudia alla pittura metafisica di Giorgio de Chirico.
Tale filmato è un buon viatico per l’articolo delle lucciole del febbraio 1975.
ARTICOLO DELLE LUCCIOLE pag.128
Nella prima parte dell’articolo, l’autore spiega la sostanziale identità fra fascismo mussoliniano e
fascismo democristiano; non c’è una detta distinzione tra la monarchia di Mussolini e la successiva
repubblica.
“Una decina di anni fa, è successo «qualcosa». «Qualcosa» che non c'era e non era prevedibile non solo ai
tempi del «Politecnico», ma nemmeno un anno prima che accadesse (o addirittura, come vedremo, mentre
accadeva).”
Si può vedere in questo articolo il non grande aggiornamento di Pasolini: si vedeva già chiaramente
da anni che il consumismo capitalistico avrebbe presto invaso anche l’Italia, mentre per Pasolini era
stato un improvviso risveglio dalla vita “popolare” che tanto amava.
Pasolini credeva che la democrazia capitalistico-consumista fosse anche peggio del fascismo stesso,
posizione che tutt’oggi risulterebbe estremamente provocatoria e inaccettata.
Pasolini torna anche qui a definirsi letterato e in quanto tale non usa un gergo specifico ma inventa
una metafora sintetica per poter fare un discorso di carattere politico e ideologico.
Per Pasolini la prima fase del regime fascista democristiano va dal 1945 (fine della guerra) al 1965
(la scomparsa delle lucciole). La seconda fase invece va dal 1965 al 1975.
Non c’è uno stacco tra monarchia e repubblica.
Pasolini cita il “Politecnico”, un giornale che prima usciva una volta a settimana e poi una volta al
mese che ebbe vita tra il settembre del ‘45 e la metà del ‘47. Il direttore era Elio Vittorini e uno dei
principali collaboratori era Franco Fortini di cui si cita un articolo uscito altrove nel ‘74.
In questi anni il “Politecnico” era un punto di riferimento intellettuale, pagato e sostenuto dal PCI
che però, dopo due anni, smette di fornire tale supporto. In un testo uscito proprio sul politecnico si
parlava di fascismo e si ragionava sul fatto che non ce ne fosse solo uno, ma diversi anche se
sicuramente né Vittorini né Fortini portarono il discorso così avanti come invece ha fatto Pasolini.
Gli elementi di continuità tra fascismo e democrazia sono diversi: innanzi tutto abbiamo la mancata
epurazione (lo Stato era ancora saturo a livello amministrativo di rappresentanti ancora fortemente
legati al partito fascista), poi abbiamo la continuità dei codici (sia livello civile che penale) che non
sono stati riformati dopo la fine del fascismo, la violenza poliziesca che è rimasta tale e quale e il
disprezzo per la Costituzione che era molto progressista e innovativa oltre che molto a favore delle
classi subalterne e di fatto molti articoli per diversi anni non sono stati applicati.
L’antifascismo ostentato dai democristiani, quindi, era spudoratamente formale.
In una fase iniziale, il nuovo governo aveva bisogno della religione e del Vaticano per la gestione
del potere in quanto la coesione del popolo si ottiene su via culturale e il principale collante
culturale dell’Italia, prima del boom economico, era la religione cattolica. Stava alla Chiesa
generare quel collante culturale di abitudini e comportamenti che servivano al potere per tenere
coeso e “tranquillo” il popolo. Tale gestione del Vaticano era possibile solo se totalmente fondata su
un regime repressivo in quanto i valori dominanti erano sempre quelli che determinavano la
coesione culturale sotto Mussolini: Chiesa, patria e famiglia. Questi elementi servivano a
controllare il popolo. Altri valori erano la disciplina, l’obbedienza, l’ordine, il risparmio e la
moralità dei costumi.
Sia Mussolini che De Gasperi avevano questi valori. Pasolini distingue la cornice fascista del
popolo: i valori della povertà, religione e famiglia sono anche i valori del popolo che lui tanto ama.
Questi valori non sono un male in sé in quanto sono intrinsechi dell’umanità, provenienti dal
passato e tramandati di generazione in generazione ma nel momento in cui vengono imposti
retoricamente dall’alto, questi valori diventano rozzi, repressivi e conformistici.
Non siamo più di fronte a “tempi nuovi”, piccoli cambiamenti, ma siamo di fronte a una nuova
epoca della storia umana: è una rivoluzione antropologica, è un cambiamento che si misura in
migliaia di anni.
Nell’articolo si accenna anche all’irreversibile degradazione dei giovani, un tema molto importante
ripreso ampiamente nelle lettere luterane.
Nel periodo fascista i comportamenti delle persone erano completamente dissociati dalla coscienza,
erano una mera maschera.
Poi, nell’articolo, Pasolini fa uno zoom sulla democrazia cristiana e il suo comportamento di fronte
alle novità capitalistiche: non ha fatto niente, perché niente ha capito.
Il potere consumista non ha più bisogno di controllare il popolo attraverso la religione. La nuova
condotta è guidata dal marketing, da una nuova ideologia che sostituisce Dio con la felicità terrena e
materiale.
Perché secondo Pasolini il nuovo potere democratico post 1965, più che totalitario è
violentemente totalizzante? A essere colonizzati non sono più i comportamenti esteriori del popolo
ma è la sua coscienza, l’inconscio: il popolo si sente libero di fare ciò che fa.
I dirigenti democristiani sono rimasti al potere ma non hanno assolutamente capito costa stava
succedendo. Ciò si collega al discorso delle riforme mancate in un contesto in cui l’Italia stava
subendo una rivoluzione su ogni livello eccetto che, appunto, il piano politico.
La politica non è riuscita a mettere in campo quei contrappesi politico-sociali che servivano ad
arginare la violenta valanga economica che stava radicalmente cambiando il paese.
INTRODUZIONE DELLA “PREVISIONE DELLA VITTORIA AL «REFERENDUM»
pag.29
Nel 1970, con una legge dello Stato, viene reso possibile il divorzio in Italia. Subito dopo, però,
parte una raccolta firme per abrogare la legge arrivando, nel 1974, al referendum, quello strumento
attraverso il quale si chiede l’opinione del popolo.
Pasolini afferma che sarà la prima elezione che la Democrazia Cristiana perderà poiché i valori
della chiesa e della famiglia stanno venendo meno; sarà la prova politica che l’Italietta contadina,
povera, conservatrice e tradizionalista non esiste più. I dirigenti democristiani non hanno capita in
che direzione la società sta andato e, infatti, il referendum non passò e la legge del divorzio rimase
vigente.
ACCULTURAZIONE E ACCULTURAZIONE pag. 22
Pasolini afferma che mentre gli uomini della Democrazia Cristiana non si rendevano conto di cosa
stava succedendo, il Paese stava cambiando volto. Pasolini cerca di spiegare quali sono stati gli
strumenti attraverso i quali il potere economico ha mutato il volto del paese, unificandolo.
Due sono gli elementi fondamentali:
1. Le infrastrutture, in particolare stradali. La motorizzazione ha ristretto il paese, aumentano
gli spostamenti, aumenta la comunicazione e aumenta la possibilità di vedere gli altri.
2. I mezzi di comunicazione, lo spostamento di informazione, in particolare la televisione.
L’unificazione italiana, sostiene Pasolini, l’hanno fatta i presentatori televisivi e la
televisione stessa. Il grande collante degli italiani è quello strumento che aveva tratteggiato
qual era l’italiano da parlare, qual erano i bisogni e i valori da avere.
10/11/2021
Pasolini non scrive nascondendosi, mette la propria immagine tra le righe. Si tratta della classica
immagine di ero-martire; gli viene mossa l’accusa (che egli stesso anticipa) di star esaltando la
napoletanità del popolo, il fatto che sia rimasto un popolo povero.
Napoli è una delle pochissime città occidentali dove nel centro storico vive ancora il popolo
(famose le viuzze che tagliano la città), sulle strade si aprono le porte d’ingresso dalle quale vedere
gli interni delle case. I bassi napoletani sono gli appartamenti al piano terra che danno direttamente
sulla strada.
Coi napoletani non ho ritegno fisico, perché essi, innocentemente, non ce l’hanno con me.
Altro elemento della sessualità pasoliniana è l’innocenza dei corpi, essere esplicitamente sessuali
ma con naturalezza e innocenza.
Lo scambio di sapere è dunque assolutamente naturale. Io con un napoletano posso semplicemente dire quel
che so, perché ho, per il suo sapere, un’idea piena di rispetto quasi mitico, e comunque pieno di allegria e di
naturale affetto. Considero anche l’imbroglio uno scambio di sapere. Un giorno mi sono accorto che un
napoletano, durante un’effusione di affetto, mi stava sfilando il portafoglio: gliel’ho fatto notare, e il nostro
affetto è cresciuto.
Racconta un episodio che gli è capitato dove un ragazzo stava tentando di derubarlo, spiegando che
lui non se l’è presa a male perché da una parte era doveroso che lo derubasse ma dall’altra era anche
doveroso che lui lo rimproverasse per ciò.
Napoli è ancora l’ultima metropoli plebea, l’ultimo grande villaggio (e per di più con tradizioni culturali
non strettamente italiane): questo fatto generale e storico livella fisicamente e intellettualmente le classi
sociali. La vitalità è sempre fonte di affetto e ingenuità. A Napoli sono pieni di vitalità sia il ragazzo povero
che il ragazzo borghese.
Pasolini parla di un luogo altro rispetto alla realtà della società che ha intorno, lui si sente
condannato dagli altri, ma anche lui stesso sembra rivendicare questa posizione. Ostenta la
condanna in quanto diverso, ma riesce a fare di quella condanna un punto di forza. Pasolini
rivendica da quel “ghetto” (omosessualità) la possibilità di avere esperienza diretta del popolo, e
quindi vedere meglio quello che gli intellettuali ignorano→ reale condizione del popolo.
I democratici italiani si sentono in grado di comprendere il movimento storico. Alla base di ciò si
trova l’idea di un progresso continuo. Pasolini, invece, afferma che la società sta regredendo.
Io no, invece, Gennariello. Ricorda che io, tuo maestro, non credo in questa storia e in questo progresso.
Non è vero che comunque, si vada avanti. Assai spesso sia l’individuo che le società regrediscono o
peggiorano. In tal caso la trasformazione non deve essere accettata: la sua «accettazione realistica» è in
realtà una colpevole manovra per tranquillizzare la propria coscienza e tirare avanti. È cioè il contrario di
un ragionamento, anche se spesso, linguisticamente, ha l’aria di un ragionamento .
L’intellettuale progressista che non vede la negatività dello sviluppo storico sta facendo finta con sé
stesso che tutto vada bene perché non si deve mettere in una situazione conflittuale con la realtà.
La regressione e il peggioramento non vanno accettati: magari con indignazione o con rabbia, che,
contrariamente all’apparenza, sono, nel caso specifico, atti profondamente razionali. Bisogna avere la forza
della critica totale, del rifiuto, della denuncia disperata e inutile.
Epigrafe pasoliniana. Bisogna avere il coraggio di essere diversi, forza di critica totale.
Chi accetta realisticamente una trasformazione che è regresso e degradazione, vuol dire che non ama chi
subisce tale regresso e tale degradazione, cioè gli uomini in carne e ossa che lo circondano. Chi invece
protesta con tutta la sua forza, anche sentimentale, contro il regresso e la degradazione, vuol dire che ama
quegli uomini in carne e ossa. Amore che io ho la disgrazia di sentire, e che spero di comunicare anche a te.
Dunque se fossi andato nello Yemen in quanto letterato, sarei tornato con un’idea dello Yemen
completamente diversa da quella che ho essendoci andato in quanto regista. Non so quale delle due sia la
più vera.
Pasolini finge, sa con certezza sia quella del regista. Poteva ritornare come letterato con una sorta di
idillio, in cui le tradizioni di vita antiche si ripetono all’infinito anche nel presente. In quanto regista
ha visto invece, in mezzo a tutto questo, la presenza «espressiva», orribile, della modernità: lo
sviluppo capitalistico arriva anche in Yemen. Gli yemeniti devono rinunciare alla loro cultura e ai
loro modi di vivere per far loro lo sviluppo.
Il fatto che esso richiede un’abiura da parte degli yemeniti pare agli speculatori tedeschi e italiani qualcosa
di perfettamente naturale: gli yemeniti devono essere del tutto consenzienti a proposito del loro genocidio:
culturale e fisico, anche se non necessariamente mortale, come nei lager.
Genocidio fisico si intende cambiamento talmente profondo che diventa anche culturale (come ci si
comporta, ci si veste…).
In questi ultimi anni mi son convinto che la povertà e l’arretratezza non sono affatto il male peggiore. Su
questo ci eravamo tutti sbagliati. Le cose moderne introdotte dal capitalismo nello Yemen, oltre ad aver reso
gli yemeniti fisicamente dei pagliacci, li hanno resi anche molto più infelici .
Per Pasolini “si stava meglio quando si stava peggio”. Gli yemeniti non potevano avere prodotti
stranieri, ma erano molto più felici. Possedere certi oggetti significava riceverli da un sistema
economico che colonizza luogo e menti di chi abita quel luogo cambiandoli radicalmente nella loro
cultura e nelle loro usanze, intrinseche in ciascuno oltreché nell’intera società.
Gennariello non ha, se non si ricostruisce un bagaglio che proviene dal passato, niente da opporre ai
modelli del presente. La cultura ti fa accettare certe cose come naturali, perché conosci solo quelle.
Il linguaggio delle cose è un linguaggio che diventa direttamente ideologia senza nessuna
mediazione, ideologia che colonizza l’inconscio, settore impossibile da scalfire. Come maestro,
Pasolini parla attraverso il piano della razionalità. Scrive il trattato pedagogico perché vuole fornire
un bagaglio culturale per difendersi contro l’assedio della modernità del presente.
SIAMO DUE ESTRANEI: LO DICONO LE TAZZE DA TE’ pag.54
Quindi, nell’ambito del linguaggio delle cose, è un vero abisso che ci divide: ossia uno dei più profondi salti
di generazione che la storia ricordi. Ciò che le cose col loro linguaggio hanno insegnato a me è
assolutamente diverso da ciò che le cose col loro linguaggio hanno insegnato a te. Sono cambiate sono le
cose stesse. E sono cambiate in modo radicale. Tu mi dirai: le cose sempre cambiano. «’O munno cagna». È
vero. Il mondo ha eterni, inesauribili cambiamenti. Ogni qualche millennio, però, succede la fine del mondo.
E allora il cambiamento è, appunto, totale. Ed è una fine del mondo che è accaduta tra me, cinquantenne, e
te, quindicenne.
La loro misteriosa qualità era quella dell’artigianato. Fino al Cinquanta, fino ai primi anni Sessanta è stato
così. Le cose erano ancora cose fatte o confezionate da mani umane: pazienti mani antiche di falegnami, di
sarti, di tappezzieri, di maiolicari. Ed erano cose con una destinazione umana, cioè personale. Poi
l’artigianato, o il suo spirito, è finito di colpo. Proprio mentre hai cominciato a vivere tu. Da quando tu sei
nato, quei modelli umani e quei valori antichi non son serviti più al potere: e perché? Perché è cambiato
quantitativamente il modo di produzione delle cose. La verità che dobbiamo dirci è questa: la nuova
produzione delle cose, cioè il cambiamento delle cose, dà a te un insegnamento originario e profondo che io
non posso comprendere (anche perché non lo voglio). E ciò implica una estraneità tra noi due che non è
solo quella che per secoli e millenni ha diviso i padri dai figli.
Nel linguaggio delle cose vivono un abisso profondo, come separazione fra due generazioni. Siamo
stati invasi da una quantità tutta nuova di cose che prima non c’erano. Noi non comunichiamo
perché siamo stati educati in modi totalmente differenti.
Prima di abbandonare il capitolo sul «linguaggio delle cose» (che son sicuro ti avrà lasciato vagamente
scontento, ostile, e magari un po’ «scocciato») voglio darti una serie di esempi che ti faranno capire un po’
meglio cosa ho voluto dire con questo mio esordio pedagogico misterioso. Se io alla tua età (e anche molto
dopo) camminavo per la periferia di una città (Bologna, Roma, Napoli...), ciò che quella periferia mi diceva
«in suo latino» era: qui abitano i poveri e la vita che vi si svolge è povera. Ma i poveri sono operai. E gli
operai sono diversi da voi borghesi. Essi quindi vogliono un futuro diverso. Ma il futuro è lento a venire.
Perciò il loro domani – vissuto in questa periferia da loro, e da voi contemplato – assomiglia immensamente
all’oggi. È un oggi che si ripete. I figli hanno assicurata un’esistenza simile a quella dei padri. Essi sono
anzi destinati a ripetere e reincarnare i padri. Tutto ciò non ferisce il passato, non lacera i suoi valori e i
suoi modelli. L’urbanesimo è ancora contadino. Il mondo operaio è fisicamente contadino: e la sua
tradizione antropologica recente non è trasgressiva. Il paesaggio può contenere questa nuova forma di vita
(bidonville, casupole, palazzoni) perché il suo spirito è identico a quello dei villaggi, dei casolari. E,
appunto, la rivoluzione operaia ha questo «spirito».
Gli operai sono appena diventati tali, erano contadini fino alla generazione precedente. I
cambiamenti sono sempre avvenuti ma non erano né radicali né rivoluzionanti.
Se invece tu ora cammini per una periferia, sempre «in suo latino» tale periferia ti dirà: «Qui non c’è più
spirito popolare». Contadini e operai sono «altrove», anche se materialmente abitano ancora qui.
Le bidonville (grazie a Dio, certamente) son quasi sparite. Sono invece enormemente cresciuti i «centri» di
palazzoni. Di un loro amalgama col mondo antico o contadino non si può parlare più. Le immondizie sono
uno spaventoso corpo estraneo. I fiumiciattoli e i canali sono terrificanti. Il diritto dei poveri a un’esistenza
migliore ha una contropartita che ha finito col degradarla. Il futuro è imminente e apocalittico. I figli sono
strappati alla somiglianza coi padri e proiettati verso un domani che, pur conservando i problemi e la
miseria dell’oggi, non può che esserne qualitativamente del tutto diverso .
L’uscita dalla povertà ha avuto un prezzo tale che ha degradato l’uscita stessa dalla povertà.
Proseguire la vita del padre (es. piano professionale) è un insulto.
Io, dunque, dalla realtà fisica della periferia ero educato alla certezza, a un amore profondo, sicuro e
insostituibile. Tu invece sei educato all’incertezza, a una mancanza d’amore fatta di una falsa certezza
crudele e impietosa.
Io abiuro dalla Trilogia della vita, benché non mi penta di averla fatta. Non posso infatti negare la sincerità
e la necessità che mi hanno spinto alla rappresentazione dei corpi e del loro simbolo culminante, il sesso.
Tale sincerità e necessità hanno diverse giustificazioni storiche e ideologiche.
Prima di tutto esse si inseriscono in quella lotta per la democratizzazione del «diritto a esprimersi» e per la
liberalizzazione sessuale, che erano due momenti fondamentali della tensione progressista degli anni
Cinquanta e Sessanta.
Quei film si inseriscono nel filone democratico degli anni Cinquanta e Sessanta.
In secondo luogo, nella prima fase della crisi culturale e antropologica cominciata verso la fine degli anni
Sessanta – in cui cominciava a trionfare l’irrealtà della sottocultura dei «mass-media» e quindi della
comunicazione di massa – l’ultimo baluardo della realtà parevano essere gli «innocenti» corpi con
l’arcaica, fosca, vitale violenza dei loro organi sessuali .
Pasolini afferma di aver fatto quei film in opposizione alla società televisiva e consumista che si
stava imponendo. Di fronte alla brutalità di quel regime dittatoriale, che ci dettava i comportamenti
piccolo borghesi consumisti perbenisti, a Pasolini sembrava rivoluzionario esaltare quei corpi
com’erano stati vissuti e gestiti in precedenza.
Infine, la rappresentazione dell’eros, visto in un ambito umano appena superato dalla storia, ma ancora
fisicamente presente (a Napoli, nel Medio Oriente) era qualcosa che affascinava me personalmente, in
quanto singolo autore e uomo. Ora tutto si è rovesciato.
Primo: la lotta progressista per la democratizzazione espressiva e per la liberalizzazione sessuale è stata
brutalmente superata e vanificata dalla decisione del potere consumistico di concedere una vasta (quanto
falsa) tolleranza.
La nudità e i riferimenti al sesso non sono più elementi di rottura rispetto allo status quo; è il
sistema consumistico ad aver superato l’uso del corpo come elemento di rottura. I film che
ostentano nudità ora rappresentano una banalissima lotta di retroguardia.
Secondo: anche la «realtà» dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere
consumistico: anzi, tale violenza sui corpi è diventato il dato più macroscopico della nuova epoca
umana.
Con i “jeans Jesus”, ad esempio, la gerarchia cattolica non è riuscita a togliere le pubblicità; il
potere consumistico ha fatto ormai di proprio uso i riferimenti sessuali.
Terzo: le vite sessuali private (come la mia) hanno subìto il trauma sia della falsa tolleranza che
della degradazione corporea, e ciò che nelle fantasie sessuali era dolore e gioia, è divenuto suicida
delusione, informe accidia.
Pasolini riconosce che il potere ha espresso una falsa tolleranza nei confronti di tutte le abitudini
sessuali, ma per l’appunto in quanto tolleranza non può che essere una falsa fine
dell’emarginazione. Il fatto che le vite sessuali private come quella di omosessuale di Pasolini il
potere le abbia rese ammissibili, ha fatto sì che essi si siano sentiti finalmente accolti. Ma la
tolleranza è ancora peggio della persecuzione, perché accoglie apparentemente ma lascia nel ghetto
mentale della diversità. La tolleranza ha tolto il dolore e la gioia delle persecuzioni precedenti e ha
portato una sorta di informe accidia.
Quanto a me – occupato a rigenerarmi dal buio insano del laboratorio di doppiaggio – ho in mano
«L’Espresso». L’ho letto quasi tutto, come fosse un libro.
Dieci anni fa amavo questa folla; oggi essa mi disgusta. E mi disgustano soprattutto i giovani (con un
dolore e una partecipazione che finiscono poi col vanificare il disgusto); questi giovani imbecilli e
presuntuosi, convinti di essere sazi di tutto ciò che la nuova società offre loro: anzi, di essere, di ciò, esempi
quasi venerabili. E io sono qui, solo, inerme, gettato in mezzo a questa folla, irreparabilmente mescolato ad
essa, alla sua vita che mostra tutta la sua «qualità» come in un laboratorio.
La spiaggia estiva frequentata tipicamente dal popolo è l’emblema di ciò che è successo al popolo.
Pasolini è senza forza e capacità d’agire.
Niente mi ripara, niente mi difende. Io stesso ho scelto questa situazione esistenziale tanti anni fa,
nell’epoca precedente a questa, ed ora mi ci trovo per inerzia: perché le passioni sono senza soluzioni e
senza alternative. D’altra parte dove fisicamente vivere?
Pasolini continua per inerzia e per antica abitudine a cercare il popolo, non può far niente se trova la
nuova società di imbecilli e presuntuosi.
Ho «L’Espresso» in mano, come dicevo. Lo guardo, e ne ricevo un’impressione sintetica: «Come è diversa
da me questa gente che scrive delle stesse cose che interessano a me. Ma dov’è, dove vive?» È un’idea
inaspettata, una folgorazione, che mi mette davanti le parole anticipatrici e, credo, chiare: «Essa vive nel
Palazzo».
Ecco perché i potenti che si muovono «dentro il Palazzo», e anche coloro che li descrivono – stando
anch’essi, logicamente, «dentro il Palazzo» per poterlo fare – si muovono come atroci, ridicoli, pupazzeschi
idoli mortuari. In quanto potenti essi sono già morti, perché ciò che «faceva» la loro potenza – ossia un
certo modo di essere del popolo italiano – non c’è più: il loro vivere è dunque un sussultare burattinesco.
L’accusa alla Democrazia Cristiana è di non aver capito e intercettato i cambiamenti che stavano
avvenendo.
I giornalisti che inseguono il potere credono di stare dentro i piani alti della storia, quando questi in
realtà sono per strada in mezzo al popolo, dove stanno avvenendo i veri cambiamenti.
Strano a dirsi: è vero che i potenti sono stati lasciati indietro dalla realtà con addosso, come una ridicola
maschera, il loro potere clerico-fascista, ma anche gli uomini all’opposizione sono stati lasciati indietro
dalla realtà con addosso, come una ridicola maschera, il loro progressismo e la loro tolleranza. Una nuova
forma di potere economico ha realizzato attraverso lo sviluppo una fittizia forma di progresso e tolleranza. I
giovani che sono nati e si sono formati in questo periodo di falso progressismo e falsa tolleranza, stanno
pagando questa falsità nel modo più atroce. Eccoli qui, intorno a me, con un’ironia imbecille negli occhi,
un’aria stupidamente sazia, un teppismo offensivo e afasico – quando non un dolore e un’apprensività quasi
da educande, con cui vivono la reale intolleranza di questi anni di tolleranza... Io guardo i figli, cerco di
capirli e infine agisco: agisco dicendo loro quella che io credo la verità sul conto loro. «Voi vivete nella
cronaca, che è la vera storia perché – anche se non è definita, non è accettata, non è parlata – è
infinitamente più avanti della nostra storia di comodo; perché la realtà è nella cronaca “fuori dal Palazzo”
e non nelle sue interpretazioni parziali o peggio ancora nelle sue rimozioni.
Il potere politico rimuove dalla propria comprensione la realtà della gente. La vita reale vuole il
popolo sconvolto in una crisi di valori.
17/11/2021
Walter Benjamin
Walter Benjamin nasce nel 1892 (un anno dopo Gramsci), a Berlino. Era di famiglia borghese
e marxista. Pur essendo marxista (dunque ateo), la sua famiglia era ebrea e quindi all’anagrafe
per i nazisti risultava ebreo; di conseguenza si ritrovò tagliato fuori da una nazione che sentiva
sua, per cui aveva lavorato e in cui era nato e cresciuto.
Dopo il 1933 si ritrovò costretto a lasciare la Germania. Dapprima si trasferì a Parigi, ma
quando nel ‘40 l’armata tedesca entrò anche in Francia decise, per salvarsi, di seguire chi in
precedenza era fuggito negli Stati Uniti. Si incammina quindi verso il confine con la Spagna,
dove si partiva per raggiungere gli USA ma una volta arrivato si ritrova davanti la Spagna di
Francisco Franco (salito al potere grazie al sostegno di Mussolini e Hitler). Benjamin viene
quindi catturato nel 1940 (a 48 anni) e in seguito muore dopo aver preso una droga letale,
convinto che sarebbe morto comunque. Tuttavia, il giorno dopo i suoi compagni di viaggio
vennero liberati.
Quali sono le premesse intellettuali del suo lavoro? Sono marxismo ed ebraismo.
È anche necessario fare un discorso sulla scuola di Francoforte, ovvero un dipartimento
universitario di studi sociologici che si era dato molto precocemente lo scopo di aggiornare il
marxismo, innestando sulla visione del mondo del materialismo storico le discipline che
stavano nascendo con piglio scientifico al tempo (ì sociologia, psicologia e filosofia).
Sono gli ultimi rappresentanti di una scuola tedesca multidisciplinare. La generazione
successiva ha continuato il lavoro di questi personaggi e ha avuto come riferimento Herbert
Markuse.
Benjamin ebbe un percorso molto complicato per quanto riguarda la docenza in quanto fu
bocciato al concorso per diventare insegnante e fu tenuto ai margini dell’accademia
presentando un testo barocco oggi considerato pietra miliare indelebile.
Quello di Benjamin è un marxismo molto moderno, che si attrezzava a leggere ciò che stava
accadendo nelle zone più avanzate della società. In particolare, si concentra molto sulla città:
Londra e Parigi. La sua grande sfida era scrivere un grande libro sulla Parigi di metà ‘800.
Benjamin, a livello religioso, mantiene soltanto la tendenza alla totalità. Non ha bisogno di
immaginare un Dio o una vita post-mortem, ma ha la tendenza ad aprire al massimo il
ventaglio della comprensione.
Si parla in Benjamin di marxismo messianico nei termini in cui sono compresi sia la visione
del mondo marxista sia a una visione del mondo che religiosamente aspira alla comprensione
del tutto.
Benjamin lavora negli anni in cui il mondo si stava rinnovando e, in un certo senso,
“rimpicciolendo” in quanto era possibile viaggiare molto più velocemente e stava diventando
anche molto più complicato: nascevano le metropoli, si sviluppava l’economia.
Egli sostiene che l’aspirazione alla totalità si può raggiungere solo partendo da un polo
completamente opposto, ovvero dall’analisi dei dettagli che vanno letti come espressione della
totalità a cui appartengono. Si parla di dettagli significanti in quanto bisogna anche saperli
scegliere (si parla anche di allegoria). Tutto ciò funziona benissimo sulla critica letteraria
poiché il testo stabile si può sminuzzare come si desidera ponendo l’attenzione sui dettagli.
Siamo dentro al metodo del materialismo storico: la conformazione della città è uno strumento
sovrastrutturale.
Legato a tutto questo c’è una conseguenza che invade la sua scrittura: la sua scrittura piaceva
molto in quanto si presentava in termini di ambiguità e molto destrutturati. Benjamin tende ad
esprimersi per frammenti e difficilmente ha messo insieme un libro dall’inizio alla fine: i suoi
libri si strutturano per frammenti, egli ricerca una certa ambiguità.
Nel 1936 pubblica nella rivista della scuola di Francoforte un saggio che s’intitola “ L’opera
d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, un’opera in cui si occupa dello statuto
delle arti figurative nel contesto dei primi decenni del ‘900 in cui l’avanzamento tecnico aveva
permesso di produrre in serie migliaia di immagini di opere d’arte che in precedenza
esistevano solo nei musei in una versione unica. Prima le riproduzioni erano fatte da dilettanti.
La pittura che fino a quel momento aveva fatto una grande rincorsa verso il realismo ha subito
un radicale cambiamento con l’arrivo della fotografia che riproduceva la realtà così com’era.
Per esempio, l’impressionismo si sviluppa per cercare un modo alternativo di rappresentare la
realtà attraverso il filtro dell’impressione. Di qui la pittura prende una svolta completamente
diversa.
Benjamin conclude che l’arte figurativa perde l’elemento dell’autenticità e dell’unicità. In
tale unicità l’arte aveva un valore quasi religioso (valore cultuale) e quindi l’aura delle opere
viene desacralizzata.
L’equivalente avviene nel rapporto teatro-cinema: ogni opera teatrale è suscettibile a
mutamenti in quanto ha diverse datità di esistenza (perché gli attori rifanno qualcosa che
inevitabilmente sarà diversa dalla volta precedente) mentre il cinema registra una scena che
inevitabilmente rimarrà sempre uguale.
Adorno e Horkheimer che sostenevano che l’arte era stata mercificata, e nel momento in cui
l’arte diventa merce non è più arte. Sono sul polo opposto rispetto a Spinazzola che invece
vedeva positivamente la mercificazione della produzione culturale.
Secondo Benjamin l’arte, in seguito a ciò, guadagna il valore di esposizione: si passa da una
situazione in cui solo una piccolissima élite può permettersi di guardare la produzione artistica
a una in cui chiunque può invece vedere tali opere. La critica sociologica qui trova una
fantastica declinazione: l’arte viene inserita nei cambiamenti sociotecnici che avvengono
intorno ad essa.
Nel libro di Turchetta viene antologizzato il saggio “Di alcuni motivi di Baudelaire” del 1939
in cui Benjamin si occupa della Parigi di metà ‘800 sfruttando la figura di Baudelaire come
documento utile ed emblematico di ciò che stava accadendo nella Parigi in cui Baudelaire
stesso stava vivendo (quindi attuando una vera e propria critica sociologica).
Secondo Benjamin, Baudelaire ha realizzato per primo nella letteratura un’arte non auratica.
Benjamin muove dal presupposto che la grande sfida era fare un’arte non più auratica ma che
paradossalmente continuasse a essere arte: un miracoloso incontro tra la città-metropoli e l’arte
vera. Tutto questo viene argomentato a partire da un frammento, un singolo testo: si tratta di un
dettaglio significante appartenente all’unica opera poetica di Baudelaire (I fiori del male) che
si intitola “A una passante”. L’elemento che fa da connessione tra tutto è il concetto di shock.
Benjamin sostiene che il concetto di shock metropolitano contraddistingue la vita della nuova
città metropolitana: improvvisamente da essere sempre stati agricoltori e allevatori si passa
nelle città a mansioni diverse. Benjamin parla della totale stranezza della vita nella città, e per
fare ciò si appoggia a due personaggi di grande spessore: Friedrich Engels e Edgar Allan Poe.
Benjamin cita un passaggio di Engels dal libro “Situazione delle classi lavoratrici in
Inghilterra” che descrive la disumanizzazione avvenuta nella Londra del secondo ‘800. Lo
sviluppo economico è costata ai londinesi la parte più umana di sé. Lo shock della modernità
porta ad una disumanizzazione a ciò che prima aveva tutt’altro volto. Engels si aspetterebbe lo
scambio e l’interazione, non il reciproco anonimato e addirittura fastidio.
Di Allan Poe cita un passo che mette l’accento al reciproco fastidio che ci si può dare.
Nella poesia di Baudelaire, troviamo un Io lirico che per strada, improvvisamente vede una
donna giovane e se ne innamora. Non sa chi sia, la folla gliel’ha portata. Così come
l’anonimato cittadino gli ha fornito la visione, allo stesso modo glielo porta via. La tesi di
Benjamin è che in questo testo ci sia la prova di un’arte non auratica perché riproduce al suo
interno gli shock che contraddistinguono la modernità metropolitana.
Secondo Benjamin sono tre i livelli nei quali il testo di Baudelaire denuncia questo shock: uno
ambientale, uno tematico e uno formale.
Lo shock ambientale è il più semplice: la folla non è esplicitamente chiamata in causa,
si parla di una strada con il suo clamore. La folla è presente perché è determinante, è
data per scontata ma è il motore di questa micronarrazione. Lo shock qui consisterebbe
nell’improvvisa apparizione che va a inserirsi in quella lista di shock con i quali il
cittadino si incontra quando esce di casa.
Lo shock tematico è più raffinato: un lettore di poesie che legge questo testo
penserebbe che si tratta di una poesia di amore ma in questo caso lo shock deriva dal
cozzare di impressioni, il tema amoroso non è trattato in maniera tradizionale.
Apparentemente è un amore al primo sguardo, nei fatti è un amore all’ultimo sguardo: il
primo è anche l’ultimo sguardo, i due coincidono. Non viene trattato l’amore
tradizionale che accresce e nobilita lo spirito dell’amante, ma qui la reazione dell’io-
lirico di fronte all’amore è quella di diventare un ossesso e instupidirsi perché in fondo
l’io sa già che quell’incontro è una perdita.
Lo shock formale si manifesta nel modo in cui l’elemento tradizionale (quindi la prosa
e la metrica precise e perfette) presenta un linguaggio meno alto e tradizionale. Sul
piano formale questa poesia restituisce uno shock al lettore paragonabile a quello che
c’è per strada. Anche l’ambientazione urbana sorprende.
Baudelaire, quindi, rifiuta l’arte tradizionale e decide di portare la poesia all’altezza dei tempi
nuovi, accettando la sfida di costruire un edificio poetico con del materiale che di poetico nulla
aveva. La modernità è nemica della poesia che vive di lentezza, riflessione e lento assaporare.
Baudelaire ha mescolato la modernità con la tradizione, inventando qualcosa di
radicalmente nuovo in cui la modernità diventava poetica attraverso l’implemento di strutture
tradizionali.
Per Benjamin questo affondare le radici nella tradizione fa di Baudelaire il primo poeta della
modernità, è il primo che ci parla senza schermi.
22/11/2021
Erich Auerbach
Il calzerotto marrone è una sorta di gambale che si regge nella parte alta della gamba (titolo del
capitolo dedicato ad Auerbach).
Auerbach (1892-1957), era coetaneo di Benjamin e ha avuto una storia simile: anche lui era
ebreo e tedesco, e anche lui è dovuto fuggire dall’Europa. Lui, però, riuscì a fuggire ad
Istanbul, in Turchia.
Anche Auerbach, pur non avendone l’aria, ci ha lasciato esempi eccellenti di critica
sociologica della letteratura. Egli è considerato uno dei più grandi rappresentanti di critica
letteraria di matrice stilistica.
Quindi che ci fa Auerbach in un libro di critica sociologica? È legittimo stupirsi che sia
presente e che essendo uno dei massimi rappresentanti della critica suddetta allora o ci si
occupa della critica stilistica o di quella sociologica ma egli fa mirabilmente entrambe le cose:
da un lato fa un’analisi formale molto tecnica ma a partire da questa analisi compie un
percorso che porta a considerazioni extra-contestuali ed extra-letterarie. Questo metodo viene
denominato “metodo dei cerchi concentrici”: il sasso è il testo e nel momento in cui cade
nello stagno crea le onde concentriche. Quindi Auerbach parte dall’analisi del testo ed amplia
il discorso fino a fare un ragionamento sulla poetica e sulla concezione di letteratura
dell’autore.
Quindi dall’analisi dei dati formali si passa all’idea di letteratura che è alla base di quei dati
formali, ma poi si può uscire dal perimetro della produzione dell’autore per vedere come quelle
scelte si collocano nel contesto sociale contemporaneo. Auerbach segue questi cerchi fino ad
anche oltre il confine della letteratura, arriva a chiedersi cosa significa fare quelle scelte
stilistiche non solo a livello a letterario ma anche a livello di ciò che tali scelte presuppongono,
della visione del mondo degli autori che prescinde dalla letteratura.
Dietro a questo metodo dei cerchi concentrici di Auerbach, c’è il materialismo storico. La
base teorica per poter passare da un cerchio all’altro è proprio il materialismo storico e quindi
l’idea che un testo sia legato ad altri elementi che gli stanno intorno. Dietro al metodo di
Auerbach c’è Marx anche nei termini dell’uso che fa della visione del mondo perché parte
dall’ideologia che ogni testo viene studiato come un gesto che è legato a una certa visione del
mondo (struttura strutturata che porta anche a compiere dei gesti sulla base di quella struttura e
quindi l’habitus diventa struttura strutturante).
Come si arriva ad allargare il discorso così tanto sul piano teorico? Questo è il punto in cui
Auerbach e Benjamin sono più vicini: il primo si muove contemporaneamente al secondo su
sponde ideologiche molto simili.
Anche Auerbach va a individuare dei dettagli significanti che portano alla formazione di
un’identità stilistica di un’opera. Per lui è impossibile arrivare a un’interpretazione globale
prendendo di petto un intero testo per arrivare a conclusioni e verità scientifiche precise; è
quindi necessario analizzare i dettagli cosa che, sul piano metodologico, è umanamente
fattibile: si tratta di andare più in profondità con meno materiale piuttosto che farsi
sommergere dal materiale nella sua interezza. In quegli anni il mondo si “mondializza”, non
era plausibile tirare le somme su tutto.
L’opera antologizzata da Turchetta è “Mimesis”, la più famosa di Auerbach, uscita nel 1946 e
arrivata in Italia, per Einaudi, nel 1956 ed è tutt’oggi stampata.
La mimesi è la riproduzione di ciò che è fuori, ciò che è reale. In effetti il sottotitolo dell’opera
è “Il realismo della letteratura occidentale” (in italiano). In lingua originale il sottotitolo è
“la realtà rappresentata nella letteratura occidentale”.
L’oggetto degli studi di Auerbach è molto più ampio del realismo in sé; il suo oggetto di studio
è tutta la letteratura occidentale in quanto ne studia le modalità con cui ha cercato di
rappresentare la realtà. Parte da Omero e arriva fino a Virginia Woolf che sostanzialmente
era sua coetanea. In mezzo ci sta di tutto: studi su testi latini (Plauto), vangeli, Dante,
Boccaccio, Shakespeare, Balzac, Zola, Proust, Joyce e così via.
Auerbach intendeva quindi comprendere in che modo la realtà era stata rappresentata nella
letteratura occidentale.
Come riesce ad affrontare una sfida così grande? Questo libro è stato scritto durante la Seconda
Guerra Mondiale e non sarebbe mai riuscito a scriverlo se non si fosse trovato in una
situazione scarsamente fornita come era la sua nell’Istanbul di quegli anni.
Questo libro nasce dal presupposto di non poter recuperare tutta la bibliografia critica di quegli
autori.
Auerbach dice di aver adottato il metodo dei campioni casuali; di tutte queste opere non solo
non poteva reperire tutta la bibliografia critica e non poteva neanche indagarla tutta. Sceglie
quindi dei campioni di queste opere e analizza solo questi. Analizza gli ingredienti linguistici e
stilistici e partendo dall’analisi di questi ingredienti formali cerca di capire come la letteratura
in queste epoche ha rappresentato il reale.
Per Auerbach, volontà di realismo è la volontà sistematica di restituire sulla pagina in modo
serio e con un tono serio un volto riconoscibile di una porzione di mondo. Restituire con tono
serio porzioni di mondo.
In quest’ottica il romanzo realista francese è l’esito di un lunghissimo percorso che ha preso
via proprio alle origini della letteratura.
Per Auerbach si ha realismo quando non si rispettano le regole della retorica classica, ovvero
quelle regole che prevedevano che uno stile serio (o addirittura aulico-alto) andava riservato ad
argomenti alti (filosofia, storia, in letteratura la tragedia o l’epica). Invece la banalità del
quotidiano, secondo le regole della retorica classica, non poteva essere oggetto di un’opera dal
tono serio ma doveva essere rappresentata con uno stilo basso o satirico.
Secondo Auerbach è proprio quando queste regole vengono rotte che si ha il sintomo
principale di una volontà di fornire una rappresentazione realistica del mondo.
In tutto questo discorso, i vangeli del cristianesimo giocano un ruolo importante in quanto in
queste opere argomenti altissimi (i più alti possibili) vengono trattati insieme a una materia
umile (si parla di pescatori, prostitute) ma lo stile è sempre lo stesso. Il massimo dell’aulico (il
divino) e il massimo dell’umiltà sono rappresentati utilizzando lo stesso tono e lo stesso stile e
quindi è una chiarissima rottura delle regole classiche e tradizionale.
Per Auerbach un testo come questo è un testo in cui avviene una clamorosa contestazione
delle regole stilistiche tradizionali.
Vediamo nello specifico il testo che viene analizzato per ultimo da Auerbach: Il calzerotto
Marrone, tratto da Virginia Woolf, rappresentante del modernismo (movimento del ventesimo
secolo il cui massimo rappresentante è Joyce con la sua opera “Ulysses” che arriva in Italia
dopo gli anni ‘50). Quelli del modernismo sono testi per lo più ostici, lenti, si cammina dentro
i pensieri dei protagonisti e spesso ci si perde. Di solito il modernismo veniva considerato un
superamento, per opposizione, del grande romanzo realista ottocentesco.
Il modernismo viene considerato una reazione, per opposizione, al realismo. Di fatto vengono
considerati testi anti-realisti in quanto l’habitat naturale di questi testi sono i pensieri dei
personaggi che però filtrano la realtà.
Auerbach, però, decide di chiudere il suo libro con i modernisti considerandoli il vero appunto
di arrivo di una grande rappresentazione della realtà. Come ci convince che il modernismo è in
realtà il miglior punto di sviluppo della rappresentazione della realtà?
In Nemesis, Auerbach si occupa di un singolo brano di una singola opera. In questo caso il
brano è tratto dal Gita al faro (1927).
Nemesis è strutturato così: prende un titolo di insieme, ci mette un testo e poi parte con il suo
discorso analizzando il brano e allargando mano a mano il suo discorso.
In questo caso ha scelto un momento in cui la protagonista del romanzo sta verificando la
corretta misura di un calzerotto. L’opera ruota intorno a una gita programmata a un faro, ci
troviamo in Scozia e la protagonista, Hellen Ramsey, è la moglie di un professore universitario
e la coppia è solita passare le vacanze in una loro casa in Scozia. Hellen sta misurando questi
calzerotti sulla gamba di suo figlio James affinché questi stiano bene anche al figlio del
guardiano del faro che si trova vicino alla loro casa delle vacanze.
In casa girano altre persone (William Banks e Lily Briscoe).
Nell’opera il discorso diretto e i pensieri dei personaggi sono mescolati.
Viene rappresentata una realtà normalissima, quotidiana, fatta di oggetti banali e situazioni
altrettanto banali. Il tutto offerto al lettore con un tono medio, del tutto serio. Tutto questo,
Auerbach lo chiama “trionfo dell’insignificante”: qui ci viene buttato in faccia il banale del
quotidiano. La banalità di tutti rappresentata con tono serio.
Cosa c’è di nuovo? La realtà non è descritta da un narratore o un personaggio che ne fa le veci
come se cercasse di imitare una telecamera che riprende oggettivamente le cose. Ci sono i
pensieri della signora Ramsey ma anche quelli di altri personaggi che possono appartenere alla
scena o meno. Vengono buttati nella pagina i pensieri dei personaggi che non appartengono
alla scena rappresentata. Tutto è mescolato.
Auerbach chiama questa tecnica “rappresentazione della coscienza pluripersonale” poiché
sono coinvolti tanti personaggi. I pensieri prendono il sopravvento ma, soprattutto, questa
rappresentazione dei pensieri avviene in modo libero, disordinato, è un flusso senza argini.
Molto facilmente ci si trova con un pensiero scritto sulla pagina senza che ci venga detto a chi
il pensiero appartiene. Con questa sistematicità e caoticità non erano mai stati rappresentati i
pensieri primi.
Chi non sta facendo il suo lavoro all’interno del testo? Il narratore.
Il narratore non fa più il suo lavoro con la forza, la chiarezza e la sistematicità di prima. La
realtà sovrasta la capacità del narratore di fare ordine e mediare gli avvenimenti e i pensieri dei
personaggi. Questa debolezza del narratore genera nel lettore la sensazione di essere sbattuto
da una parta all’altra senza essere in grado di raccapezzarsi.
Il narratore è esterno, in quanto non appartiene alla vicenda. Tuttavia, il narratore non è
intrusivo (non interviene spesso a mediare e porre in ordine gli avvenimenti). Il narratore non
intervie praticamente mai a guidare il lettore, riporta soltanto i dialoghi e i pensieri dei
personaggi.
Un’altra conseguenza di questo modo di gestire la narrazione da parte dei modernisti è quello
di un tempo non lineare. A volte si procede a salti, altre invece si procede a rallentatore. I fatti
sono molto rarefatti e si ha la sensazione di andare molto lentamente. Non c’è quindi una linea
narrativa; poca trama, molta produzione di pensiero. Si parla allora di una sfasatura tra tempo
interiore e tempo esteriore. Il primo è molto dilatato mentre il secondo è molto ristretto.
Da queste considerazioni Auerbach ricava un’altra conclusione: Woolf e gli altri autori
modernisti non sono meno realistici rispetto ai loro predecessori; è vero che mettono pochi fatti
nelle loro pagine ma è anche vero che la vita reale è fatta di pochi fatti banali e un flusso di
pensieri e impressioni soggettive.
21/11/2021
Schulz-Bushhaus
Ulrich Schulz-Buschhaus (1941-2000); nel saggio antologizzato è molto vicino a ciò che diceva
Spinazzola: fa una sorta di difesa della letteratura di consumo e parla di editoria che partecipava al
consolidarsi e persino al nascere stesso dei generi letterari. Il fenomeno più clamoroso tra le
dinamiche letterarie e l’ambito editoriale è la nascita del romanzo.
Quindi S-B cerca le radici della nascita del romanzo, e dice che i primi passi di una industria
editoriale stanno alla base della nascita di tale genere. Osserva che l’affermarsi del romanzo non è
avvenuto grazie alla critica letteraria che ha visto nei romanzi un valore e lo ha sostenuto ma, al
contrario, il romanzo si è imposto contro l’establishment critico, contro l’ostilità della critica.
Il romanzo, quindi, si impone grazie all’editoria che continua a pubblicarlo e il pubblico che
continua a leggerlo. Come intuisce ciò? Ha letto alcune prefazioni di romanzi che uscivano in
stampo nell’Ottocento individuando un elemento difensivo-apologetico comune a tutte quante: i
romanzi venivano pubblicati ma si sentiva la necessità di scrivere delle prefazioni che sostenessero
il senso delle pubblicazioni di tali opere (excusatio non petita, culpa manifesta). Queste prefazioni
secondo lui sono la manifestazione che pubblicare un romanzo in quel periodo non era un gesto
pacifico, ma bisognava giustificare ciò e lodarne gli aspetti positivi.
S-B. osserva che l’editoria è così importante a proposito dei generi e dei sotto-generi che, nel caso
italiano, un nome dato a un sotto-genere romanzesco deriva proprio dal nome dato a una collana di
libri: i gialli. La Mondadori, infatti, pubblicava i libri di genere poliziesco con copertine di colore
giallo, colore che poi, per antonomasia, è diventato il nome che rappresentasse il genere stesso.
Perché il romanzo piace così tanto? S-B osserva che il romanzo è la prima forma letteraria che ha
rotto, in maniera radicale, i legami con la tradizione orale della letteratura in quanto è un testo molto
lungo, scritto in prosa, non pensato alla lettura ad alta voce e quindi pensato strettamente in
correlazione alla diffusione attraverso la stampa. La lettura orale di un romanzo è molto poco
pratica. Quindi il romanzo è il primo genere strettamente legato alla stampa, pensato ad una lettura
individuale e silenziosa poiché quella massa così grande di lettura funzione solo in tal modo.
Il romanzo essendo una lettura individuale e silenziosa aumenta il grado di intimità e segretezza da
parte del lettore e ciò aumento il grado di successo del romanzo stesso. Tutto ciò ha consentito al
romanzo di contenere delle scene e dei momenti che altrimenti, in una lettura pubblica, avrebbe
potuto risultare imbarazzante o scabrosa. Il fatto di avere tra le mani un libro da leggere da soli,
senza il contatto con nessun altro, è il motivo per cui il romanzo ha assunto così tanta diffusione: il
romanzo ha un fascino voyeuristico.
In sintesi: ruolo fondamentale dell’editoria e del pubblico.
Rimaniamo sulla distanza conflittuale che inizia a stabilirsi, proprio nell’Ottocento, tra critica ed
editoria: in questo periodo si instaura il paradigma dell’originalità e quindi il critico ama le opere
nuove ed originali, le opere che risultano difficili che però non sono affatto accoglienti per il resto
del pubblico. Questo atteggiamento della critica (che ritiene che l’unico valore che conta sia l’arte)
viene definito da S-B come “nominalismo estetico”. Secondo lui la bellezza non sta solo nella
difficoltà e nell’originalità.
Il primo grande nemico della critica è proprio l’editoria: quest’ultima, volendo vendere tanti libri,
non ama questo paradigma dell’originalità e, in effetti, il pubblico acquista i libri secondo i criteri
della leggibilità, della riconoscibilità (un lettore a cui piace un’opera ne ricerca altre simili) e
genericità (appartenenza di genere).
Però non bisogna confondere la riconoscibilità di genere con la suddivisione in genere dell’età
premoderna che prevedeva una gerarchia di valore tra i pochi generi accettati. Al contrario il
sistema dei generi moderno, che piace all’editoria, non verticale ma orizzontale e si vuole conferire
lo stesso valore a ciascun genere.
Questo conflitto tra l’editoria e la critica è la grande contraddizione dell’età moderna. Oggi
chiaramente, in questa posizione, ha vinto l’editoria.
S-B non se la prende soltanto con i critici, ma anche con le correnti letterarie che più hanno difeso
la trasgressione narrativa, ovvero le avanguardie. Egli tenta di individuare la contraddizione alla
base di una poetica avanguardistica: polemizza con l’avanguardia sostenendo che il loro mito
dell’unicità permanente è contradditori su più lati. Innanzitutto, perché quella trasgressività che
cercano è destinata a diventare una regola, un modello che è tutto ciò da cui le avanguardie in realtà
fuggono.
S-B osserva anche che l’originalità stessa delle avanguardie è in contraddizione in quanto le loro
opere sono basate su strutture preesistenti. Quindi la rottura dell’avanguardia appoggia
profondamente le sue radici nella radice, in quanto non prescindono da essa.
In sintesi: un’arte trasgressiva da una parte poggia le proprie radici nella tradizione e dall’altra
creano tradizione.
Si parla, oggi, di epoca post-moderna (che in Italia arriva alla fine degli anni ’70-inizio anni ’80)
che recupera i generi tradizionali. Tuttavia, B-S non ama l’etichetta di post-moderno, ma preferisce
l’idea di post-avanguardia (non c’è nessun movimento avanguardista così forte da imporre le
proprie idee). L’idea di B-S è propria l’idea di storia: “corsi e ricordi storici” (citazione di
Giambattista Vico). È naturale che ci siano periodi in cui si cerca una rottura tra gli schemi
tradizionali, fase seguita poi da momenti in cui si sente la necessità di recuperare gli schemi
tradizionali.
È vero che ci sono corsi e ricorsi, ma l’avanguardismo letterario non occupa mai tutto lo spazio del
panorama letterario in quanto il lettore e l’editoria riescono sempre a ritagliarsi uno spazio
alternativo, molto più simile ai loro gusti (quando si era imposto il romanzo sperimentale francese,
comunque il pubblico riuscì a trovare autori vicini più vicini alle loro corde nella letteratura latino-
americana-spagnola).
Robert Escarpit
Escarpit (1918-2000) viene considerato uno dei grandi maestri della sociologia della letteratura del
900. È uno dei fondatori della scuola di Bourdieu, in Francia.
Ha un approccio molto marxista, ed effettivamente è marxista.
Nel 1958, pubblica un testo fondativo: Sociologia della letteratura. Questo testo segna per la prima
volta, in maniera sistematica, come si fa critica letteraria.
Nel 1970 scrive un altro libro dal titolo “Letteratura e Società”, quindi si vede che ha una
prospettiva perfettamente critica-sociologica.
L’attenzione di Escarpit era rivolta a come un libro vivesse all’interno della società: come nasce
(quali dinamiche ci sono alla base) e quali regole determinano la sua eventuale sopravvivenza.
Partiamo dalla nascita di un libro.
Intanto c’è da capire cos’è un libro in epoca moderna. Secondo Escarpit è un oggetto di natura
ambigua: da una parte è un prodotto artistico-culturale ma dall’altra parte è anche un prodotto
commerciale in quanto non si scrive più per pochi eletti molto colti, ma si scrive per un pubblico
molto vasto. Escarpit, da sociologo, si interessa da come nasce dentro il mondo editoriale-
commerciale un libro. Qui Escarpit si immagina quello che chiama uno schema a Y (simbolo di un
processo nel quale ci sono due vie di entrata e una di uscita). La prima via di entrata è quella del
testo letterario, in cui ci mettiamo l’autore con il suo scritto mentre nell’altra via d’entrata c’è lo
stampatore, che trasforma gli scritti dell’autore in libro. In mezzo, al punto di incrocio c’è l’editore:
egli riceve il dativo scritto dell’autore e poi chiedere allo stampatore di trasformarlo in libro.
All’uscita, c’è il lettore che riceve il prodotto pronto (tutto sommato è una dinamica che interessa
tutta la produzione commerciale).
Ci sono però delle difficoltà: la prima risiede nella materia prima, il dativo scritto dell’autore. È
davvero materia prima? Quel dativo scritto è simultaneamente anche un prodotto finito. Non c’è la
sicurezza di sapere che, in quel dativo scritto, ci sia quello che un editore cerca. L’altro elemento
che mette in difficoltà l’editore che non può produrre un prodotto uguale o simile nuovamente.
Mentre le altre industrie hanno nella ripetitività di un prodotto una formula di successo, l’editore
deve proporre qualcosa che è sia riconoscibile che nuovo. E quindi l’equilibrio è quello della
ripetitività che non si spinge fino in fondo; fare un nuovo libro, per l’editore, è un’impresa nuova
ogni volta in quanto gestisce un prodotto primo che è finito e deve re innovarsi ogni volta.
L’editoria, comunque, ha delle strategie: la prima è che l’editore può decidere di valorizzare di un
libro non tanto il contenuto in sé quanto la materialità del libro stesso (esempio: i libri di arte,
destinati ad essere conservati per la bellezza di ciò che sono. Sono oggetti di arte essi stessi: hanno
una copertina particolare, un carattere speciale, una rilegatura particolarmente preziosa) e questo
tipo di lavoro viene definito come “editoria di conservazione” da Escarpit; un’altra strategia
consiste nel puntare sul grande successo (il best seller) ovvero una produzione di consumo,
destinata al grande pubblico. Come si ottiene questo risultato? Si fanno tanti tentativi, pubblicando i
libri che si immagina abbiano successo, sperando che vendendo molto uno di questi libri si
compensi le spese dei diversi tentativi per poi tornare al punto di partenza quando la fama del best
seller inizia a sfumare via.
Altra strategia è quella del “catalogo”: si decide di non puntare sul grande botto del best-seller, ma
su un catalogo ovvero un elenco di tutti i libri scritti da un autore e posseduti, per contratto,
dall’editore. Si tratta di libri che non vendono molto ma che hanno valore in quanto vengono
acquistati costantemente nel tempo. Sono oggetti di qualità che garantiscono vendite a lungo
termine.
Quindi il sistema editoriale, negli ultimi tre secoli circa, ha dovuto lavorare in maniera molto
flessibile in questa ambiguità tra commercio e cultura. In tutto questo il romanzo (che ha sostituito
tutti i generi dominanti precedenti) è il genere egemone.
Che cosa sopravvive in ambito letterario nella memoria delle persone? Per rispondere a questa
domanda, Escarpit si appoggia sugli studi di Alfredo Odin che si era interrogato sui numeri della
sopravvivenza delle opere, osservando che tra il 1300 e il 1830, ad avere goduto di una certa
notorietà, in Francia, erano stati un migliaio di scrittori. Escarpit prende questo dato per buono.
Eppure, nella Biblioteca nazionale di Parigi (dove finiscono tutti i libri stampati), gli scrittori
francesi che hanno prodotto delle opere letterarie sono solo centomila.
Un uomo di cultura media riesce a ricordare il nome di 150-200 autori circa. Quindi un migliaio ci
provano, centomila ce la fanno, e 200 ne vengono ricordati.
Al di fuori di un livello culturale medio, più basso, ne vengono ricordati quattro.
Ne emerge che la letteratura è uno strumento che subisce un’erosione considerevole, e non serve per
eternare la propria memoria.
Si appoggia anche sugli studi dello psicologo Harvey Lehman che nel 1937 vuole trovare qual è
l’età nella quale gli esseri umani hanno le migliori prestazioni in ogni ambito. Per i libri fare ciò è
estremamente complicato in quanto il prezzo non è indicativo e non si può misurare
oggettivamente. Quindi, ha chiesto negli ambienti colti statunitensi, di realizzare un elenco delle
opere letterarie per loro imprescindibili: sono stati citati 730 libri e 448 autori.
La prima conclusione a cui giunge è che mentre faceva le medie, nella percezione delle persone che
avevano fornito questi titoli era che il numero di autori morti era uguale a quello degli autori ancora
vivi e quindi la sopravvivenza letteraria non è granché. Gli autori attuali sopravvivono nella
memoria dei contemporanei quanto quella degli autori passati: prima legge di Lehman.
Le seconda legge di Lehman deriva dall’età media in cui secondo i suoi calcoli si produce l’opera
migliore: 42 anni. La legge dice che un’opera scritta dopo i 40 anni ha meno probabilità di
sopravvivere di un’opera scritta prima.
Cosa fa Escarpit di questi ragionamenti? Egli osserva che Lehman arriva su un risultato sulla base
di considerazioni che non hanno a che faro molto col libro stesso. Escarpit inserisce su una
dimensione sociologica le leggi di Lehman, osservando che quell’età ha a che fare con un rapporto
che si instaura tra l’autore e i suoi lettori.
Un lettore che riconosca e apprezzi uno scrittore nella fascia di età tra i 20-25 anni, non contesta più
l’esistenza di un autore: tale autore rimarrà sempre un riferimento per il lettore. Allora ogni autore è
sostenuto da un certo pubblico di una certa fascia di età, in grado di sostenere uno scrittore. E’
quella fascia di età ad essere in grado di sostenerlo nel corso della sua carriera.
Dopo i 40 anni, l’importanza del pubblico viene meno sul piano del consumo culturale e quindi
anche la memoria di quel personaggio viene meno.
Quindi la sopravvivenza dei libri è determinata dalla presenza di un pubblico in grado di leggerli e
apprezzarli e quindi alla sparizione di quel pubblico viene a meno la memoria di un determinato
autore.
La sopravvivenza dei libri è che non avviene soltanto attraverso l’effettiva lettura. Un autore si
mantiene vivo anche con il sentito dire. La sopravvivenza nominale di un libro consente al libro di
diventare una lettura. Quando viene a meno il sentito diro di un libro allora il libro smette di
sopravvivere.
26/11/2021
29/11/2021
13/12/2021
Tempi Stretti
Quale ambiente è rappresentato e come viene rappresentato?
A differenza dello “sbarbato”, il romanzo è ambientato poco nel centro città (alcuni incontri con
Teresa alla “Rinascente”). L’Alessandri si trova a nord, lungo viale Monza (ormai Sesto San
Giovanni), la Zanini si trova a sud-ovest della città. La casa di Paolo dove si trovano i protagonisti è
in periferia (sulla terza circonvallazione). Nella periferia vive anche Anna Fusi, collega di Emma
presso la quale andrà a vivere, in fondo ai Navigli.
Ad affascinare lo sguardo di Ottieri sono le periferie estreme, dove palazzi e capannoni incontrano
la campagna abbandonata e deserta. Sesto San Giovanni divenne terreno di numerose fabbriche: il
costo dei terreni era basso, i terreni non erano coltivati o paludosi, i collegamenti con la fascia nord
della Lombardia (Varese, Como, Brescia, Bergamo) e Milano erano molto più semplici. Inoltre, nel
nord di Milano, c’era abbondanza di energia elettrica (a Cassano d’Adda si trovava una centrale
idroelettrica). La Milano di Ottieri è rappresentata nei termini dell’iperbole ed enfatizzazione: si
tratta di un’enfasi violenta, Milano ingloba qualunque cosa finisca nella sua rete. La Milano di
Ottieri è plumbea, grigia, oscura.
Altro ambiente protagonista del libro è quello della fabbrica. Gli spazi son vasti e pieni (macchine,
gente, fili penzolanti). La luce è fioca, data da lampadine penzolanti dal soffitto. Il rumore è la terza
costante, prodotto dalle macchine al lavoro. I gesti di chi sta dentro l’ambiente sono monotoni,
ripetitivi e annoiati. Le fabbriche vengono perlopiù rappresentate durante licenziamenti o minacce
di chiusure/vendita. La città e la fabbrica si assomigliano: entrambe sorprendenti per le loro grandi
dimensioni e forza, il sentimento di assedio di chi si trova all’interno delle due “contenenti”, i colori
simili, domina l’anonimato, tristezza derivata dalla monotonia.
Quali sono i personaggi?
Due macrocategorie: uomini e donne. Emerge un’enorme differenza tra uomini e donne all’interno
del romanzo.
Tutte le donne del romanzo, indipendentemente dalla loro funzione sociale, sembrano perseguire un
unico scopo: amare ed essere amate.
Gli uomini sono i proprietari delle aziende (Ing. Alessandri e Prasca, proprietario della
Micromotori, azienda che stava per assumere Giovanni), i manager rampanti, i membri delle
commissioni politiche delle fabbriche.
Di conseguenza, nel rapporto uomo-donna, sono quest’ultime le meno considerate.
Non è Ottieri ad essere tradizionalista, ma la società di allora. Oltre ad Emma e Giovanni, non si
trovano personaggi dotati di sorprendente individualità, perché sono una frazione di classe sociale,
non sono complessi o contraddittori, sono bloccati dentro una posizione emblematica.
La classe dominante borghese è rappresentata da tre personaggi:
o Alessandri, padre-padrone. Non si capisce mai cosa voglia fare con l’azienda.
o Parsa (della Micromotori) che non assumerà Giovanni poiché di sinistra.
o Teresa, suo marito e gli amici invitati alle due feste.
Questi personaggi sono volubili, cambiano spesso idea. La classe lavoratrice è divisa in due:
impiegati e operai.
Gli impiegati principali sono:
o Giovanni Marini, incarna l’impiegato che non guarda alla borghesia.
o Sig. Carli, collega di Giovanni all’Alessandri, entrambi impiegati. Più anziano, è
l’incarnazione tipica dell’impiegato, è individualista, pensa solo alla propria
convenienza, è indifferente alla condizione degli altri lavoratori. Il suo principale
obiettivo è difendere e sottolineare la sua superiorità verso gli operai. È sempre in
bilico tra lo sfruttamento subito e la volontà di distinguersi (il più vicino possibile
alla fedeltà al padrone, il più lontano possibile dagli operai).
Gli operai devono svolgere azioni sempre identiche per almeno otto ore al giorno, agganciati ad una
macchina che detta a loro il ritmo. L’operaio non conosce neanche il senso delle sue azioni.
Le individualità sono negate: si diventa strumenti inseriti dentro un panorama. L’operaio resta solo
nel rapporto con la macchina, viene disumanizzato. È infine assolutamente non libero, i momenti di
libertà risultano ingestibili.
Da parte di Ottieri, troviamo la totale non-volontà di rappresentare gli operai come eroi: la classe
operaia viene rappresentata come una classe di persone incerte, sfiduciate, senza nessuna ventata di
progressismo e cambiamento.
La classe operaia è rotta al suo interno, non ideologicamente compatta (si vede bene nelle
assemblee sindacali della Zanini, restituite in maniera documentaristica).
Gli operai principali sono:
- Aldo Comolli (Zanini), molto politicizzato. Fidanzato di Caterina figlia di Paolo, è l’incarnazione
del giovane operaio preso dalla politica e moralmente integro.
o Paolo (Alessandri), padre di Caterina. Tipico vecchio operaio riformista, definito
“social democratico”.
o Brughera (Alessandri). Arrabbiato e politicizzato quanto Aldo, viene descritto come
un facinoroso che capisce poco delle dinamiche politiche ed economiche.
o Dell’Orto e Anna Fusi (Zanini), colleghe di Emma alla Zanini. Di età compresa tra i
15 e 17 anni, sono operaie generiche, molto diverse da Emma, di personalità più
inconsistente rispetto ad Emma, incarnano i giudizi maschili della società del tempo.
Si sentono più donne che operaie, non si sentono parte di una classe sociale.
o Emma (Zanini)
I protagonisti del romanzo sono:
o Giovanni Marini: poco più che ventenne, viene dalla Toscana.
Si è formato politicamente in ambienti di sinistra. All’inizio del libro, troviamo Giovanni
con un pezzo di carriera già compiuto. È molto affascinato dal mondo borghese, sembra
incamminato verso la volontà di carriera e realizzazione di una parabola sociale economica e
lavorativa. I due manager sembrano incarnare il futuro di Giovanni nell’azienda milanese.
Anche Giovanni vede procedere in parallelo lavoro e sentimento: nella fase in cui è preso
dalla sua ascesa lavorativa, si rifiuta di ufficializzare il rapporto con Emma, perché lei è una
semplice operaia (uno come lui non può certo entrare dentro una relazione seria con
un’operaia ex-contadina). La svolta la troviamo quando il Prasca non lo assume alla
Micromotori: inconsciamente, smette di frequentare il salotto borghese di Teresa, iniziando
a frequentare le assemblee della Zanini.
Quando l’ingegner Alessandri permette a Giovanni di diventare direttore tecnico o il
rappresentante dei lavoratori della fabbrica, Giovanni decide che non può sacrificare i
lavoratori per la propria carriera.
o Emma, giovane contadina umbra, emigrata a Milano. Si trova catapultata a Milano e nella
Zanini, nella quale si sente continuamente violentata.
È l’emblema di una cultura profondamente italiana destinata a sparire. Emma non è certo
intellettuale o politicamente attiva, ma la nevrosi e lo shock li sente grazie alla sensibilità
che ha di creatura gracile e semplice, erede di quella tradizione contadina. Il primo impatto
con la fabbrica non è però così tremendo: vince la sorpresa rispetto allo shock.
A poco a poco, sente che quello che all’inizio le sembrava qualcosa di vivace è invece un
meccanismo che la stritola. In parallelo, vive le difficoltà della strana relazione con
Giovanni. Troviamo un grande parallelismo: in entrambe, scivola in una sorta di stato
nevrotico e semi-paranoico.
Emma, quando dà per persa la relazione con Giovanni e si sente condannata alla vita in
fabbrica, viene intercettata da un certo Franco, dal quale arriverà una dichiarazione di
matrimonio.
Alla fine del romanzo, vinta la lotta interna tra carriera e difesa della dignità dei lavori,
sentimentalmente può lasciar andare il suo amore per l’operaia Emma, ormai non più in
contraddizione con la sua filosofia di vita, ritrovando sé stesso.
“Tempi Stretti” non è soltanto un documentario sotto forma di romanzo dell’infelicità operaia, ma è
anche un romanzo di formazione che contiene un romanzo d’amore. Il romanzo di formazione di
Emma consiste nel continuare a essere portatrice di sentimenti puri e tenaci, continuando ad essere
portatrice di una fragilità che, nonostante sia tale, non accetta soluzioni semplici e false. La sua
vittoria sta nel riconquistare Giovanni quando quest’ultimo torna sui suoi passi.