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La Sociologia è nata in epoca Positivista.

Il termine “Sociologia” è stato coniato in 1824 da Auguste Comte per


definire uno studio positivo delle leggi fondamentali che regolano i fenomeni sociali. L’obiettivo di Comte e di quella
che noi chiamiamo “sociologia pura” è proprio questi: definire l’insieme delle leggi che condizionano i fenomeni della
società.
Durante il Positivismo ci si proponeva di studiare la società come un fatto naturale; così come i fisici e gli scienziati
studiano il mondo organico e non, così la Sociologia può essere usata per comprendere l’organizzazione della società.
Per la Sociologia pura, l’Arte e la Letteratura sono uno dei molteplici aspetti nonché una delle varie possibili
espressioni della società. Nasce l’idea che, studiando meglio la società contemporanea a una specifica corrente
artistico-letteraria si può comprendere al meglio la corrente stessa. Ad esempio, studiare la società borghese ci aiuta a
studiare e analizzare il genere romanzesco. Lo studio di queste opere fornisce strumenti per conoscere la società in cui
sono cresciute le opere stesse.

STUDIARE LA SOCIETA’ CI PERMETTE DI CAPIRE MEGLIO LE OPERE ARTISTICHE CHE PRODUCE E VICEVERSA  rapporto di OSMOSI

Un ottimo esempio di questo meccanismo è costituito dai Promessi Sposi. Nonostante si tratti di un romanzo storico e
Manzoni non parli direttamente della propria epoca, nell’opera troviamo molti collegamenti celati volutamente (e
non). Per poter criticare il dominio austriaco sotto cui si trovava la Lombardia del 600, sotto il giogo degli Spagnoli; la
sua opera fa dunque implicitamente luce sulla realtà del proprio tempo.
La Sociologia della Letteratura nasce e si sviluppa come branca della Sociologia dell’Arte, dato che la letteratura è una
forma d’arte, ossia uno dei vari possibili modi di espressione artistica dell’uomo. Le Arti nascono dal bisogno profondo
e antico di cercare delle risposte per soddisfare alcune necessità spirituali. Così come l’Arte, la Letteratura deve:
1. EDUCARE  da qui lo scopo pedagogico delle Arti: comunicare qualcosa a qualcun altro.
2. INTRATTENERE  l’Arte vuole intrattenere e divertire.
3. INFLUENZARE  spesso l’Arte è stata usata per imporre una certa ideologia politica e dunque
strumentalizzata.
La produzione artistica esiste sulla base della FRUIZIONE: un’opera viene creata affinché se ne possa usufruire.
Ognuna di esse è diretta a un qualche interlocutore (uno in particolare o a un pubblico) e se un’opera viene celata e
nascosta non subisce una “socializzazione del messaggio”. Ogni forma presuppone un pubblico, dalla differente
tipologia; in base al pubblico, può variare anche l’opera. NESSUNA ARTE È TALE SENZA “SOCIALIZZAZIONE DEL
MESSAGGIO” (=incontro fra autore e pubblico). Da qui sono nati vari quesiti. I critici si sono domandati: come
analizzare sociologicamente un’opera d’arte? Che rapporto c’è fra successo e valore di un’opera? Questa domanda
nasce alla luce del fatto che, in passato, molte opere sono uscite “in sordina” per essere riconosciute come capolavori
solo molto dopo (vedi: i Malavoglia), mentre tutt’oggi spesso vengono pubblicate opere dal grande successo
commerciale ma poi presto dimenticate.
Fra le altre domande: Se estraniamo un’opera dal suo contesto sociale/artistico, che ruolo ha il genio dell’autore?
Questo genio esiste? Come si rapporta al contesto? Come fanno le opere artistiche a influenzare un determinato
gruppo sociale? È possibile stabilire questo rapporto? E come?
Ciò che distingue la letteratura dalle altre arti è il fatto che implichi dei testi (letteralmente: “tessuti di parole”, dal
latino per “tirare fuori”, “estrarre”). Qualsiasi testo letterario comunica tramite il linguaggio. La scrittura, il linguaggio
letterario segue due esigenze:
1. Esigenza comunicativa (necessita di essere mezzo di comunicazione)
2. Esige un’espressione di sentimenti/idee/passioni/immagini che non possono essere espressi con la struttura
linguistica di base (che ha solo funzione comunicativa).
La parola letteraria corrisponde alla parola dialogica, nasce e si sviluppa dal confronto fra codici essenziali
(accettandoli o rifiutandoli). Scegliere un determinato registro vuol dire confrontarsi con un certo tipo di linguaggio e
di pubblico; con una lingua espressiva e quotidiana, ad esempio, ci rivolgiamo a un pubblico più ampio. SCEGLIERE LA
LINGUA SIGNIFICA SCEGLIERE IL PUBBLICO.
Alla luce della funzione espressiva, il linguaggio letterario è specifico e per poterlo analizzare bisogna usare metodi e
criteri altrettanto specifici, delle vere e proprie “chiavi” per “entrare” nei testi. Una di queste chiavi è la Sociologia
della Letteratura, disciplina piuttosto recente, nata più o meno negli anni 30 del Novecento. Questa materia viene
applicata a indirizzi di studio dediti ad analizzare il rapporto fra arte e società. La Sociologia ha come obiettivo lo
studiare in modo globale tre fattori: AUTORE, OPERA e PUBBLICO, tutti in rapporto alla SOCIETA’.
 L’OPERA nasce e si sviluppa nel contesto dell’AUTORE e pertanto subisce tutti i relativi condizionamenti.
 Il PUBBLICO ha un grande ruolo nella ricezione dell’opera. Il pubblico giustifica l’opera, può influenzare la
produzione artistica e arricchire di significati un’opera, come accade con le riletture critiche, ossia uno
stratificarsi di più significati attorno a un prodotto letterario. Ad ogni modo, sia il critico letterario che il
lettore comune possono contribuire ad arricchire il senso di un’opera.
Durante il Novecento anche il concetto di relatività entra nell’ambito delle Arti. La Sociologia si afferma difatti in un
periodo di relativismo gnoseologico derivante dalla crisi dell’Idealismo. Si smette di vedere un’opera come “proiezione
di un ideale” e i sociologi, appoggiandosi al relativismo, definiscono le opere come forme di conoscenza relative al
tempo e allo spazio in cui nascono, che pertanto si ricollegano a un’influenza ambientale, a determinate realtà
sociali.
Alla luce di questo, l’autore viene studiato in base al proprio contesto: –sociale –familiare –professionale, soprattutto
a partire dal 700, con la crisi dello statuto dell’autore. Per molto tempo, gli scrittori sono stati tutelati e finanziati da
famiglie reali o nobili, ma con la società borghese e capitalista ogni scrittore deve provvedere da sé ai propri guadagni.
Per tanto, dal 700 viene prestata molta più attenzione ai gusti e desideri del pubblico per vendere. Alcuni letterati
hanno affiancato la propria attività scrittoria a un’altra professione (vedi: Carlo Emilio Gadda, Franz Kafka), quali il
giornalismo, la traduzione, l’insegnamento o la professione legale; così è scomparsa la figura del “letterato puro”. Altri,
invece, non avevano problemi economici grazie a una posizione economica favorevole (come Alfieri), perciò potevano
scrivere liberamente.
Si aggiungono anche altri fattori sociali. Soprattutto dal 900, con la diffusione dell’alfabetizzazione, lo status sociale
dello scrittore medio si abbassa e così cambia anche il genere, con molti autori donne o transgender. La letteratura
femminile in particolar modo presenta molte peculiarità. Ci si domanda quanto sia rilevante il “tocco femminile”
nell’unicità di queste opere; ciò che è certo, è che grazie a questi scritti possiamo comprendere più a fondo la
condizione femminile durante i secoli.
Un passaggio cruciale per i dibattiti sorti nel 700, a proposito dei diritti e dell’emancipazione femminili, è stata la
pubblicazione di “The subjection of women” di John Stuart Mill, edito nel 1869 e tradotto in italiano nell’anno
successivo col titolo “Sulla parità delle donne”. I primi segnali di un cambiamento sono giunti durante il periodo della
Rivoluzione Industriale, con il conseguente miglioramento delle condizioni di vita borghese. In quegli anni cresce fra le
donne la consapevolezza della disparità dei propri diritti rispetto agli uomini e iniziano a imporsi già alcune figure di
spicco (quali Madame de Stäel) e si avviano importanti discussioni sui diritti e l’emancipazione femminili.
Con la crescita della società borghese (e più in là dell’economia di consumo), la donna può ritagliarsi maggiori spazi
per sé e per la propria cultura. Il progresso industriale consente di avere più tempo e autonomia e anche l’economia
domestica si semplifica, anche grazie agli elettrodomestici. Questo consente di dedicarsi alla lettura e alla propria
cultura.
La “questione femminile” si affaccia in Italia dalla fine dell’800, per influenza dell’Inghilterra. Le scrittrici anglofone già
allora non seguivano la linea tracciata dai propri colleghi, bensì hanno stabilito nuovi metodi e linguaggi, per
esprimere al meglio se stesse e la propria femminilità. Anche in Italia vengono fatti dei passi avanti: molte voci si
stagliano per difendere l’emancipazione femminile, ma per aspettare la nascita del primo vero movimento
emancipazionista bisognerà ancora aspettare.

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Rispetto alle altre nazioni, la condizione italiana era più arretrata e meno omogenea. Nella nostra penisola, la
condizione femminile si è affacciata con una crescente rilevanza delle donne in ambito culturale, ma non ha dato
subito origine a dei veri movimenti organizzati, non fino alla seconda metà del XX secolo. Grazie al “boom economico”
degli anni Sessanta, si creano le condizioni necessarie per garantire l’emancipazione femminile in ogni classe sociale e
nascono i primi veri gruppi di movimento.
Tre autrici in particolare si pongono in modo diverso rispetto a questo contesto:

*NEERA. Si tratta di uno pseudonimo; l’adottare un falso nom de plume, magari anche maschile, era cosa diffusa fra le
scrittrici, per rivendicare la stessa credibilità riservata ai colleghi uomini. Il vero nome di Neera era Anna Zuccari Radus.
Nata il 7.05.1846, ha perso ben presto la madre, con cui sembra non avesse un legame molto stretto; è stato piuttosto
il padre, a suscitare in Anna un sincero affetto. È interessante notare come tale dato biografico venga invertito nei
romanzi; l’unico spunto reale reso in modo autentico sono i luoghi in cui Neera è cresciuta (la borgata sul Po). Adolfo
Radius, con cui Anna contrasse matrimonio, non rappresentava quell’ideale artistico al quale la scrittrice mirava, ma
che la donna, nel suo programma di amor materno, riuscì a rifiutare. L’autrice è stata molto attiva in Lombardia fra la
fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento con 22 romanzi, molti racconti, poesie e alcuni saggi dove analizza la
condizione femminile nel quadro dell’Italia post-unitaria. Ha affiancato la scrittura creativa a una carriera da
giornalista e all’azione interventista. È stata una figura d’avanguardia per essere riuscita a imporsi all’attenzione di
molti propri colleghi, fra cui Capuana e Croce. Neera rappresenta figure femminili che si ribellano contro l’ordine pre-
costituito della società borghese per ricercare una propria identità e autonomia. La posizione di Neera risulta però
contraddittoria: se negli scritti teorici e saggistici (in particolare in “Le idee di una donna” del 1904) si schiera contro il
femminismo, difendendo il ruolo tradizionale della donna come madre e moglie, nei propri libri immagina personaggi
anti-conformisti che lottano per la propria autonomia.
Alcuni dei suoi romanzi formano la “trilogia della donna giovane”: -“Teresa”(1886) -“Lidia”(1887) -“L’indomani”
(1889). “Teresa” è il libro con cui Neera si è posta all’attenzione del grande pubblico e mostra il prototipo della
“zitella”, donna nubile che viene etichettata come “non desiderabile” dalla società.
 Trama: Teresa Caccia è costretta a sacrificarsi per la propria famiglia, che considera il matrimonio come unica
forma di realizzazione della donna (in linea con la mentalità borghese dominante al tempo). Teresa non si sposa
perché, nonostante sia innamorata di Egidio, manca il requisito fondamentale per ogni matrimonio borghese: la
stabilità economica da parte dello sposo. Il padre di Teresa potrebbe fornire una dote per la figlia, ma non lo fa perché
questa somma è riservata al fratello di Teresa, destinato a portare avanti il nome di famiglia. Il padre di Teresa
osteggia dunque le nozze, che non si tengono e Teresa è combattuta fra i sentimenti che prova per Egidio e il rispetto
che nutre per il padre. Paradossalmente, sarà proprio il fratello di Teresa a deludere il padre, per aver sedotto la figlia
di un oste.
Teresa conduce una vita grigia e monotona, sacrificata totalmente alla casa e alla famiglia. Riceve molte altre proposte
di matrimonio, ma non si rassegna e decide di portare avanti l’amore che sente per Egidio fino in fondo, giungendo a
una crisi psicologica che si manifesta con attacchi convulsivi [proprio in quegli anni si stavano diffondendo le prime
teorie su psiche e psicoanalisi, ndr]. La madre di Teresa in tutto questo ha sempre rappresentato una figura debole, del
tutto soggetta al volere del marito, tanto che molto presto muore e la trentenne Teresa è costretta a prendersi a
carico ad interim le cure del padre, molto malato. Alla fine, la protagonista sceglierà di prendere in mano il proprio
destino per perseguire la realizzazione della propria felicità, anche a costo di combattere a viso aperto le convenzioni
sociali. Dopo la morte del padre, lascia dunque la propria casa e la propria città, per raggiungere Egidio, il quale le fa
sapere tramite una lettera di essere molto malato. Teresa non demorde e lo vuole comunque raggiungere, non
curandosi di quello che avrebbe detto la gente del paese, né degli avvertimenti dell’amica, a cui confida: “Dirai ai
zelanti che ho pagato con la mia vita questo momento di libertà”. Questa frase rappresenta una rivendicazione del
diritto inalienabile alla libertà e alla felicità, a pensare al proprio benessere a scapito di ciò che pensano le persone che
ci circondano e del destino che la società ci impone.
Teresa di Neera è uno dei romanzi più belli dell’ultimo ventennio del 900. In un suo altro romanzo, Il castigo, Neera
sembra che voglia difendere la società costituita, costruendo un mondo squisitamente borghese, laico, e all’insegna di
una rassegnata ubbidienza. Ciò nonostante, questa immagine di una Neera borghese non convince fino in fondo,
difatti la stessa autrice ha rivelato la propria intenzione di condurre uno studio sui costumi, attraverso la storia di un
“tipo umano”: una “zitellona”. Questa zitellona malmaritata tradirà il marito e, dopo aver perso l’amante, si vedrà
sottratta anche la figlia nata dalla relazione extraconiugale. Ciò che conta davvero, però, è la situazione di partenza: i
modi e i motivi per cui una donna sia costretta a fare enormi compromessi, pur di ottenere lo stato sociale concesso
solo a chi sia sposato. Nel castigo dell’adultera si riflette la consapevolezza (e l’autocompatimento) di chi viene
costretta, dalla società, a una saggezza e a una forza che raramente sono richieste all’uomo. Si potrebbe concludere
che, sebbene effettivamente ci sia un “tacito invito all’ubbidienza”, nelle opere di Neera è altrettanto viva la denuncia
dell’ingiustizia. L’immagine di una Neera propagandista di idee “consolatorie”, di rassegnazione, è perciò da
respingere; emerge, piuttosto, uno studio naturalistico dei rapporti condizionati. Nell’Indomani, nell’Amuleto e in
Duello d’anime, viene sottolineata la presenza del figlio, motivo e giustificazione alle azioni della madre, che vede ka
maternità come un premio a se stessa. Qui finisce la ribellione di Neera: il deluso amore per l’uomo compensato ad
usura dall’amore per i figli. Ma a Neera, più che il destino dei figli, interessa l’equilibrio psicofisico della madre,
analizzato con occhio naturalistico-biologico.
Negli scritti teorici, là dove Neera esprime le proprie idee (da Il libro di mio figlio, a Le idee di una donna, a Una
giovinezza del secolo XIX), l’insufficienza culturale dell’autrice la faccia talvolta scadere nella saccenteria; qui Neera
tende a presentarsi come antifemminista, ma altro il suo antifemminismo si richiama a motivazioni di mero gusto e di
nessuna consistenza. Solo nei romanzi le idee di Neera riescono a prendere corpo, mutando e diventando idee
diverse, e le sue opere creative rivelano documenti essenziali dello spirito femminista, nella misura in cui la donna è
sentita come classe oppressa, non come ideale complemento dell’uomo. Teresa è uno dei romanzi più notevoli della
fine del secolo scorso per vari motivi: il suo significato è tutto nella rappresentazione. I comportamenti dei personaggi
sono coerenti in se stessi, fino a contraddire le idee che l’autore manifestava in altra sede. Tramite questa “super-
sincerità”, Neera non ha mai sovrapposto se stessa alla sua Teresa. Ciò non implica, tuttavia, un carattere di totale
impersonalità nella narrazione, soprattutto per quanto riguarda le tematiche che più premono all’autrice. Per quanto
riguarda la dimensione religiosa, inoltre, la narrazione è come se avesse la meglio: per quanto sia timorata di Dio, nulla
impedisce a Teresa di fare l’amore con Egidio durante il loro incontro nella chiesa della Madonna della fontana. Ciò si
può giustificare con una riflessione su come la società incivilita non abbia avuto il tempo di dare a Teresa né una
cultura né una cognizione del problema religioso.
Per quanto strutturalmente semplice, Teresa è un romanzo molto vivo dal punto di vista artistico. Neera rifiuta
qualsiasi consolazione di tipo religioso, qualsiasi volgarità patriottica e ogni traccia di comicità idilliaca. Si può dunque
affermare che Teresa sia un romanzo naturalista, grazie all’assenza di ogni ideale: alla protagonista è negata la
consolazione celeste e, al tempo stesso, quella terrena, del matrimonio e della maternità. Lo studio di costume
diventa studio di comportamento, ricerca positivamente artistica, che compie la più strabiliante escursione della
letteratura italiana del tempo nella dimensione della sessualità (rimasta inesplorata anche da Verga). Benché Teresa
non sappia nulla del sesso, avverte la fine della sua verginità psicologica: dalla lettera letta coi vestiti slacciati, fino alle
manifestazioni isteriche, che sublimano la mancata effusione fisica nel pianto.
Teresa ci offre un’interpretazione della poetica di Neera, definita dalla stessa come “l’ideale nel reale”. Qui, l’ideale è
la fedeltà a un amore, mentre il reale è il corpo, il suo fisico, che si ribella (attraverso forme isteriche) alla mancata
realizzazione di quell’ideale. In Teresa, per fortuna, l’ideale non funziona, non può diventare reale, a causa della scarsa
cultura/conoscenza del reale della protagonista. Il romanzo lontano da pretese estetiche: presenta un ambiente
piccolo-borghese e provinciale, dove tutto sa di decoro e miseria, e la vita elegante è vista con distanza e sdegno. La
parte forse meno verosimile, là dove l’autrice fa trionfare l’ideale, sono le ultime due pagine, in cui Teresa accetta la
richiesta d’aiuto inviatale via posta da Egidio, ormai molto malato. Se la reazione di Teresa, appare plausibile, non si
può dire altrettanto della scelta di Egidio di scriverle.
I critici di oggi non faranno mai buon viso a questo romanzo. Neera usa un linguaggio neutro, quasi giornalistico, da cui
raramente trapela l’eco della parola parlata. Per questa autrice, del resto, l’arte e la forma non erano un problema, e
preferiva badare piuttosto alla sostanza. La sua arte, più che nelle singole parole, risiede nei silenzi e nelle pause, che
formano delle vere e proprie “conversazioni nelle conversazioni”.

*SIBILLA ALERAMO, anche questo uno pseudonimo datole da Giovanni Cera, da una poesia di Giosuè Carducci.
L’autrice in realtà si chiamava Rina Faccio ed è stata una delle scrittrici più rappresentative per i diritti delle donne.
L’Aleramo ha espresso qualche critica nei confronti di Neera, rimproverandole di non aver sottolineato la forza delle
donne. Ha anticipato una rivoluzione delle coscienze che in Italia si sarebbe accesa solo nel tardo XX secolo.
Le sue opere presentano uno stretto rapporto fra scrittura ed esperienza autobiografica. Con la Aleramo, lo scrivere
rappresenta un mezzo per auto-realizzarsi, presentare se stessi agli altri.
Il suo romanzo più importante s’intitola “Una donna”, opera del 1906 molto autobiografica, in cui la protagonista
narra in prima persona le proprie vicissitudini, per lo più fatti di vita vera, dall’infanzia alla maturità.
“Una donna” NON è un’autobiografia, bensì un romanzo autobiografico. La differenza è dettata dal fatto che l’autrice
è riuscita a infondere nei personaggi descritti vita propria, nonostante siano ispirati a persone realmente esistenti. Il
libro ci dà una lettura penetrante e coinvolgente della società del tempo. Si modificano molte dinamiche, sia
all’interno della famiglia, che fra una generazione e l’altra (i figli ormai mal sopportano il ruolo del “padre padrone”
che decide le sorti del resto della famiglia). L’opera è stata tradotta subito in molte lingue, dal francese al polacco. Il
canale delle traduzioni è anche indice del successo di un’opera letteraria.
Il titolo “Una donna” ha duplice valenza: indica il carattere esemplare dell’esperienza vissuta dall’autrice, ma con
l’articolo indeterminativo al tempo stesso vuole estendere il senso del racconto alla storia di ogni donna. Inoltre, può
rappresentare una sorta di approdo, un punto di arrivo nella crescita della consapevolezza di sé: alla fine della storia,
la protagonista “diventa una donna” ormai pienamente matura e cosciente.
Si narra del rapporto complesso dell’eroina con la figura paterna. Se nei primi anni vi è molta dolcezza e il padre
rappresenta una guida, un maestro di vita, con gli anni questa dinamica si complica sempre più, soprattutto quando
l’eroina scopre tutti i tradimenti coniugali della figura paterna. In questa storia la madre appare come una figura
debole, assoggettata al marito, che dopo aver tentato il suicidio viene rinchiusa e che dunque necessita di essere
accudita, più che di accudire.
La protagonista mostra fin da piccola grande intraprendenza e desiderio di autonomia. Nel momento in cui la propria
famiglia si trasferisce nelle Marche, inizia subito a lavorare presso la fabbrica di vetri del padre e proprio qui incontra
un impiegato. I due iniziano a frequentarsi, finché l’uomo non abusa di lei, facendola restare incinta. Dopo un
matrimonio riparatore, per la protagonista comincia una vita di privazioni e amarezze: perde quasi subito il bambino e
il marito non la ama, né la rispetta; inoltre, si trova a dover affrontare la mentalità gretta del popolino che la circonda.
Dopo qualche tempo resta di nuovo incinta e il figlio che nasce diventa la sua nuova ragione di vita. Dopo una lite fra il
padre e il marito, la protagonista è costretta a trasferirsi a Roma, dove trova un impiego come giornalista che le fa
acquisire maggior coscienza di sé. In ufficio si lega in modo sentimentale e platonico a un collega, scatenando le ire del
marito, che inizia a maltrattarla anche fisicamente. L’eroina vorrebbe lasciare il coniuge, ma è bloccata dalla
prospettiva di dover poi abbandonare il figlio alle cure del padre [siamo a inizio Novecento, la legge per il divorzio in
Italia sarebbe stata creata solo negli anni Settanta, ndr]. Quando però scopre che il marito si è innamorato di una sua
collega e ha anche contratto una malattia venerea da questa relazione, la protagonista riesce a farsi coraggio e a
lasciarlo definitivamente; intraprende anche un’azione legale per ottenere la custodia del figlio, ma non riesce
nell’intento. Decide infine di dedicarsi ad aiutare gli altri e alla scrittura; scrive il libro per raccontare la propria storia e
stabilire un ponte col figlio ormai perduto.
6.03
*ALBA DE CESPEDES, intellettuale italo-cubana a tutto tondo, si è dedicata a moltissimi ambiti del sapere, dal
giornalismo alla politica. È stata una personalità molto attiva che si è confrontata apertamente col mondo e la società
attorno a sé. Per molto tempo, le sue opere sono state catalogate semplicemente come “letteratura rosa”, ma questa
etichetta è diventata sempre più stretta. La Cespedes si è occupata di tematiche progressiste, che descrivono la realtà
storica e sociale in cui ogni sua opera è ambientata. Le sue protagoniste sono per lo più donne, figure inquiete e
problematiche che si interrogano sul proprio destino e ruolo nella società, confrontandosi con un panorama in rapido
mutamento, durante tutto l’arco del 900. Si è spesso occupata dei limiti imposti alle donne da schemi mentali
maschili, che pongono l’uomo al centro. L’autrice ha anche raccontato l’esperienza della guerra e della Resistenza.
Ogni suo romanzo affronta un diverso momento storico e le varie questioni che, di volta in volta, si pongono alle sue
eroine.
La sue opera “Quaderno proibito” è stata prima pubblicata nel 1951, in 26 puntate su La settimana Incono, poi in un
unico volume nel 1952, come esordio di una collana Mondadori dedicata ai grandi scrittori italiani. L’opera ha avuto
dunque modo di giungere a una fascia di pubblico molto vasta. “Quaderno proibito” rientra nella vasta tradizione di
feuilleton (romanzi d’appendice), per cui ha avuto modo di giungere a un grande pubblico, tuttavia per farlo ha
dovuto rispondere a rigide convenzioni di genere. Innanzitutto, lo scrittore d’appendice deve rispettare scadenze
molto brevi e rigide, pertanto è obbligato a scrivere in modo continuo; inoltre, per invogliare il lettore a comprare di
volta in volta l’edizione successiva, ogni puntata dell’opera deve essere coinvolgente e lasciare molte cose in sospeso,
per indurre curiosità e interesse sullo sviluppo della storia. È interessante notare come le date di ogni aggiunta al
diario fittizio siano molto vicine alle singole edizioni su cui sono state pubblicate le puntate del romanzo; si verifica
dunque una proiezione immediata fra il momento della scrittura e quello della lettura. Uno dei punti di forza di questo
genere letterario è la sensazione di avere davanti un’opera fresca di scrittura.
Quaderno proibito, in particolare, è scritto sotto forma di diario (con tanto di data in testa a ogni pagina), tenuto dalla
protagonista Valeria Fossati, impiegata quarantenne con un marito, Michele, e due figli, Mirella e Riccardo. La
scrittura di questo diario comincia, quasi per caso, nel novembre del 1950 e termina il 27 maggio del 1951. Valeria si
era recata dal tabaccaio a comprare delle sigarette per Michele, quando aveva iniziato a provare una strana attrazione
per un quadernetto. Decide dunque di acquistarlo, sebbene fosse proibito comprare articoli di cancelleria in un giorno
festivo in quel tipo di negozi, e inizia subito a scriverci. Decide di tenerlo nascosto, poiché il fatto che una donna e
madre di famiglia tenesse un diario privato era considerata cosa inusuale, e Valeria sapeva che la propria famiglia non
avrebbe capito; il diario si configura dunque fin dal primo momento come un ‘quaderno proibito’.
La protagonista sottolinea quasi subito il valore dello scrivere: Valeria sente il bisogno di farlo, ma vive questo
desiderio come una trasgressione, difatti scrive solo di sera o quando non c’è nessuno in casa, riponendo poi il diario
in nascondigli sempre diversi. Annota tutto ciò che le accade e che sente giorno per giorno; raccontando la propria
quotidianità, Valeria è portata ad analizzarsi e a trarre un bilancio della propria vita. Si crea così un doppio binario:
- storia orizzontale, di quotidianità e routine
- storia verticale, che scava e analizza l’interiorità della protagonista, riesumando sentimenti e sensazioni rimasti sopiti
fino a quel momento.

Tutti i personaggi e i luoghi sono descritti e narrati dal punto di vista del personaggio principale. Valeria guarda al
“teatro della vita” dal punto di vista del proprio osservatorio privato: una famiglia piccolo-borghese degli anni 50.
L’osservazione di questa realtà diventa pian piano critica sociale e familiare: non le viene riconosciuto un ruolo
autonomo, la sua esistenza ha senso solo se rapportata e subordinata a quella degli altri, al marito, ai figli, ai genitori.

“Quaderno proibito” si configura come un romanzo di formazione. Si attua una vera e propria evoluzione psicologica,
poiché, tramite la scrittura, Valeria prende coscienza di sé e del cambiamento in atto nell’identità femminile. La
scrittura del quaderno deriva dal desiderio di essere “soltanto Valeria”, soprattutto quando si accorge che, fra le
persone che la circondano, nessuno la chiama col suo vero nome: il marito “Mammà”, i figli “Mamma”, i genitori
“Vevè”. L’unico luogo dove sente che il proprio lavoro è riconosciuto e apprezzato è il posto di lavoro e ciò favorisce
l’instaurarsi di una relazione platonica col proprio capo-ufficio Guido.
In questo romanzo troviamo tre generazioni di donne:
1. la mamma di Valeria
2. la protagonista
3. Mirella, la figlia, “donna del futuro” in grado di emanciparsi e vivere in modo autonomo ogni aspetto della propria
vita, incluso l’amore. Mirella è la figura progressista del romanzo: rivendica la possibilità di lavorare per passione (la
madre era stata costretta a lavorare per questioni economiche) e di scegliere da sé chi sposare, andando contro i
cliché piccolo-borghesi.
Il tentativo di Valeria di trovare se stessa si rivela rinunciatario e fallimentare. Quando Guido le propone di partire
insieme per Venezia, Valeria rifiuta e decide di bruciare il diario. Questo rappresenta un finale consolatorio per tutte
le lettrici del tempo, congeniato in modo tale che gli “angeli del focolare” degli anni 50 potessero identificarsi per la
propria esperienza di rinuncia all’emancipazione e di chiusura nella prigione domestica, in una società maschilista. Il
quaderno rappresenta tutti i loro sogni e desideri, destinati a restare “chiusi nel cassetto”, mai realizzati. Il libro ha
riscosso fin dal primo momento grande successo.

Questi tre romanzi mostrano il cambiamento che si è prodotto nella società italiana di quei tempi.

Per capire i ruoli di indagine che possono nascere dalla disciplina sociologica, bisogna fare una distinzione fra critica
sociologica e sociologia della letteratura.

La critica sociologica include ogni tipo di critica incentrata sul rapporto fra letteratura e società. Il suo obiettivo
principale è fornire un’interpretazione di opere e autori, ricollegando le opere al contesto in cui sono nate, i rapporti e
i condizionamenti che hanno portato alla genesi dell’opera. Vuole anche evidenziare come le opere letterarie
definiscano i caratteri della società in cui si inseriscono.
Cesare Cases sosteneva che “i rapporti società/letteratura si possono stabilire in due modi: partendo dalla società
[tramite la critica sociologica = studio della società funzionale allo studio degli autori], oppure considerando la
società come una destinazione e partendo dalla letteratura [tramite la sociologia della letteratura].”

La sociologia della letteratura studia il destino sociale dell’opera, ossia come questa influenza/influenzerà il pubblico.
La sociologia assume la società come punto d’approdo, studia i rapporti che questa ha (a livello teorico) con l’arte,
nonché i meccanismi sociali della produzione artistica (come viene prodotta l’arte, com’è il rapporto col pubblico e il
mercato). Rappresenta dunque uno studio di produzione, circolazione e consumo delle opere artistiche in genere. È
uno studio
 “di produzione” perché analizza le modalità e le condizioni con cui un’opera è stata realizzata, prodotta [es.:
su commissione di accademie, di altre pubblicazioni, oppure liberamente progettata, oppure finalizzata al consumo]
 “di circolazione”, riferendosi agli ambienti sociali entro cui l’autore/autrice veicola i propri prodotti. L’opera
(anche letteraria) può circolare in vari ambienti possibili, più ampi o più ristretti anche a seconda dell’epoca in cui la
già detta opera è stata creata [es.: la corte nel medioevo, la scuola fra 700 e 800…]
 “di consumo” perché si concentra anche sulle forme di consumo delle opere, tramite le statistiche di lettura e
successo, ad esempio. Un altro fattore molto importante a tal proposito è il numero di rifacimenti (anche parodistici)
e di traduzioni.
Analizzando questi tre elementi, è possibile fare sociologia della letteratura anche senza leggere le opere prese in
considerazione. La distinzione non è altrettanto netta negli studi di critica letteraria.
Comunque, va sempre tenuto a mente che la letteratura ha una sua grande specificità, perciò sarebbe sbagliato
“appiattirla” a una semplice relazione col contesto sociale. Bisogna tener conto di tanti altri fattori, quali la soggettività
e il talento dell’autore, la dimensione formale, eccetera – e d’altro canto, è impensabile attuare la lettura critica di
un’opera senza tener conto dei condizionamenti sociali collaterali. L’approccio più globale e corretto tiene conto di
tutti questi fattori, difatti i maggiori critici riescono a superare l’antitesi fra queste due istanze.
Ogni autore sceglie di convogliare il proprio personalissimo messaggio in modo particolare, prediligendo alcune
modalità e forme anziché altre (dando vita, di epoca in epoca, a opere tanto diverse quali il poema antico, il romanzo
verista, quello borghese, ecc.). Anche le forme letterarie hanno una propria formazione: nascono, si affermano,
vengono talvolta abbandonate. Se non considerassimo l’autore in relazione allo spazio-tempo in cui vive, gli agenti
letterari parrebbero casuali e una parte del significato dell’opera finirebbe col sfuggirci. Tale idea ha preso piede a
partire dal Romanticismo: fu allora che si diffuse l’approccio storico e contestuale per studiare le opere letterarie,
abbandonando i criteri più astratti, dediti a un’analisi puramente formale ed estetica. In quello stesso periodo si è
avviata la storia delle prime letterature nazionali: se fino ad allora esistevano solo repertori di autori e opere non
organizzate cronologicamente, le cose cambiarono quando Foscolo scrisse una “storia letteraria” ordinata in
successione cronologica. Da quel momento in poi, la letteratura non è stata più studiata in modo orizzontale, ma
analizzando anche i riferimenti alla società in cui ogni testo è prodotto. Madame de Staël sosteneva che esistono
caratteristiche comuni ai popoli del nord e altre proprie dei popoli del sud: se i primi tendono verso le atmosfere cupe
e malinconiche, più Romantiche, gli abitanti del sud conferiscono uno stile più solare, equilibrato e classico. Si
cominciò dunque a studiare la letterature facendo riferimento allo spazio-tempo, al contesto storico in cui ogni opera
nasce.

12.3
Col Positivismo, acquista ancora maggior importanza il riferimento ai fattori di civiltà. I positivisti prendono l’idea
romantica che ogni letteratura corrisponda a uno spirito storico preciso, e la spingono fino a far ricondurre il genio
letterario ai principi razziali. Esisterebbe una letteratura diversa per il nord (in Europa, abitato dai Celti), il sud (dove
prevalgono le razze latine), l’est (terra slava), eccetera. Il portavoce più importante di queste supposizioni è Hippolyte
Taine. Taine credeva che l’opera d’arte non sia un prodotto casuale, ma, come ogni fatto storico, può essere
ricondotto a cause precise: clima, situazione economico-geografica e vita socio-politica del luogo di produzione. Taine
ipotizzava anche di applicare alla letteratura i criteri di studio delle scienze naturali, ambito scientifico in rapido
sviluppo grazie a Darwin e ai suoi principi (l’eredità dei caratteri e la sopravvivenza del più forte). Queste nuove leggi
scientifiche rappresentano una tale rivoluzione che vengono applicate anche in altri ambiti. Herbert Spenser, ad
esempio, si proponeva di applicarli alla società, correndo gravi rischi, quali la legittimazione di un pensiero
prettamente classista. Sulla stessa scia, Taine proponeva di analizzare ogni contesto sociale sulla base di race, milieu e
moment.
*race = [istanza epistemiologica] ereditarietà dei caratteri razziali
*milieu = [istanza sociale] ambiente sociale in cui l’individuo vive
*moment = momento storico in cui vivono gli individui.
Si diffonde l’idea che anche la letteratura possa essere studiata come una specie vivente, che nasce, cresce (si afferma)
e finisce; su questa linea, i critici ritenevano necessario poter tracciare le varie “fasi evolutive” della letteratura e dei
suoi generi. Questo approccio, da un lato sviluppa e porta avanti l’idea del legame fra letteratura e società, dall’altro
sminuisce la specificità di ogni autore, creando uno sbilanciamento a favore dei fattori storico-geografici. A questo
approccio per così dire deterministico sono da imputare le correnti di pensiero razziste e suprematiste che avrebbero
dilaniato l’Europa qualche anno più tardi.
Sebbene i fattori storico-geografici abbiano la propria rilevanza, ogni opera d’arte nasce per una vocazione più
profonda vissuta dall’autore, da un suo sentimento personalissimo rispetto a ciò che lo circonda. NON si può stabilire
un nesso meccanico fra i collegamenti esterni e la nascita di un’opera letteraria; anzi, succede spesso che alcune pietre
miliari della letteratura e delle arti siano nate in epoche turbolente. Quello che viene definito “capolavoro” è l’opera in
grado di comunicare e trasmettere qualcosa agli appartenenti di epoche diverse, anche molto distanti dal momento di
creazione dell’opera stessa. I classici di Shakespeare, ad esempio, vengono ricordati perché il drammaturgo è riuscito a
incanalarvi temi universali e ricorrenti nella storia umana, descrivendo degli archetipi che travalicano le barriere
cronologiche.
Nel corso del 900, il movimento che più si è occupato di questo tipo di approccio di studio è il marxismo. È nata una
critica sociologica marxista dal rapporto fra fenomeni culturali e strutture economiche: da determinati assetti
economici si avranno determinate correnti artistiche. Fra tutti, soprattutto Georgiy Lukasz è stato uno dei maggiori
critici marxisti e ha valorizzato le opere di maestri quali Balzac e Tolstoj, sottolineandone il distacco ideologico rispetto
alle mentalità (prettamente conservatrici) dei loro autori. Secondo Lukasz, questi scrittori sono stati capaci di fornire
un quadro completo, fedele e progressista della propria società, mettendone in luce le contraddizioni di classe e le
difficoltà economiche.
In Italia, un ruolo di spicco spetta ad Antonio Gramsci, il quale credeva nella funzione della letteratura di costruttrice di
consenso popolare attorno a un ordine sociale. Analizzò in particolar modo quanto la letteratura, la stampa periodica
e gli altri media siano stati così importanti nell’attirare il consenso degli italiani verso il regime fascista durante il
ventennio.
Fra gli altri critici troviamo anche, dalla Scuola di Francoforte, Walter Bèniamin e Lucien Goldmànn; quest’ultimo arriva
quasi a ipotizzare che l’opera letteraria sia frutto di una “gestazione collettiva”: <<Gli autori che raccolgono più fortuna
presso il pubblico sono quelli che ne esprimono i valori più diffusi nella società.>> Di conseguenza, l’opera d’arte serve a
esprimere la visione del mondo comune a un gruppo sociale il più ampio possibile e l’autore rappresenta l’interprete
di questa mentalità dominante.
Nel corso del 900 inoltre, crescente attenzione è stata dedicata al ruolo dell’autore e del pubblico, fruitore e
destinatario delle opere. Si è analizzata la storia del gradimento di un’opera, facendo ricorso anche a rilevazioni
statistiche, al numero di traduzioni e alla lingua d’origine del testo.
In seno a tutti questi cambiamenti, ha assunto sempre maggior credito il fattore di appartenenza a un determinato
genere, orientamento sessuale e/o credo religioso, soprattutto nei cosiddetti “Gender studies”. Questi studi hanno
portato all’analisi del contributo femminile alla letteratura e del perché si sia sviluppato solo in epoche recenti; si è
ipotizzato che sia stato possibile grazie all’acquisizione di maggiori diritti, oppure che sia sempre esistito, ma che una
concezione della società prettamente maschilista l’abbia taciuto. I GS, prima di diffondersi anche in Europa, sono sorti
negli Stati Uniti come “appoggio” artistico ai movimenti femministi di inizio 900, perciò ha obiettivi diversi rispetto alla
critica letteraria fine a se stessa. Sulla base di questa mentalità nascono le opere di due autrici:
 “Le deuxième sexe” di Simone de Bouvoir, caposaldo del filone femminista del 900 per la sua appassionata
rivendicazione delle eguali capacità intellettuali e artistiche delle donne rispetto agli uomini e per la denuncia
verso chi credeva in una supposta disparità biologica. La Bouvoir sostiene che le voci letterarie femminili
abbiano tardato a farsi sentire a causa di sistemi educativi che tendevano a privilegiare e a concentrarsi sugli
uomini.
 Le opere di Virginia Woolf, che ha mostrato un interesse precoce per la condizione storico-sociologica delle
scrittrici, ponendo l’accento sugli ostacoli che, di volta in volta, si sono frapposti alla loro espressione artistica
e all’acquisizione di un proprio spazio autonomo. Come accade in “Quaderno proibito”, la donna-scrittrice
non ha un’esistenza a sé, una stanza dedicata a lei; è costretta a scrivere spostandoti da una parte all’altra
della casa per nascondersi.

I Gender Studies possono dunque focalizzarsi su aspetti diversi della questione e questo ha portato a domande molto
complesse: da cosa traspare in un’opera appartenenza dell’autore all’uno o all’altro sesso? Esiste un immaginario
femminile scisso da uno maschile? Per il buon senso comune, l’arte è una sola, a prescindere da quale sia
l’appartenenza a questo o a quell’altro sesso di chi la crea, tuttavia è interessante notare se nei testi sopravvivono
delle tracce peculiari di una mano femminile rispetto a una maschile. La Aleramo pensava che, forse, il ritmo della
scrittura può essere connotato sessualmente, ossia può dipendere se chi scrive è uomo o donna e anche altri critici
pensano lo stesso di altre qualità.
Ci sono vari modi per studiare sia la letteratura che la condizione femminili dal punto di vista sociologico.
1. Si può indagare come il gruppo sociale delle donne sia stato escluso dall’attività letteraria nel corso delle varie
epoche
2. un altro filone analizza com’è stata rappresentata l’immagine della donna nelle varie epoche, così da poter stilare
un quadro di come si è evoluto nel tempo il rapporto fra i sessi.
3. i Cultural studies, anche questi sorti in area anglofona, studiano i testi come documenti, testimonianze di
tradizione, folklore, costumi al fine di ricostruire la storia di uno spirito e di una mentalità.
4. l’Estetica della ricezione, invece, è un tipo di critica sorto in Germania che si concentra molto più sul lettore che
sull’autore. Il lettore è un soggetto attivo (e non passivo) perché, a prescindere che sia un lettore comune o un critico,
fornisce un senso all’opera che “riceve”. Questi studiosi vedono l’opera come qualcosa che ha portato alla nascita di
molteplici significati e interpretazioni, tanti quanti sono i lettori che ricevono l’opera. Questa teoria spiegherebbe
perché certe opere avrebbero avuto più successo in alcune epoche che in altre e ne emerge anche una grande
importanza del ruolo del lettore. Sarebbe tuttavia sbagliato pensare che tutto il senso dell’opera venga apportato da
chi legge. Semmai, il lettore arricchisce con la propria interpretazione il messaggio già instillato nell’opera dall’autore.
Questo approccio nasce a ridosso del formalismo, il quale aveva la pretesa di fornire letture critiche oggettive,
statiche; come sappiamo, una lettura critica non è mai un’analisi esatta e univoca, per quanto persuasiva e
convincente.

La “Sociologia delle forme” sostiene che le forme letterarie si possano studiare in base al contesto sociale in cui
nascono; in virtù del rapporto letteratura/società, a ogni tipo di società corrisponderebbe perciò una forma artistica
dominante. In base a questa teoria della sociologia delle forme, bisogna fare una distinzione fra due generi:
 L’Epos, che rappresenta le società antiche, queste prive di antagonismo fra singolo individuo e comunità
poiché i bisogni dell’uno e dell’altra coincidono. Il singolo si riconosce pienamente nella collettività, grazie alla capacità
dell’individuo di provvedere a sé al proprio sostentamento.
 Il Romanzo, nato e sviluppatosi in epoca borghese, dove domina una divisione capitalistica del lavoro.
L’individuo procura da sé tutto ciò che gli serve per vivere tramite un’attività lavorativa ‘parcellizzata’, divisa con tanti
altri individui. Da solo non saprebbe ricreare l’intero processo, pertanto non sarebbe nemmeno in grado di lavorare in
modo autonomo. Ne nasce un antagonismo fra singolo e collettività, fra vita privata e pubblica. Il romanzo è la
moderna epopea borghese, il cui marchio di fabbrica è l’individualismo, valore tipico della classe media. Nel genere
romanzesco si condensano tutti gli ideali di questa classe sociale, che a dispetto della nobiltà di sangue, riesce ad
affermarsi grazie al proprio valore professionale ed economico e vuol vedere celebrato questo valore nell’arte. Il
romanzo rappresenta una forma d’espressione letteraria più pervasiva (di più facile accesso per le persone meno
istruite, quali talvolta erano i membri della borghesia), così che vada incontro al gusto dei lettori per interpretare al
meglio la loro visione del mondo.

13.3
L’uso di espressioni come “scrittura delle donne”, e dunque la specificazione dell’identità di genere dei soggetti della
scrittura, corrisponde alla necessità di interpretare i testi interrogando gli immaginari poetici che li hanno generati.
L’immaginario individuale, che nell’opera prende forma, ha tuttavia a sua volta una genesi che risale all’origine
dell’individuo stesso. La nostalgia dell’origine presiede agli immaginari degli uomini e delle donne e li differenzia. La
figlia, per cui la nascita rappresenta la perdita del proprio luogo d’origine, sublima questa nostalgia nel sogno
perdurante di una “ricomposizione”, da attuarsi tramite il sentimento d’amore; il figlio, invece, ricompone lo strappo
dalla madre stabilendo un rapporto di dominio con quel sesso che può garantirgli la disponibilità del luogo d’origine,
così da rinnovare il modello di ogni felicità.
Nella storia, al dominio sul corpo femminile, è corrisposto il dominio sulle forme di rappresentazione dell’io, fra cui
letteratura e poesia. Quest’ultima, in particolare, si avvicina di più alle origini, grazie alla nostalgia per una “lingua
perduta”. Alle origini della letteratura in volgare, la fondazione del laico si basa su due forze generatrici: la lingua
nuova e il “nuovo eros”. Già Dante, nel De vulgari eloquentia, aveva definito la lingua volgare come quella che “gli
infanti imparano imitando la nutrice”. Il linguaggio che dà forma alla nuova poesia è dunque la lingua della nutrice. In
questo accostamento fra eros e lingua, la nuova lingua si è sovrapposta alla “lingua perduta” dell’altrove (in cui si sono
trovate “la natura, la donna, l’origine”) e ciò è confermato dall’alternarsi di eros e misoginia (soprattutto in Petrarca e
Boccaccio), sintomo di una “profonda e oscura preoccupazione” data dall’identificazione dell’eros come “fattore
irrinunciabile di auto-riconoscimento”. Se la figura d’amore che genera la nuova vita rievoca il femminile della coppia
originale, allora la duplicità del sentimento (amore/odio) è rivolto anche al primo corpo/mondo che ti dà la vita, e al
tempo stesso sembra volerti trattenere “al di qua della vita stessa”.
La tradizione letteraria italiana si configura allora come storia di un pensiero maschile, non solo per la quasi totale
assenza di opere di donna, ma anche perché dominato da forme di rappresentazione di un io che ha definito la lingua
e lo stile. Questa tradizione letteraria – che è nata dunque dall’assunzione di una lingua materna capace di parole
d’amore e si è rappresentata sublimando in figure di donna il valore assoluto del proprio pensiero - pone alcune
questioni preliminari.
1) L’incontrovertibile dato dell’assenza. Lungo tutta la storia della cultura italiana, le numerose scritture di
donna sono state e rimangono esterne alla tradizione. Raramente riescono a emergere, configurandosi come voci
minori. Quando le stesse donne, negli anni 70, hanno dato origine ai nuovi saperi femminili, hanno anche assunto
l’uso della parola: parola conquistata nella separatezza (detta partendo da sé), fondativa (senza tradizione), perché si
pensava che, nelle epoche precedenti, le donne non avessero avuto parole per dirsi, che la loro storia fosse avvolta nel
silenzio.
2) La presenza di una soggettività femminile attiva nell’esercizio della scrittura. Il Novecento letterario è
composto da opere sia maschili che femminili. Pur tuttavia, nel presente così come nel passato, le presenze femminili
compaiono “decontestualizzate”. La storia della cultura tende a dire che la presenza non occasionale di donne
letterate nella cultura del 900 è solo uno degli effetti indotti dal processo di modernizzazione del paese. Ai nomi
maschili si accostano, quindi, alcuni nomi di donna in un progressivo allargamento della società letteraria, che assimila
la nuova presenza, senza alterarsi al proprio interno. L’assenza delle donne dalla letteratura del passato è motivata dal
sapere: non hanno scritto perché non sapevano o potevano farlo. L’assenza delle donne dalla storia è al tempo stesso
effetto e conferma di un’oppressione che segna la storia del genere umano. Questo discorso assume come dato di
fatto ciò che, viceversa, è l’esito di quella catena di rimozioni e negazioni su cui si fonda l’unicità delle forme di
rappresentazione dell’io: rimozione della soggettività femminile dalla storia del genere umano, e negazione della
complessità del singolo individuo, femmina e maschio; rimozione del rapporto fra sessi e negazione delle diversità
dell’altro da sé; rimozione della relatività delle proprie esperienze conoscitive e negazione della molteplicità dei punti
di vista e delle storie. In base a questa tradizione di pensiero, l’assenza della soggettività femminile non può che
confermarsi la contrapposizione dualistica tra maschile e femminile. Nel ricostruire i quadri storiografici della
letteratura italiana, emerge l’esistenza di una scrittura femminile, che scorre parallela a tutta la nostra tradizione
letteraria.

Il controllo maschile è stato esercitato in più modi, sia sull’arte femminile che nella rappresentazione di Dio. Ciò
significa che da un lato v’è stato un controllo sociale, dall’altro l’imposizione nell’immaginario di una figura
ultraterrena di sesso maschile. Questa impostazione ha dominato per molti secoli, perciò storicamente si è impostata
una visione del mondo maschilista. Sono subito evidenti sia lo scarso numero di voci femminili nella storia della
letteratura, soprattutto nelle epoche passate, sia il predominio di rappresentazioni del divino con un’impronta e
un’impostazione maschile. Questi condizionamenti hanno poi a loro volta influenzato lo sviluppo dell’immaginario e
della lingua (vedi: la forma di plurale neutro al maschile e la rappresentazione di personaggi femminili da un punto di
vista maschile). La nostra letteratura nasce con la lingua volgare e con una nuova concezione dell’amore, quello
cortese, che rinnova la mentalità e lo spazio letterario. Nel pensiero maschile si assiste alla sublimazione della figura
femminile in un simbolo, una metafora di costruzioni intellettuali. Il rovescio della medaglia, ossia l’approccio inverso,
è considerare la presenza (più che l’assenza) femminile, per indagare le forme in cui le donne hanno rappresentato i
propri pensieri e ideali nella scrittura. Generalmente, la vulgata che ha circolato per tanti anni dice che le donne
abbiano trovato più spazi in cui farsi sentire grazie a un maggior riconoscimento di diritti e all’avanzamento della
tecnologia (che ha permesso di avere più tempo libero). Pochissime, comunque, sono le donne riuscite a far parte
nelle storie letterarie di ogni nazione, e ci si chiede se questa assenza sia dovuta a un vero e proprio divieto, e se le
donne rappresentino un punto di vista aggiuntivo o alternativo rispetto a quello maschile. Secondo questi schemi,
l’assenza delle donne sarebbe da imputare alla mancanza di un accesso all’alfabetizzazione e all’istruzione. Secondo la
critica Marina Zancan, invece, la mancanza di voci femminili nella cultura occidentale è stata causata da una rimozione
della presenza femminile; ciò significa che le voci letterarie femminili esistono da sempre, ma il più delle volte sono
rimaste inascoltate, sommerse dalla Storia, e mai tramandate a noi posteri. Quindi, in realtà, non si tratterebbe di una
vera assenza, bensì di una presenza costante ma “rimossa”, taciuta. È importante analizzare e ascoltare anche queste
voci “sommerse”, poiché le loro scritture hanno spesso valenza sia letteraria, che autobiografica e storica, fornendoci
informazioni precise e dinamiche sulle condizioni di vita del tempo.
Dal 500, grazie all’invenzione della stampa a caratteri mobili, sempre più uomini e donne hanno accesso alla lettura e
alla scrittura, perciò si assiste a un crescente numero di scrittrici femminili fra XVIII e XIX secolo. Questa crescita viene
tenuta però in poco conto dalle storie letterarie, fra cui quella di De Santis.
All’inizio del 900, da un lato abbiamo la lezione di Benedetto Croce; dall’altro, Carlo Villani, nell’indice storico-
bibliografico “Stelle femminili” (1903), traccia un bilancio delle voci femminili nella letteratura (1913). Anche
Benedetto Croce si è cimentato in un’opera simile, ma sminuendo il valore della scrittura femminile e ponendola a un
gradino più basso. Croce le imputa il difetto di prediligere la sfera privata delle emozioni, dell’istinto e dell’impulsività,
peccando dunque di incompiutezza stilistica.
La Zancan, ne “Il doppio itinerario della scrittura”, si è imposta di “rileggere l’assenza” femminile nella storia letteraria
italiana, tracciando quadri storiografici dell’evoluzione delle donne, sia come oggetto di rappresentazione, che
soggetto di scrittura, una sorta di storia “parallela” della letteratura femminile.
[ Secondo la Zancan, attraversare la tradizione letteraria secondo l’ottica di una soggettività femminile significa
assumere, nella ricostruzione dei quadri storiografici, la distanza che svela la complessità degli immaginari poetici, e
mostra, oltre l’assenza, i soggetti nella storia. L’obiettivo è restituire il senso complessivo della presenza della donna
nell’istituzione letteraria; interpretare le modalità con cui la donna interagisce con la letteratura stessa. Studiare la
presenza femminile in letteratura significa leggere contestualmente l’oggetto di raffigurazione e il soggetto di scrittura;
scombinare l’ordine del pensiero per vedervi il movimento della vita; scomporre i quadri storiografici per aprire varchi
agli immaginari delle donne. In questa ipotesi, ogni scrittura può essere pertinente, pur tuttavia la Zancan sceglie di
analizzare quelle fasi storiche in cui la tradizione culturale e il sistema letterario si trasformano e si definiscono: il
periodo delle origini (fino al 300), il 500, e i decenni fra Sette- e Ottocento e fra Otto- e Novecento, fino agli anni
Sessanta. In questi periodi, la figura femminile appare investita di forte funzioni, sia testuali che ideologiche. Si ritrova,
inoltre, una presenza non occasionale e molto problematica delle donne come soggetto di scrittura. ]
Una costante registrata dalla Zancan è un effetto di dissonanza fra le scritture maschili e quelle femminili, perché
queste ultime puntano a rimarcare una differenza, un divario dalle prime. Gli studi critici si sono soffermati anche sullo
studio nello specifico della scrittura femminile, per cercare di rintracciarvi delle “cifre identificative”. Si è cercato anche
di capire quanto la donna sia diventata anche soggetto attivo nella storia letteraria. Il primo dato da cui possiamo
partire: nella maggior parte dei casi, nella tradizione della letteratura, i testi si incentrano su una figura femminile, o
meglio su raffigurazioni di donne o rappresentazioni di concetti e pensieri tramite figure femminili, perciò la donna
diventa metafora, rappresentazione. La letteratura italiana, nascendo proprio nel momento in cui si sviluppa una
nuova cultura, vuole imporre con sé una nuova mentalità, una nuova visione del mondo: laica, volgare (più
accessibile), in versi (la prosa si sarebbe affermata più tardi) e a tema amoroso. In questa nuova cultura, l’amore è un
processo conoscitivo, un’esperienza di civilizzazione e la figura femminile un mezzo di elevazione morale; non un
personaggio concreto e reale, quanto piuttosto simbolico. Tramite l’amore e la donna, l’intellettuale laico afferma il
proprio valore e il proprio dominio intellettuale.
 Le prime attestazioni di liriche amorose in volgare risalgono alle poesie della scuola siciliana, situata presso la
corte di Federico II; scuola laica, riprende col verso e col volgare “illustre” gli elementi dell’amor “cortese”. L’amor
cortese si distingue da quello del mondo classico per la concezione di “favore disinteressato, gesto di devozione” verso
una donna idealizzata, sublimata, quasi eterea.
 Col Dolce Stil Novo, la simbologia della figura femminile si arricchisce di nuovi significati, in seguito a un
“innesto” di pensiero filosofico e ideologico. In un contesto storico-sociale quale la realtà comunale, più aperto
rispetto ai passati, l’esponente Guido Guinizzelli stabilisce una stretta corrispondenza fra amore e cuore nobile, per
cambiare l’idea di “nobilità” (non più alto lignaggio ottenuto dalla nascita, ma capacità di provare il sentimento
amoroso, che nobilita l’uomo). La donna viene quindi ulteriormente idealizzata a creatura disincarnata e divina: nasce
la donna-angelo.
Dalla scuola siciliana a Petrarca abbiamo le costanti dei versi, della tematica amorosa e del valore estremamente
simbolico conferito alla figura femminile, a partire dai nomi loro attribuiti, partendo dalla “portatrice di beatitudine”
Beatrice, continuando con l’aura/Laura/alloro, ecc. L’immagine della donna si lega in modo molto forte al processo
intellettuale dello scrittore, all’evoluzione del percorso mentale di chi scrive. Così come la tradizione letteraria, anche
la figura femminile al suo interno si evolve con le epoche.
 Nel prosimetro “Vita nuova” di DANTE, la figura di Beatrice è anche emblema del percorso compiuto da
Dante come scrittore. La donna è perciò simbolo di carriera letteraria e percorso autobiografico. Beatrice da un
lato rappresenta una figura reale, ma dall’altro simboleggia un bilancio, di quanto fatto da Dante sino a quel
momento (si può dire che la “VN” sia una sorta di precursore del genere autobiografico). Con Dante, la donna
subisce un processo di trasfigurazione ed astrazione, rappresentando l’esempio perfetto di “donna-angelo”,
soprattutto nella Commedia. [ La donna amata appare come una figura reale, oggetto del sentimento d’amore, e al
tempo stesso figura simbolica, principio e metafora di un rinnovamento sentimentale e poetico. Il sentimento
d’amore assume il valore di amore ideale e diventa simbolo, che valorizza la nuova realtà e la nuova scrittura,
quella in volgare, destinata alle donne. ]
 PETRARCA attua una selezione della propria produzione poetica e articola nel suo “Canzoniere” un discorso
molto preciso. Questo criterio di organizzazione dell’opera rappresenta, appunto, l’evoluzione letteraria e
spirituale di Petrarca.
Dopo la morte dell’amata, il poeta si ravvede dai sentimenti passionali provati per lei e decide di sublimare
quell’amore nell’impegno intellettuale. Pur avendo i tratti delle figure femminili che l’hanno preceduta, Laura
presenta un’accentuata connotazione umana, anche a livello fisico. L’altro elemento fondamentale della poetica
di Petrarca è la rappresentazione dell’amore come una vicenda intima e privata. Se per i trovatori l’amore
rappresentava un sentimento da celebrare apertamente, le liriche amorose di Petrarca hanno una forte
impostazione intimistica, personale e soggettiva. Il poeta compie uno scavo interiore, riflette sull’effetto che
l’amore ha su di lui. Petrarca attua un recupero del mondo classico e di una dimensione intimista, rendendo Laura
un prototipo, una figura poi ricorrente nella letteratura italiana, così come la lingua petrarchesca, poi “canonizzata”
da Bembo come modello per la produzione in rima.
 BOCCACCIO rappresenta l’amore come passione propria dell’uomo, forza inarrestabile che domina la vita
umana. Al contempo, dipinge una donna più realistica e meno idealizzata, non solo oggetto di rappresentazione e
amore, ma anche soggetto che ama (e scrive: molti dei novellatori scappati da Firenze sono donne). In “Elegia di
Donna Fiammetta” la protagonista narra, tramite l’espediente di una lettera in prima persona, la perdita
dell’amato Panfilo. L’opera rappresenta un caso particolare, poiché è destinata ad altre donne, alle “altre donne
innamorate” che “hanno provato il suo dolore”. Con Boccaccio si compie dunque un passo avanti verso un
concetto di amore più moderno, rendendolo più umano, anche grazie all’uso della prosa; egli infatti riprende dalla
tradizione lirica il tema amoroso, ma rielaborandolo nel contesto del genere novellistico. La donna, quindi, non è
solo oggetto d’amore, ma assume un ruolo più attivo. Nel Decameron si indirizza alle donne come “pubblico ideale
delle proprie novelle”: denuncia la reclusione imposta alle donne, sostenendo che le donne “bisognose d’aiuto”
fossero quelle “rinchiuse nelle loro camere da mariti, padri, madri”. Dedica perciò le proprie opere a un pubblico
femminile per consolarle dalla reclusione, aiutarle nella malinconia d’amore e restituire loro dignità. Sottolineava
inoltre quanto la figura femminile sia troppo complessa per poter essere rappresentata in modo efficace ed
univoco. [ In Boccaccio, dunque, la donna è caricata di tre funzioni: è destinataria, soggetto di racconto e spesso
protagonista. ]
Nel momento in cui si afferma la letteratura volgare, accanto all’economia agraria fra XI e XII secolo si sviluppa
l’attività mercantile. Grazie a questo settore in ascesa, la donna riesce ad acquisire una propria specifica funzione nei
ceti sociali; ci si domanda se è stato così anche per la produzione letteraria del periodo. Nei primi anni della cultura e
letteratura volgare, sono state identificate due distinte voci femminili attive: *la Compiuta Donzella, fiorentina
esponente della cultura più progredita e laica
*Santa Caterina da Siena, espressione di cultura ecclesiastica.
Il fatto che solo queste due voci siano state tramandate significa che, nel processo di laicizzazione culturale di quel
tempo, la cultura aveva carattere elitario ed ereditario (destinata ad attività tramandate di padre in figlio da notai,
cancellieri, ecc.), perciò le donne non avevano modo di trovare uno spazio riservato a sé.
Ad avere accesso all’istruzione erano soprattutto le aristocratiche, tramite precettori o scuole conventuali.

19.3
Nella rappresentazione letteraria, la donna viene caricata di una funzione simbolica che trascende la loro fisicità, per
rappresentare un’entità astratta. In questi anni, al donna è stata sostanzialmente esclusa dal ceto intellettuale,
formato piuttosto da notai, giuristi, esponenti della cultura molto competenti anche a livello filosofico e teologico. La
donna non aveva accesso a questo modello alto di cultura; per un certo periodo l’istruzione fu riservata solo alle
donne aristocratiche che potevano permettersi un precettore, poi molte riuscirono a entrare nelle scuole conventuali.
A partire dal 1100 al 1300 la possibilità di frequentare queste scuole viene estesa anche a ragazze appartenenti al ceto
borghese più facoltoso. Le altre donne, appartenenti a fasce più basse della borghesia, cominciano a frequentare
istituti in città: iniziano a sorgere, infatti, scuole anche nelle cittadine, per insegnare a leggere, scrivere e far di conto.
Le monache assunsero un certo rilievo a livello culturale, spesso con la funzione di amanuensi, mentre le donne più
povere e basse rimasero sostanzialmente analfabete.
Il primo elemento che emerge da questa situazione è il fatto che la donna divenga simbolo del passaggio da letteratura
latina a volgare, pur non avendo la possibilità di partecipare attivamente a questa transizione. Alla grande funzione
attribuita alla figura femminile, difatti non corrisponde una vera facoltà delle donne di interagire col ceto intellettuale
del tempo. In tutto questo, all’interno della cultura italiana, è stato anche compiuto un processo di rimozione.
Pochissimi i nomi di letterate pervenutici: *Compiuta Donzella / *S. Caterina.
Fra la tradizione borghese che inizia ad affermarsi nel 400: *Isotta Nogarola, colta veronese che scriveva in latino /
*Alessandra in Strozzi, che scrive in volgare varie lettere ai figli poco dopo la morte del marito, il nobile fiorentino della
casata Strozzi. In queste lettere narra, con un volgare fluido, le vicende quotidiane di vita familiare e sociale, creando
uno straordinario autoritratto.
Nel 400, l’assenza femminile si può spiegare con l’insorgere di un altro fattore. Con l’Umanesimo, torna in auge la
scrittura letteraria in latino, strumento culturale selezionato e alto che punta a una circolazione internazionale del
sapere, anche in campo scientifico. Questo complicò ulteriormente l’accesso delle donne alla cultura.
Santa Caterina (1347-1380) si situa in quest’arco cronologico, pur aderendo alla tradizione ecclesiastica. Da un lato, la
cultura laica ha adottato la donna come proprio simbolo astratto, senza riuscire a inglobarla al proprio interno come
referente reale, in carne e ossa; la cultura ecclesiastica, invece, già in questa fase, è in grado di assumere la figura
femminile all’interno del proprio progetto culturale e politico. Nella tradizione religiosa compaiono vari tipi di donne:
*sante e beate, modelli positivi di vita, che traspaiono dalle agiografie;
*eretiche e streghe, le prime più erudite delle seconde, tutte figure negative.
Tutti questi tipi di donna rivendicano un rapporto privilegiato con l’ultraterreno (del bene o del male). Tutte hanno
lasciato una traccia scritta delle loro esperienze, chi direttamente, chi per mano di qualcun altro – vedi le streghe,
oggetto di Inquisizione e processi, le cui testimonianze sono registrate negli atti processuali in una sorta di racconto
indiretto (filtrato dalla mano di chi scrive). [ Attraverso il loro rapporto privilegiato con l’Ente supremo, queste donne
proiettavano con le azioni la tensione a superare l’ordine della gerarchia sessuale, ad affermare la diversità come
valore, e altri elementi omogenei (una vasta conoscenza e pratica della medicina naturale; un discorso insistente sul
corpo e la sessualità; la rivendicazione a sé della funzione di soggetto di mediazione fra comunità e Ultraterreno) ]. Le
eretiche appartenevano a una fascia più alta e perciò avevano un rapporto diverso con la scrittura e con la cultura:
talvolta hanno messe loro stesse per iscritto la propria storia, altre volte le loro vicende sono riportate negli atti
processuali.

Le sante rappresentano delle figure borderline; spesso molte di loro, ai tempi, erano considerate al pari delle eretiche
(come Giovanna d’Arco) e la stessa S. Caterina fu chiamata a giustificarsi dai sospetti di eresia. Per quanto la loro figura
sia stata poi riabilitata nel tempo, hanno comunque rappresentato delle “fuori casta” nella predicazione religiosa,
avendo poca voce in capitolo all’interno degli ambienti ecclesiastici. Queste donne erano probabilmente in grado di
leggere e scrivere, per quanto fossero in vigore, nei loro confronti, il divieto di predicare o di intervenire in questioni
dottrinarie e l’esclusione dal sacerdozio. D’altro canto, possono lasciare testimonianza della propria esperienza
intellettuale e possono operare con grande libertà nel contesto sociale. Sebbene le loro parole siano spesso legate
all’oralità, hanno anche raggiunto la codificazione scritta, però tramite una mano e un vaglio maschili. La loro
ortodossia, infatti, era garantita dalla presenza costante di un confessore, vero e proprio intermediario nella loro
trasformazione in modelli di donna e di santa.
Santa Caterina ha lasciato una raccolta di lettere e il “Dialogo della Divina Provvidenza”, basato sul filo conduttore
del “perfetto amore”. Questo rappresenta un rapporto individuale ed esclusivo con Dio; ciò da una parte, rivela alla
santa il volere divino, dall’altra conferisce al suo agire una sorta di legittimazione divina. Il percorso compiuto da
Caterina rappresenta una sorta di elevazione spirituale, che la porta a costruirsi una forte personalità, da dedicare
totalmente ai più bisognosi. Nelle sue lettere, Caterina descrive il momento storico in cui vive, nei risvolti politici ed
ecclesiastici (esortando il papa ad interrompere la cattività avignonese, ad esempio) e si rivolge a interlocutori reali,
persone del suo tempo, con cui esprime se stessa e attua una riflessione su di sé e sulla realtà che la circonda.

Fra la fine del 400 e la prima metà del 500, il mutamento del sistema letterario accelera. Si assiste a:
 una codificazione del volgare, che gli conferisce maggior legittimità nel suo ruolo di lingua letteraria (il latino
viene confinato ai fini scientifici e filosofici)
 l’introduzione della stampa a caratteri mobili (Guttemberg, 1455), con cui i libri potevano essere stampati e
diffusi su più ampia scala e con maggior velocità  Ciò porta alla rapida crescita del pubblico letterario, e
quindi  più volgarizzamenti delle opere classiche in latino e  un accesso alla cultura facilitato per le
donne.
Bembo delinea, per la scrittura in lingua volgare, due modelli da seguire: 1. petrarchesco (per la poesia) /
2.boccaccesco (per la prosa) e stabilisce perciò un modello di scrittura imitativa, che diede possibilità di scrivere anche
alle donne.
Nel 500, in Italia, lo scontro fra la coscienza generale della grande importanza del proprio patrimonio culturale con il
ruolo, di secondo piano, investito dall’Italia a livello internazionale, porta il ceto degli intellettuali a volersi porre come
modello per affermare, al di sopra della crisi, il valore della propria immagine. Insorge la tendenza generale a creare
modelli anche per quanto riguarda il comportamento. Anche la figura femminile viene normata in un modello alto ed
equilibrato, in un’immagine che è parte della rappresentazione del proprio valore culturale e civile. Fra i libri che
presentano questi contenuti troviamo “Il cortegiano” di Baldassarre Castiglione (1528), vero e proprio vademecum
dell’uomo di corte di allora (“uomo di stirpe, d’armi, di cultura, maestro della conversazione”) che impone un modello
astratto dell’uomo di corte. All’interno dell’opera, Castiglione traccia un modello di cortigiana: il complemento, l’”altra
faccia” del cortegiano/uomo, con cui egli può ricostituire un’unità, un’immagine totale ed equilibrata. Viene proposta
dunque una figura femminile equilibrata, saggia, esperta delle arti (non di filosofia), spogliata delle sue caratteristiche
fisiche e mentali, solitamente associata a comportamenti sovversivi e a principi di disordine. [ All’elemento femminile
sono attribuite due funzioni: di ricondurre al modello (la corte), in modo equilibrato, quegli elementi di disordine che,
per tradizione, la donna rappresenta; ricongiungendosi all’elemento maschile, di garantire che il sistema di corte/del
modello possa essere naturale e universale. ] La donna viene ricollegata a una sfera astratta di ragionamento ed
equilibrio; ciononostante, non è previsto per lei alcun tipo di formazione filosofica.
La tendenza a creare modelli si irrigidisce con l’imposizione di vere e proprie norme da seguire, sia per gli uomini che
per le donne, quali la Poetica aristotelica e altri scritti con regole fisse da seguire, a livello letterario ed etico. Lodovico
Dolce scrive il Dialogo, mirato a impostare l’istruzione delle donne nelle tre fasi della loro vita, così da avere la
1)perfetta donzella 2)perfetta maritata 3)perfetta vedova.
(Sia ne Il Cortegiano che nel Dialogo, il discorso tende a comprendere anche la funzione intellettuale della donna, e in
ambo i casi tale funzione è sì subordinata, ma necessaria a simboleggiare l’evoluzione acquisita dal ceto intellettuale.
La donna è mirata dunque a rappresentare l’ideologia della cultura del tempo, non più come immagine astratta ma
come figura di totalità.)
Si ha un riscontro della tendenza all’imposizione normativa anche nelle letture destinate alla donna, quali Dante,
Petrarca, Bembo, Castiglione, e nelle letture vietate, quale il “licenzioso” Boccaccio.
Nel 500, il ruolo della donna è più complesso rispetto al passato: comincia a essere considerata parte attiva
dell’elaborazione culturale. In quegli stessi anni si moltiplicano i generi letterari, molti dei quali ripresi dalla tradizione
classica; ne deriva una diversificazione delle opere, fra prosa, trattatistica (politica, filosofica), tragedia e commedia,
storiografia, testi seri, dialoghi, autobiografie, epistolografia, eccetera. Alla luce di questo sviluppo di nuovi approcci
alla letteratura, la lirica perde il proprio primato.
Cambia anche il significato del tema d’amore, che si arricchisce di nuove sfaccettature, non solo simboliche. La donna,
da metafora dell’atto poetico, diviene personaggio all’interno della trama dell’opera. Fra le figure femminili che
mantengono un alto valore simbolico nel 500 ne troviamo nell’Orlando furioso e nella Gerusalemme liberata.
 ARIOSTO osserva la realtà sia con disincanto che con partecipazione emotiva. Vuole cogliere la
complessità della natura umana, il valore e i difetti dell’uomo. Ariosto è profondamente intriso della mentalità
rinascimentale, che vede l’uomo al centro dell’universo, a cui accosta un punto di vista fantastico, per rappresentare
alcuni tratti essenziali della natura umana.
Il motore del racconto nonché innesco di tutte le peripezie è l’amore, passione che può sfociare nella follia.
Nell’Orlando Furioso sono presenti varie figure di donna, ognuna rappresentante di un aspetto della natura umana.
Ne deriva un’immagine più complessa e sfaccettata delle donne. In nessuno di questi personaggi femminili compare
alcun elemento trascendente.
 Angelica = Bellezza. È la ragazza di cui Orlando si innamora e per cui abbandona la causa della Crociata contro
i Saraceni. Se nelle chanson de geste ci si concentrava sull’eroica rinuncia dei paladini all’amore, e Boiardo poneva
l’accento sull’innamoramento, in Ariosto l’amore fa degradare il paladino fino alla pazzia. (La sua è una bellezza
eccessiva, maliziosa, che scatena un desiderio irresistibile e mette in crisi l’etica dei cavalieri e del paladino
Orlando. Sebbene questa bellezza dia accesso a esperienze di vita e conoscenze straordinarie, in realtà il valore
dell’amore risiede in chi vive questa passione, non in chi la induce. La passione d’amore è sì suscitata dalla
donna, ma può essere vissuta solo dall’uomo, vittima della passione prima e poi della follia: è Orlando a
impazzire per amore, e dunque è l’unico a delineare un percorso di conoscenza umana.)
 Bradamante = Fedeltà. Donna guerriera e cristiana che innesca il percorso umano e intellettuale di Ruggiero,
impersonando, nel suo amore, il principio dell’ordine umano.
 Alcinia = Lussuria. Simbolo inquietante che rappresenta il sesso della donna, la lussuria, luogo di perdizione,
corrotto e segnato dalla morte. Ariosto associa dunque la sessualità femminile all’orrore.
 TASSO si occupa della donna in più opere, con tante sfaccettature di pensiero.
 Nella produzione teorica associa le donne al disordine, in quanto materia, non ragione. L’uomo, al contrario,
viene rappresentato come principio di ordine ed espressione della ragione. All’uomo spetta il compito di condurre la
donna dal disordine della materia all’ordine dell’intelletto. È l’uomo che deve portare la donna a superare la sua
condizione “materiale” per renderla più razionale. La donna deve riuscire a ristabilire un ordine tramite la struttura
familiare, primo nucleo di ordine per la donna stessa e per la società. Nella prosa Il padre di famiglia, Tasso consiglia
di considerare due fattori nella scelta di una moglie: *che sia di condizione sociale paritaria all’uomo (immobilismo
sociale)
*che sia di giovane età, perché più fertile e più psicologicamente manipolabile. In questo modo viene stabilita una
rigida gerarchia dei sessi, in cui è l’uomo a “dirigere” la donna fuori dal disordine. L’ordine domestico è anche qui
considerato necessario per l’ordine sociale.
 Nella Gerusalemme Liberata, la maga Armida (doppio aspetto negativo) incarna il disordine, l’elemento
diabolico, la perturbazione della volontà divina. Sia il protagonista che Armida subiscono un’evoluzione nell’opera: il
paladino crociato Rinaldo viene distolto dalla propria causa dall’interesse amoroso che lo coinvolge, ma infine riesce
ad allontanare questo elemento di disturbo, portando a compimento il proprio dovere. Così Armida, che alla fine
dell’opera non è più rappresentata come maga, bensì come donna innamorata, personaggio conturbante sottomesso
alla ragione, all’amore e alla fede. Il corpo femminile, pieno di fascino sensuale, aveva turbato l’ordine del pensiero
divino, per poi consentire, tramite la sublimazione della propria materialità, di ritornare all’ordine nel pensiero. Per
Tasso dunque, la scrittura poetica rappresenta una composizione di ordine.

Nel 500, le donne sono sia oggetto che soggetto di scrittura: per la prima volta, il numero di letterate aumenta. Già
nel 1545, viene redatta una raccolta di rime scritte da donne diverse. La società letteraria, inoltre, codifica un modello
di donna colta: onesta e istruita, così da potersi confrontare con la scrittura letteraria. I testi letterari scritti da donne
vengono pubblicati soprattutto a Venezia, dove l’editoria conosce uno sviluppo notevole: l’editore Claudio Manuzio
pubblica tutta una serie di opere (anche femminili) provenienti dalla ricca tradizione letteraria veneziana. Le poetesse
più famose sono: Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Veronica Gàmbara e altre. Venezia promuove un modello di
donna colta, che scrive e pubblica testi letterari rivolti anche al crescente pubblico di lettrici. (Ciò nonostante, sebbene
Venezia si ponesse, anche per le donne, come sede dell’industria tipografica più prestigiosa d’Italia, sembra non
promuovesse la presenza culturale delle sue abitanti, tanto che fra le donne intellettuali di inizio 500 compare solo
una veneta: la Stampa.)
- Vittoria Colonna fu donna colta e nobile, autrice di un canzoniere, ossia Le Rime. La sua opera imita il carme
petrarchesco, riprendendo la struttura delle rime in vita e in morte. Dedica i propri carmi al marito, descritto come un
perfetto cavaliere, nobile, valoroso e con una bellezza carica di virtù morali. L’amore è corrisposto, ordinario e si
inquadra all’interno dell’istituzione familiare e coniugale. La figura femminile è rappresentata dall’autrice e incarna
invece i valori della fedeltà e della castità; vuole affermarsi sia dal punto di vista sociale che letterario (la stessa
Colonna si contraddistingueva per una presenza nella vita intellettuale di altissimo valore, grazie a una compiuta
intellettualità femminile).
- Gaspara Stampa, anche lei recupera il modello petrarchesco in un proprio canzoniere, le Rime d’amore, senza
riprendere il modello delle rime in vita e morte, né una figura maschile unica. L’amato non è più un’unica figura e
perde, in sé e per sé, in virtù, facendo emergere come protagonista delle poesie la lei che, scrivendo, dà valore alla
propria figura d’amore. In questo modo, la Stampa, parlando d’amore, parla direttamente di sé. La Stampa traccia
l’itinerario dei propri amori, descrivendo un modello alternativo di donna: una cortigiana intellettuale, forte, libera e
trasgressiva che non si riconosce nell’ordine sociale precostituito e nei ruoli sociali prestabiliti (donne veneziane o
“oneste” o meretrici). Nonostante fosse perfettamente inserita nel contesto culturale veneziano, è stata spesso
oggetto di attacchi satirici e osceni.
- Maria Savorgnàn è una voce scoperta di recente. Fu un’interlocutrice e un’amante platonica di Pietro Bembo,
con cui intrattenne una relazione epistolare; le lettere da lei scritte nel Carteggio furono pubblicate solo nel 1950 (le
lettere di Bembo nel 1535). In queste lettere, coesistono una dimensione privata (il rapporto d’amore fra i due) e una
letteraria, grazie al linguaggio aulico utilizzato dall’autrice. Bembo traduceva la passione d’amore nelle forme alte di
un pensiero astratto, la Savorgnan si concentrava la scrittura annota riflessi di vita quotidiana. Il Carteggio dimostra
che le aristocratiche veneziane avevano dimestichezza con la scrittura, e che questa rappresentava per loro un mezzo
per l’affermazione di sé; la Savorgnan, in particolare, la sfruttava per creare un’occasione di incontro, di seduzione
(intellettuale e platonica; lui era sposato).

Il periodo della Controriforma (1543-1563) porta a un irrigidimento delle norme e delle regole all’interno dei generi
letterari. Aumentarono i dialoghi e i trattati per strutturare una formula ordinata di famiglia; alcuni di questi cadevano
nella misoginia (come il Della cura familiare di Speroni, in cui scriveva che “l’officio conveniente alla natura delle
donne” è “il saper reggere la sua famiglia, conservando tutto quel che suo marito – certo più operoso e audace di lei –
lavorando suole acquistare”). Durante questo periodo, si affacciarono nel panorama letterario anche alcune donne, fra
cui Veronica Franco, anche queste imitatrici del modello petrarchesco, ma anche autrici di altre forme di scrittura:
commenti, favole pastorali, eccetera, che portarono a una diversificazione del panorama letterario. Nelle opere di
queste donne, cominciava ad affiorare un disagio nei confronti della rigidità delle regole morali loro imposte .
Arcangela Tarabotti, ad esempio, descrive come sia stata costretta a prendere i voti e a rinchiudersi all’interno di un
chiostro veneziano, denunciando la tirannia paterna e la realtà opprimente dell’”inferno monacale”.

21.3
Nel periodo di passaggio fra 700 e 800, si assiste allo scoppio della Rivoluzione francese e alle sue numerose
conseguenze a livello geopolitico in Italia. Anticipando l’Unità d’Italia del 1861, nella penisola inizia a germogliare
l’idea di nazione italiana unitaria. A questo progetto si lega un intellettuale-tipo dal pensiero laico, impegnato
politicamente: ora l’intellettuale si schiera, prende apertamente posizione sui vari temi sociali. Con la corrente
neoclassicista, viene recuperata la tradizione neoclassica. Tutti questi fattori hanno un riverbero a livello intellettuale e
artistico: a dispetto del cambiamento cruento e repentino che stava vivendo la Francia, in Italia prende piede il
progetto di un cambiamento moderato, graduale. A parte il tentativo (fallito) della Rivoluzione partenopea, ogni
focolaio sovversivo viene represso. Cuoco ha scritto in un saggio sulla Rivoluzione napoletana: <<In Italia, la rivoluzione
ha fallito perché è mancata la condizione di base, ossia non è partita dal basso, dalla necessità, dal popolo che vuole
ribaltare una realtà negativa.>> Si staglia inoltre un progetto di educazione popolare, come via per una graduale
trasformazione sociale. Rispetto alla Francia, c’è stata dunque una fase di avvio all’unificazione più lenta, meno
rivoluzionaria. Queste tematiche vengono affrontate da varie riviste (“Il conciliatore”, “L’antologia”), assieme ai
problemi concreti del tempo e a un progetto per cambiare la società; anche qui traspare il valore morale e civile
assunto dalla componente intellettuale.
In questo intreccio, le forme di rappresentazione del femminile si complicano, rivelando una discrepanza fra come la
donna viene rappresentata e come invece si rappresenta. Se l’età moderna nasce con la svolta della Dichiarazione dei
diritti dell’uomo e del cittadino, non le corrisponde un riconoscimento dei diritti della donna, che resta
sostanzialmente subordinata all’uomo ed esclusa dai diritti civili, anche in ambito familiare. Le donne si oppongono a
questa situazione sin da subito; in Italia, soprattutto fra fine Ottocento e inizio Novecento, ossia negli anni del
movimento emancipazionista, l’intreccio fra immaginari maschili e femminili mette in gioco la definizione dei ruoli
sociali e sessuali come aperto contrasto di poteri. La dicotomia fra privato e pubblico è perciò il nuovo terreno su cui le
donne di inizio Novecento hanno contrapposto una coscienza di sé, diventata progetto di una società in grado di
rispondere ai bisogni di tutti, uomini e donne. A fine 700 (1791) Olympe Dèguge, autrice teatrale, pubblica, in segno di
protesta, la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, parallela a quella scritta due anni prima. Questo
exploit non ha però molto seguito; l’autrice viene ghigliottinata poco tempo dopo (1793).
In questo periodo, il genere che più rappresenta sia la ricerca letteraria che il nuovo gusto del pubblico è il romanzo. Il
genere romanzesco, molto legittimato in quegli anni dall’ascendente società borghese francese e tedesca già dagli inizi
del 700, in Italia giungerà in ritardo, nell’800. Ne Le ultime lettere di Jacopo Ortis (che chiudono il filone del romanzo
epistolare) di FOSCOLO si afferma una prosa più moderna rispetto al resto della scena letteraria italiana. La figura di
Teresa ha una connotazione simbolica, atta a rappresentare l’armonia della natura, la pace, la serenità familiare e
quotidiana che Jacopo ricerca sullo sfondo dei Colli Euganei. Teresa si configura come figura molto docile: rinuncia
all’amore corrisposto di Jacopo per sposare Odoardo e ristabilire così le finanze di famiglia. Foscolo non opta per una
realtà quotidiana, facilitata, anzi sceglie una realtà più difficile, evitando qualsiasi collusione col potere. Pagherà il
costo di questa decisione di tutta la vita, andando in esilio e vivendo gli ultimi anni di vita povero e malato in
Inghilterra.
Un’altra figura di donna-tipo è da rintracciare nella Silvia di LEOPARDI. Questo personaggio ha sia riscontro anagrafico
che valore metaforico di speranza, gioventù, illusione. In questa immagine di donna si condensa una forma alta di
pensiero.
Un‘altra caratteristica del romanzo ottocentesco è il suo obiettivo pedagogico: punta a educare il lettore dal punto di
vista civile e morale. Su questo punto, gli intellettuali insistono molto, vedendo come punto d’arrivo di questo
programma di civilizzazione la realizzazione del progetto di unificazione graduale del paese. Nello stesso Ortis, viene
messa a fuoco questa funzione: nell’incontro fra Jacopo e il vecchio Parini, avviene un confronto fra il giovane,
disposto a sacrificare la propria vita pur di mettere il mondo a ferro e fuoco per rivoluzionarlo, e l’anziano Parini che lo
ravvede: <<Puoi anche scegliere di suicidarti, ma una nazione non si può sotterrare tutta quanta. >> Per realizzare i
propri ideali, non è necessario compiere il sacrificio estremo, ma bisogna puntare a un processo più graduale; <<questo
ardore spendilo nella scrittura>>, strumento per la formazione e costruzione di nuove coscienze. <<Solo quando un
ideale è condiviso da un’ampia base, solo allora si potrà affermare.>> L’educazione assume dunque il ruolo di funzione
principale della letteratura italiana del tempo, mentre la famiglia diventa la prima cellula della società che bisogna
curare. Al suo interno, i conflitti si pacificano e va costruita una gerarchia ben regolata di ruoli; il buon funzionamento
dell’ambiente familiare è la base per il buon funzionamento della società. In quest’ottica, la “sposa-madre” assume il
ruolo centrale di perno che coagula l’unità della famiglia, pertanto si impone la necessità di educare le donne ad
accettare questo ruolo e a sentirsi gratificate, per tenere a bada le spinte eversive e di autonomia.
Dal Romanticismo, la letteratura e la cultura entrano a far parte di un disegno di sviluppo civile, che si rivolge a un
pubblico in parte nuovo, più ampio. Il romanzo più importante dell’800 italiano sono i Promessi Sposi di MANZONI, in
cui troviamo due tipi femminili tanto emblematici quanto diversi fra loro e importanti all’interno dell’opera. Sia Lucia
che Gertrude rappresentano tematiche molto scottanti per l’epoca, rispettivamente l’impossibilità del matrimonio per
amore e la monacazione forzata. Manzoni riesce a toccare questi problemi sociali “trasportandoli” nel passato,
dunque in modo velato e allusivo, evitando la censura. Manzoni punta non solo a descrivere la propria realtà, ma
anche a veicolare messaggi politici e sociali:
 Lucia vive la religiosità come un rito quotidiano, e ciò la porta a superare la conflittualità delle vicende che
vive, sempre ostacolata dal malcostume politico ed ecclesiastico, fino a raggiungere il lieto fine. Lucia incarna dunque
l’ideale di accettazione e rassegnazione in virtù dei valori cristiani. Manzoni propone, tramite questo personaggio, un
modello di società basato sulla pacificazione, la moderazione dei conflitti, la fiducia nella Provvidenza.
Traspare, da parte di Manzoni, uno sguardo paternalista, quasi educativo sulla realtà.
Un altro romanzo importante dell’epoca risorgimentale è Confessioni di un italiano di Ippolito NIEVO. Quest’opera
autobiografica descrive la relazione fra il protagonista Carlino Altoviti e la figura femminile della Pisana; questo
personaggio rappresenta le pulsioni, le passioni dell’esistenza. È una donna vulcanica, passionale, inafferrabile per il
protagonista. Quando la Pisana morirà, sarà di nuovo possibile per Carlino ristabilire l’ordine, per sviluppare le proprie
capacità e doti (dunque l’opera si configura come un romanzo di formazione). Attuando una lettura in chiave più
moderna, si può dire che la Pisana rappresenti un doppio, un alter ego di Carlino, la sua controparte più irrazionale e
problematica, la componente repressa della personalità di Carlino. Spesso, nell’800, spetta alla donna far venire alla
luce ciò che la società schiaccia e reprime, in nome dell’ordine e dell’efficienza sociali.
[ In questa fase (di costruzione politica della nazione ormai unita) e in quella successiva, in cui tenta la creazione di
un’identità nazionale, vanno considerate due tipologie di scrittura: una saggistica, a carattere pedagogico, che rende
esplicito il ruolo sociale della donna italiana, e una storiografica, che si confronta con le figure e i testi
dell’intellettualità femminile. Alla base dell’una e dell’altra sta il nuovo rapporto fra individui e stato all’interno delle
società occidentali contemporanee. In questo contesto, la “natura femminile”, simbolo culturale e letterario, diventa
politicamente connotato: rappresenta da ora il luogo in cui sono state giocate sia l’esclusione delle donne dalla
cittadinanza, sia quel requisito con cui le stesse donne si avvalevano il diritto di essere tutelate. ] A ridosso del 1861, la
definizione del modello di “donna nuova” è parte essenziale nel processo di strutturazione della sfera familiare che fa
perno sulla “natura femminile” dell’amore, materno e coniugale. Il modello femminile che viene proposto è quello di
moglie-madre, una donna appagata dall’amore materno e coniugale. Ne La donna, Niccolò Tommaseo propone un
modello di “buona società” che corrisponde a un modello di “buona famiglia”: la famiglia è il fondamento della forza
pubblica e la donna vi ha un ruolo centrale, grazie alle sue caratteristiche psicologiche e spirituali diverse dall’uomo,
da incoraggiare ed educare: una sana società si fonda sulla solidità dell’istituzione familiare, e questa, a sua volta,
poggia sull’innovamento dell’educazione femminile. La donna può dunque essere educata e disciplinata, per essere
condotta alla razionalità. Il concetto di amore si trasforma ancora, assumendo connotazioni sociali: diventa amore
verso il prossimo, la libertà, la patria.

Negli anni dell’Unità d’Italia si tende a creare una sistemazione della tradizione nazionale. De Sanctis tenta di
tracciare una storia della letteratura come storia civile, percorso di civilizzazione dell’Italia nei secoli, e ne emerge una
pressoché totale assenza di voci femminili, causata dalla dominanza di un canone letterario maschilista. Nel proprio
compendio, De Sanctis cita la Compiuta Donzella, la Siciliani, Santa Caterina, la Stampa e poche altre; dalla selezione
degli autori emerge dunque un criterio maschilista e la separazione fra sfera pubblica e privata. [Questo passaggio alla
raffigurazione storiografica l’incidenza esercitata in quegli anni dall’editoria, sia nel processo di modellizzazione della
figura femminile avviato nel primo Ottocento dalla cultura cattolica, che nell’assunzione di donne all’interno della
tradizione letteraria nazionale. ]

Nel passaggio fra 800 e 900, dopo la costruzione dello Stato unitario, la società italiana si avvia verso un rapido
mutamento. I settori scientifici, tecnologici e industriali subiscono un nuovo impulso, tuttavia in modo diverso da
regione a regione, accentuando il divario fra Settentrione e Meridione. Il quadro sociale cambia soprattutto al Nord,
dove nascono le prime spinte verso l’emancipazione femminile, sia da parte di alcune forze politiche (quali i socialisti
e i cattolici, con modalità differenti), che dalle donne stesse.
Nel 1881 viene fondata la Lega Promotrice degli Interessi Femminili, nuovo movimento emancipazionista che rivendica
la necessità, per la donna, di assumere un ruolo attivo e rilevante nella vita socio-politica del Paese. Questo neonato
movimento emancipazionista si afferma soprattutto a Milano, dove i processi e la diffusione culturali sono più
avanzati, grazie anche alla nascita di nuove case editrici e riviste.

Volendo tracciare dei quadri storiografici fra la fine dell’800 e l’inizio del 900, se ne possono delineare tre:
fine dell’800 ≈ Prima guerra mondiale  le scrittrici cominciano a occupare uno spazio maggiore e a imporsi
come soggetto di scrittura nel mercato editoriale, anche come giornaliste.
In questa fase, il movimento emancipazionista (che inizia ad affermarsi dal 1881) si divide in vari gruppi
disomogenei, e sulle questioni prettamente femminili, e su temi più generali (quali l’interventismo).
Nella cultura di fine 800 continua a essere proposto un modello dominante di donna-madre.
All’interno del movimento emancipazionista, si individuano due correnti:
- uno fondato sul principio di uguaglianza, che considera la donna uguale all’uomo, anche alla luce del rapporto
cittadino/a-Stato
- l’altro basato sul principio di equivalenza, tendendo a valorizzare la specificità del femminile all’interno della
società e la complementarietà fra donne e uomini.
Aumentano inoltre le rivendicazioni sulla possibilità per le donne di accedere alla cultura, a istruirsi e a praticare i
saperi. C’è una grande produzione editoriale, che si rivolge a un pubblico sempre più variegato, poiché sempre più
persone stavano avendo accesso all’alfabetizzazione e alla cultura: nascono nuovi generi quali il romanzo rosa, il
giallo, eccetera. Questo impulso all’editoria poggia anche su intenti pedagogici: continua a perdurare l’idea che
l’ordine familiare sia garanzia di ordine sociale, per stabilizzare e consolidare la società della Nazione italiana
appena sorta. Dalle opere edite in quegli anni, viene confermato un modello di donna che si mantiene invariato
alla base di tutti i modelli: quello della donna onesta, moglie e madre, onestamente colta e attiva. L’accettazione
“serena” del proprio destino permette l’equilibrio della famiglia operaia e consente alla donna di assorbire e
mediare le tensioni familiari e sociali.
Le intellettuali partecipano dunque attivamente alla vita del Paese. Nascono nuove figure professionali, che
portano a una presenza più capillare all’interno del mercato del lavoro: la maestra, la giornalista, la scrittrice,
l’operaia, la contabile, la telegrafista; queste donne rielaborano la propria identità sociale, confrontandosi
necessariamente col modello di donna-madre, fino a quel momento prevalente. Si comincia ad aprire, anche per le
donne, la possibilità di sfruttare la scrittura e l’arte come strumenti di affermazione sociale: nascono figure quali le
appendiciste (autrici di romanzi feuilleton), le scrittrici per l’infanzia, le poetesse, determinando una
diversificazione del mercato culturale. [ A dirla tutta però, da integrazione delle donne all’interno della società
letteraria si rivela una conflittualità latente, una frizione fra gli immaginari femminili e le forme dominanti di
rappresentazione dell’io. Il luogo in cui questo frizione si avverte di più è la scrittura. ]
A contendersi il primato di centro culturale della nazione vi sono:
*Milano, che appare più borghese e progressista. La città milanese catalizza tutte le nuove spinte modernistiche,
portate avanti dalla borghesia industriale e progressista che la popola. Dal punto di vista culturale, Milano vantava
la presenza di case editrici rinomatissime, quali quella di Emilio Treves e quella di Edoardo Sonzonno. La
componente femminile è ben integrata a livello editoriale: a Milano vivono e lavorano la Colombi, Emma (Una fra
tante), Anna Franchi (Avanti il divorzio!), Leda Rafanelli (Il divorzio), Bruno Sperani (pseudonimo di Beatrice
Speraz, autrice di La fabbrica), Anna Zuccari, meglio conosciuta come Neera, autrice della Trilogia della donna
giovane e Rina Faccio, poi rinominatasi Sibilla Aleramo, voce di immediato successo grazie a Una donna.
*Roma, che cerca di attrare le firme di maggior prestigio per sviluppare un ambiente culturale alla pari di quello
milanese. A Roma si trovava l’editore Sommaruga, che fonda la “Cronaca Bizantina”. Per il ceto intellettuale
italiano, la Roma rappresenta un punto d’attrazione sia per la vita politica che per il costume, la mondanità e la
notorietà, grazie ai suoi molti salotti culturali.
Seconda guerra mondiale ≈ Resistenza  le donne partecipano in modo notevole alla vita politica, prendendo
posizioni nette; Alba de Cespedes ha avuto un grande ruolo in questi anni.
fine della Resistenza (1943-44) ≈ anni 60  il movimento femminista rivendica una nuova figura di donna e
nuovi spazi di affermazione sociale.

26.03
La letteratura femminile in Italia nasce alla fine dell’800 grazie a vari fattori:
> influenza dei movimenti emancipazionisti, sempre più importanti in paesi del Nord Europa come Regno
Unito e Scandinavia
> affermazione del socialismo, che pone l’accento sulla necessità di educazione e istruzione per le donne. Con
l’aumento della scolarizzazione, comincia a svilupparsi un pubblico di lettrici femminili, da cui parte un circuito
auto-referenziale, paraletterario fatto di scrittrici donne che si rivolgono direttamente e consapevolmente ad
altre donne. Questo fenomeno investe il sistema letterario di allora, già in espansione con la nascita di vari
(sotto)generi.
> diffusione del giornalismo e della stampa periodica. Molte scrittrici del periodo sono anche giornaliste
(Matilde Serao, Neera, de Cespedes) e tengono rubriche indirizzate a un pubblico femminile.
Sebbene, col tempo, sia riuscita a elevarsi, agli inizi la letteratura femminile è stata considerata un genere
“minore”, accanto ai generi popolari e alla letteratura di consumo.
Nel primo quadro storiografico sulla storia della letteratura femminile, si rintracciano due generazioni di autrici:
1. nata a metà 800, fondata da Marchesa Colomba, Bruno Sperani [pseudonimo], Neera, Contessa Lara e
Matilde Serao. Corrente attiva soprattutto al Nord, a Milano.
2. sviluppatasi negli anni 70 dell’800, formata da Ada Negri, Grazia Deledda, Sibilla Aleramo e Maria
Messina.
Entrambe queste generazioni affiancano la sperimentazione letteraria alla riflessione sul rapporto fra la
soggettività femminile e la scrittura.

 Marchesa COLOMBI (= Maria Antonietta Torniani): piemontese trasferitasi a Milano, dove riesce a inserirsi nei
salotti intellettuali. Nel capoluogo lombardo inizia la propria carriera da scrittrice. Sposa il fondatore del Corriere della
Sera, da cui però si separa dopo poco tempo. Si avvicina al movimento emancipazionista femminile e alla figura della
traduttrice Maria Mozzoni, già traduttrice di The subjection of women di J.S. Mill e fondatrice, nel 1879, della Lega
Promotrice degli Interessi Femminili.
I romanzi della Colombi si inquadrano nella scena minore del Verismo, movimento sviluppatosi negli anni 60 dell’800,
puntando a descrivere in modo veritiero la realtà. Nel caso della Colombi, a venir narrata è la realtà lombarda, nella
sfera pubblica del mondo del lavoro e dello sfruttamento femminile, e nell’ambito privato della realtà coniugale e
familiare.
Nel romanzo La Risaia (1878) Nanna, una giovane contadina, vive la durezza del lavoro in una risaia piemontese. A
questa realtà “pubblica” si affiancano quella sentimentale e quella del sogno (di una vita diversa); queste dimensioni,
tuttavia, non possono che confrontarsi ed essere schiacciate dalla necessità di accettare la realtà. A questa sfera
affettivo-familiare si collegano anche i romanzi Matrimonio in provincia (1885) e Prima di morire (1887).
 EMMA scrive Una fra tante (1878), romanzo che tocca il tema scottante della prostituzione, anticipando le
discussioni parlamentari sulla necessità della legalizzazione del mestiere.
 Anna FRANCHI, toscana trasferitasi a Milano, tratta il tema del divorzio in Avanti il divorzio (1902).
 Bruno SPERANI (=Beatrice Speraz): giornalista, traduttrice, autrice di romanzi, racconta l’ambiente milanese con
uno sguardo femminile. Nelle sue opere coesiste una sfera privata e una pubblica, come in La fabbrica (1908).
Queste autrici si muovono su uno sfondo culturale molto dinamico e attivo, collaborando e scambiando opinioni, pur
essendo molto diverse fra loro; questo, d’altronde, accadeva anche fra i colleghi di sesso maschile e nei caffè letterari.
I romanzi di cui sopra si inseriscono dunque in questo clima di scambio, proponendosi di “adattare” il verismo alla
questione femminile. Questa generazione di scrittrici femminili viene ancora considerata “minore”; fra le sue
esponenti (la Serao, che narra della realtà napoletana; Neera, indaga la condizione femminile tutta; Maria Messina,
che descrive la situazione in Sicilia) domina un verismo “epigonico”, incline alla rappresentazione della realtà popolare
nelle sue sfere intime e sentimentali. Questo tipo di verismo vuole essere al tempo stesso veritiero e personale, difatti
queste autrici si spingono forme di scrittura autobiografica (il diario, i testi autobiografici in senso stretto, e così via).
Questa evoluzione contribuisce al passaggio verso la modernità, da una narrazione impersonale e quasi scientifica alla
testimonianza “giurata” di un’esperienza soggettiva. Il fuoco nella narrazione si stringe dunque da una realtà nazionale
a uno sguardo personale, privato, alla luce del ragionamento secondo cui “si può essere veri solo se si scrive di se
stessi”. Questo tipo di scrittura autobiografica non è di stampo settecentesco, autoriale e narcisistico, fatto per
rinforzare il proprio prestigio letterario (come nel caso di Vittorio Alfieri e delle Mémoires di Goldoni); ha bensì
un’impostazione per l’autoanalisi, per lo studio di qualcosa che si conosce da vicino o di casi umani di cui si ha avuto
esperienza. Rimane e si rafforza l’impegno verso la “verità”, rifiutando l’idea del romanzesco come finzione, ma
perseguendo una realtà narrativa che circoscriva il racconto alla sfera del vissuto.

 NEERA (=Anna Radus Zuccari): scrittrice molto prolifica, ha stretto rapporti con molti intellettuali del suo tempo
(Verga, Capuana, Croce, Serao, Colombi, Negri, Aleramo). Alla fine del XIX secolo ha assunto una posizione di rilievo,
sia come scrittrice creativa che come polemista nei suoi scritti saggistici, trattando sempre e comunque della
condizione della donna nell’Italia post-unitaria.
È nata nel 1846 in una famiglia borghese da padre architetto. A 10 anni perde la madre, a 20 il padre, perciò è
costretta a trasferirsi da due zie nubili a Caravaggio. Più tardi, descrivendo il rapporto avuto con i genitori, ricorderà il
padre con affetto, mentre descriverà la madre come una donna estremamente chiusa e riservata, in Una giovinezza
del XIX secolo. È interessante riscontrare quanto, nei suoi romanzi, Neera ribalti questa situazione, descrivendo le
figure materne come un punto di riferimento, e i padri come veri e propri despoti. Il dato reale, che traspare dalle sue
opere, consiste nelle ambientazioni, ossia i luoghi in cui Neera ha realmente vissuto e passato la propria giovinezza. Se
col padre, la scrittrice non ha mai dovuto sopportare difficoltà economiche, a Caravaggio, dalle zie, Neera si confronta
con una realtà di sole donne e di ristrettezze. Anche per questi motivi, nel 1871 sposa il banchiere Emilio Radus, con
cui si trasferisce a Milano e ha due figli. Nel capoluogo lombardo, Neera comincia a inserirsi nell’ambiente intellettuale
e nel 1875 pubblica la propria prima novella sulla rivista Il pungolo, usando per la prima volta il proprio pseudonimo. Il
suo nom de plume è tratto da un componimento di Orazio, dove il poeta condanna e accusa la propria amata per
averlo tradito.
Neera ha scritto dagli anni 70 dell’800 fino agli inizi del 900. Fra i romanzi, ricordiamo Vecchie catene, Un nido (1880),
Il castigo, Il marito dell’amica e la Trilogia della donna giovane: Teresa (1886), Lidia (1887) e L’indomani (1890). Fra
gli scritti autobiografici: Libro di mio figlio (1891), Le idee di una donna (1904), da cui emerge un modello femminile
molto tradizionale, e l’opera incompiuta e postuma Una giovinezza del XIX secolo (1919), curata da Benedetto Croce.
Ha scritto anche una raccolta di novelle (Voci della Notte, 1893) e ha collaborato a varie riviste.
Nelle sue opere è presente una certa contraddittorietà:
 Negli scritti teorici si schiera contro i movimenti emancipazionisti;
 Nelle opere creative, invece, narra di donne che lottano contro la condizione di subalternità per cercare
autonomia, una propria vita, pure ruoli diversi da quelli generalmente considerati “femminili”, anche a costo
di andare “controcorrente”, di deviare dall’ipocrisia delle convenzioni sociali.
Neera esprime un’ottica laica, senza spiritualismo, per descrivere la vita quotidiana, popolata da persone comuni;
accosta una riflessione attenta della realtà che la circonda alla dimensione del sogno, perciò oscilla fra Verismo e
Realismo. Si concentra sui rapporti umani all’interno della realtà borghese, soprattutto su quelli condizionati da
interessi e su quelli della sfera femminile, narrando di donne spesso costrette ad accettare matrimoni di convenienza,
pur di ottenere l’accesso a determinate posizioni sociali, o a una situazione economica dignitosa. Nei fatti, però, questi
matrimoni si rivelano poi sconvenienti per la realizzazione personale del soggetto. Il tema del matrimonio è trattato in:
 Il castigo, in cui una “zitellona mal capitata” decide infine di sposarsi con un uomo che non ama per
convenienza, ma che tradisce ben presto. Perde infine sia l’amante che la figlia nata da quella relazione.
 L’indomani, che narra di un matrimonio fallito. Si distacca per la nascita di un figlio, spesso sublimazione
dell’amore materno. Marta è una donna che si sente appagata dalla maternità che sente dentro di lei; proprio
nell’annuncio di una nuova vita, risiede la positività dell’opera.
 L’amuleto, storia di un matrimonio salvato.
In questi romanzi, l’istituzione del matrimonio viene scandagliata nelle sue componenti reali. Il tema del matrimonio
di convenienza era molto ricorrente ai tempi, Durante tutto l’800, si è approfondita la critica verso il cosiddetto
“contratto matrimoniale”, in libero contrasto con l’amore romantico. All’interno della società borghese, l’istituzione
matrimoniale si configurava come un affare, stipulato per l’affermazione sociale. Questa critica la troviamo anche in
Maupassant (Bel Ami), Turgenev, Čechov e altri; subentrano, a tal proposito, anche le idee emancipazioniste dei
drammaturghi Ibsen e Strindberg. Anche i veristi, come Verga (nelle Novelle mondane) e De Roberto, fanno
riferimento alla falsità di questa istituzione. Il dibattito nasce sulla scia del libro Le menzogne convenzionali della
nostra civiltà, in cui Max Nordau lancia una caustica critica alle principali istituzioni del tempo: la religione, la politica,
l’economia e il matrimonio, istituzione la cui ipocrisia e cupidigia già erano state denunciate anche da Verga.
27.3
In Le menzogne convenzionali..., Nordau svolge un’indagine su vari aspetti della società. Analizza innanzitutto le bugie
in ambito religioso, denunciando la falsità di tante vocazioni, magari interessate a mascherare dei vizi, o all’accesso a
una condizione dignitosa.
Nordau compie un’analisi a tutto tondo del declino della società borghese, ormai in totale disfacimento, nei suoi
aspetti politici e soprattutto morali. Autrici quali Neera e le loro opere hanno subito un influsso dal pensiero di Nordau
e di altri intellettuali del periodo. Lo studioso parte da una considerazione scientifica (difatti il suo linguaggio è intriso
di scientismo positivista), cioè che l’uomo agisce in base a due istinti: l’istinto di conservazione e l’istinto di
conservazione della specie. Queste due tendenze si esprimono rispettivamente con la fame e l’amore. La
degenerazione che stava affliggendo la famiglia e il popolo borghese sarebbe causata dall’egoismo, sintomo
dell’indebolimento della specie. La società borghese era basata sul valore dell’individuo e del self-made man, (“fattosi
da solo”, realizzatosi solo grazie alle proprie qualità); questo individualismo ed egoismo radicale avrebbe portato a
un indebolimento della vitalità della specie umana. Dato che l’uomo non può più amare in modo sano e naturale, la
famiglia è destinata a disgregarsi. La società è ormai impostata a soddisfare unicamente i bisogni e gli istinti
dell’individuo; attraverso le proprie istituzioni, ne ha disciplinato e normato gli istinti vitali.
“Ancora oggi, la sola unione fra uomo e donna che la società approva è il matrimonio. Ormai il matrimonio è ridotto a un contratto,
in cui l’amore è l’equivalente del contratto sociale tra due capitalisti. Non è vero che nella società borghese si contrae un
matrimonio per salvaguardare la continuazione della specie; gli individui che si sposano pensano soltanto al proprio interesse
particolare. Si contrae matrimonio per avvantaggiare la propria fortuna, per assicurarsi un’esistenza gradevole, per conquistare e
conservare una buona posizione sociale, per appagare la vanità, per godere di quelle libertà che la società non concede alle donne
non maritate, ma concede alle donne maritate.”
Quindi, nella società borghese il matrimonio è interessato puramente da fini sociali ed economici. Se la dote di una
ragazza nubile o di uno scapolo era abbastanza consistente, o se la sua posizione sociale era abbastanza alta, allora
rappresentava un buon partito. Un passaggio fondamentale è quello a proposito della disparità di diritti sociali fra
donne nubili e sposate. Nordau condanna duramente questa ingiustizia, sostenendo che induce le ragazze non
maritate ad accettare qualunque tipo di matrimonio pur di uscire dalla propria condizione di isolamento e
“ghettizzazione sociale”.
“Non c’è differenza fra la sgualdrina, la prostituta che si vende per pochi soldi a uno sconosciuto e la sposa, casta e pura, che va
all’altare con un giovane che non ama e che, in cambio dei suoi favori, le offre un alto rango, vesti, ornamenti, o anche solo il pane
quotidiano.”
Nordau paragona due figure femminili che si vendono pur di avere qualcos’altro, senza un vero sentimento d’amore
alla base, per puro interesse economico; la pratica del “matrimonio d’interesse” viene dunque giudicata tanto
esecrabile quanto la prostituzione. Di conseguenza, anche chi organizza questi matrimoni è paragonato a uno
sfruttatore sessuale:
“Quella madre che viene tanto rispettata, che si crede severissima riguardo al buon costume, che presenta la figlia a un pretendente
ricco e la convince ad accettare quel matrimonio, vincendo la sua resistenza [magari causata anche da grandi differenze d’età] pur di
cogliere un’occasione tanto vantaggiosa, allora quella madre è una degenerata, una mezzana come quelle che gestiscono la
prostituzione. […] La sgualdrina ,che traffica il proprio corpo per mantenere la madre o un figliolino, è anzi moralmente superiore
alla vergine, che per poter saziare le proprie voglie di agi accetta, malgrado la vergogna che prova, il letto matrimoniale di un
uomo facoltoso.”
Il mestiere della prostituzione è posto addirittura a un gradino più alto, poiché basato sulla necessità di sopravvivere,
sull’istinto di conservazione, anziché sulla voglia di piaceri di natura diversa.
Ogni unione contratta con scopi egoistici quali l’affermazione sociale, va considerata come prostituzione.
“Oggi, quasi tutti i matrimoni si contraggono per interesse. Le rare eccezioni sono in qualche modo derise dalla società: quando
una fanciulla ricca si ostina a sposare un uomo povero per amore, viene biasimata ed emarginata da chi la circonda,
raccomandando alla gioventù di non seguire certi esempi.”
A proposito delle tecniche utilizzate per ottenere un’unione vantaggiosa, Nordau scrive:
“Le ragazze povere o non facoltose vengono istruite dalle madri nell’arte della civetteria; quando quest’arte da sola non basta,
intervengono in aiuto le madri, le zie, le nonne, che cercano in tutti i modi di procacciare un buon partito alla ragazza in cerca di
sistemazione. Le ragazze ricche non sono cacciatrici come quelle più povere, ma anzi selvaggina, preda dei cacciatori di dote.
Questi uomini scientemente valutano il peso della dote in gioco e sono informatissimi sulle ragazze da sistemare; l’ingenua fanciulla
che avrà creduto di rappresentare una parte di un dramma lirico, realizzerà troppo tardi, di essere stata un fattore in un’operazione
aritmetica.”
Questo tipo di uomini sono bravissimi a far sentire le donne amate e desiderate, quando in realtà le sfruttano per pura
avarizia.
Quando invece le fortune in gioco sono equilibrate, si ha una vera e propria contrattazione, che porta alla fusione di
due patrimoni. Nel momento in cui v’è uno squilibrio fra le parti, “almeno una delle due parti finge.”
“O la ragazza finge d’amare il sacco di danari vestito, oppure il pretendente finge benevolenza al pesciolino d’oro. Questi uomini e
queste donne che contraggono siffatti matrimoni, perdono la capacità di amare, quell’impulso vitale necessario al mantenimento
della specie. Nelle classi alte, dove domina la soppressione dell’amore in favore dell’egoismo, si sta assistendo a un deperimento
rapido e generale delle capacità di generazione e di estenuazione delle malattie.”
L’egoismo dei nobili ne ha spento la vitalità, soprattutto perché spesso le unioni fra loro si svolgevano fra
consanguinei, facilitando la propagazione di malattie ereditarie.
I “matrimoni di testa”, in cui il partner viene scelto per altre ragioni piuttosto che per un’attrazione sentimentale, sono
fra tutte le unioni immaginabili, quelli “più insensati: gli individui coinvolti, che non hanno spento la propria vitalità
interiore, prima o poi incontreranno per caso un individuo che ha con loro un’affinità elettiva.” La scelta di sposare una
persona che non si ama è sbagliata anche perché prima o poi questi individui incontreranno qualcuno che risveglierà
i loro sentimenti, preannunciando una vera e propria catastrofe. Nasce in questo modo il conflitto fra il dovere
matrimoniale e l’impulso naturale che si sente nei confronti di una persona affine, fra l’amore e la forma impostagli.
Si pongono dunque due alternative:
“O si decide di soffocare quel sentimento d’amore, stritolando la propria sostanza, oppure si avvilisce la forma, accettando di
accogliere quel sentimento. Tuttavia, esiste una terza soluzione, la più vile e la più frequente nella società borghese: pur di salvare
le apparenze esterne, si perpetua un tradimento.[…] Se la società avesse leggi tutelanti la specie e fosse organizzata solidariamente,
in questa lotta essa prenderebbe parte per l’amore e incoraggerebbe i lottanti a unirsi per amore. Ma la società ufficiale è nemica
della specie e dominata dall’egoismo, perciò dice ai lottanti di rinunciare; malgrado questa situazione, ha comunque conservato la
consapevolezza che ciò è impossibile. È conscia che è tanto impossibile rinunciare all’amore quanto rinunciare alla vita, e che una
legge tanto crudele non sarebbe meno osservata di quella che raccomandasse il suicidio; sussurra allora all’orecchio: <<Almeno
non date scandalo…>> e così riesce comunque a farsi valere, ma solo presso quelle persone che si adattano all’ipocrisia della
società.”
Nordau denuncia così la mancanza di leggi che tutelino la prosecuzione della specie e la felicità degli individui;
piuttosto, preferisce far dominare l’egoismo e l’ipocrisia per salvaguardare l’istituzione matrimoniale. Ciò fa sì che ci
sia un adattamento formale ai canoni e un indebolimento dei caratteri. Questa società non incoraggia il
riconoscimento trasparente dei propri sentimenti e difatti i “matrimoni di testa” rappresentano la maggioranza.
Queste unioni sono profondamente immorali, perché anziché favorire la continuazione della specie finiscono per
essere uno strumento di lento suicidio per la stessa, poiché vanno a sopprimere gli istinti vitali.
“Dato che la società non provvede agli istinti, gli individui sono diventati più egoisti, più auto-referenziali, portando a
una degenerazione anche delle istituzioni.” La vittima più immediata di tutto questo è la donna, l’anello più debole
della catena sociale perché la società non provvede al suo mantenimento. Non le vengono riconosciuti gli stessi diritti,
soprattutto se è nubile.
“L’uomo scapolo non viene bollato socialmente, ha una vita ricca di relazioni e occasioni, e se decide di concludere un matrimonio
di interesse, è in qualche modo legittimato dalla società a soddisfare i propri piaceri extra-coniugali, poiché la figura del Don
Giovanni suscita simpatia, invidi, persino ammirazione. Ben diversa è la condizione della donna: soltanto al matrimonio ella deve
richiedere il soddisfacimento dei propri bisogni fisiologici, e al di fuori di esso non esistono possibilità di affermazione sociale
presso la società borghese. Se vuole esercitare i diritti concessi alla donna ben complessionata e sessualmente matura, se vuole che
la maternità sia in lei cosa sacra, e anche se vuole solo garantirsi contro la miseria materiale, deve maritarsi. Alle donne ricche è
concessa una certa libertà, ma per tutte le altre, le speranze di riuscire a ottenere una collocazione sociale sono poste nella scelta di
un marito. Il marito è l’unico che possa salvarle da vergogna, miseria e fame. Ma qual è la sorte destinata alle ragazze senza
marito? La denominazione popolare di <<zitellona>> è già una frecciata popolare di dileggio. Solitamente, la solidarietà della
famiglia non si estende che fino all’età matura dei figli; molti genitori, fratelli e sorelle si separano, il rimanere uniti è sentito da
tutti come un peso, specialmente dalla ragazza, se ha delicatezza di sentimento. Così ella, non volendo essere d’impaccio ai fratelli
maritati, si sentirà estremamente isolata. Deve farsi casa da sé, e sarà una casa inospitale e deserta; le amiche non sono sempre
sincere, e di certo non saranno da cercare fra le [altre zitelle], per evitare altre malinconie. Qualche intelletto superiore darà il
consiglio che ella non si dia pensiero dei pettegolezzi delle femmine, ma far tesoro delle simpatie che sveglia; ma quegli che parla
così, in modo forte e indipendente, come può esigere che una povera e debole ragazza rinunci all’approvazione e al rispetto dei
suoi pari?”
Per tutti questi sacrifici imposti dalla società, la donna si sente spinta e obbligata ad accettare qualsiasi destino e
qualunque soluzione matrimoniale, piuttosto che quello della “zitellona”. Continua poi analizzando le debolezze a cui
sono esposte le donne non tutelate dalla figura di un marito:
“Se [questa vecchia zitella] ha qualche bene di fortuna, difficilmente questo aumenterà, anzi forse diminuirà o svanirà, poiché essa,
per educazione o abitudini, è meno abile dell’uomo ad amministrare, a difendere una sostanza contro i numerosi suoi insidiatori.
Ma se ella nulla possiede, la sua sorte diventa fosca e sconsolatamente buia; alla donna non sono concesse le poche professioni
indipendenti e remuneratrici. La ragazza del popolo, non istruita, se fa la serva, riuscirà a sopravvivere, ma mai a essere
indipendente, subendo umiliazioni di ogni specie; se si dedica al lavoro manuale libero, morirà certamente di fame; se fa la
giornaliera, guadagnerà pressappoco la metà di quanto guadagna l’uomo, nonostante abbiano quasi gli stessi bisogni naturali. Le
ragazze del ceto medio sognano di dedicarsi all’insegnamento, il quale però, in 9 casi su 10, diventa per loro una schiavitù, come
quella della governante. In alcuni paesi, possono aspirare a qualche impiego subalterno, tuttavia una giovane istruita e dignitosa
non stima mai che un tale impiego si confaccia alle proprie qualità e alimentata da questo sentimento potrà sopportare, anche
dignitosamente, la condizione di povertà. Del resto, le ragazze che raggiungono quella meta, possono ancora definirsi fortunate; le
altre vivono povere, misere, avvilite dalla coscienza della propria inutilità, dell’incapacità di procurare gioia per la propria
gioventù, di guadagnarsi il necessario pane quotidiano e di assicurarsi il sostentamento per la vecchiaia. La ragazza che, patendo la
fame e il freddo, vegeta in questa solitudine tanto crudele restando contenta di sé, è da considerarsi un’eroina. Ma la prostituzione e
la tentazione sono sempre in agguato. L’uomo non ha il coraggio di dedicarsi a tanto autorevole sostentamento; preferisce chiederle
in dono il suo amore, senza obbligarsi ad alcun ricambio. Il suo egoismo le tende ostinate insidie, tanto più pericolose poiché hanno
come alleati segreti gli istinti più profondi della donna.”
Gli uomini riescono dunque a sedurre queste donne, poiché i loro tentativi poggiano sugli istinti primari delle loro
prede. “La donna dovrebbe, non solo sopportare fame e solitudine, non solo lottare contro un avversario
formidabile - quale l’uomo acceso da passione carnale -, ma anche vincere i propri istinti sani e naturali,
ribellandosi contro le menzogne e le ipocrisie sociali; per uscire senza macchia da tali angustie, la donna dimostra
un eroismo del quale nemmeno uno su mille uomini sarebbe capace. Il premio di tutti questi sforzi? Nessuno: la
zitellona, che come una santa visse in mezzo a mille pericoli, non trova un compenso nemmeno nel proprio intime di
aver convissuto con quelle amare e penose privazioni, disobbedendo alle leggi categoriche della natura. Anzi, più
invecchia, più sente una voce che dice: <<Perché non l’ho fatto? A chi ho giovato? Merita forse la società, che per
fare omaggio alle sue massime balorde ed egoistiche si debba sacrificare la propria felicità? Non sarebbe stato mille
volte meglio che io non avessi opposto resistenza e mi fossi lasciata vincere? Se a tante giovani una sorte simile
incute spavento, e se senza badar tanto alle affinità elettive sposano il primo che sull’orizzonte si affaccia come
pretendente, non hanno forse ragione?>>”
Questo stato di cose, il fatto che la società esiga un comportamento assolutamente irreprensibile e impraticabile da
parte delle donne rimaste nubili, fa sì che qualsiasi alternativa sia considerata migliore, per cui si buttano nelle braccia
del primo che capita. C’è, su cento casi, solo uno in cui la scelta matrimoniale si riveli effettivamente tanto felice e
piacevole quanto la società prometta alla giovane zitella.
“Naturalmente, la menzogna commessa dalla ragazza che si marita senz’amore non rimane invendicata. Per il
marito non sarà una sposa fedele, e nemmeno una massaia che faccia il dover suo. In forza del suo inappagato istinto
d’amore, ella non sarà mai sorda alla voce del suo cuore: l’emozione più piccola e vaga le sembrerà la tanto evocata
rivelazione d’amore e si getterà nelle braccia del primo uomo, che avrà saputo occupare, un minuto, la sua parte più
leggera; ma presto si ravvedrà di essersi ingannata e allora andrà di nuovo guardandosi intorno per trovare il
desiderato vero, e tanto spesso porrà il piede su quella pericolosa china, che cadrà perfino nella scostumatezza.”
Il fatto di non aver seguito il cuore e di aver accettato un matrimonio qualunque le si ritorcerà contro; il primo barlume
di emozione le farà credere di aver trovato l’amore della propria vita, finché non si accorgerà di essersi sbagliata. In
quel momento continuerà a ingannare, fino a disonorarsi. Questo atteggiamento spinge la donna a piacere, a
incontrare l’interesse degli altri uomini, suscitando in tutti i modi questa attrazione, frequentando ogni ritrovo ed
evento sociale, con negligenza di qualsiasi cosa riguardi l’economia della casa o il benessere del marito.
“Sarà ancora fortunata se, arrestandosi alla leziosaggine, non arriverà all’adulterio platonico o reale; o meglio, se
la coscienza della sua vita, non pur anche completa, se il bisogno di scoprire l’uomo affine […] si manifesteranno
soltanto con quella specie di civetteria che spinge ad azzimarsi con lusso, a correre ai balli, a cercare avidamente ogni
occasione di avvicinamento con uomini estranei. Piena di sé, ella non può che curare il proprio interesse. Il suo
egoismo non le permette di vivere al fianco del marito, e tutto ciò che riguarda la casa le è indifferente.
L’egoismo che regna nella società fa sì che tanto l’uomo quanto la donna vedano il matrimonio come una
“collocazione materiale”:
L’uomo punta alla dote, mentre la ragazza senza dote, temendo di rimaner zitella, accalappia il primo che passa e che
possa mantenerla. Quanto più diminuiscono con l’età le possibilità di trovar marito, tanto più aumenta la smania di
sistemarsi, e di conseguenza diminuiscono sempre più le ragioni dell’amore.”
Un altro elemento bersagliato dalla dura critica di Nordau è la repressione morale della sessualità imposta nella
società occidentale con l’affermazione dei principi cristiani e con l’istituzione del sacramento matrimoniale. Secondo
Nordau, è la castità ad avere un valore negativo, poiché in qualche modo blocca gli impulsi vitali, contrastando la
propagazione della specie. Altrettanto dannoso è il vincolo della fedeltà matrimoniale, che porta all’aberrazione
comune ai costumi europei che ammettono questo principio e lo perseguono, anche quando l’amore non sussiste più,
ma poi di fatto non lo rispettano; tutto ciò è, secondo Nordau, al di fuori della natura umana.

9.04
Nordau sostiene che il matrimonio borghese corrisponde in sostanza a un contratto sociale, che risponde a logiche di
puro interesse. In queste meccaniche, la vittima del sistema è la donna, costretta a tutti gli effetti a svendersi al miglior
offerente pur di sopravvivere e di non essere emarginata. Nell’istituzione del matrimonio, tanto l’uomo – scrive
Nordau – ricercano un’occasione di collocazione sociale.
La donna nubile o “zitellona” viene investita dalla società di un “compito eroico”: mantenersi pura e lontana dalle
malelingue, senza concedersi spontaneamente ad alcuno e senza aspettarsi alcun premio per tutto questo. Per evitare
questa totale mortificazione e accasarsi, le donne vengono educate a cercare avidamente un buon partito; tuttavia, la
soluzione più giusta, sarebbe invece che la società si faccia carico del mantenimento delle donne.
Altra convenzione criticata è il biasimo di derivazione cristiana della sessualità, e la valorizzazione della fedeltà
coniugale. Reprimere gli istinti sessuali significa frapporre un ostacolo alla propagazione della specie, soprattutto
quando l’unione matrimoniale è una pura facciata, priva d’amore. Il libro riporta che “gli unici matrimoni che resistono
sono solo quelli fondati sull’amore, più su altri affetti e interessi, che contribuiscono al mantenimento dell’unione nel
momento in cui l’amore, il desiderio sessuale e l’attrazione fisica si estingueranno.
 Il ricordo delle esperienze felici condivise
 Altri interessi di vario tipo (lavorativi, la cura per i figli)
Quando questi elementi sono assenti, la cosa più giusta e necessaria da fare è sciogliere il matrimonio, cosa possibile
nei paesi più civilizzati grazie all’introduzione del divorzio. A causa della morale cristiana, tuttavia, i divorziati vengono
bollati socialmente e questi, anziché agire, preferiscono continuare a vivere nella menzogna. La società dovrebbe
piuttosto lodare queste persone, poiché hanno compiuto un atto coraggioso pur di restare integre con se stesse.
Per allontanare il matrimonio dalle logiche di interesse, è necessario creare altri mezzi per affermarsi socialmente ed
eliminare certe convinzioni tanto diffuse nella società.

Il tema dell’emancipazione della donna viene affrontato con un’ottica maschilista. Nordau reputa l’uguaglianza fra
uomo e donna una cosa negativa, poiché il completo livellamento dei diritti fra i sessi renderebbe ancor più feroce la
lotta per la sopravvivenza della specie, pertanto la donna non può gareggiare alla pari con l’uomo in ambito lavorativo.
La soluzione (filantropica e materialistica) suggerita dall’autore sarebbe la preservazione dalle insidie della società
delle donne, in quanto mezzo indispensabile alla procreazione. “Nella vita della specie umana, uomo e donna hanno
funzioni precise:
 l’uomo è quella di conservatore e protettore della generazione attuale
 la donna ha il ruolo di conservatrice e miglioratrice della specie e delle generazioni future.”

Provvedere ai bisogni della donna significa garantire la naturale prosecuzione della specie, e dunque spezzare il
legame fra bisogni sociali e matrimonio. Questo porterebbe anche alla scomparsa della prostituzione: “se nessuna
donna dovrà più vendere il proprio corpo, la prostituzione e lo spettacolo di libertinaggio di certi vecchi celibi
scompariranno.” Quando la donna non dovrà più mercanteggiare se stessa, quando l’uomo sarà valutato solo per le
sue doti morali a scapito della sua dote, allora il matrimonio diverrà una verità basata solo sull’amore e ogni figlio sarà
felice, perché “benedetto dell’unione dei genitori”.

In Neera, questa riflessione viene attuata con coinvolgimento solo in parte controllato. Nel capitolo 4 di Teresa,
l’autrice racconta delle figlie dei Portalupi, in cerca di marito, e la stessa protagonista è costretta a sposare un uomo
per cui non prova alcun sentimento. Tutti, attorno a Teresa, vogliono far sì che la giovane si sposi col dottor Luminelli,
facoltoso vedovo che le garantirebbe anche il mantenimento delle 4 sorelle di lei. Quando la ragazza rimarca che
nemmeno l’uomo ha voglia di sposarla, la risposta che riceve è: “Gliela si fa venire.”
Altro tema di ispirazione “nordauiana” affrontato è l’impulso materno come istinto di sopravvivenza della specie e
modo più adatto per realizzare la propria femminilità e il proprio equilibrio psicofisico. La repressione dello spirito
materno, secondo Neera, significa dare origine a disturbi isterici – cosa che infatti accade a Teresa. Viene sviluppata
anche la convinzione che la parificazione fra uomo e donna produrrebbe effetti negativi. Fra il 1886 e il 1889 Neera
scrive la Trilogia della donna giovane: Teresa (1886), Lidia (1887) e L’indomani (1889), dove viene affrontata la
condizione della donna a fine 800. Teresa, Lidia e Marta, pur essendo tre donne molto diverse fra loro, guardano al
matrimonio allo stesso modo, ossia come scopo prefissato della propria esistenza. Teresa è costretta dal padre, il sig.
Caccia, a rinunciare al proprio amore corrisposto poiché l’amato Egidio Orlandi è sprovvisto di sicurezza economica;
inoltre, la dote della famiglia Caccia è stata destinata fin dal principio al figlio maschio primogenito. Teresa incarna
dunque il prototipo di donna costretta a seguire il volere degli altri e a pagarne le ripercussioni sulla propria vita.
Riesce però a evolversi e a cambiare in qualche modo il destino che la società le ha imposto: dopo la morte del padre,
decide di seguire il proprio cuore e raggiunge l’ammalato Egidio, affrontando a viso aperto il giudizio morale che la
società le riverserà contro.
Per quanto riguarda le posizioni di Neera, sappiamo che esiste una contrapposizione netta fra gli scritti teorici e quelli
creativi. Nelle opere teoriche, soprattutto in Le idee di una donna, l’autrice manifesta una forte opinione negativa nei
confronti dell’emancipazione femminile. Neera è convinta che il femminismo conduca a una crisi dei valori
fondamentali dell’essere donna, poiché è esso stesso animato da rivendicazioni che risentono dell’ottica maschile. Il
femminismo partirebbe da un’istanza falsa, che vede la donna come un essere inferiore all’uomo; la realtà è invece
che i due hanno compiuto un cammino diverso nel corso della storia.
Neera critica anche Donna e socialismo di Bäbel, sostenendo che “dovrebbero lavorare solo le donne giovani” e
unicamente in mestieri “adatti alla natura femminile”, che diverrebbero loro esclusiva. L’autrice dunque rifiuta
l’omologazione fra i sessi, perché “porterebbe a una concorrenza troppo forte nella società”. In tal modo, infatti, si
potrebbe verificare la situazione (ad avviso di Neera, paradossale) in cui l’uomo sta a casa e aspetta il salario della
moglie. L’autrice vede uomo e donna come esseri complementari e la donna, in particolare, porta con sé un compito
fondamentale e di enorme responsabilità: educare e trasmettere il sapere ai propri figli, per creare un miglioramento
nella società. La donna è dunque al contempo madre ed educatrice; questa ottica risulta però opinabile perché Neera
sostiene che quelle stesse donne, per essere buone educatrici, non necessitino di istruzione ma solo di educazione.

La scrittura di Nerra non per dimostrare di poter eccellere (in quanto donna) in una carriera prettamente maschile.
Neera scrive per avere uno sguardo lucido e limpido sulla condizione della realtà femminile, per portare alla luce fatti
e personaggi altrimenti destinati a restare nell’ombra, per poter rivelare qualcosa sulla natura umana. I suoi libri
presentano un carattere naturalistico e verista poiché indagano sulla psiche umana, sulle scelte e i pensieri dei propri
personaggi, con un approccio narrativo documentario e conoscitivo in 3° persona (e nel tradizionale narratore
onnisciente). Secondo l’ottica di Neera, l’uomo non rappresenta un’entità unica, ma anzi un essere calato nella
società e influenzato dalla stessa. Ne Le confessioni autobiografiche scrive: “L’essere umano per me è tutto. Il mio
maggior interesse sono ciò che porta dentro di lui e il rapporto che ha con ciò che lo circonda.” Leggendo le opere di
Verga e Neera, saltano all’occhio vari spunti che i due hanno condiviso e tratto l’uno dall’altra; ciò denota una società
letteraria molto attiva e dinamica. Dal Naturalismo e dal Verismo, Neera riprende la tecnica per esprimere le emozioni
dei propri personaggi facendole emergere da fatti naturalistici, ossia dai piccoli dettagli. Non a caso, Verga diceva che
“un pensiero può essere descritto nella stessa misura in cui può essere esternato a una persona esterna.” Sia Verga
che Neera convergono nell’utilizzare perciò un narratore mimetico. Neera definisce la propria una “poetica dell’ideale
nel reale”; tramite di essa sviluppa tematiche femminili entro meccanismi di funzionamento della società borghese.
Neera non assume alcuna posizione ideologica, né alcuna forma di consolazione. Teresa rappresenta la cronaca
lineare della storia di un amore negato alla protagonista, ma protetto ad ogni costo. In quest’opera, emerge un
autentico spirito femminista, perché, attraverso la storia di Teresa, Neera fornisce una rappresentazione molto
eloquente della donna come classe oppressa. Si stabilisce perciò un doppio binario della concezione della donna:
> negli scritti letterari Neera denuncia l’oppressione delle donne
> nella teoria descrive una donna idealizzata, che ha sublimato ogni istinto a favore dell’amore platonico.

Neera prediligeva un tono oggettivo nella narrazione e difatti in Teresa di rado traspare il reale pensiero dell’autrice.
L’opera può essere definita un romanzo naturalista, anche per l’assenza di una qualche consolazione ideale (quali la
fede nell’aldilà, il matrimonio o la maternità), troviamo piuttosto uno studio di costume sulla vita della donna nubile,
un vero studio di comportamento con introspezione psicologica e scavo analitico. Nella protagonista, l’ideale
massimo è la fedeltà per l’uomo che ama (l’unico che sia riuscita a conoscere davvero), da mantenere a ogni costo.
La poetica “dell’ideale nel reale” di Neera si fonda su due colonne:

 il reale, ossia il corpo di Teresa, coi suoi bisogni fisiologici e primari, quale è l’amore che prova e che non
riesce a sublimare in alcun modo, perché sprovvista di un’istruzione e di mezzi spirituali. Questo sentimento
insoddisfatto dà origine a disturbi isterici.
Nell’autobiografia postuma Una giovinezza del secolo XIX (1919), Neera descrive il processo di scrittura di Teresa
come un momento molto importante. Sottolinea anche il carattere realistico della storia di Teresa, perché, pur
essendo inventata, è ispirata alle vicissitudini di tante giovani fanciulle, fra cui una che si chiamava proprio Teresa.
“Ero già maritata e mamma quando scrissi quel romanzo. Tante fanciulle posarono inconsapevoli per la mia Teresa, e
una si chiamava realmente Teresa; mi bastò vederla una volta sola.” Neera descrive il momento in cui vide questa
fanciulla “pallida e mesta”, tenuta in disparte dalle sorelle più giovani e allegre, che cuciva una camicia per il fidanzato.
Questo fidanzato di lunga data, però, non veniva mai, e “al quale, ella pensava sempre.” L’affetto incondizionato di
questa ragazza e l’antitesi che si creava con l’indifferenza maschile traspare anche nel romanzo, dove l’Orlandi (seppur
innamorato della protagonista) conduce una vita abbastanza libertina, e Teresa se lo spiega attribuendolo alle
differenze fisiologiche fra uomo e donna. Neera racconta poi che gli altri personaggi e intrecci si sono “formati da sé,
sbocciando sferzanti come fiori di pesco” attorno alla figura della protagonista, difatti l’opera è stata scritta di getto.
Teresa rappresenta “la storia della donna a cui manca l’amore”, nata dalle insofferenze e dalle ingiustizie” di cui la
stessa Neera era stata vittima, ma anche la storia di tante donne a cui è stata negata la felicità. L’autrice ha capito di
aver colto nel segno dopo aver ricevuto tantissime lettere (anonime), di altrettante donne commosse, che le hanno
dato “il dolce piacere di sentirsi compresa”.

Il romanzo è formato da 22 capitoli e si apre con una scena corale, ambientata all’esterno: si legge di molta gente che
accorre sugli argini del Po per vederlo straripare. Abbiamo un esordio in medias res (anche questa tecnica verista),
senza alcuna presentazione dei personaggi e col lettore che si vede immediatamente proiettato nei loro dialoghi,
come fosse uno spettatore casuale. A questo scenario pubblico ne segue uno più familiare e intimo, con la descrizione
della nascita di una bambina. Questa sequenza potrebbe aver fornito da “calco” per l’incipit di Mastro Don Gesualdo,
che anche comincia in medias res, con una scena “aperta” seguita da uno scenario più privato (in seguito a un incendio
di casa Trao, Don Diego scopre che Bianca ha passato la notte col cugino). Si denota dunque un forte parallelismo fra
le due opere.

10.4
Le prime battute sono pronunciate dal sindaco, ma il lettore ne conosce dall’identità solo grazie alle battute di risposta
degli altri interlocutori; dal loro dialogo, a più voci, si delinea la situazione di pericolo imminente. Da questo dialogo
veniamo a conoscenza (sempre in modo indiretto) delle caratteristiche del paese in cui è ambientata la vicenda e del
pericolo che incombe: un fiume che scorre nei paraggi sta per straripare. Man mano che lo scambio di battute
prosegue, entrano in scena vari personaggi, anche se il paese non viene mai nominato esplicitamente – sappiamo si
tratti di Casalmaggiore, in provincia di Cremona, sulla riva sinistra del Po. La scena si svolge di notte, e solo più avanti
(grazie a un salto temporale nel terzo capitolo) capiremo implicitamente che l’incipit è ambientato a settembre. Tutto
il paese fa la propria apparizione per osservare il fiume straripare: il sindaco, il vecchio Toni (“il più anziano dei
barcaioli”), altri barcaioli, poi alcuni operai, il sotto-prefetto, il tenente (dei carabinieri, anche se non è subito
specificato), “la folla nereggiante dei cittadini”, gli ingegneri giunti per verificare la situazione e il monsignore col suo
segretario. Nel primo capitolo non viene mai nominata la protagonista; se provassimo a leggere il libro senza
conoscerne il titolo, dall’incipit avremmo difficoltà a capire di cosa tratti; così come in Mastro Don Gesualdo, l’entrata
in scena del personaggio principale è silenziosa e graduale, modulata sapientemente. Il lettore raccoglie informazioni
sul dove, quando e chi man mano che procede nella lettura; avrà un quadro esaustivo della storia solo alla fine del
libro. Il narratore è mimetico: si sposta da un gruppo all’altro di parlanti e fa parlare i vari personaggi senza introdurli,
dando al lettore la sensazione di essere un passante casuale. La situazione è di allerta e viene stabilito che il rintocco
delle campane di paese sia il segnale di evacuazione per il resto del paesino. Fin da subito emerge una società
maschilista: le autorità presenti a vigilare sulla popolazione sono esclusivamente uomini, e quando le donne si
affacciano a controllare la situazione vengono bruscamente allontanate dal prefetto. Le donne accorse vogliono
proporre di organizzare una processione a San Giovanni Nepomuceno, protettore delle alluvioni e delle calamità
collegate all’acqua; anche in Mastro Don Gesualdo viene invocato un santo, il patrono del paese, e pure in
quest’opera il paese d’ambientazione non è mai nominato.
In seguito arriva anche l’autorità religiosa, nelle vesti del monsignore e del suo assistente, entrambi allontanati poiché
la loro presenza non serve a molto (“Non servono preghiere, ma aiuti pratici”). Nel primo capitolo entra in scena anche
il padre di Teresa, il sig. Caccia (“l’esattore delle poste”), le cui battute di dialogo forniscono ulteriori riferimenti
topografici in riferimento alla zona in cui siamo: nomina un paese vicino, Piàdena, sottolineando come già lì il Po sia
esondato, e fa intuire che la forma prevalente di economia locale sia rurale (parlando dei danni che la calamità
potrebbe provocare). Del sig. Caccia viene anche fatta una descrizione fisica e qualche accenno di rappresentazione
caratteriale (con un rimando al “Burbero” di Goldoni) e si parla dello stato di salute della signora Caccia, ma sempre in
modo vago e casuale. Viene nominato anche il dottor Tavecchia e il fuoco della narrazione si sposta sulla questione su
cui verterà il secondo capitolo, ossia l’incipiente maternità della signora Caccia. Tramite il personaggio di Caramella “lo
zoppo”, il signor Caccia rassicura la propria famiglia sulla situazione del livello del fiume.
Successivamente, nell’ultima parte del primo capitolo, il narratore narra l’apparizione rocambolesca dell’Orlandi,
mostrando la sua indole appassionata e audace. Il tutto viene architettato quasi come un coup de théâtre: nell’acqua
viene intravista una figura d’uomo su un battello, parmense conosciuto a Casalmaggiore, definito subito “un capo
scapito”, un incosciente. In seguito, scopriamo che l’Orlandi aveva compiuto l’imprudenza di navigare le acque
tumultuose del Po per salvare un neonato caduto in acqua. Viene fatta una descrizione del giovane, così da creare un
crescendo di curiosità: il sorriso che cattura, i baffi neri, il carattere a un tempo rocambolesco e generoso: “Sono 3
giorni che va in giro fornendo soccorsi, soccorsi che però talvolta giungono tardivi.” La scena conclusiva è segnata da
una maggior serenità: il pericolo sembra passato e la folla comincia a far ritorno presso le proprie case. Il panorama
descritto è allucinante, spettrale: le case sventrate del paese vengono paragonate a una “cancrena avanzata” in un
paragone espressionistico.
Nel secondo Capitolo, il fuoco si stringe sulla casa del signor Caccia, prima osservata dall’esterno e poi dall’interno.
Nonostante il capofamiglia non sia un membro della nobiltà, l’abitazione si trova nella zona bene del paese poiché
ereditata dalla signora Soave Caccia, discendente di una famiglia agiata. Il lettore viene messo a conoscenza del fatto
che è stata la signora Caccia a scegliere il proprio marito per amore, ma nonostante ciò la loro si è rivelata un’unione
infelice, difatti la signora Soave Caccia è descritta come una donna spenta, rassegnata. Dall’esterno, lo sguardo passa
all’interno passando dal “filtro” della finestra e scopriamo che la signora Caccia è in procinto di partorire. Tramite il
colloquio fra la signora e la levatrice, vengono introdotti i figli di famiglia: Carlino, il maschio; Teresa, la primogenita, e
le due gemelle. Il narratore ci mostra la signora Soave Caccia lamentarsi della sfortunata circostanza in cui si trova a
dover partorire, e poi passa a una descrizione della donna. Si scrive innanzitutto che il suo nome le si addice, è una
donna quarantenne gracile, dagli occhi vacui, già esaurita, stanca della vita e delle sue sofferenze, molto infelice e
rassegnata. I suoi movimenti fanno apparire come se portasse delle catene, come una schiava che trascina la pena del
proprio vivere. Anche Verga fa riferimento, parlando di certi suoi personaggi femminili, alla “catena porta” che
trascinano, appesantite. La signora Caccia sembra priva di slancio, senza reattività (“è convinta che la prima virtù di
una donna sia l’ubbidienza”); la sua mano viene rappresentata come magra, scolorita, precocemente invecchiata. Ai
polsi, la signora Soave porta braccialetti di crine con una rosetta, un vezzo in netto contrasto con la grigia figura della
Soave; ciò ci fa intuire che, se la signora si facesse forza, potrebbe combattere la realtà che la circonda. L’unico slancio
provocatorio che mostrerà sarà quando dovrà difendere di fronte al marito le scelta della figlia sul chi sposare. Subito
dopo, si fa riferimento all’età di Teresa, che compirà 15 anni il mese successivo. Seguono anche informazioni sugli altri
figli (Carlino 14, le gemelle 8) ed emerge un’altra preoccupazione da parte della signora Caccia nei confronti del
nascituro: “…Almeno fosse un maschio…Le ragazze, poverette, cos’hanno di buono a questo mondo?” La Soave sa che,
nel caso partorisse una figlia, questa bambina dovrebbe vivere in una condizione di inferiorità e soggezione verso
l’uomo, come ha già fatto lei. Dunque, la tristezza viene presentata come una condizione inalienabile della condizione
femminile.
La camera della partoriente viene descritta attraverso lo sguardo della stessa donna (  narrazione delegata al
personaggio), facendo emergere il valore consolatorio delle piccole cose che la circondano. Dalla descrizione
dell’inginocchiatoio, inoltre, traspare la grande religiosità e devozione della donna.
La scena di contemplazione del Gesù bambino è interrotta dall’ingresso del personaggio di Teresa, in una posizione
liminare da due punti di vista:
o letteralmente: si ferma sull’uscio della camera da letto
o psicologicamente: da quella notte comincerà ad osservare il mondo che la circonda con occhi diversi, dopo
aver scoperto una realtà a lei prima sconosciuta.
Vediamo la protagonista riferire, dopo l’ambasciata di Caramella, che il pericolo dell’alluvione sembra scampato. La
levatrice fa per allontanarla, ma la madre insiste per informarla su ciò che sta per accadere: Teresa intuisce dunque
come nascano i bambini e ne resta profondamente turbata. Teresa non aveva intuito nulla di tutto questo prima e da
ciò emerge l’ingenuità con cui venivano educate al tempo le fanciulle, a dispetto dei maschi (Carletto, il fratello,
sebbene fosse più piccolo, già sapeva). Questo momento così importante e sconcertante sancisce l’ingresso di Teresa
nell’età adulta (“Si sentiva, a un tratto, fatta donna”), e qui comincia la sua storia. Questa rivelazione la porta anche a
guardarsi in modo diverso, sulla sua natura di donna imberbe che sta crescendo in un paesino di provincia.

16.04
[pg 11] “Sembrava che solo in quel momento riconoscesse il proprio sesso, sentendo scorrere un nuovo languore nelle
vene e, nel cervello, sorgere una curiosità viva.” Tutti gli elementi di illusione, di falsa conoscenza che le erano stati
imposti in quanto donna (le consuetudini sociali e i divieti) vengono dunque squarciati. Ora Teresa comprende qual è
l’essenza della realtà.
La narrazione segue due assi temporali:
1° : Asse ciclico = descrizione di un tempo che sembra sempre tornare uguale a se stesso, con riferimenti al ciclo delle
stagioni e alle festività religiose. È ispirato alla struttura temporale dei Malavoglia.
(“Trascorse novembre. Alle nebbie successe la neve…” [pg 18])
2° : Tempo lineare = Tempo della Storia, che non torna indietro, attraversato da rivelazioni e acquisizioni di nuove
conoscenze. Rispecchia la percezione temporale di ‘Ntoni Malavoglia, incarnazione della coscienza della modernità. È
scandito da riferimenti precisi detti derittici: indicatori che specificano chi parla o ascolta, dove e quando
([pg 11] “Le poche parole pronunciate lì, in quella notte” ; “Sembrava che in quel momento, e solo in quel momento…”)
Con la confidenza fattale dalla madre, Teresa ottiene una conoscenza più completa della realtà e cambia
completamente prospettiva su tutto ciò che la circonda, anche verso il fratello, “trasalendo” al suono della “voce da
uomo”. Dopo questa rivelazione, si percepisce del movimento dalla camera della madre di Teresa e la quindicenne
vorrebbe entrare nella stanza, da cui escono già vagiti di un neonato. È sempre la madre ad accoglierla, per mostrarle
la sorellina appena nata, Ida, e in un certo senso per affidargliela, difatti la stessa signora Caccia comincia a guardare
Teresa con occhi diversi: “Teresa è la mia donnina; dovrà farle da seconda madre.”
L’entrata in scena di Teresa è dunque segnata da una presa di coscienza della propria femminilità. Tuttavia, tutto lo
stupore e la meraviglia che la ragazza prova vengono smorzati quando si rende conto che Carlino, il fratello più
piccolo, è già a conoscenza di tutto. Lui le risponde freddamente, come se ciò che per Teresa rappresentava un
mistero sia in realtà cosa nota a tutti [pg.12]. Da qui, si intuisce che Carlino ha una conoscenza della realtà più ampia di
Teresa, perché uomo e più smaliziato. La frase “Come mai egli già lo sapeva?” sottolinea la discrepanza fra le
conoscenze di uomo e donna.
Si delinea un netto contrasto fra:
- Il primo capitolo, corale, piuttosto dinamico e poco utile ai fini della trama. Qui tutto il paese appare in fermento per
l’imminente inondazione. Vi dominano le figure maschili, dotate di una conoscenza più completa della realtà.
- La scena del parto imminente, più intima, incentrata sui personaggi femminili, che scoprono la realtà che le circonda
grazie alle proprie sensazioni: la stessa Teresa attinge nuove conoscenze tramite le proprie sensazioni e l’osservazione
della realtà esterna. In questa scena solo in apparenza poco dinamica, Neera evidenzia la nascita come miracolo e
funzione essenziale della vita. Il destino della donna appare diviso fra la sacralità della maternità e l’ingenuità, la
soggezione in cui la donna è costretta, fra le quattro mura di una casa, sotto la giurisdizione maschile del
padre/marito.
Nel terzo capitolo abbiamo un salto temporale ([pg 16] “Ida ha appena due mesi”). In questo capitolo, viene introdotta
tutta una serie di altri personaggi, alcuni funzionali ai fini della trama, altri solo di contorno, creati per delineare
l’ambiente del paesino di provincia. Se nel primo capitolo sono state presentate quasi subito le autorità del paese, ora
subentrano figure più umili e comuni, quali Caramella lo Zoppo, venditore porta a porta di mele e pere cotte. L’autrice
segue Caramella lungo tutto il suo tragitto, per raccontare la realtà del paesino e mostrare come, a farla da padrone,
siano il pettegolezzo e la chiacchera: molti abitanti del luogo, se da un lato appoggiano Teresa nelle sue scelte,
dall’altra la giudicano e la criticano. Possiamo dividere questi personaggi in due categorie:
*i rappresentanti del potere civile e religioso, individuabile soprattutto nel primo capitolo, non ha un ruolo
particolarmente essenziale nella narrazione. L’unico momento di rilievo nella storia avviene nel XVII capitolo, quando il
monsignore mette al corrente il signor Caccia del chiacchiericcio in paese sulla storia fra Teresa e l’Orlandi e lo esorta a
risolvere la situazione, per evitare uno scandalo che minerebbe le fondamenta della morale in paese. [pg 79]
*i conoscenti e il vicinato di via di San Francesco, che rappresentano il centro del mondo del romanzo.
Sempre nel terzo capitolo viene descritta una fredda e umida mattina di novembre, in cui Caramella conduce
attraverso le abitazioni che si affacciano sulla strada: prima la rivendita della tabaccaia, poi la casa del pretore. Il
lettore viene dunque coinvolto nello scenario e nelle conversazioni che Caramella intrattiene, per conoscere gli
abitanti di quella strada. In seguito, Caramella si ferma presso il palazzo Portalupi, abitato da una famiglia di “ricconi”
con 3 figlie femmine “in età da marito” e la vecchia Tisbe, ex-cameriera in pensione. Abbiamo già incontrato questo
personaggio nel secondo capitolo, dove viene presentata con tecniche “verghiane”, ossia con caratteristiche
particolari poi riprese integralmente e nello stesso modo poche righe più tardi (“La vecchia Tisbe, colle sue posate nel
grembiale e il cagnolino sotto braccio…” [pg 11]). I personaggi vengono presentati con una narrazione delegata, ossia
tramite lo sguardo di altri personaggi, finché pian piano il fuoco della narrazione andrà a coincidere con lo sguardo di
Teresa.
Caramella evita la villa di Parisi, cremonese e spesso lontano dal paesino. Salta anche le abitazioni di Giovanni
Boccabadàti (“Don Giovanni di nome e di fatto”) e sosta presso i Caccia e il pretore. Qui Teresa ordina alla cameriera di
acquistare due pere caramellate per le gemelle, si poggia alla finestra e scruta la realtà circostante. Questa è una
scena ricorrente: la giovinezza, tramite il filtro della finestra, si affaccia alla vita. Questa metafora viene poi ripresa da
altre autrici, quali la Woolf e la DeCespedes. Teresa osserva dunque la strada, e Neera descrive lo scenario circostante
attraverso i suoi occhi ([pg 14] “Teresina, alla finestra … in alto.”). Teresa si trova a fantasticare sul portalettere e sul
contenuto della sua borsa, chiedendosi quante vite e storie e sentimenti siano racchiusi lì dentro e confrontandoli
inevitabilmente con la vita piatta che le è stata riservata: [pg 14] “Ogni segreto della vita era là. Teresa pensò a tutto
questo con un recondito senso di invidia.” Neera qui si fa interprete dei pensieri e delle sensazioni di Teresa, mediando
tramite questo personaggio tutte le sensazioni che la stessa Neera provava, ma che non le era concesso esprimere.
In seguito, il fuoco della riflessione di Teresa passa su Calliope. Subito l’autrice pone una prolessi (anticipazione
allusiva) sul destino della donna: “La sua casa restava silenziosa, al pari di un sepolcro.” Questa donna rappresenta
una figura emarginata, esclusa, derisa a causa della propria follia; anche su di lei adesso Teresa cambia prospettiva
(“Teresina non conosceva Calliope …”). Calliope è una donna che non ha voluto omologarsi alla società borghese,
venendo per questo ghettizzata ed emarginata; chi non si adegua, è destinato alla follia e all’esclusione. Questa
donna incarna una femminilità diversa, avvolta nel mistero, e Teresa conosce solo alcuni frammenti della sua storia. La
protagonista ha sempre provato un certo interesse per i trascorsi di questa donna: rappresenta, per lei, un modello
femminile diametralmente opposto a quelli che vede tutti i giorni (vedi, la madre estremamente remissiva). Calliope si
è discostata dai canoni tradizionali fin dalla nascita e le sue origini sono avvolte nel mistero – probabilmente è figlia
illegittima della contessa che l’ha cresciuta. Ella incarna una bellezza inusuale, “virile e forte”, vestita in modo originale
e creativo; uno spirito libero e selvaggio, quasi paragonabile a un’amazzone dei boschi. Altri elementi di interesse su
questa figura sono la sua storia d’amore naufragata con un ufficiale francese; un lungo periodo passato in convento
(forse per riprendersi dalla cocente delusione d’amore) e la misteriosa sparizione prima di prendere i voti monacali.
Nell’ultima parte della sua vita vive come una reclusa in casa. Il personaggio non è molto rilevante ai fini della trama,
tuttavia il suo fantasma aleggia costantemente nella mente di Teresa, come un avvertimento di cosa può accadere
quando si decide di non conformarsi. In un certo senso, la follia da cui Calliope è affetta potrebbe rappresentare una
conseguenza, uno sfogo di tutta la frustrazione e la cattiveria che la donna ha subito nel corso degli anni.

17.04
Nonostante non rientri fra i personaggi principali, la figura di Calliope resta comunque importante ai fini della
narrazione, poiché rappresenta un modello alternativo di femminilità e libertà, destinato all’emarginazione e alla
follia, quest’ultimo sintomo di una sofferenza che non può essere sfogata in nessun’altro modo. La storia della Calliope
viene ripresa e menzionata più volte nel romanzo, perché Teresa la conosce in modo lacunoso, per sentito dire, tanto
che anche il lettore, di riflesso, ne avrà una conoscenza “spezzata”, così come il lettore (corrispondenza fra conoscenza
di Teresa e quella del lettore). Inizialmente Teresa considera Calliope un personaggio bizzarro: la matta che odia gli
uomini, che fa ridere per le sue stranezze; ma andando avanti inizia ad analizzarne analiticamente la storia e prova
pena per lei. Riflette con compassione sul suo destino infelice, sul suo tentativo fallito di rompere le convenzioni
sociali e sull’alienazione, la misandria e la pazzia che ne sono derivate (magari scatenate anche dalla forte delusione
d’amore). Nel XVI capitolo viene ritrovato il cadavere di Calliope e al suo funerale prende parte anche Teresa. Si scopre
che era realmente figlia della contessa che l’aveva cresciuta e Teresa, come molti altri del paese, entra nella sua casa
insieme all’amica pretora. Qui acquista uno sguardo più sensibile su questa figura enigmatica e viene colpita da una
cornice di legno che racchiude 3 fiori di campo, colti e legati insieme. Teresa si chiede che valore avesse potuto avere
quel quadretto per la padrona e avverte il bisogno di staccare il quadro per porlo nella bara insieme alla proprietaria,
per esserle di conforto nel suo ultimo viaggio. La pretora, invece, dice a Teresa: “Ecco, tutto è finito. Dio solo sa se la
donna era più savia o più matta di noi…”, suggerendo un’interpretazione più problematica della vita e delle apparenze.
Fin da sempre, d’altronde, il significato della follia è stato oggetto di riflessione, anche da parte di grandi scrittori, vedi
Shakespeare (Amleto) o Pirandello (Uno, nessuno e centomila), presso cui la pazzia talvolta è vista come una forma di
conoscenza superiore, più profonda della realtà.
Teresa teme che soffrirà le stesse sofferenze patite della Calliope e sa che, con Egidio Orlandi, esistono solo due finali
possibili: la felicità del matrimonio (negato però dal padre) o l’infelicità della solitudine. Nei momenti di maggior
sconforto, teme di far la fine della Calliope [pg. 95: “Un pensiero disperato l’assaliva di tratto in tratto. Aveva paura di
diventare una vecchia stramba come la Calliope, di rinchiudersi in casa e mostrarsi solo alle sbarre delle finestre.”].
Dopo la morte del padre, Teresa si rinchiude in casa e in se stessa, niente e nessuno sembra dissuaderla dal restare in
casa; allora la Calliope per provocarla e smuoverla le dirà che somiglia molto a Calliope: [pg.104] “Ho paura che
rassomigli davvero alla Calliope; non esci mai, tieni la casa sbarrata... mettiti un po’ a farmi gli sberleffi, vediamo se
riesci.”
Nel III capitolo la narratrice affida a Teresa il compito di introdurre e descrivere altri personaggi che passano per la
strada attraverso il suo punto di vista. La protagonista viene richiamata alla realtà quando, vedendo i bambini uscire
da casa del pretore e recarsi a scuola, si ricorda di dover preparare le gemelle per la scuola. Emerge in questa prima
rappresentazione della protagonista e del suo rapporto con le sorelle da un lato la natura egoista e litigiosa delle
piccole, dall’altro il carattere materno, composto e riflessivo di Teresa. Questa natura non giocherà a favore della
protagonista; a trovarsi meglio saranno le ben più egoiste gemelline.
Nel IV capitolo abbiamo una descrizione di casa Caccia, già vista dall’esterno nel capitolo II. Dalla descrizione della
casa, si può intuire che lo stato economico della famiglia non è molto agiato. La prima stanza a venir descritta è lo
studio del signor Caccia, una stanza fredda e austera dove le donne sono ammesse solo per pochi momenti (per
mettere in ordine o per avvisare prima dei pasti). Da questo studio e dalla gestione della stanza trapela la natura
burbera del signor Caccia e il suo desiderio di rivalsa sociale: rappresenta difatti il borghese individualista e ambizioso
che punta a farsi strada nella società col lavoro, che punta tutte le sue aspirazioni sul proprio figlio maschio,
costringendolo a studiare per ottenere dei risultati (che non ci saranno). L’arredamento è imponente, ma lascia
comunque trapelare l’usura del tempo e della scarsa ricchezza familiare. Altri dettagli fanno capire che questo studio è
il luogo dove si esercita l’autorità, come ad esempio il “ritratto del re” e il suo pretenzioso trono, “il seggiolone in
forma di biga romana” (simbolo di potere storico). L’unica altra presenza ammessa nello studio, aldilà del signor Caccia
e dei contribuenti, è Carlino, l’unico figlio maschio, che qui dopo il ginnasio fa malvolentieri i compiti, sotto gli occhi
vigili del padre. Lo sguardo della narratrice si sofferma sui libri contenuti nella libreria, descrivendoli come un peso che
Carlino sente gravare su di sé (“e gli incombevano, quasi una minaccia continua”), come la responsabilità di acquisire tutto
quel sapere. Su di lui il sig. Caccia riversa tutti i propri sogni, fino a schiacciarlo. Sebbene riuscirà a diventare avvocato,
Carlino non avrà mai successo, perché preferirà inseguire per amore la figlia di un oste, disobbedendo ai piani ideati
dal padre per un matrimonio combinato più vantaggioso, causando la malattia del signor Caccia. Carlino è
rappresentato come un ragazzo che studia malvolentieri, che preferisce muoversi insieme alla folla che da solo e sente
il peso delle aspirazioni paterne. Lo sguardo della narratrice si sposta poi sul “lungo e triste gineceo della famiglia”,
dall’arredamento ben più spartano. I mobili sono accostati senza alcun gusto, arrangiato, più che altro funzionale ai
lavori delle donne della casa (sartoria, far di conto), più i quaderni e i giocattoli dei bimbi; l’unica decorazione alla
stanza è rappresentata da un grande quadro con un meccanismo inceppato, come a dare un senso di trascuratezza e
negligenza. Lo stato di trascuratezza della stanza riflette la trascuratezza di cui soffrono le donne che la abitano, a
causa della scarsa considerazione di cui godono. In questa stanza spesso si consumano i momenti di intimità fra la
madre e le figlie, ma altrettanto spesso questi momenti vengono interrotti dal padre, interessato a imporre la propria
autorità, e da Carlino, che viene a mettere a soqquadro la stanza. Domina un clima di rassegnata obbedienza. In casa
Caccia domina il caos: i figli sono sballottolati dalla totale rassegnazione della madre e la fredda e distaccata autorità
del padre. Le uniche ventate di freschezza che giungono in questo luogo sono portate dal monello Carlino e dalle
litigiose sorelle. Teresa è sempre molto indaffarata a occuparsi delle faccende domestiche, delle sorelle minori e ad
aiutare la madre; l’unico sfogo che ha è l’immaginazione, che le permette di fantasticare su come potrebbe essere la
propria vita. Dalla finestra di casa sua vede le sorelle Portalupi, ben più facoltose, frequentare balli di società e assiste
al clima di mondanità estrema vissuto dalle famiglie borghesi del tempo, interessate a far trovare a tutti i costi un
marito per le proprie figlie.
La dicotomia quotidiana in cui Teresa trascorre le sue giornate viene di tanto in tanto spezzata dalle visite della
pretora a lei e alla madre. Una sera la loro conversazione inizia a vertere sul matrimonio, sulla norma delle nozze di
convenienza, su come né la pretora né la sig.ra Soave si siano sposate per soldi. Sebbene la signora ritenga Teresa
troppo giovane per sposarsi, la pretora risponde che potrebbe anche capitarle un buon partito, e la madre sembra
rammaricata da questa possibilità. Così come la maggior parte delle ragazze dell’800, Teresa non ha accesso a una
vera istruzione, anzi gli strumenti di conoscenza che ha in famiglia (la libreria del padre) le sono preclusi perché
donna. Più avanti la madre le permetterà di leggere alcuni romanzi, ma la metterà bene in guardia sul fatto che si
tratta di pura finzione. Leggendo quei libri, Teresa sente nascere in sé un desiderio di scoprire l’ignoto: [pg. 20] Le
sembrò che dovesse essere una bella cosa il volare, volare, volare, come don Giovanni, in un bel mattino d'aprile, con
una valigetta in mano, via per il mondo, incontro all'ignoto”.
In seguito troviamo una descrizione di “uno spazio di terreno, chiamato abusivamente giardino”: una piccola porzione
di terreno con poche aiuole e una grama vegetazione. Si tratta di un luogo sterile, in cui la vita stenta a nascere, e
“oltre cui non c’è più nulla”. La descrizione di questo giardino richiama in qualche modo la descrizione di un altro
giardino fatta da Leopardi nello Zibaldone, in cui l’apparente abbondanza di boccioli fioriti nasconde la sofferenza. Un
altro possibile parallelismo leopardiano è quello dell’albero di fico, unica forma di vegetazione che riesce a resistere e
per questo paragonabile alla ginestra, il fiore capace di resistere alle intemperie. In un costante confronto fra illusione
e realtà, questa descrizione sembra simboleggiare come Teresa, nonostante il terreno sterile (la vita) in cui si trova,
riesce a crescere. Infine, l’immagine simbolica del muro di cinta (poi usata anche da Montale per rappresentare la
sofferenza che costeggia il muro) che qui rappresenta lo strumento di segregazione per Teresa e per la vita femminile
in generale.
I capitoli V e VI sono dedicati all’esperienza del viaggio e soggiorno a Marcaria. Per Teresa sono 15 giorni di felicità,
una boccata di aria fresca nella sua esistenza grigia. Teresa ha 16 anni e perciò è passato un anno dall’inizio della
storia; sebbene l’iniziale rifiuto del padre, con le proprie insistenze la madre di Teresa le permette di seguire la zia
paterna in viaggio. L’autrice descrive la zia Rosa e si sofferma sulla storia del suo matrimonio, stipulato come un affare
privo di altro interesse se non quello economico e sociale, e ne emerge un’analisi dell’istituzione nuziale come
l’unione di due esigenze. Questa donna sopporta fedelmente e con rassegnazione i vari tradimenti del marito; ha
avuto 16 figli, senza mai conoscere l’amore, “illusa o appagata dall’apparenza di esso. Così si era trovata coi capelli
bianchi; e dopo aver allevati tanti figli, sola, perché quasi tutti le erano morti e i pochi superstiti avevano cercato fortuna
lontano. Rimase sola, dietro il banco; sempre tranquilla” [pg.21]. La sua è stata una vita trascorsa in funzione del
marito, passata a soddisfare i suoi bisogni e desideri, senza pensare ai propri , finché in vecchiaia deve rinunciare anche
al proprio lavoro di banconista quando il marito (ormai malato) necessita delle sue cure. Così infine Teresa riuscì a
partire “giubilante, prendendo il suo posto nella carrozzella, tanto felice come se avesse salito i gradini di un trono.”
Dopo il primo momento di tensione e imbarazzo vissuto nel salutare i compaesani lungo la strada, Teresa riesce a
rilassarsi e ad ammirare le bellezze della campagna attorno a lei, senza alcun obbligo e senza avere alcun occhio
addosso. Questo nuovo stato d’animo di felicità e leggera estasi le fa ammirare il paesaggio con occhi nuovi, come
fosse la prima volta, vedendo bellezza e bontà in tutto e tutti. In questo paesaggio idilliaco, improvvisamente compare
la figura sfuggente e inafferrabile dell’Orlandi, che attraversa la campagna correndo all’impazzata sul suo sediolo.
Teresa non riesce nemmeno a vederlo in viso; lo conosce solo di fama ed è incuriosita da ciò che si racconta su di lui.
L’ingresso a Marcaria rappresenta quasi l’ingresso in un mondo fatato: Teresa non ha visto nulla del mondo e conduce
una vita da vecchia. Entra in un giardino molto diverso da quello di casa Caccia: florido, verde, pieno di vita vegetale e
animale. Anche lei sente sbocciare dentro di sé la vita e si sente proiettata verso il futuro. Ci sono però elementi di
malattia e morte, quali gli oggetti che la zia le descrive e che una volta appartenevano ai suoi figli, ormai scomparsi.
Il VI capitolo si apre col risveglio di Teresa, sia reale che metaforico: rappresenta un’apertura mentale e conoscitiva
verso il mondo e se stessa. Si guarda intorno e nota dei quadretti che rappresentano le avventure di Telemaco; nella
mente di Teresa si crea un confronto col quadretto presente nella sua stanza, che mostra una santa che piange. Da
una parte abbiamo un’immagine felice, classica, posta per puro scopo decorativo; dall’altra un’immagine “imposta” di
austerità e sacrificio. Nella casa degli zii nota inoltre il grande spazio a sua disposizione, soprattutto a confronto della
assai più piccola casa Caccia. Qui Teresa prova un nuovo senso di libertà.

23.04
I capitoli V e VI sono dedicati all’esperienza del viaggio e soggiorno a Marcària. Per Teresa sono 15 giorni di felicità,
una boccata di aria fresca dalla sua esistenza grigia, e infatti vive quest’esperienza con entusiasmo e spensieratezza.
Durante questo viaggio prima passa attraverso il paese, e poi la porta in campagna. C’è anche un mancato incontro
con l’Orlandi, che quasi urta la carrozza su cui viaggia Teresa; il vetturino lo descrive come “Quello più spensierato di
tutti”. Teresa è incuriosita da questa figura per la sua reputazione.
All’arrivo a Marcaria, Teresa descrive il paese come un mondo di favola (descrive un ponto levatoio all’ingresso, come
in un castello). La zia, vedendo il marito seduto in casa, motiva la scelta compiuta di portare la ragazza con sé,
descrivendo la sua situazione e la sua “vita da vecchia”, prima che il suo destino sia compiuto. Parlando col marito, la
zia Rosa dice: “Questa poverina non ha mai veduto nulla, fa una vita da vecchia in casa sua; sai le idee di Prospero.”
Dopo aver salutato lo zio, Teresa esce in giardino, un cortile molto diverso da quello sterile di casa Caccia: fiorente,
rigoglioso, in aperto contrasto con la descrizione del cortile dei Caccia. (“ Era uno sprazzo di luce, di verde, di rosai
fioriti; un bel bracco dormiva al sole, due gattini novelli scherzavano con un fuscellino. Teresina sorrise, sorrise al sole, ai
fiori, alla propria giovinezza che si irradiava su ogni oggetto circostante. Si sentiva forte, aveva appetito, aveva nelle
gambe un formicolio di vita esuberante, i polsi le martellavano deliziosamente, con un ritornello gaio, pieno di
promesse.”) In esso freme la vita, e la protagonista vi riflette il suo stato d’animo, pieno di gioia per quei giorni di
“riposo assoluto”.
In questo scenario idilliaco, ci sono però degli elementi che minacciano la felicità e rinviano all’esperienza dolorosa
della vita, quali la malattia e la morte. Queste allusioni le troviamo negli oggetti che la zia scrive a Teresa, che
appartenevano ai figli ormai morti.

Il VI si apre col risveglio di Teresa, da intendersi sia in senso reale che metaforico. Rappresenta un’apertura di tipo
conoscitivo, sia nei confronti di se stessa, che del mondo. Appena sveglia, dopo un buon sogno ristoratore, volge lo
sguardo nella stanza attorno a sé, descrivendo “ quattro quadrettini modesti che rappresentavano le avventure di
Telemaco”. Teresa è portata a fare il confronto con la sua camera a casa, dove si trova un quadretto raffigurante santa
Lucia con gli occhi sul piatto – da un lato, abbiamo dunque un’immagine classica, omerica; dall’altra una raffigurazione
sacra che rimanda all’austerità, all’atmosfera di sacrificio che segna la vita di Teresa. Se nella camera e nella casa del
suo paese d’origine, i mobili risultano ammassati, nella casa degli zii, a Marcaria, gli ambienti appaiono di
“un’ampiezza sconfinata, un’assoluta libertà”. In questa atmosfera di riposo, non c’era la voce della madre che la
chiama insistentemente per fare le faccende, né il tono burbero del padre; Teresa ha tempo e modo di riflettere su se
stessa, sviluppando una certa auto-coscienza (“Incominciò a vestirsi lentamente, gustando il piacere di correre a piedi
nudi sul tappetino del corsetto e di girellare in sottana... Come erano bianche le sue braccia! Ella non aveva mai avuto
tempo di guadarle, e le apparivano ora come le braccia di un'altra persona, così sottili, rotonde e bianche. Il colorito del
volto tendeva al bruno, ed anche il collo era bruno e questa ineguaglianza della sua pelle la sorprese; certo non doveva
essere cosa normale”). Si osserva come se non si fosse mai vista prima, e la sua riflessione culmina nella domanda:
“Era essa bella o brutta?” (“Se fosse bella! Si affacciò allo specchio, ma il dubbio non si scioglieva. Ella non provava,
mirandosi, quello stupore che suscita la bellezza. Era dunque brutta?”). Si confronta con la zia, che conserva i tratti di
una bellezza passata, ma al tempo stesso non si considera brutta. Osservandosi ancora nell’insieme, la figura le risulta
piacevole e armoniosa (“data un’ultima occhiata generale che abbracciava l'armonia intera del volto, ne ricevette
un’impressione buona e si sentì consolata. Bella non le sembrava di essere, ma brutta, nemmeno. Decise allora di
vestirsi, e lo fece con una accuratezza insolita. — Incomincio a stimarmi anch'io! — Disse così, sorridendo a se stessa
nello specchio”) e trae dunque una nuova consapevolezza di sé e della propria femminilità, nonché della propria
sensualità.

Dopo c’è un colloquio con la zia, che le fa delle confidenze sulla natura dell’uomo: “ Gli uomini — disse placidamente la
zia Rosa, infilando le maglie di un pedule — sono molto più deboli delle donne.” La zia non argomenta
quest’affermazione, poiché essa racchiude “un'esperienza lunga, multiforme, sicura”, sia dalla sua vita lavorativa che
da quella privata, segnata dall’infelicità coniugale e dai lutti dei suoi figli. (“ In quella asserzione che sintetizzava la
debolezza del sesso forte, c'era tutto quanto il frutto della sua vita trascorsa osservando; osservando, calma, dietro il
banco del negozio, accanto ai lettini dei suoi sedici figli, nelle ore lente e pazienti della solitudine femminile.”) Emerge
una grande capacità, tipicamente femminile, di osservazione, di scavo analitico, di andare oltre le apparenze per
guardare nel profondo delle cose. Teresa è ancora immatura per poter comprendere quest’asserzione, ma tenta di
osservare le persone che ha attorno, ossia gli zii: da un lato, vede lo zio decrepito, attaccato alla vita; dall’altro, la bella
zia, remissiva e tranquilla. Teresa non è cosciente di ciò che sua zia ha passato: la narratrice ci fa sapere che questa
donna è rimasta così bella e giovane nell’aspetto perché non ha mai conosciuto l’amore, in tutta la sua vita.
In questa atmosfera di libertà per se stessa, si creano le condizioni perché T possa fare nuove esperienze, aprirsi a
sentimenti per lei ignoti. Anche se in questa fase non si tratta ancora dell’attrazione forte che sentirà per l’Orlandi, T
ha una prima esperienza di infatuazione. Il figlio dell’impiegato postale passa davanti la sua finestra per ronzarle
intorno, e T scopre di essere l’oggetto dell’attenzione di questo ragazzo con un certo compiacimento, una certa
curiosità. Finalmente, durante questa vacanza ha modo di partecipare a un evento sociale: un piccolo ballo in casa,
una festa semplice, improvvisata ma bella, fino ad assumere il valore di un rito di iniziazione: rappresenta il passaggio
dall’infanzia alla vita adulta della protagonista. Teresa è agitata per questo evento e osserva confusamente la realtà
che la circonda; si apparta nell’angolo più buio della stanza per celare l’imbarazzo, rifiuta con diffidenza i confetti che
le vengono offerti (all’inizio pensa che sia uno scherzo, come quelli che le fa il fratello). T si decide infine ad accettare,
e quando alza lo sguardo vede che sta parlando col figlio del postino, il signor Cecchino. Il ragazzo in un certo qual
modo la corteggia, la invita a ballare, fino a farla accettare. La ragazza si trova completamente inebriata da questa
esperienza. Prova un senso di stordimento, e al tempo stesso un’emozione che coinvolge più sensi: il buio (vista),
contatto con un ragazzo (tatto), la musica (udito), odore del gelsomino (olfatto). L’immagine dei fiori dal forte odore
come elemento di sensualità viene ripreso poi dal Pascoli, nel Gelsomino notturno. Teresa non ha il coraggio di
mangiare il confetto offertole da Cecchino e lo conserva come ricordo della serata, ma poi rappresenterà l’oggetto di
una disputa con le gemelle, quando tornerà a casa. Quel confetto assumerà il valore di metafora dell’amore mancato,
dell’occasione perduta: mentre Teresa perde la sua giovinezza inseguendo il sogno di sposare l’Orlandi, le gemelle
opteranno per un matrimonio di convenienza, obbedendo alle convenzioni sociali e agli opportunismi.

La mattina dopo il ballo, il primo pensiero della giovane è rivolto al ragazzo, ma è un pensiero triste, quasi doloroso. La
zia si preoccupa per lei, pensa si sia ammalata, ma lo zio, che ha compiuto più di una scappatella in gioventù, intuisce
subito di che si tratta: l’amore. La zia non ha la stessa intuizione perché non sa cosa sia l’amore.
L’effetto di questa prima infatuazione è molto importante per la crescita di Teresa, anche se in questa occasione, così
come nel futuro, non avrà mai piena coscienza dei propri sentimenti. Ciò dipende anche dal fatto che T ha molte
lacune nella propria conoscenza della realtà e di sé stessa. Questa conoscenza parziale dell’esistenza si ricollega al
modo in cui è cresciuta, tagliata fuori, confinata fra le quattro mura di casa. Ciò che sente in modo più forte nasce più
dalla fantasia che dalla percezione della realtà; sente soprattutto questa propensione alla fantasticheria, all’illusione.

Il capitolo VII comincia con l’arrivo improvviso del sig. Caccia, venuto a riprendere Teresa per riportarla a casa. Tornata
a casa, T si guarda intorno e osserva la realtà con occhi diversi (“ Tutto era abituale, tutto era conosciuto; solo Teresa
aveva cambiato; gli oggetti erano quelli ma i suoi occhi li vedevano diversamente. La signora Soave avvertì subito il
cambiamento della figlia”). L’allontanamento temporaneo ha raffreddato i rapporti con la madre: T le racconta del
ballo in casa, ma tralascia la parte sul signor Cecchino. T non riesce a ristabilire il rapporto di confidenza che aveva con
la madre, come se si fosse verificata una frattura. Inoltre, prova fastidio nei confronti delle sorelle, che le chiedono
insistentemente cosa abbia portato loro come dono da Marcaria, e le portano via sia il biglietto (strappato) che il
confetto (mangiato). A Teresa non resterà alcun ricordo materiale dell’esperienza. È in questa occasione che T mostra i
primi segni di isteria: quando le gemelle le sottraggono i due pegni, T non riesce a controllarsi e scoppia in un pianto
inconsolabile.
La maturazione di T avviene attraverso alcuni passaggi. La madre nota il suo cambiamento, da bambina a giovane
donna, e acconsente che legga qualche romanzo, ma la mette in guardia su come quello che c’è nei libri sia solo frutto
di fantasia e non è la realtà (“Non c’è nulla di vero sai? La vita non è come la descrivono nei libri”). Un’altra occasione
di maturazione e di contatto con l’esterno è rappresentata dalla possibilità di assistere a una rappresentazione
teatrale. Nel paese di T giunge una compagnia teatrale, che mette in scena il Rigoletto. Il primo che aveva avuto modo
di andare al teatro era stato Carlino, che gode di più libertà della sorella maggiore, e ha raccontato ciò che ha visto a T.
Una sera giunge a casa Caccia la Pretora, che vorrebbe portare T a teatro assieme alla propria cognata per assistere a
questa rappresentazione. C’è qualche esitazione; per convincere i genitori, la pretore usa una forte argomentazione e
fa riferimento al matrimonio: andando con lei, T potrebbe mettersi in mostra davanti ai buoni partiti del paese.
Emerge, anche qui, la logica affaristica che risiede dietro all’istituzione del matrimonio, in cui la sposina, qui T, non è
né più né meno che un oggetto, che va messo in vetrina per attrarre “acquirenti”. D’altronde, nel romanzo, la pretora
è il personaggio più pragmatico: fornisce i consigli più pratici e incarna i principi e l’ottica del realismo: guarda la realtà
in faccia, senza illusioni. Spetta perciò alla pretora riportare sempre T coi piedi per terra e farle dimenticare le sue
illusioni, grazie alla propria esperienza di donna sposata. Di fronte a queste argomentazioni, alla fine il sig. Caccia
acconsente a lasciar andare T alla prima teatrale.
A teatro, prima ancora che si alzi il sipario, T è colpita dallo scenario che le sta attorno, nei palchetti e fra la platea: ci
sono molte autorità e abitanti del paese. Anche la pretora e la cognata si guardano attorno, chiacchierando su coloro
su cui posano lo sguardo, fra cui il Don Giovanni; fanno qualche allusioni a una presunta storia d’amore fra il Don
Giovanni e una ragazza rimasta incinta, che ha richiesto un indennizzo. T ascolta, ma non riesce a comprendere tutti gli
elementi del discorso, perché non ha idea cosa sia la sessualità.
T partecipa attivamente ai fatti rappresentati in scena, alle descrizioni dei personaggi. Sebbene abbia già sentito
qualche passaggio della storia dai racconti del fratello, nono conosce a pieno tutti i risvolti delle vicende messe in
scena. Nonostante l’attenzione con cui segue, le mancano alcuni elementi per comprendere a fondo l’opera, perché in
essa viene rappresentata la subordinazione della donna, come merce da sfruttare.

24.04
Teresa si trova a una rappresentazione del Rigoletto di Verdi. In quest’opera viene rappresentata la subordinazione
sociale della donna, ma Teresa non è in grado di decifrare tutte le situazioni messe in scena e ha troppa paura di
sembrare ridicola per chiedere. Ai fini della comprensione del testo, è necessaria un’operazione esegetica, da
compiere in due fasi:
1) explication du texte, che può essere rappresentata da un qualsiasi tipo di re-interpretazione del testo (parafrasi,
traduzione, ecc.), con la spiegazione dei riferimenti storico-culturali contenuti nel testo
2) interpretazione del testo.
Entrambi questi livelli sono fondamentali alla comprensione di un testo. Ogni interpretazione poggia su una
spiegazione, e a sua volta ogni spiegazione porta a un’interpretazione: prima di poter commentare un testo, bisogna
innanzitutto spiegarlo. Cesare Sègret ha individuato 3 difficoltà esegetiche che è possibile incontrare in un testo
letterario, ossia tre tipi di distanza fra il lettore e l’autore:
*storica *geografica *culturale
L’autore è immerso nel proprio livello culturale e nella propria realtà, magari con usi e costumi differenti rispetto al
luogo storico-geografico in cui vive il lettore. Più la distanza lettore-autore aumenta, tanto più diventa necessario fare
delle note esplicative sull’opera per il lettore.
Il critico Luigi Blasucci ha poi aggiunto un quarto tipo di distanza: la figurale, che rappresenta le strategie letterarie,
l’apparato di immagini ed elementi utilizzati dall’autore per comunicare ed esprimersi.
Abbiamo un esempio di tutto questo nel modo in cui Neera fa riferimento al Rigoletto; se non approfondissimo alcuni
elementi dell’opera verdiana, ormai lontana a noi lettori contemporanei, non potremmo comprendere alcuni dialoghi
scambiati dalla protagonista Teresa con la pretora. Il riferimento da parte dell’autore a un’opera esterna, in questo
caso come in tutti gli altri possibili, proviene dal bagaglio culturale dell’autore stesso ed è segno di intertestualità; più
è ricca l’”enciclopedia” di un autore, più crescerà l’intertestualità delle sue opere. Ogni autore è figlio del proprio
tempo, perciò è fisiologico che inserisca (in modo più o meno coscio) degli appigli alla realtà storico-culturale che lo
circonda; ciò è possibile anche grazie alla natura dialogica della parola letteraria: i testi dialogano gli uni con gli altri, e
ogni testo ha dentro di sé altri testi e conoscenze.
Per tutti questi motivi, è necessario conoscere a grandi linee la trama del Rigoletto. Questa è un’opera verdiana in 3
atti, il cui libretto è ispirato a Le roi s’amuse di Victor Hugo (il personaggio del re viene sostituito per motivi di censura
dal duca di Mantova, stato scomparso pochi anni prima). L’opera fu scelta e inserita da Neera nella propria opera
poiché mostra un esempio di comportamenti misogini. La storia racconta delle peripezie di questo duca che seduce e
abbandona qualsiasi donna incontri. Tutto comincia quando Rigoletto, il buffone di corte a Mantova, schernisce il duca
di Monterone, la cui figlia è stata appunto sedotta dal Mantova; per ripicca, Monterone scaglia una maledizione
contro il Mantova e il buffone. La storia si configura come la realizzazione di questa maledizione: anche lui sarà
costretto a vivere la stessa sorte, ossia vedere rovinata la reputazione della figlia Gilda, che verrà sedotta dal duca di
Mantova. Costui ci riesce travestendosi da studente e approfittando dell’ingenuità di Gilda. Rigoletto vuole
smascherare l’artificio del duca, e perciò porta la figlia con sé in una locanda, dove il duca, tolte le mentite spoglie, si
intrattiene con Maddalena e schernisce sia le donne che gli uomini innamorati. Convinto di aver salvato la sorte della
figlia, Rigoletto la intima di tornare a casa, dopo averla fatta travestire da uomo; Gilda continua però a provare un
forte sentimento verso il duca e torna alla locanda, dove assiste a un’altra conversazione. Ora Maddalena, la donna
con cui stava intrattenendosi il duca, cerca di dissuadere il proprio fratello, il mercenario Sparafucile, a ignorare la
commissione di Rigoletto sulla testa del duca. Per mantenere intatto il proprio onore, Sparafucile promette dunque di
uccidere il primo uomo che entrerà nella locanda e Gilda si decide a sacrificarsi per il proprio amato: si finge un
mendicante e, messo piede nella locanda, viene pugnalata. Rigoletto prende in consegna il corpo, convinto si tratti del
duca, ma ben presto capisce che il duca è illeso e si accorge che sta in realtà trasportando la figlia moribonda. L’opera
si conclude con la morte di Gilda.
In Teresa, la protagonista partecipa con forte coinvolgimento emotivo alla rappresentazione in scena: si rispecchia
molto nel personaggio umile e modesto di Gilda e chiede più volte alla pretora il ruolo dei vari personaggi man mano
che entrano in scena [pag 33]. A Teresa, che non è a conoscenza delle meccaniche del sesso, sfugge che Gilda è stata
sedotta e violentata dal duca, perciò rimane confusa dalla sua disperazione [“…fu tentata di chiedere perché Gilda si
mostrasse tanto disperata; un vago istinto le suggerì che la sua domanda era ridicola e tacque.”]. La fine tragica della
protagonista suscita grande emozione in Teresa, tanto che la pretora per consolarla le rammenta che si tratta di
finzione; “ma la commozione di Teresa aveva un’origine occulta…”. Il sentimento di Teresa nasce anche dalla scoperta
del sentimento d’amore, che pian piano la protagonista sta sperimentando, e dall’intuizione che questo sentimento è
legato al dolore e alla sofferenza. Per Teresa non si trattava di semplici personaggi e intrighi, ma di veri sentimenti e
passioni incarnati, da cui inizia a comprendere anche le dinamiche dell’amore vero [“Da quella sera… di Gilda
morente.”]. Da quel momento smette di pensare all’amore come all’infatuazione provata per Ceccchino, e percepisce
che si tratta di un mondo di altre sensazioni per lei imprecise e indistinte, una realtà che le si rivelerà poco a poco, con
rivelazioni improvvise e dolorose, “rapide ferite” che la faranno crescere in modo quasi traumatico.

Dall’ottavo al decimo capitolo abbiamo il definitivo passaggio di Teresa alla maturità, descritta in termini non solo
fisici ma anche psicologici; questa maturità la porterà alla nascita dell’amore con l’Orlandi nell’undicesimo capitolo.
Tramite una tecnica di narrazione impersonale, Neera delega le informazioni per il lettore ai vari personaggi. Così,
apprendiamo che Teresa ha ormai compiuto 19 anni grazie alle battute di dialogo fra lei e la pretora. L’autrice si
sofferma sui tratti fisici della ragazza ormai fattasi donna e delle implicazioni sociali che ne derivano, ossia la
necessità di trovare marito. Troviamo una connotazione stagionale funzionale alla storia: la narrazione si situa qui ad
agosto, al massimo della maturità della natura, che dunque corrisponde alla maturità della ragazza. In questa assolata
giornata di agosto, Teresa viene descritta mentre impasta qualcosa; qui la narratrice inserisce dettagli e riferimenti alle
sue fattezze di donna, particolarmente pronunciate mentre la protagonista compie questa faticosa operazione.
Quest’attacco, che si focalizza appunto sulla fisicità e la vitalità di questa giovane donna, simboleggia anche le sue
nuove esigenze, sia affettive che fisiche. Questa scena introduce all’arrivo della pretora, che giunge per fare quattro
chiacchiere con la ragazza. Neera insiste sulle due caratteristiche del personaggio della pretora, ossia la sua loquacità e
la sua “conoscenza delle cose del mondo”; la pretora rappresenta, infatti, il realismo borghese, il pragmatismo della
realtà del tempo. La pretora rappresenta un personaggio funzionale alla narrazione: è la confidente della protagonista,
la custode dei suoi segreti. Ha un ruolo narratologico preciso: grazie alle battute che scambiano, riusciamo a conoscere
i pensieri di Teresa. La pretora inizia ad accennare al matrimonio incombente di un certo Luzzi e subito “un’ombra
attraversa lo sguardo di Teresa”, perché il ragazzo aveva dapprima mostrato un interesse per la ragazza, ma si era poi
persuaso a optare per un matrimonio di convenienza con le assai più ricche Portalupi. Neera dipinge Teresa come un
personaggio estremamente umile e dignitoso: raramente dice ciò che pensa e prova, assai più spesso esprime i propri
sentimenti tramite i gesti, gli sguardi, in modo più impersonale e indiretto. Qui la vediamo allisciare le balze del
grembiule per il nervosismo. Teresa non ha una grande autostima: non crede di poter mai arrivare ad avere un gran
matrimonio come le Portalupi, sia per motivi economici sia per poca bellezza, ma la pretora cerca subito di
confortarla. La pretora, anzi, cerca di far volgere, con cautela, la conversazione sulla proposta di un possibile partito
per Teresa, per cercare di convincerla ad accettare questa possibilità. Questo partito è rappresentato dal professor
Luminelli, dottore di poche pretese che ha perso da poco la moglie e che ha una figlia della stessa età di Ida, la sorella
minore di Teresa. La protagonista è convinta di non volerlo sposare, e avvia una discussione con la pretora in un
crescendo di obiezioni: prima sottolinea di non conoscerlo, poi rimarca la grande differenza d’età. Teresa vorrebbe
insomma sposarsi per amore, con un uomo a lei simile, che le è caro, ma la pretora cerca di dissuaderla, sostenendo
che gli scarsi rapporti e la differenza di esperienza non sono veri motivi per rifiutare un matrimonio, perché “gli uomini
sono quasi sempre vedovi” (hanno quasi sempre più esperienza delle donne). Un’altra obiezione che sopraggiunge a
Teresa è il fatto che il dottore abbia già una figlioletta, ma preferisce non dirlo ad alta voce perché ciò non rappresenta
per lei un vero deterrente; dice però subito che “questo dottore non ha voglia di sposarla”, ma la pretora controbatte
dicendo che “gliela si fa venire”. Il matrimonio, in questa realtà, rappresenta l’unica via di affermazione sociale per la
donna dell’epoca, e tutto ciò che aveva a che fare con la sfera dei sentimenti era considerato fatuo, poco realistico.
Per la sorella Ida sarà possibile intraprendere un’altra strada, potrà lasciare la propria famiglia, prendere il diploma da
maestra e diventare indipendente; ma ciò non è concesso a Teresa. Ciò che Teresa rifiuta, in nome di un ideale
astratto, sarà invece accettato di buon grado dalle gemelle, descritte come opportuniste e maligne, che sposeranno
nello stesso giorno i due fratelli Luminelli. La pretora tenta di far ragionare in modo obiettivo: “–Tu aspetti il principe
delle Mille e una notte, ti figuri che i mariti vengano fatti su quel modello.” (altro riferimento intertestuale) Si
indispettisce quando si rende conto che la gioventù è portata a rifiutare l’esperienza di chi ha già vissuto: “–Siete tutte
così, benedette ragazze; non ne volete approfittare dell’esperienza di chi ne sa più di voi. Non cercate la bellezza nel
marito, l’eleganza, la poesia; sono corbellerie, razzi, fuochi fatui. Macché! Finché non ve ne accorgete voi stesse…” Da
qui la scarsa considerazione verso tutto ciò che riguarda i sentimenti e l’animo. Questo passaggio riflette un famoso
articolo del tempo, scritto da Walter Beniamin, il quale rivendica, per la generazione di inizio 900, il diritto di fare le
proprie esperienze, rispetto all’atteggiamento da filistei seguito dai padri. Teresa qui rappresenta una giovane donna,
esponente delle nuove generazioni, che non crede agli insegnamenti delle generazioni precedenti. Continuando le sue
obiezioni, Teresa sottolinea che già i suoi genitori si sono sposati per amore, ma la pretora le sorride in modo beffardo,
invitandola a chiedere alla madre se sia stata effettivamente felice e definisce il matrimonio un vero e proprio affare.
[pag 38] La pretora impreca contro gli uomini, per lei senza valore, e contro l’amore “vivo e puro”, a suo dire
inesistente: “–Sai che cosa indica nel linguaggio dei fiori il garofano rosso? Amore vivo e puro. Grazioso vero? Se
esistesse.” Il capitolo si chiude con un’idea di saggezza della pretora, la quale ammette che gli uomini, per quanto
siano senza valore, risultano necessari: “–Se lei dice che gli uomini non valgono nulla, sono avidi, brutali, calcolatori… –
E sono pronta a ripeterlo. È un po’ come le cipolle: sono una cosa volgare, sporca, che fa piangere, doppia [non
trasparente], disgustosa. Tuttavia, restano indispensabili per fare un manicaretto gustoso.” Qui è racchiusa tutta la
mentalità del matrimonio borghese: per quanto gli uomini risultassero infidi e interessati, erano necessari alle
donne, sia per affermarsi che per compiere il loro destino biologico di madri.

Nel capitolo successivo torna a casa Carlino, recatosi a studiare a Parma e la cui istruzione è fonte di ulteriori sacrifici
per la famiglia. Il ritorno del fratello accentua, nella mente di Teresa, il distacco e la disparità che avverte in quanto
figlia femmina: Carlino a Parma ha modo di condurre una vita molto più ricca e attiva della ragazza. Inoltre, si
evidenziano i segni dei cambiamenti che la pubertà ha lasciato in entrambi i fratelli. Teresa ormai guarda a Carlino
come un uomo e rimane affascinata dalla vita di divertimenti che le racconta. A un certo punto, Carlino tira fuori la
foto di una donna, e la ammira attentamente. La vista di quella foto provoca una certa rabbia e un certo malcontento
in Teresa, poiché rappresenta una femminilità assai diversa dalla sua: è una donna ricercata, posata, sofisticata, con
una bellezza procace e consapevole.
2.05
Leggiamo del ritorno di Carlino da Parma, dove ha frequentato il liceo. Con questo ritorno, Teresa è costretta a
costatare che il fratello, nonostante sia più piccolo di lei, gode di maggiore libertà. Si evidenzia dunque la differenza
sociale e sessuale fra donna, costretta a rinunciare a tutto per la famiglia, e uomo. Teresa, ormai diventata donna,
riconosce in Carlino e nei suoi cambiamenti l’uomo, suscitando in lei una certa attrazione e curiosità. Ascolta con
attenzione i racconti che fa della sua vita di studente in città e, mentre disfa la valigia del fratello, scopre una
fotografia di donna: “Era una bella donna, di una bellezza immensamente procace. La posa drammatica e ricercata
metteva in mostra d'un colpo solo, come una scarica mitragliatrice, l'occhio assassino, il sorriso sensuale e il braccio e la
rotondità della spalla accentuata dall'abito attillatissimo.” Teresa reagisce in modo negativo, con un misto di rabbia e di
malcontento di sé: percepisce improvvisamente l’isolamento forzato, quasi monacale che è costretta a vivere.
Continua poi a rovistare nella valigia di Carlino e resta inebetita ad ascoltare le storie del fratello, per catturare
qualche “eco” di vita dall’esterno. Questa percezione di isolamento si rafforza ulteriormente quando il fratello le dice
che lei ‘non può capire nulla di eleganza’. Il fratello le descrive anche dei costumi della società a Parma, così diversi da
quelli di un paese di provincia quale il loro (accenna ai vari corteggiatori che circondano una donna sposata, la moglie
di un famoso avvocato). Questo confronto con la realtà esterna le rivelerà un mondo diverso, rispetto a quello
conosciuto finora. Attraverso il colloquio con Carlino, emerge la grande frattura che si è creata fra i due fratelli:
“Sembrava alla fanciulla che tra lei e suo fratello fosse sorta una barriera. Egli era minore di un anno, ma le appariva
assai più grande; e le incuteva un senso di soggezione. Aveva aspettato con ansia il ritorno di lui in famiglia, per un
bisogno indistinto di affezione, perché non aveva amiche, perché si sentiva sola in quella casa, sola nel mondo. Ma il
fratello non la comprendeva. Le loro vite si svolgevano in senso opposto. E poi Teresina anelava, inconsciamente,
all'intimità dell'uomo. La freddezza di Carlino la feriva. Ella soffriva accanto a quel giovane robusto e felice, a cui i
privilegi del suo sesso aprivano tutte le porte. Non ragionava così la fanciulla, ma aveva l’intuizione di una profonda
ingiustizia.” Da un lato, Teresa non può non percepire una discrepanza fra i due stili di vita destinati ai due sessi;
dall’altro, in quanto donna si sente ciecamente attratta dall’uomo che le è accanto, “suo signore e padrone”. A questo
istinto inconscio si associa un istinto materno, che in Neera si presenta come surrogato dell’amore negato, e che
viene rievocato con un irrefrenabile impulso a prendere in braccio la piccola Ida.
La figura di Orlandi viene introdotta nei discorsi che Teresa intrattiene col fratello, che lo descrive come una persona
intelligente, ingegnosa, altruista, dedita al divertimento. Carlino dice: “ Un cattivo studente sì, ma un cattivo giovane no.
Ha moltissimo ingegno, moltissimo cuore, ma gli piace divertirsi.” Teresa smette di fantasticare quando pensa a come il
padre imponga su di lei e le altre donne della propria famiglia la sua autorità e “ predicando ad esse la modestia,
l’umiltà, l’attività silenziosa nelle pareti domestiche, l’ubbidienza al sesso forte, la ricognizione spontanea dei propri
doveri messi a fronte coi diritti dell’uomo”. Così, Teresa e sua madre sono due donne rinchiuse, avvilite, schiacciate
dall’uomo e perciò unite da un vincolo di empatia reciproca, espresso più da gesti e sguardi che da parole.
Teresa cede a un invito fattole da Carlino per una scampagnata, da fare con l’Orlandi, verso il podere della zia
dell’Orlandi. Anche in questa circostanza, la ragazza è costretta a subire la gelosia delle sorelle, sia delle gemelle, che
sono invidiose, sia della sorellina, che non vuole vedere Teresa allontanarsi. Questa gita rappresenta per Teresa
un’occasione per osservare l’Orlandi più da vicino, dato che finora lo ha appena intravisto o guardato di sfuggita. La
presentazione dell’Orlandi è fatta da un narratore di tipo tradizionale: è un ritratto a tutto tondo, in cui sono
evidenziate le sue caratteristiche, sia fisiche che comportamentali (cosa che Teresa non può già conoscere): “ Alto e
ben fatto, il suo portamento aveva la disinvoltura graziosa e fiera di una persona perfettamente equilibrata: ogni suo
movimento rispondeva con armonia mirabile alla giusta proporzione delle forme. Il volto, di un pallore bronzato, molto
regolare nei lineamenti, usciva spiccatissimo dalla barba nera, corta, ricciuta; aveva una fronte alta da poeta,
attraversata da una vena che si gonfiava facilmente nell’impeto della gioia o dell’ira. La bocca tagliava il nero cupo della
barba con un mezzo arco sanguigno, spesso dischiuso, e tutto il volto si illuminava della gaiezza di quel riso, dove la
spensieratezza, la bontà, lo scetticismo si alternavano, in una mobilità strana di espressione. Gli occhi erano molto belli,
larghi, audaci, e col loro sguardo mobile e cangiante riflettevano le stesse gradazioni indecise del sorriso; gradazioni che
davano a quella fisionomia un fascino naturale, quasi irresistibile, il solo che potesse spiegare le ardenti simpatie che
Orlandi destava così nelle donne come negli uomini. Era un gran parlatore; non diceva cose straordinarie, ma vestiva
sempre il suo pensiero di una forma vivace, spontanea, che poteva non persuadere ma che trascinava. Gli amici gli
pronosticavano una brillante carriera, come avvocato.” Le doti di questo giovane sono dunque una grande armonia dei
tratti, la spensieratezza, ma al contempo non si può non notare un “ma”: non dice cose straordinarie, è un
inconcludente. Riesce però comunque a conquistare col proprio fascino; è l’emblema della giovinezza e dell’allegria.
L’immagine di Orlandi che le passa accanto in campagna ritornerà più in là nella mente di Teresa, rivelandosi nel suo
carattere profetico. La figura dell’Orlandi è antitetica rispetto a Teresa: tanto più lei è ingenua e mediocre
nell’aspetto, quanto lui è spigliato, audace e affascinante. Il primo incontro fra i due si colloca in uno scenario
altamente simbolico: la zia dell’Orlandi, la signora Letizia, propone di andare a confessarsi in una chiesetta di
campagna, mentre l’Orlandi sta fuori. Si nota il contrasto fra la penombra della cappella e la luce crepuscolare che
viene dal tramonto dell’esterno; fra lo spazio chiuso, coi suoi fiori secchi, e l’esterno, con l’orto del curato; fra la
purezza e l’ingenuità di Teresa (“come una santa vergine strappata dal muro”) e l’”attitudine aggressiva”, “audace” di
Egidio Orlandi; fra la vergine rinchiusa in uno spazio claustrale e lo spirito ardito che vive all’esterno. Qui emergono le
doti di Orlandi come affascinante seduttore. Rispetto ad Egidio, Teresa incarna una figura molto diversa, già per
quanto riguarda il nome: Teresa probabilmente deriva dal greco telàe, “cacciare”, e da qui anche il cognome Caccia,
attribuito per antifrasi. A dispetto del nome, Teresa non è una cacciatrice, bensì una preda, una donna timida e
ingenua, destinata a essere cacciata, catturata. Il nome dell’Orlandi, invece, ossia Egidio, rimanda al nome del
seduttore della Monaca di Monza.
Teresa è sempre rappresentata nell’“al di qua”, qui in particolare al di dentro della finestra inferriata, come fosse
oltre delle sbarre, mentre l’Orlandi è rappresentato sempre fuori. In tutti i loro incontri, Teresa ed Egidio saranno
sempre divisi da qualche barriera, delle sbarre come qui o delle mura, tutti elementi che condannano Teresa a essere
confinata, e dando all’Orlandi la libertà di raggiungerla o di allontanarsi a suo piacimento. È sempre lui a decidere
quando stare con lei e quando andarsene. Al ritorno, Orlandi si offre di accompagnare Teresa dandole il braccio,
creando la prima occasione di contatto e scambio fra i due, facendo ritornare l’immagine simbolica della finestra: “—
Non la si vede mai in paese. —Esco poco. —Ma nemmeno alla finestra. —Oh! non ho molto tempo da stare alla finestra,
io.” Dunque, Teresa non sta nemmeno sulla soglia, spazio destinato alla donna, rinchiusa nelle pareti domestiche. Non
può avere nemmeno una percezione parziale e riflessa di ciò che la circonda, subendo un distacco totale dalla realtà.
Teresa si sente turbata dagli sguardi che le rivolge il giovane, pur essendo convinta che non possa esercitare
dell’attrattiva, anche per via del proprio carattere.
Nel capitolo successivo, dopo circa un mese da quell’incontro, all’uscita dalla messa domenicale, Teresa cerca con lo
sguardo l’Orlandi, che la sta guardando con intensità. Quando viene raggiunta dall’Orlandi, con una scusa lui fa
scivolare una lettera fra le mani della ragazza – qui si stabilisce un primo contatto diretto fra i due. Teresa custodisce
gelosamente la missiva e la legge in solitudine nella propria stanza: scopre che l’Orlandi le chiede di incontrarsi a tarda
sera. Così, il lettore apprende che Teresa, ormai da un mese, aspettava di ricevere una dichiarazione da parte
dell’Orlandi. Questi le scrive poche righe, dandole appuntamento davanti alla finestra del pianterreno. Il biglietto
perplime Teresa, perché non presenta alcune parole dolci o d’amore; d’altronde, nemmeno lei riesce a definire ciò
che prova per lui ormai da giorni. Ciò nonostante, nasconde la lettera ai propri familiari e il narratore indugia sulla
sensualità che la lettera trasmette a Teresa, che per rileggerla ogni volta si slaccia l’abito. Indugiando su questo
aspetto, Neera fa intendere che l’esperienza d’amore nasce come esperienza naturale e fisica dell’uomo, per poi
diventare mentale e sentimentale.
Teresa è molto incerta sul presentarsi o meno all’appuntamento, così come dubita dei sentimenti dell’Orlandi; non
può non ricordare l’immagine di quella figura di donna, molto prorompente, così diversa da lei, che Carlino definiva
come l’amante dell’Orlandi. Da un lato non è sicura dei sentimenti del giovane, di venir meno ai propri principi morali,
di disubbidire ai genitori, ma dall’altro c’è un istinto quasi incontrollabile che la trascina giù per le scale, fino al luogo
dell’appuntamento. Apre la finestra (anche qui, fra i due si contrappone un ostacolo) e, attraverso le sbarre, si sente
afferrare le mani dall’Orlandi, che le dichiara il proprio amore. È la prima volta che Teresa si sente dire certe cose e
reagisce con un certo sgomento, addirittura chiamando l’Orlandi “signore”. Egidio è ulteriormente colpito dalla
timidezza e l’innocenza della ragazza e per convincerla a lasciarsi corteggiare, pensa di dirle “ sarà un amore nobile e
puro; ma comprese che era inutile dir ciò. Teresa non ne poteva immaginare un altro”; Teresa non ha alcuna idea della
dimensione fisica dell’amore, e quando la scoprirà ne proverà persino ribrezzo. Alla fine, si lascia convincere a
intrattenere una corrispondenza con l’Orlandi e questa sua estrema ingenuità esprime una fortissima attrattiva
presso Egidio – rappresentava una donna completamente diversa rispetto a quelle frequentate a Parma. Confidando
nella complicità del postino, i due avviano una relazione epistolare. Dopo essersi congedata, quella sera, Teresa sente
dentro di sé una grande forza sconosciuta e risale in camera sua “ in preda a un’estasi d’amore”, che appare coi
connotati di un’esperienza mistica (“L'assorbimento amoroso si manifestava con tutta la sua potenza. Dio e Orlandi”).
L’amore per l’Orlandi, qui, si lega all’amore per dio; l’amore di Teresa viene paragonata all’esaltazione dei santi; lo
stesso nome di Teresa rimanda a questo tipo di figure, ossia Santa Teresa (“ Ella portava nell’amore l'esaltazione fatidica
dei santi per la loro fede; si sentiva chiamata, guidata da una mano invisibile. Accordi celesti risuonavano dietro di lei;
sognava la sua unione con Egidio, come le vergini, chiuse nei chiostri, sognano di unirsi al Signore, misticamente”).
Neera introduce alcune considerazioni sull’amore femminile e distingue fra amore femminile e amore maschile. Le
donne sono consumate, arse dal bisogno di dedicarsi totalmente all’amore, di “annullarsi” e “farsi schiave” dell’uomo
o di Dio. Inoltre, le donne amano essere conquistate e soggiogate, mentre gli uomini amano conquistare: “ Questo
profondo desiderio delle catene che tormenta le belle anime di donna, ha in sé una voluttà straordinaria; esse attingono
nella debolezza quelle gioie medesime che vengono all'uomo dalla forza, e trovano nel cedere una ebbrezza ancor
maggiore che gli altri non trovino nel conquistare”. L’amore femminile, secondo Neera, ha dunque in sé una
componente masochistica.
Si stabilisce dunque una relazione fra Teresa e l’Orlandi. La ragazza però si rende conto di non conoscerne nemmeno il
nome di battesimo (la lettera era stata firmata con l’iniziale). Riconoscendo in sé i segni dell’innamoramento, Teresa fa
una specie di voto di fedeltà all’Orlandi, che sceglierà di rispettare per tutta la vita.
L’amore di Teresa ed Egidio è fatto di uno scambio di lettere piuttosto irregolare, perché lui le scrive quando trova
tempo libero dalle proprie altre occupazioni e di sguardi scambiati in lontananza, quando Orlandi riesce a recarsi in
paese per vedere Teresa. Da questi pochi contatti, Teresa riesce a trarre grande forza e sostegno, tanto che guarda
dall’alto in basso Toninelli, Luzzi, che ormai considera bruttissimi al confronto del proprio corrispondente. Tutte le
attività che Teresa conduce sono ormai fatte pensando sempre e solo all’Orlandi. Questo forte sentimento viene però
intaccato dal fantasma della gelosia: nei lunghi periodi di separazione, Teresa non riesce a non pensare alla foto di
quella ragazza che Carlino le aveva mostrato e chiedendogli di poterla avere in prestito, lui le risponde che in realtà
apparteneva all’Orlandi. Teresa è divorata dalla gelosia: decide di scrivergli al riguardo (“siccome le bruciava sempre in
fondo al cuore la gelosia della bella donna fotografata, dopo tre pagine di tenerezza si decise a battere un po’ quel
terreno pericoloso. Non poteva tenersi il dubbio; era troppo atroce. Voleva sapere da lui la verità.”) e lui, da esperto
seduttore, le rispedisce la foto strappata in tanti pezzettini. Questo fatto riempie Teresa di orgoglio e questo la porta a
essere imprudente, tanto che in paese si diffonde la voce su una loro presunta relazione, scatenando la gelosia delle
altre ragazze.

4.05
Teresa è ormai assorbita dal sentimento che prova per l’Orlandi. Decide di parlarne e confrontarsi con la Pretora,
personaggio molto pragmatico che ha sentito i pettegolezzi sulla ragazza, ormai ventenne. Nel loro dialogo, il
narratore mette a fuoco i sentimenti della ragazza, che vuole prendersi una “rivincita” morale sul concetto di amore
puro e passionale. Tuttavia, secondo la Pretora, l’Orlandi non è il ragazzo giusto per Teresa perché non è in grado di
renderla felice, dato che è “una testa calda, piena di grilli, con nessuna voglia di lavorare”. Teresa si indispettisce,
riferendo che Egidio ha promesso di sposarla dopo la laurea, ma la pretora ribatte dicendo che anche se fosse vero,
non avrebbero di che vivere (“da tre anni si mangia regolarmente i denari della laurea”, “Egli di casa sua non è ricco”).
Teresa è accecata dall’infatuazione che prova e non vuole ascoltare ciò che le dice l’amica, perciò chiude la discussione
piangendo e dicendo che lo ama.
Nel XIV capitolo la narratrice ci fa sapere che l’Orlandi si laurea e molti, si domandano cosa lo abbia spinto a mettere la
testa a posto e concludere finalmente gli studi. “Si sussurrava misteriosamente, a Parma, di un amore segreto. Al
paesino, il mistero si diradava di giorno in giorno”: ormai tutti sapevano, e qualcuno sosteneva che Egidio fosse
addirittura innamorato. Nonostante i buoni propositi del ragazzo, sullo sposare Teresa dopo la laurea, però, a un anno
dalla cerimonia niente era cambiato. L’Orlandi è costretto a restare a Parma per i due anni necessari di praticantato da
fare dopo la laurea. Qui il ritmo della narrazione si velocizza: il narratore descrive la vita di Teresa nel corso dei mesi,
mentre Teresa vive aspettando sempre con ansia di veder comparire l’Orlandi sotto la propria finestra o una sua
lettera. La lontananza le pesa molto e iniziano a manifestarsi in lei i sintomi del nervosismo: “ era come se avesse la
febbre. Non vedeva, non capiva più niente; passavano tutte le ore, lente, orribili. Teresina stava male; il cuore le doleva
da scoppiare, oppure rallentava le pulsazioni, come se dovesse mancarle la vita ad un tratto.” Si manifestano dunque i
sintomi di un desiderio fisico e sessuale represso. Teresa è una persona autentica, spontanea, priva di civetteria;
l’unica occasione in cui dissimula i propri sentimenti è proprio quando nasconde queste afflizioni interiori alla propria
famiglia.
Mentre narra la storia d’amore dei due giovani, l’autrice utilizza un tono ironico: sottolinea, infatti, come questo loro
idillio sia possibile solo grazie all’ignoranza, all’ingenuità di Teresa, completamente all’oscuro dell’aggressività
dell’amore maschile. Inoltre, grazie a questo forte sentimento, T. impara a coccolarsi, a essere sempre curata e
profumata.
In paese, in occasione del matrimonio di una Portalupi, le orfanelle dell’istituto hanno iniziato a ricamare per
preparare il corredo della ragazza. Il narratore narra la visita di Teresa e della pretora a queste orfanelle. T., normai
22enne, è incuriosita dal corredo che viene ricamato. Osserva anche il corredo creato per un battesimo, creato
apposta per le orfanelle: “Teresina guardò le orfane schierate in fila, e le parvero tutte così brutte che ne provò una
compassione grandissima. Certo, nessuna fra esse avrebbe conosciuto l’amore; e, senza amore, a che cosa si riduce la
vita di una donna? — Poverine! La direttrice, credendo quella parola pietosa fosse diretta alla povertà delle sue allieve,
si affrettò a soggiungere: — Qui però stanno bene. Quando escono, se hanno imparata un’arte, è tutto vantaggio loro.
La pretora approvò, ma Teresina non era convinta di quella fortuna. Pensava ad Egidio, ai suoi sguardi di fuoco.” Il
narratore riporta i pensieri di Teresa e sottolinea come per lei la creazione della vita sia ancora un mistero.
Nonostante avesse intuito qualcosa, creando una sorta di conoscenza “ideale”, non ha mai capito come avvenga: “ Il
mistero della vita incominciava a farsi strada nel suo cervello; ma non avendo ancora avuta una rivelazione brutale, il
fatto restava sempre soggetto all’idea. Sentiva, non sapeva; e queste sue sensazioni tentava nascondere come una
colpa, appunto perché ignorava che fossero le sensazioni di tutto il mondo. Che cosa avrebbe fatto Egidio appena si
fossero sposati?”.
Nel XV, finalmente, l’Orlandi mantiene la parola e si reca dal signor Caccia per chiedere la mano di Teresa,
dimostrandosi molto fiducioso del futuro che ha dinnanzi a sé. Tuttavia, commette alcuni errori, contrariando senza
volere il signor Caccia, già molto irritato a causa di un debito di 100 lire contratto dal figlio. Inoltre, si prende la libertà
di chiedere al signor Caccia un aiuto economico, e la richiesta viene subito negata: tutta la dote di famiglia è destinata
a Carlino. Inoltre, ricevendo questa richiesta, il sig. Caccia inizia a convincersi che se Carlino stia sperperando tutti i
propri soldi è per colpa del cattivo esempio dell’Orlandi. Il colloquio si chiude col rifiuto di Prospero Caccia e con un
commiato molto freddo dell’Orlandi: “— Signor Caccia, amo sua figlia, e le mostrerò che non ho bisogno della dote. Se
Lei avesse avuto un po’ di fiducia in me, un po’ d'affetto per Teresina, noi saremmo più prontamente felici. Così è una
questione di tempo, e per parte mia avrò il piacere di non doverle nulla. A rivederla. Uscì bruscamente, lasciando
l'esattore intontito. La signora Soave fu la prima a ricevere il contraccolpo della scena.” Infatti, il signor Caccia, infuriato,
se la prende con la moglie, e quando lei prende le difese della figlia, lui risponde che i giovani non sanno nulla
dell’amore. La signora Soave parteggia per Teresa e l’Orlandi, sa che neppure gli uomini seri hanno qualche
conoscenza dell’amore, ma non può non constatare che la situazione economica dell’Orlandi è comunque instabile.
“La signora Soave non parlò più. Era rassegnata; piegava il capo davanti all'eloquenza del marito, fatta persuasa da una
lunga abitudine che le donne devono cedere sempre.” Teresa scopre del rifiuto del padre e non riesce a rassegnarsi
all’idea di non sposare l’amato Egidio.
Nel XVI capitolo, il narratore ci racconta della vita dell’Orlandi nell’anno successivo e traccia un confronto fra lui e
Teresa. Se lei non riesce a smettere di pensare all’Orlandi, lui, è lontano dallo struggersi. Sebbene per poter sposare
Teresa sia necessario che riesca a realizzarsi, economicamente e socialmente, Egidio decide di inseguire il suo sogno di
diventare un giornalista. Per entrare nel settore, inizia a frequentare l’osteria Aquila, luogo molto battuto dai
giornalisti, mentre progetta di fondare un giornale politico letterario, diverso dagli altri. Non riuscirà a realizzare
nessuno di questi propositi.
Paragonando Teresa ed Egidio, il narratore traccia un confronto fra amore maschile e femminile. Mentre lei vive il
sentimento in modo quasi ascetico, lui conduce una vita allegra e leggera, e per quanto il suo sentimento sia forte,
non lo configura come ‘un cavaliere’ o un ‘paladino’. Pensa spesso a lei a fine giornata e riceve con piacere le sue
lettere, dove scorge con dispiacere la sensazione di isolamento e solitudine che affligge Teresa; l’Orlandi non riesce a
provare un sentimento ammorbante, come T. Gli basta pensare che ‘un giorno’ la sposerà e le darà tutto ciò di cui ha
bisogno, e si configura come un personaggio narcisisticamente concentrato su se stesso: “egli non aveva bisogno di
quella fanciulla per essere felice, ma la trovava un complemento alla sua felicità”. Teresa avverte in modo molto più
forte il distacco, dato che l’unica cosa che le resta sono le rassicurazioni che Egidio le spedisce a mezzo posta. Le
parole d’amore del ragazzo, però, si fanno sempre più rare: “ Non c’era altro. Per quanto Teresina voltasse e rivoltasse
il foglio da tutte le parti, la parola d’amore che essa cercava, Egidio non l’aveva scritta. Egidio si divertiva, era felice... La
sua tristezza crebbe del doppio, sentì tutto l'orrore dell’isolamento. Che valeva il suo ardente amore? Eccola sola a
piangere, sola a soffrire”. La narratrice si concentra su come perdere tempo significhi perdere vita, e su come uomo e
donna abbiano percezioni diverse, asimmetriche del tempo, anche a causa dell’isolamento di Teresa.
Nel XVII capitolo il signor Caccia si confronta sul comportamento della figlia col monsignore, giunto per il funerale
della Calliope, appena morta per una sincope. Il monsignore prende Prospero in disparte e per salvare il proprio onore
gli dà un aut aut: o il signor Caccia acconsente al matrimonio, o pone definitivamente fine al rapporto: “ La quistione si
riduce a un dilemma semplicissimo. O lei acconsente alle nozze e facciamole più presto che si può.. — Giammai! — … o
non acconsente, e allora, nel dovere di rettore d’anime, io la supplico di togliere questo scandalo.” Dopo questo
colloquio, il sig. Caccia, un po’ umiliato un po’ incoraggiato nella sua posizione, diventa ancora più duro nei confronti
di Teresa e dei suoi sentimenti: “l’esattore presa a parte Teresina, la investì colle più terribili minacce.
Le disse che ella era l’obbrobrio della famiglia: che, ostinandosi in quell’amorazzo, gli avrebbe accorciata la vita; e tante
e tante altre cose da far accapponare la pelle.” Qui trapela anche l’ipocrisia dello stesso Prospero, che aveva
intrattenuto una relazione extra-coniugale. Teresa è molto scossa dalle parole del padre e “esortata dalla madre,
consigliata dall'amica pretora, gli aveva scritto di non pensare più a lei; che non erano destinati; che la sua famiglia non
voleva; che non le scrivesse mai più, né cercasse di rivederla.” Ormai a Teresa non resta più nulla. In casa è costretta a
dissimulare il profondo sconforto che prova, sia per amore della madre che per vergogna verso il padre. Inoltre,
mentre le gemelle crescono, diventando molto più attraenti di lei, in paese tutti la guardano dall’alto in basso, specie
quelle ragazze che la invidiavano per la sua storia con l’Orlandi.
Capitolo XVIII. Gli ultimi giorni di carnevale il sig. Caccia acconsente che le figlie si rechino a un ballo in maschera al
teatro. Proprio in occasione di questo ballo, la narratrice ci mostra il signor Luminelli assieme al fratello, figure subito
puntate dalle gemelle. Il dottor Luminelli chiede persino a Teresa di ballare ma la ragazza, ancora molto sconvolta a
causa dei recenti avvenimenti, si dimostra molto scontrosa. Mentre sono in pista, un personaggio misterioso in
maschera prende Teresa al volo: è Egidio, che in pochi secondi dà appuntamento a Teresa per un altro dei loro
incontri, per poi scomparire fra la folla. Mentre lei e la famiglia tornano a casa, respirando l’aria fresca della notte per
un attimo prova un forte “istinto di libertà”, ma tutto svanisce quando il padre la chiama, facendola di nuovo sentire
imprigionata alla sua vita, alle convenzioni. Questi vincoli rappresentano delle vere e proprie catene per lei.
L’Orlandi le ha dato appuntamento l’indomani all’alba. Teresa si reca al luogo dell’appuntamento e subito Egidio le
dice di fuggire con lui, per costringere il padre ad acconsentire alle nozze. Teresa tentenna; non vuole far soffrire la
madre e incoraggia Egidio a presentarsi di nuovo dinnanzi al padre con un lavoro dignitoso. L’Orlandi, però, le
risponde che ormai vive “alla macchia”, scrivendo per questo o quel giornale, perché il suo progetto di creare una
propria pubblicazione si è rivelato impossibile. Teresa propone di aspettare ancora, ma Egidio le fa pressione, dicendo
che la sua giovinezza sta svanendo e che ormai erano “sei anni che si amavano inutilmente”. Teresa non riesce a
comprendere il significato di questa frase; non capisce che per l’Orlandi questo amore puro è un amore “fatto a
metà”, non concreto. Per lui l’amore per Teresa è una via di riscatto sociale, un complemento alla sua felicità. L’uomo,
come riflette anche Teresa, gode di molte più libertà della donna, perciò può pensare a realizzarsi, a costruire una
carriera, a vivere in modo agiato e spensierato. L’incontro dei due si risolve col rifiuto di T. e la partenza dell’Orlandi
per Milano. Teresa sa che Milano è lontana, una città piena di distrazioni e di compagnia femminile per un giovane
scapolo, e questa consapevolezza le fa stringere il cuore; al tempo stesso, però, sente dentro di sé una voce, che le
impone di non rompere le promesse fatte ai genitori e che la trattiene. Teresa sceglie di rispettare i genitori, la
famiglia, le convenzioni.

9.05
Nel XIX capitolo leggiamo come Teresa venga apertamente derisa dalla gente. A queste provocazioni, Teresa risponde
con alterigia o indifferenza, ma la pretora la getta nello sconforto totale avvertendola che sta diventando una
“zitellona” acida. Teresa è ormai simile in tutto e per tutto alla madre: triste, sconfortata, sottomessa, compatita o
derisa da chi le sta intorno. Dopo molti sforzi convince la pretora a fare da recapito per le lettere di Egidio, diventate
sempre meno frequenti. Sotto il peso di tutte queste mortificazioni, inizia a mostrare i primi sintomi di isteria, di un
malessere psicologico causato dalla mancanza di amore, di intimità. La famiglia tenta di nascondere il suo malessere,
trattandola come una sorta di “malattia immaginaria” e curandola con medicine tradizionali. Aumenta l’insofferenza di
Teresa nei confronti della società, anche a causa degli sviluppi dei suoi fratelli. Carlino riesce a laurearsi in legge e si
trasferisce al sud Italia per intraprendere la carriera giudiziaria; le gemelle, sempre più civettuole, si sposano col
Luminelli e il fratello (“Teresina si strinse nelle spalle. Le gemelle per lei erano sempre state un enigma; ma davanti a
quelle nozze senza amore, provò una vera repulsione. Quale infame ingiustizia pesa dunque ancora sulla nostra società,
che si chiama incivilita, se una fanciulla deve scegliere tra il ridicolo della verginità e la vergogna del matrimonio di
convenienza?”). Ida, amata da tutti, si rivela la più fortunata: un piccolo prodigio, che a crearsi una buona cultura e a
conseguire la patente per insegnare. Rappresenta la donna nuova, libera di emanciparsi e di scegliere la propria
strada. È possibile tracciare un confronto fra lei e Mirella di Quaderno Proibito: entrambe rappresentano la donna
evoluta, con una maggiore consapevolezza di sé rispetto alle donne del passato, e con una chiara idea di come
saranno il proprio futuro e la propria carriera. Sanno che studiare rappresenta un privilegio per loro e si impegnano
per dimostrare come la cultura possa permettere di scegliere il proprio destino.
Né T né l’Orlandi sembrano felici. Anche l’Orlandi rappresenta un personaggio molto caratteristico. Sebbene abbia a
disposizione più distrazioni, sente il peso degli anni sprecati perché è cosciente di aver sprecato l’opportunità di
realizzarsi; è una figura moderna, ossia l’inetto, afflitto dalla malinconia e dall’incostanza. Non riesce a realizzarsi
perché gli mancano due caratteristiche:
1 – La voglia di sacrificio, la costanza 2 – la furbizia, la scaltrezza di approfittare di persone e circostanze.
Teresa, dal canto suo, non riesce a prendere una vera posizione in questa società, e si sente fuori posto: si accorgeva
di stonare in mezzo agli altri e cominciava a disprezzare i suoi simili, ribellandosi al convenzionalismo ipocrita che
l’aveva oppressa. È però certa di non voler diventare una “zitella inacidita”, il ruolo che la società le affibbia, ed
esprime la sua ribellione attraverso il corpo, con un malessere fisico e psichico. Le fissazioni di Teresa sono descritte
dal narratore come manie nervose, che prendono man mano la forma e i contorni dell’isteria: il giorno delle nozze
delle gemelle, ad esempio, ha delle convulsioni ed è costretta a non partecipare all’evento (“ Aveva delle fissazioni,
delle voglie assurde. Andando a passeggio, non poneva mai i piedi sulla connessura dei mattoni; se ciò le accadeva
inavvertitamente, sentiva un ribrezzo nelle gambe, un tremito convulso. Contava i rosoni del soffitto, immaginando che
fossero pari; se riuscivano dispari, era una stizza, una contrarietà assurda, ma invincibile. Fissava una persona a tergo,
ostinandosi finché quella si fosse voltata; se non si voltava, le pareva di ricevere un urto nel petto e digrignava i denti.”).
Man mano che la casa dei Caccia si svuota, la malinconia di Teresa peggiora sempre più.
Fra Teresa ed Egidio avviene un altro incontro alla cappelletta. Teresa vi era giunta per passeggiare (solitamente lo
faceva assieme ad Ida, ma quel giorno era malata a casa) e vi incontra l’Orlandi quasi per caso: “ In mezzo alla chiesa
trovò Orlandi, solo, che le veniva incontro. Non fu nemmeno sorpresa; impallidì, aggrappandosi al suo braccio, battendo
i denti per la commozione. — Quando sei arrivato? — Son due ore. Un telegramma di mia zia... per affari. Riparto
stanotte. — E se non mi vedevi? — Ti vedo — disse Orlandi” . L’atmosfera che ci crea fra i due è differente rispetto a
quella dei precedenti incontri: ormai entrambi sanno di aver perso gli anni della giovinezza. Fra questo incontro e
quello che c’era stato durante la loro giovinezza, si registra una distanza incolmabile. Non c‘è più la possibilità del
ritorno, di fare scelte diverse o importanti  il tempo è unidirezionale, non può essere riavvolto. Questa sensazione
di appassimento, nella scena, è rappresentata simbolicamente dalla presenza di tanti piccoli dettagli: le rose
sull’altare, le pitture, il tramonto. “Nella chiesa faceva già buio; l’altare maggiore sprofondato nell’ombra, aveva una
vaga apparenza di bara; le colonne della navata sembravano giganteschi fantasmi. Dalla cappella sotterranea usciva il
bagliore rossigno della lampada accesa per la Madonna. Un odore di rose secche era nell’aria.”
L’Orlandi viene ritratto in un modo nuovo e diverso: non ha più il viso solare dei bei tempi, inizia anzi a mostrare i
primi segni di invecchiamento, con un’espressione indefinibile di malinconia. Questo incontro si svolge al tramonto,
come il loro primo vero contatto, tuttavia qui assume la valenza di crepuscolo della gioventù dell’Orlandi (“ha il volto
irradiato della porpora del tramonto”). Sebbene la cappella sia sempre la stessa del loro primo vero incontro, è
cambiato il loro stato d’animo e quindi il modo di vederla; mentre l’altare maggiore sprofonda nell’ombra della sera,
tutto nella chiesa fa pensare alla morte. Il capitolo si chiude dunque col binomio e contrasto fra amore e morte, e
l’Orlandi rivela a Teresa di voler morire fra le sue braccia: “ Sorreggendola, mentre uscivano dal tempio, le mormorò
all’orecchio: — Quando mi sentirò morire, verrò a morire presso a te.” Si può dire che questo incontro fra T ed Egidio
non sia produttivo, perché in nessun momento i due pensano al loro futuro, a che sarà di loro. L’associazione
amore/morte torna di frequente nella mente di T: il suo amore per Egidio la accompagnerà in eterno, portandola al
disfacimento e alla morte.
Il capitolo XXI inizia con la morte della signora Soave, avvenuta pochi mesi dopo il matrimonio delle gemelle. La
scomparsa della madre getta T in uno sconforto ancora più grande (“ Pochi mesi dopo il matrimonio delle gemelle, la
signora Soave aveva chiusi gli occhi in pace. Teresina, nel piangerla, comprese che le mancava il più grande dei
conforti, l’affetto il più illimitato; sola forse, della famiglia, sentì il vuoto lasciato da quella morte”). Il signor Caccia, invece,
a causa del proprio egoismo, vede la morte della moglie come una liberazione, e mal sopporta il dolore della figlia
maggiore, che giudica con sempre più sdegno (“vedendola girare per la casa, spersonita, cogli occhi neri in cui moriva lo
splendore dello sguardo, colle manine che prendevano il colore della cera, egli era convinto che non se ne sarebbe mai
fatto nulla più di quel che era stata sua madre; e crollava le larghe spalle con aria di sprezzo. Ella doveva nascondergli le
sue sofferenze per non essere sgridata”). Nel frattempo, col restringersi della famiglia, il signor Caccia progetta di
investire sulla carriera di Carlino, per poterne fare il sostegno principale alla famiglia, e sul futuro di Ida, che si
preannuncia roseo.
I disturbi isterici di T si acutizzano: si presenta una sorta di disturbo dell’alimentazione, con atteggiamenti compulsivi e
bulimici (“Non poteva più mangiare alle ore consuete; il cibo preso in compagnia le faceva male; divorava sola, in
cucina, gli avanzi dei pasti. Faceva un abuso grandissimo di caffè”); inoltre, le sue convulsioni peggiorano, nonostante
le varie medicine che assume. Neera descrive la malattia di T in modo molto realistico e concreto, con un approccio
naturalistico, collegando un aggravarsi della patologia al peggioramento della vita del personaggio e tracciando perciò
i caratteri di una malattia psicofisica. Un libro importante al riguardo, uscito in quegli anni, sono le teorie sulle nevrosi
di Paul Moebius, che anticipano il lavoro di Freud; grazie alla probabile ispirazione di queste idee, Neera traccia
un’analisi psicologica del malessere di T. In casa sono tutti molto confusi: il padre è preoccupato per le condizioni della
figlia, mentre Ida reputa che le convulsioni di Teresa non siano nulla più che una malattia immaginaria. Il dottor
Tavecchia, fattosi ormai vecchio e constatando l’inutilità delle sue cure, affida T a un giovane psichiatra, che riesce
finalmente a comprendere l’origine del malessere. Mentre il dottore la visita in modo accurato e minuzioso, T constata
la ‘vita autonoma’ dei propri sensi, che ha sempre represso: “ Tornò qualche giorno dopo, per vedere l’esito della cura,
ed essendo comparso all’improvviso davanti a Teresina, ella arrossì, tutta confusa, con un sentimento recondito di
vergogna. Quella specie di intimità con un uomo giovane, senza il legame dell’amore, la turbava. Era meravigliata di non
trovare maggior avversione al contatto, di sorprendere nei suoi sensi una vita autonoma, indipendente dal cuore e dalla
volontà. Fino allora aveva amato, in un sol uomo, l'incarnazione dell’amore; ma nella tensione di tutto il suo essere verso
quell’ideale, il cuore e la mente resistevano, i nervi no. I nervi, a sua insaputa, con una ribellione mostruosa, vibravano
quando il giovane dottore le stringeva la mano”. T è meravigliata e affascinata dalle attenzioni del medico e si sente
fisicamente attratta da lui. Il contatto ravvicinato fra i due suscita in T uno stato di agitazione, che a sua volta sembra
turbare lo stesso medico, soprattutto come si può leggere nel capitolo successivo. In realtà, T non prova alcun vero
sentimento per lui: tutto il suo animo è ancora dedito all’amore per Egidio.
A turbarla ancor di più, T scopre la verità sull’amore fisico e sessuale con la lettura di un libro comprato dal padre e
ne rimane sconvolta e nauseata: “Il suo pensiero era colpito, macchiato irrimediabilmente. Per quanto facesse non
poteva togliersi il ricordo delle pagine lette; ed era un ricordo amaro, come di medicina che torni a gola.” T l’ha scoperto
così tardi a causa di una vera e propria ingiustizia sociale: la società del tempo non riconosce la natura biologica della
donna, che può sperare di realizzare il proprio bisogno di amore sentimentale e materno solo parzialmente,
esclusivamente tramite il matrimonio di convenienza, che però le impedirà di diventare indipendente. T rifiuta di
conformarsi e paga il prezzo di non diventare mai madre, di guardare la propria bellezza e la propria giovinezza
sfiorire, sotto i colpi dell’umiliazione, della solitudine e dell’isteria. La mancata realizzazione del suo destino biologico –
lo diventare madre – condanna Teresa a un disfacimento e a una vecchiaia precoci, perciò la maternità rappresenta
una tappa necessaria per la donna, per raggiungere un equilibrio psicofisico.
Nell’ultimo capitolo, il XXII, la narrazione passa dall’estate all’inverno. T è sempre perseguitata dalla solitudine, ma la
sua figura non è del tutto sfiorita: ha ancora la possibilità di essere felice. Nei mesi passati, il signor Caccia è stato
colpito da un attacco apoplettico, che lo ha reso infermo e non autosufficiente, confinato sulla poltrona e affidato alle
cure di T, la figlia che tanto ha osteggiato e sdegnato. I due sono dunque costretti dal silenzio a condividere
un’esistenza noiosa, fatta di silenzi in cui rimbombano i rimproveri della figlia e il pentimento, l’umiliazione dell’ex
padrone di casa. “Nel salotto, il signor Caccia terminava i suoi giorni, confinato sul divanuccio dove la signora Soave
aveva trascorsa tanta parte della vita, lagnandosi dolcemente. Egli finiva, battuto, vinto nelle sue forze maggiori; ridotto
così gramo da dover implorare l’altrui compassione, spoglio d'ogni potere, in balia dell'unica figlia che gli era rimasta
accanto. E quella figlia non era la prediletta; l’aveva anzi disconosciuta spesso, rendendola vittima del suo assolutismo.
Si trovavano di fronte, soli, con tutto un passato che li divideva, coll’amarezza indistruttibile dei dolori sofferti.” In casa
non è rimasto nessun’altro che possa prendersi cura di lui: Ida è partita per il sud Italia per insegnare e rappresenta
perciò la donna resa libera dall’istruzione. L’unico evento che rallegra le giornate in casa Caccia sono le visite del
giovane medico e psicologo, ormai diventato amico di Teresa. I due arrivano anche a parlare d’amore e fra i due si
crea una strana atmosfera; ad attrarre Teresa verso il giovane sono soprattutto i suoi baffi castagni e la sua voce.
Mentre i due conversano, la narratrice mette a confronto la solitudine provata dai due personaggi, che evidentemente
provano una sorta di attrazione reciproca, ma non tanto forte da spingerli a confessarla.
La famiglia, rappresentata dal padre infermo, rappresenta ancora una volta una prigione: “ Le lunghe, le penosissime
ore che trascorsero così, padre e figlia! — sempre uniti, dignitosi, sopportando fieramente il peso del loro dovere,
trascinando l’odiosa catena delle consuetudini, degli affetti imposti.” Teresa rimane la vittima delle scelte autoritarie
compiute dal signor Caccia, di cui si occupa con fare serio, senza emozioni, né sentimenti. In questa atmosfera cupa,
mentre accudisce il padre, T ripensa al proprio passato, a se stessa all’età quando lasciò il paesello assieme alla zia,
diretta a Marcaria. Ripensa a quando l’Orlandi passò di fianco alla loro carrozza, in modo quasi profetico, quando
l’aveva scossa tutta, per poi fuggire. Riflette sulla sua bellezza, ormai sfiorita quasi del tutto, sulla sua famiglia, ormai
svuotata e dispersa.

11.05
Il sistema che il signor Caccia per tanti anni aveva imposto sulla propria famiglia, infine, gli si rivolta contro e si
dimostra fallace: giunge una lettera di Carlino, che comunica al genitore l’incombenza del proprio matrimonio
riparatore con la figlia di un oste, che ha sedotto. La notizia sconvolge profondamente il padre, che aveva riposto tutte
le proprie speranze di scalata sociale nel figlio maschio, e in poco tempo la notizia lo fa peggiorare fino alla morte.
Dopo la scomparsa del sig. Caccia, a dispetto delle aspettative e delle spinte di tutti quelli che la conoscono, Teresa
rimane da sola nella casa di famiglia; qui ha uno spazio autonomo, tutto suo, dove è libera di riflettere sulle proprie
angosce. La sua calma è perturbata, dopo due mesi, dall’arrivo di una lettera di Egidio Orlandi, che le scrive dicendo di
essere molto malato e povero, chiedendole di raggiungerlo a Milano per accudirlo. Lei riflette lungamente sulla
proposta e decide finalmente di partire; sono entrambi coscienti che non sia la scelta giusta per una felicità piena e
condivisa, ma ormai sono due adulti completamente disillusi e schiacciati dalla vita. T non realizzerà a pieno il suo
sogno d’amore, ma riuscirà almeno a mantenere fede alle promesse fatte alla cappelletta, recandosi a Milano
dall’Orlandi. Neera mostra il dramma interiore e i sentimenti di T. tramite i dialoghi; presenta al lettore la scelta di T. di
rispondere alla chiamata come un fatto compiuto. Il lettore scopre la decisione della donna assieme alla pretora, voce
del realismo: “La pretora, non vedendola, venne a prendere sue nuove. La trovò in camera, circondata da abiti, da
oggetti di biancheria gettati alla rinfusa su per i mobili, con una valigia in terra, aperta. — Che cosa vedo? Ti decidi
finalmente ad andare dai Luminelli? Teresa non rispose subito. Era molto preoccupata; ma dopo un momento, prese
le mani dell’amica e parlando piano, con una gravità pensierosa: — Egli mi ha scritto. Vado via domani mattina.”
L’amica pretora tenta di dissuaderla, di farle pensare alle conseguenze che questa scelta avrà, di ciò che la gente
penserà di lei, ma ormai a T non importa più, e preferisce seguire il suo istinto, ora che ha la possibilità di eludere tutte
le convenzioni sociali. Ormai è decisa a ribellarsi, a inseguire l’ultima chance che ha di essere felice e libera assieme
all’uomo che ama da sempre – la pretora decide infine di farla partire.
Questo finale è stato oggetto di varie critiche. Qualcuno, ad esempio, vi vede un finale di tenerezza altruistica: Teresa
che sceglie di invecchiare assieme all’uomo che ama. Teresa viene definito come un romanzo di formazione che non
ha un vero e proprio lieto fine; detto questo, la conclusione lascia comunque trapelare uno spiraglio di speranza per il
futuro. Valeria Finucci, in particolare, vi vede una forma di affermazione della libertà della donna, di scegliere e
sbagliare. La Baldacci, d’altro canto, respinge questa interpretazione, criticando negativamente il finale del libro.
Questa conclusione è stata accostata al finale del romanzo di C. Brontë Jane Eyre, dove la protagonista, ormai ricca e
indipendente, decide di sposare l’uomo che ama. Neera non ha voluto scegliere un finale negativo per Teresa, perché
non voleva relegarla nel destino ingrato di zitella; al tempo stesso, però, non poteva scegliere un finale totalmente
positivo, perché sarebbe risultato poco credibile. Opta perciò per una via di mezzo: Teresa sceglie di seguire al
consiglio della madre e di obbedire al proprio cuore, di prestare fede ai propri sentimenti, andando incontro ai rischi.
Neera crea perciò un contrasto, fra l’idealismo dei sentimenti e la trasposizione di quei sentimenti d’amore nella
realtà, fatta di pregiudizi, divieti e convenzioni. L’esperienza vissuta da Teresa nella propria vita è stata molto dolorosa,
a causa delle catene che vengono imposte al genere femminile, che ne risulta soggiogato. Nei romanzi di formazione,
solitamente, la dialettica tipica è rappresentata da uno “scontro” con la realtà, seguito da un’accettazione di come
stanno le cose. Ecco, in Teresa questa accettazione manca, anzi, al contrario Teresa si allontana dalle norme sociali,
sperando di realizzare un spiraglio di felicità per sé. D’altronde, la fedeltà costante di Teresa (nei confronti
dell’Orlandi) nasce da un attaccamento della ragazza alla dimensione prettamente ideale dei sentimenti, distaccata
dalla natura fisica dell’amore.
Si delinea inoltre un confronto fra le figure maschili e femminili della storia. Sono gli uomini a uscirne sconfitti: il sig.
Caccia è morto, Carlino è caduto in disgrazia, Egidio è povero e malato. Il seduttore don Giovanni incontra un destino
simile (diventa obeso, non riesce più a muoversi liberamente). Alla fine, la pretora conclude che il “sesso debole” è in
realtà quello più forte.
UNA DONNA

Una donna è un romanzo uscito il 3 novembre 1906 ed è la prima opera firmata come Sibilla Aleramo, quella che le dà
notorietà è fama.
Questo libro è stato scritto in una fase molto particolare della vita della scrittrice. In quegli anni, quando era ancora
conosciuta come Rina Faccio, la donna compie una scelta molto sofferta: decide di abbandonare il marito (Ulderico) e
soprattutto il figlio Walter a Civitanova Marche, per tornare a Roma, nella casa della sorella e del fratello, dal proprio
padre. Purtroppo, ai tempi non esistevano leggi che regolassero la pratica di divorzio, difatti Rina non riuscì ad
ottenere l’affidamento del figlio.
Nella casa che condivide con la sorella e il fratello, la Faccio/Aleramo scrive i primi capitoli di U.D., dandone notizia a
Giovanni Cena, poeta e scrittore a cui la scrittrice si sarebbe molto presto legata. Fu lui a incitare Rina a coltivare il
proprio talento di scrittrice e fu attraverso lui che Rina scelse il proprio pseudonimo: Sibilla Aleramo. Tra la Aleramo e
Cena si è instaurato un vero e proprio sodalizio letterario e personale: lui la incoraggia ad abbandonare la scrittura di
articoletti e piccoli interventi, per raccontare quella che è stata la sua vita fino a quel momento (ovviamente
nascondendo l’identità di coloro che lei aveva incontrato). Rina sviluppa così una nuova consapevolezza di sé, quasi
come se fosse rinnovata in se stessa, e decide di farsi nuova anche nel nome, assumendo una nuova identità. L’origine
profonda di Una donna risale a un pensiero annotato in alcune pagine, poi intitolato Nucleo generatore di “Una
donna”, datate giugno 1901. Il titolo segnala l’origine della nuova donna e del libro, riconnettendo il tempo della
scrittura a quello, ormai concluso, della vita narrata nel testo.
Il libro, così come la maggior parte delle opere della Aleramo, si configura per la materia prettamente autobiografica,
narrata in 1^ persona. Anche con la Aleramo abbiamo un’aspirazione alla maternità sublimata, volta all’affermazione
di sé (si occuperà dell’istruzione dei bambini all’interno di un istituto pediatrico). È il frutto di 4 anni di lavoro,
dall’estate del 1902 al novembre del 1906 e di 3 redazioni. La prima di queste 3 stesure termina nell’estate del 1903, e
ne troviamo i materiali fra le pagine del diario di Sibilla, dove vi è documentato un’intensa corrispondenza fra la
scrittrice ed Ersilia Majno (figura di grande prestigio per le donne impegnate di primo Novecento, poi fondatrice
dell’Unione Femminile nel 1909) a proposito del libro stesso. Da questo carteggio emerge il bisogno della scrittrice di
scrivere per sfogarsi, per esprimere il dolore causato dalla propria esperienza, con nessun vero intento artistico;
proprio da questa necessità è sorta l’idea di un libro, che possa rappresentare un insegnamento per tante altre
donne, soggiogate come lo era stata lei (“Il manoscritto non è un’opera d’arte, è una confidenza. Io so di portare in me
la verità, ed è questa che voglio rivelare a io figlio. Di quello che sofferto io, materialmente e moralmente, molte donne
continuano a soffrire: queste mi capiranno”). Da qui il carattere generale e indefinito del titolo: il romanzo parla di
“una donna” ed è perciò rivolto alle donne. La narrazione segue l’ordine cronologico del percorso biografico, dando
spazio alle descrizioni fisiche e caratteriali dei personaggi, che però non hanno alcun nome e sono sempre indicati
attraverso la loro relazione con la protagonista. Il progetto di Rina di portare la sostanza della prima stesura in “opera
di verità” la conduce a tagliare drasticamente il manoscritto fra la seconda e la terza stesura, eliminando quasi interi
capitoli (descrizioni su se stessa, la propria famiglia, la propria infanzia, la vita quotidiana, le prime fantasie d’amore e
la scoperta del corpo femminile), e la spinge anche ad adottare uno pseudonimo. La Aleramo ha compiuto un in
interrotto lavoro di revisione, in modo da plasmare la materia del proprio vissuto in una vicenda ideale ed esemplare.
La memoria, dominata da un pensiero dominante di sé, stempera le immagini del vissuto, trasformandolo in un
racconto uniforme, esemplare. La perdita del nome originale, per l’autrice, coincide con la nascita alla letteratura; una
nascita violenta, non naturale. Riscrivendo la propria storia, Rina/Sibilla ridefinisce la propria immagine, riportando su
di sé il senso del proprio itinerario. Quindi, se Cena aveva preteso di darle il nome di Sibilla, le scelte compiute dalla
scrittrice sono da attribuire totalmente alla stessa. La nascita di Sibilla prevede la morte di Rina, non solo perché lo
pseudonimo consente all’io narrante il margine massimo di trasformazione, ma anche perché la “nuova nascita” può
dilatare il senso della vicenda biografica narrata, per trasformarla in qualcosa di esemplare.

Inizialmente, Sibilla ha scritto alla Majno durante la stesura del manoscritto dell’opera, per chiederle consiglio su
quello che era ancora un insieme di note e confessioni, una sorta di diario della memoria. La Majno risponde in modo
sferzante alla scrittrice esordiente, giudicandola priva di ogni pudore e puntando il dito contro il suo orgoglio e il suo
egocentrismo. Queste parole della maestra avranno il loro peso sulla rielaborazione del testo che presenta, nella terza
stesura, due varianti: la conclusione dell’ultimo capitolo e la scelta dello pseudonimo.
 Nelle lettere con la Majno, Sibilla confessa che G. Cena fu il primo, unico lettore della stesura del manoscritto, e gli
attribuisce due funzioni: quella positiva, di essere suo interlocutore e consigliere, quella distruttiva di censore;
Cena le vietò di parlare della relazione con Felice Damiani (contemporaneo alla decisione di lasciare le Marche),
perché non si sapesse che la donna aveva amato un altro uomo prima di lui. Sibilla accetta la censura “per amore”
e, sebbene se ne sia poi pentita, ammette che con quel taglio, la scelta della protagonista di lasciare il primo marito
sembra motivata da “una nuda spietata coscienza di donna di fronte a se stessa”. Più tardi, terminerà anche la
relazione con Cena; Sibilla li lascia per affermarsi come donna libera. Nella conclusione del romanzo, Sibilla scrive
che, sul letto di morte, l’unica certezza della sua vita sarà quella di aver scritto queste pagine; dunque, se G. Cena
aveva eliminato Damiani, la Majno ha eliminato Cena. Non farà alcun riferimento alla figura di Cena nel romanzo,
eliminando qualsiasi elemento amoroso. Per sua stessa ammissione, la Aleramo vuole manifestare “poche idee”
forti, che sente dentro di sé come importanti per l’emancipazione della donna. Grazie alla storia del testo,
possiamo constatare un’evoluzione nella scrittura dell’autrice, che compie un progressivo distanziamento dalla
materia autobiografica.
 Dopo il carteggio, Rina si decide a cambiare identità. Inizialmente voleva assumere il nome Face (fiamma, usato
per l’Italia Femminile), ma insieme a Cena crea lo pseudonimo di Sibilla, inserendo un riferimento alle proprie
origini piemontesi nel cognome Aleramo. Con questo pseudonimo, finisce la storia della “donna che era” per dar
spazio alla donna di lettere. L’assunzione della nuova identità rappresenta dunque la scomparsa di un’intera
esistenza, la nascita di qualcosa di nuovo, una nuova entità.

Il testo si compone di 22 capitoli brevi, che narrano la storia della protagonista dagli anni dell’infanzia al tempo della
prima stesura del romanzo (1903).
 Parte prima: Inizia con l’adolescenza ricca di speranze della giovane protagonista, che però vedrà il proprio
destino avvicinarsi sempre più a quello della madre, a causa di una serie di peripezie, quali la violenza
sessuale, il matrimonio, la maternità, che la portano al tentato suicidio.
 Parte seconda: comincia con la riflessione della protagonista sul proprio tentato suicidio, seguito dalla
sensazione di una “nuova nascita”, fatta di letture, pratiche di scrittura e primi rapporti con l’universo
culturale e politico delle donne. I capitoli finali concludono il percorso di rinascita della protagonista
(ridefinizione del materno, separazione dal figlio, scelta di vivere per sé), che, consapevole della natura
esemplare della propria esperienza, decide di diventare autrice di un “libro-verità”
 Parte terza: Si porta a compimento il processo di rinascita di Sibilla in quanto autrice.
 Intreccio circolare: la fine precede l’inizio del romanzo perché la protagonista diventa autrice.

Sono presenti delle ambiguità nella macrostruttura del testo, sia per quanto riguarda i singoli capitoli, che per la
materia narrata. I 22 capitoli, disposti in sequenza cronologica secondo l’ordine della storia, letti singolarmente si
presentano ognuno con una forte unità logica e autonomia narrativa, come tanti frammenti di memoria ben definiti,
che però letti in sequenza mostrano continuità cronologica e narrativa, anche grazie all’uso di artifici retorici (“…”, “?”)
che creano tensione e curiosità nel lettore. La tensione è accentuata dall’uso della prima persona, per narrare secondo
un singolo punto di vita gli ambienti, gli eventi, i personaggi stessi; Sibilla dice che i suoi personaggi sono “innominati”
perché i nomi non compaiono e non hanno importanza, rispetto piuttosto all’essenza di ogni essere, che li distingue li
uni dagli altri. Anche da questo aspetto emerge la predominanza dell’io narrante, che descrive i personaggi che la
circondano quasi come “proiezioni” della sua coscienza.
Il libro è inoltre caratterizzato da un doppio registro narrativo:
1 – riguarda la narrazione dei fatti soggettivi
2 – riguarda le sequenze di grandi tematiche di ordine più generale, che però partono dal vissuto della
protagonista.
Si crea dunque una doppia tensione, fra l’impianto naturalistico della storia e la vocazione etico-lirica della scrittrice.
L’ordine progressivo del racconto è dunque infranto dai pensieri e dalla coscienza dell’autrice, che riorganizza la
successione dei capitoli con una partizione soggettiva ed emotiva: la suddivisione del romanzo in 3 parti le consente di
piegare il vissuto a testimoniarne il senso e la verità del suo percorso interiore. Questa successione le permette anche
di narrare in successione la vita e la “morte” della protagonista. La struttura chiusa del romanzo (atto a rendere il
vissuto individuale dell’autrice come un esempio per tutti) è confermato dalla stessa Sibilla nel XX capitolo, inserendo
una riflessione sulla maternità che comparirà nel Nucleo generatore (la fine della storia precede dunque l’inizio della
scrittura).
1. Parte prima Si segmenta in 3 parti. I primi 2 capitoli parlano dell’infanzia della protag. in termini positivi
(“libera e gagliarda”), sullo sfondo di Milano e di Civitanova Marche. Qui la protag nasce da una famiglia borghese,
frequenta la scuola e inizia a lavorare nella fabbrica del padre. In questi anni di serenità, la protagonista rievoca la
venerazione per la figura paterna, con cui stringe un patto d’amore. Nella mente della protagonista, la figura del
padre simboleggia forza, intelligenza spregiudicata. Vuole che la protagonista abbia una cultura libera e laica, consona
ai tempi, che distingua dalla distinzione di genere fra uomini e donne. Questo rapporto privilegiato col padre
rappresenta la prima istanza del rapporto sentimentale che la coinvolgerà tutta la vita. La protag ha sempre cercato,
per tutta la vita, quel “lui” che realizzasse l’ideale di unione perfetta costruita nell’infanzia, ma questa ricerca si è
sempre infranta nello scontro con la realtà.
Capitolo II  inizia a rilevare elementi che mostrano la reclusione, il carattere asfittico dell’ambiente in cui vive.
Analizza l’ignoranza che la circonda, dato che non riesce a trovare un maestro disposto a istruirla; l’ozio improduttivo
degli uomini; il destino delle donne, condannate a essere schiacciate, come una contadina che si piega sotto i pesi che
trasporta. Si accentua anche la percezione della distanza fra la stessa protagonista e le persone attorno a lei, anche
quando nota che la lingua dei suoi coetanei le è incomprensibile.
All’interno di questo capitolo, alla protagonista viene offerto un posto di lavoro come segretaria nella fabbrica di
proprietà del padre e la protagonista ne è felicissima. Grazie a quest’offerta, ha finalmente accesso alla “vita vera”, e
inizia a interessarsi ai temi sociali, in particolare quelle a proposito della questione femminile. Già durante la fase
dell’infanzia emergono elementi negativi o profetici. Si nota anche una grande riflessività da parte della scrittrice sulla
propria “vita interiore” e un grande desiderio di investigare, di conoscere la propria “vita interiore”. L’”oggi” della
scrittura è dunque dominato dalla voglia di sapere.
Quando si trasferisce (la fabbrica è situata nel sud Italia), si sente ancora più isolata e solitaria: diventa la “straniera del
Nord”, più libera ed emancipata fra tante donne meridionali, assoggettate dai mariti e dai padri. Al sud, la condizione
della donna è fondata sull’”ignoranza”, l’”indolenza” e la “superstizione” (spesso manifestazione di fervore religioso).
La protagonista, nonostante sia solo dodicenne, è già molto più consapevole rispetto ai suoi coetanei, grazie
all’osservazione della realtà, lo studio, le letture assidue. Non riesce, però, ad applicare lo stesso distacco
nell’analizzare la situazione della propria famiglia, la sofferenza provata dalla madre, la frattura presente fra i genitori.
Non riuscirà ad accorgersi dei tradimenti del padre, che porteranno al tentativo di suicidio della madre. Il capitolo II si
conclude con un viaggio in compagnia del padre, e col preannuncio del cambiamento che avverrà nel capitolo III.
Capitolo III  L’atmosfera serena è lacerata da tre eventi significativi: il tentato suicidio della madre, il tradimento
del padre (di tipo coniugale verso la moglie, di tipo morale nei confronti della figlia, che ormai lo considera una
persona abietta) e lo stupro subito in prima persona da un ragazzo con cui stava frequentandosi.
Il tentato suicidio della madre rende ancor più indaffarata la protagonista, che oltre a lavorare in fabbrica, ora deve
assumere la direzione della casa. Questo tran tran stressante le consente di non pensare, di non concentrarsi sul
dramma familiare che si è compiuto. Inizialmente, la protagonista è all’oscuro di cosa sia esattamente successo, ma
raccoglie delle indizi che le permettono di ricostruire la vicenda: la madre ha tentato di gettarsi dal balcone perché non
può più sopportare i continui tradimenti del marito. Sente il bisogno di liberarsi di tutte queste emozioni ed entra in
confidenza con un collega d’ufficio, che le conferma le relazioni extra-coniugali del padre. Questo ragazzo, a sua volta,
è sempre più attratto dalla figura della protagonista: le appare come una donna indipendente, diversa rispetto ai
canoni, e perciò per lui rappresenta una preda più particolare, più difficile da catturare e far propria.
Con la rivelazione della verità, la protagonista guarda alla madre con occhi diversi.
> Ingresso nell’età adulta + la Scrittura  Il tradimento del padre cambia l’idea che Rina ha di lui: da oggetto
raggiante a figura d’orrore, e Sibilla inizia a empatizzare con la madre, avvicinandosi a lei. Se il padre assumeva la
figura dell’uomo ideale, la madre, smarrita e umiliata, era esclusa dall’amore della figlia, tutto dedito al padre colto e
fascinoso. La madre appare sottomessa, sofferente, smarrita, costantemente rassegnata e stanca. La protagonista la
descrive a posteriori, riflettendo, da adulta. Viene sottolineata la ricerca di comprensione, tramite l’uso di frasi
interrogative e l’alternanza fra presente (tempo della scrittura) e passato (tempo della narrazione e del ricordo). Il
momento della scrittura è caratterizzato anche grazie all’uso di deittici. Grazie all’esperienza di ripercorrere le
esperienze pregresse nella scrittura, la scrittrice rievoca momenti sereni del proprio passato e si rende conto delle
“ombre” che già si stagliavano sul suo destino; emerge dunque una funzione razionale della scrittura. Da adulta,
dunque, ha avuto modo di comprendere il dramma vissuto dalla madre, così come da molte altre donne come lei; ciò
non le era possibile quando era piccola, poiché aveva un diverso grado di coscienza. Da piccola era totalmente assorta
nell’adorazione della figura paterna, e quando ripensa a questa fase da adulta prova amarezza, rimpianto, pentimento
(“Non dovetti mai credergli interamente”). Nel momento in cui il padre alza la voce contro la madre, la protagonista si
fa avanti e la difende; il padre decide quindi di licenziarla, togliendole l’indipendenza economica. Il collega con cui si
confidava approfitta del suo stato d’animo vulnerabile per abusare di lei, completando il passaggio traumatico
dall’infanzia all’età adulta.
Capitoli IV-IX  La successione degli eventi si infittisce: fidanzamento e nozze riparatrici della protagonista, vita
nuziale con l’uomo che ha abusato di lei, figura del padre sempre più negativa, follia della madre sempre più evidente.
La protagonista, rimasta incinta dopo la violenza subita, partorisce e in seguito avvia una relazione epistolare, che
viene però scoperta dal marito, che si accanisce su di lei picchiandola. Sommersa da tutti questi problemi, dallo
sconforto di non avere più nessuno che la guidi e l’aiuti e dall’ostilità della famiglia del marito, tenta il suicidio.
Man mano che la ragazza smette di idealizzarlo, il padre stesso inizia a staccarsi dalla propria famiglia.
> La maternità  Il Tema d’Amore è tutto indirizzato al Tema della Maternità e al figlio. Sibilla prova una fusione
completa col bambino, considerandolo l’altra parte con cui costituire un’unità, la stessa unità di cui aveva fatto parte
durante l’infanzia, insieme al padre. Al piccolo Walter, dunque, si contrappone idealmente la piccola Rina, e Sibilla
capisce che l’”io profondo” che ha represso e mascherato non è la donna, bensì la bambina forte e gagliarda che era
un tempo. Inoltre, la Aleramo ripudia qualsiasi obbligo e convenzione che vede la maternità come detrazione di libertà
alla donna (“Perché nella maternità adoriamo il sacrificio? Da dove è scesa a noi questa immonda idea dell’immolazione
materna?”).
> La Scrittura  Nel capitolo VII, al tema della maternità si accosta quello della scrittura, in cui la nuova donna si
attiva a scrivere il libro, e per farlo è necessaria la morte simbolica di quella vecchia, a favore di una rinascita.

2. Parte seconda: narra il percorso dalla nascita della nuova donna, attivato dal gesto di morte – il tentato suicidio.
Capitoli X-XIV  attua un percorso di autoanalisi, indotto dalla tristezza e la solitudine
Capitoli XV-XIX  attua un’analisi di sé, uno studio della propria vita, con un occhio rivolto anche verso l’esterno.
Questi sono i capitoli segnati dall’esperienza romana, quelli in cui si conferma il processo di elevazione nell’esperienza
dell’impegno sociale. È qui che il tema della scrittura prende il sopravvento; esordisce con piccole annotazioni sulla
crescita del figlio, per poi pensare seriamente a scrivere un vero e proprio libro.
Capitolo X  trae bilancio di un’esperienza segnata dalla violenza sessuale, che ha creato in lei una ferita che nulla
potrà sanare, nemmeno la maternità. Analizza il rapporto col marito, che, dopo il tentato suicidio, della moglie tenta
di risanare la situazione, per il bene del figlio. Il loro rapporto, è però sempre segnato dalla sua gelosia logorante; la
costringe addirittura a passare i pomeriggi chiusa in una stanza, per non permetterle di far entrare nessuno in casa. La
protagonista si sorprende a provare un certo ‘appagamento’ da questa reclusione “da orientale”. Quando il marito
scopre la relazione epistolare della moglie, sfida a duello l’”amante” della moglie, e la protagonista si sente
oltraggiata, perché vede la propria reputazione trattata come un affare pubblico.
L’analisi di sé si svolge attraverso una serie di domande, che la protagonista rivolge a se stessa. Si articola così una
riflessione sul senso della vita, legata alla presenza del figlio. Il 10° cap. si chiude con la protagonista che dichiara
conclusa la fase della ‘maternità come sacrificio di sé’, e ciò nonostante il figlio diventa il suo pensiero principale,
l’unica cosa che dovrà restare immune dalla disfatta di due persone (almeno nelle intenzioni della madre).
Capitolo XI  L’io narrante prosegue l’auto-analisi. La protagonista, improvvisamente, ha un’epifania: trova
conforto in un libro regalatole dal padre; il titolo non è ben precisato, ma forse si tratta de “La donna e il socialismo”
del politico tedesco Auguste Bebel. Leggendolo, si rianimano in lei le speranze nate durante l’infanzia, e si riavvia quel
percorso di maturità ed emancipazione che i traumi avevano bruscamente interrotto. La famiglia parte in vacanza fra
Venezia, il Tirolo e il Lago di Garda, e la protagonista porta sempre con sé il libro, che la fa riflettere sulla propria
esistenza e su quanto può mettersi al servizio degli altri. Pian piano, avverte la sensazione che la “vecchia sé” sta
scomparendo, e che stia rinascendo qualcosa di nuovo, dedito alla solidarietà agli altri. Il pensiero rivolto anche alla
madre e alle sue sofferenze le fa comprendere che ogni madre desidera il bene dei propri figli. In tutto questo, il figlio
rappresenta uno specchio, in cui la protagonista si osserva, per potersi migliorare; da questa funzione, la protagonista
realizza che il figlio potrà crescere sano solo se la madre avrà il coraggio di realizzarsi come donna libera, non come
creatura sacrificata. La maternità si configura, dunque, come piena realizzazione di sé. Anche il tema della scrittura
comincia a prendere piede: rappresenta la via che le permetterà di emanciparsi. Paradossalmente, sarà proprio il
marito a darle la spinta a scrivere, fornendole un’occasione di sfogo, di confessione, di riflessione autoreferenziale che
porta l’io a cercare, nella sofferenza, una voglia di riscatto. All’improvviso, tutta la sua fantasia è catturata da “letture,
meditazioni e l’amore” per il figlio, e ogni altra cosa, in particolare le fantasie sentimentali le sembravano estranee,
indifferenti. Si interessa anche di socialismo e a “un culto dell’umanità non del tutto teorico”: si inaugura una fase nuova
della sua vita, ora segnata da scrittura e coscienza, da autoanalisi e da riflessione e aiuto a tutto il genere umano. “ Il
mio problema interiore diveniva meno oscuro, s’illuminava del riflesso di altri problemi più vasti, mentre mi giungeva l’eco
dei palpiti e delle aspirazioni degli altri uomini. Mercè i libri io non ero più sola, ero un essere che intendeva ed assentiva
e collaborava ad uno sforzo collettivo. Sentivo che questa umanità soffriva per la propria ignoranza e la propria
inquietudine: e che gli eletti erano chiamati a soffrire più degli altri per spingere più innanzi la conquista.” In lei, nasce
dunque il bisogno di coniugare principi socialisti e cristiani, e la spinta a riflettere sulla questione sociale la porta a
scrivere sullo stesso quaderno dove tanto aveva riflettuto su se stessa. Questo esercizio di scrittura la fa riflettere sulle
proprie scelte, la porta a chiedersi come abbia potuto piegarsi in quel modo al volere degli altri, facendosi umiliare in
tutti i modi. Si domanda anche se questa sua vocazione sociale e umanitaria sia davvero radicata, o se si tratti solo di
una fase. La riflessione che compie su fatti sociali o generali parte sempre da piccole cose ed eventi, che osserva
meticolosamente, dilatando sempre più la messa fuoco della narrazione. Riflette anche sul perbenismo, l’ipocrisia e le
convenzioni, su come tutti si pieghino ai dettami della società, nascondendo o reprimendo certi aspetti e lati della
propria vita agli altri (“Povera vita, meschina e buia, alla cui conservazione tutti tenevan tanto! Tutti si accontentavano:
mio marito, mio padre: ognuno portava la sua menzogna, rassegnatamente. Le rivolte individuali erano sterili o
dannose”), così come fa una madre che rinuncia alla propria vita professionale per crescere un figlio (“ la buona madre
non deve essere, come la mia, una semplice creatura di sacrificio: deve essere una donna, una persona umana”), come
i genitori che ‘vendono’ la propria figlia al miglior offerente (“ come può diventare una donna, se i parenti la dànno,
ignara, debole, incompleta, a un uomo che non la riceve come sua eguale; ne usa come d’un oggetto di proprietà; le dà
dei figli coi quali l’abbandona sola, mentr’egli compie i suoi doveri sociali, affinchè continui a baloccarsi come
nell’infanzia?”). Da queste riflessioni, si interessa sempre più alla questione dell’emancipazione femminile.
> La scrittura le cambia la vita; alla figura del padre, che da piccola l’aveva incoraggiata alle lettere, associa la
rinascita, l’amore per la vita, la bellezza e la felicità; a quella materna lega morte, dolore, miseria e follia.
Capitolo XIII  Si apre col riferimento di un articolo di cronaca, scritto dall’io narrante e pubblicato su di un
quotidiano, il Corriere di Roma. Inizia a considerare ciò che scrive “ la parte migliore di sé”, e man mano che il suo
“scartafaccio cresceva di mole”, cresceva in lei la voglia di vivere: “Vivere! Ormai lo volevo, non più solo per mio figlio,
ma per me, per tutti”. L’osservazione meticolosa della realtà che la circonda, la fa riflettere sulla condizione di
assoggettamento che subisce la donna (“In realtà la donna, fino al presente schiava, era completamente ignorata, e
tutte le presuntuose psicologie dei romanzieri e dei moralisti mostravano così bene l’inconsistenza degli elementi che
servivano per le loro arbitrarie costruzioni! E l’uomo, l’uomo pure ignorava se stesso”; “molte donne del popolo, prima
esauste dalla maternità, poi abbandonate dal marito emigrato, e infine sfruttate dalle loro medesime creature”). Esamina
la condizione di sottomissione vissuta anche dalla madre, ormai confinata nel manicomio di Macerata, e riflette sul
fatto che, se anche lei avesse avuto qualche valvola di sfogo, qualche occasione per esprimersi, non sarebbe scivolata
nella pazzia, non sarebbe implosa nel proprio dolore. Dalla condizione di isolamento che vive, la protagonista entra in
contatto con realtà diverse, grazie alla scrittura; riesce a riflettere e polemizzare sul ruolo delle donne intellettuali
italiane, e sulla funzione – piuttosto marginale – delle idee femministe nella cultura italiana (“ Via via intravvedevo lo
stato delle donne intellettuali in Italia, e il posto che le idee femministe tenevano nel loro spirito. Con stupore constatavo
ch’era quasi insignificante; l’esempio, in verità, veniva dall’alto, dalle due o tre scrittrici di maggior grido, apertamente
ostili—oh ironia delle contraddizioni!—al movimento per l’elevazione femminile. Di ideali d’ogni specie, d’altronde, tutta
l’opera letteraria muliebre del paese mi pareva deficiente”). Pubblica altri articoli, e viene anche notata da un giornale
locale, che si propone di assumerla; il marito però lo scopre e getta tutte le sue carte nel fuoco, umiliandola ancora
una volta. Capisce che nel suo avvenire non si prefigura come giornalista o artista, ma piuttosto come scrittrice, autrice
di un libro ‘di amore e di dolore’, che mostrasse al mondo l’anima femminile moderna: “ quel libro che sentivo
necessario, che fosse straziante e insieme fecondo, inesorabile e pietoso, che mostrasse al mondo intero l’anima
femminile moderna, per la prima volta, e per la prima volta facesse palpitare di rimorso e di desiderio l’anima
dell’uomo.... Un libro che recasse tradotte tutte le idee che si agitavano in me caoticamente da due anni. Non lo avrebbe
mai scritto nessuno? Nessuna donna v’era al mondo che avesse sofferto quel ch’io avevo sofferto,e sapesse trarre da
ciò il capolavoro equivalente ad una vita?”. Il percorso di emancipazione che la portarà alla scrittura sta procedendo e
continuerà per tappe, tra la noncuranza e l’ostilità del marito, tra l’isolamento e la solitudine.
Capitolo XIV  Momento di svolta. Il marito litiga col padre della protagonista, che lo licenzia dalla fabbrica. Il
marito è dunque costretto ad andar via, per cercare un’altra occupazione. La protagonista vive il cambiamento in
modo positivo: col trasferimento a Roma, ha modo di collaborare con una rivista femminile, la Mulier. Riesce a
convincere il marito ad accettare per sé quel lavoro e lui pensa di avviare una nuova attività commerciale nella
capitale, ma vive questa esperienza in modo passivo.
Capitoli XV-XVI  Introduce al terzo blocco. La protagonista inizia piano piano a emanciparsi, mentre il
marito fatica ad adattarsi alla nuova vita: “ Egli non mi perdonava di averlo indotto a gettarsi nel caos cittadino e
s’accingeva fiaccamente alla sua impresa; per tanti anni abituato ad un lavoro metodico, subalterno, la libertà e la
responsabilità gli erano d’impaccio; non riusciva a formarsi per suo conto un programma quotidiano e si volgeva
astiosamente ad osservarmi, promettendosi certo di farmi sentire la propria autorità al primo accenno
d’indipendenza.” Sebbene il testo specifica che la famiglia si sia trasferita a Roma, in realtà i fatti sono
realmente accaduti a Milano. Alla protagonista, dopo un’iniziale difficoltà ad adattarsi al nuovo lavoro, tutto
sembra sorridere. È importante lo sguardo che la protagonista getta sulla rivista: fortemente critico, anche
rispetto alle dinamiche di potere e commerciali all’interno della stessa rivista, anche a proposito del tema
dell’emancipazione femminile. La scrittrice posta a direzione della rivista viene descritta come uno “specchietto
per le allodole”, un nome illustre usato dall’editore Mulier per attrarre l’attenzione verso la rivista, che in realtà
si concentra su tematiche solo in apparenza importanti e serie. Questa direttrice è una donna abbastanza
spenta, ingenua, che viene manipolata dall’astuzia dell’editore. La rivista risulta il risultato di un’operazione
commerciale, il cui scopo è solo di vendere e trarre il maggior profitto possibile, da un pubblico di fasce d’età
eterogenee, e perciò è ben lontana dai propositi seri ed elevati con cui era stata creata. Analizzando i contenuti
pubblicati, l’io narrante rileva articoli seri, scritti da medici e specialisti, inframezzati da interventi mirati a
colpire la vanità delle donne. Il lavoro come traduttrice le permette di leggere molte opere, da articoli di
giornale a veri e propri libri, e di riflettere sullo stato dell’editoria femminile italiana, piena di “libri parodia” di
altre opere maschili, più in voga. La Aleramo capisce che la donna, per poter emergere, deve distinguersi con
una scrittura autentica e originale. Durante il soggiorno a Roma, incontra un uomo misterioso, a cui tutti
vogliono bene e che sembra affascinare tutti, persino lo scorbutico marito della protagonista: una sorta di
mistico, che per la protagonista diventa una specie di guida filosofica e spirituale, un maestro. Il “profeta” è un
uomo solitario, austero, una sorta di asceta. La buona, vecchia mamma lo guarda però con distacco,
considerando il suo pensiero sterile, fine a se stesso; egli è molto introspettivo, e secondo la madre questa
chiusura in se stessi non porta a nulla di concreto. Inoltre, la protagonista entra in contatto con una
disegnatrice norvegese, da cui persino il marito resta affascinato e impressionato.
A un ricevimento, tenuto in onore dell’anniversario della rivista, la protagonista, insieme al marito e al figlio,
incontra l’amica norvegese accompagnata da un uomo. Da quel momento, il marito diventa sempre più
burbero e scontroso, anche a causa della crescente indipendenza e splendore sociale della moglie. La
protagonista, umiliata, finge un malore e lascia la festa; nei giorni successivi, riflette su come, per far cambiare
le cose, i rapporti fra uomo e donna, sia necessario creare una coscienza femminile, che possa accostarsi a
quella maschile per arrogare i propri diritti. Riflette anche sul ruolo sociale dell’amore, così costantemente
trascurato, dato per scontato, a come le donne più famose e celebrate della nostra letteratura siano
idealizzate, astratte, figure create dagli autori per ignorare le donne che realmente avevano al proprio fianco:
“Mi pareva strano, inconcepibile che le persone colte dessero così poca importanza al problema sociale
dell’amore. Non già che gli uomini non fossero preoccupati della donna; al contrario, questa pareva la
preoccupazione principale o quasi. Dicevo che quasi tutti i poeti nostri hanno finora cantato una donna ideale,
che Beatrice è un simbolo e Laura un geroglifico, e che se qualche donna ottenne il canto dei poeti nostri è quella
ch’essi non potettero avere: quella ch’ebbero e che diede loro dei figli non fu neanche da essi nominata. Perchè
continuare ora a contemplar in versi una donna metafisica e praticare in prosa con una fantesca anche se avuta
in matrimonio legittimo? Perchè questa innaturale scissione dell’amore?”. Un’altra contraddizione, “tutta
it”liana", rilevata dall’io narrante: la disparità di importanza, nell’immaginario maschile, fra la propria madre e
tutte le altre donne. “Ero più che mai persuasa che spetta alla donna di rivendicare sè stessa, ch’ella sola può
rivelar l’essenza vera della propria psiche, composta, sì, d’amore e di maternità e di pietà, ma anche, anche di
dignità umana!”. Alla fine del capitolo, veniamo a sapere che il padre della protagonista è ai ferri corti
con i propri sottoposti e che, dopo molte trattative, decide di dimettersi dal ruolo di direttore della
fabbrica. Il marito della protagonista acceta di prenderne il posto.
Capitolo XVIII  La scelta del trasferimento da Roma è vissuta dal marito con malcontento e sconforto, sia
da parte della protagonista, sia da parte del marito, che si è innamorato dell’amica, la disegnatrice norvegese,
che però non lo ricambia. La protagonista lo scopre quando una notte, in preda ai deliri del sonno, il marito
chiama a voce alta l’amica. Per alleviare il peso della partenza, il marito decide di partire per primo, lasciando la
moglie di trascorrere qualche altro giorno in città. Negli ultimi giorni a Roma, l’io narrante riceve le lettere del
marito, che le scrive esprimendo il proprio disagio a tornare in quel piccolo paesello; la protagonista ha ormai
capito e lo esorta a guardare la verità in faccia, a dividere in modo consensuale i loro destini per vivere la vita
come avrebbero dovuto, ma il marito si rifiuta. La situazione precipita, anche a causa di un peggioramento di
salute dell’amica norvegese. Il marito è molto scosso e la protagonista, sprezzante, lo intima nuovamente di
ammettere la frattura che c’è fra loro non sarà mai sanata; il marito reagisce dapprima con remissività, poi con
sarcasmo e infine con violenza, picchiandola brutalmente. Infine, le pone una scelta: o la libertà per se stessa o
il figlio. La protagonista lotta col proprio spirito e sceglie di stare col figlio, di tornare alla propria vita da
reclusa. La cosa la fa soffrire enormemente e il bambino, conoscendola, per farla sentire meglio le suggerisce di
scrivere. Sia questi incoraggiamenti del figlio, che le chiacchierate col profeta e con l’amica, ormai in punto di
morte, portano la protagonista a essere sempre più consapevole di cosa vada fatto. La seconda parte si chiude
con la morte e i funerali dell’amica.

3. Parte terza: Qui si conclude la vicenda biografia dell’autrice, che torna a casa, separandosi dal marito e dal figlio.
Ha la funzione esplicita di mostrare l’esito finale del “doppio itinerario” – la vita e la scrittura – ed è costruita su due
tematiche, maternità e scrittura (l’amore scivola in secondo piano). Si trasferisce a Milano, dove scrive
definitivamente il libro e lo dedica al piccolo Walter. La terza parte è più breve e vi si realizza il percorso di
emancipazione dell’autrice, con la ridefinizione del concetto di maternità, intesa non solo in senso biologico, ma anche
in modo più ampio: l’autrice “partorisce” suo figlio, ma anche se stessa e una nuova vita, dedicandosi alla scrittura e
all’insegnamento in un istituto pediatrico.
Capitolo XX  La protagonista raggiunge il marito al paesello e inizia a prendere coscienza di sé; ormai la
consapevolezza che ha acquisito non potrà più essere scalfita. Nel paese, fervono i preparativi per il matrimonio della
sorella, che incarna la sposa felice. La protagonista ripensa alla madre, e si chiede se anche lei si fosse abbandonata in
quel modo all’amore che provava (“ nelle settimane precedenti lo sposalizio, avevo visto la fanciulla felice, avida di
accogliere il destino foggiatosi colle proprie piani. La trovavo intenta ad ultimare il suo corredo, aiutata dalla sorella
minore che appariva altrettanto lieta. E pensavo a nostra madre: così era stata forse anche lei? Anch’ella s’era così
abbandonata fiduciosamente alla lusinga dell’amore perenne?”); si interroga sulla serie di avvenimenti e di scelte che
finiscono col rendere le donne assoggettate agli uomini, che le usano come puro strumento di piacere (“ Questa la mia
vita. Essere adoprata come una cosa di piacere, sentir avvilita l’intima mia sostanza. E vedere i giorni seguir le notti, un
dopo l’altro, senza fine”). Intanto, la vita per la famiglia della protagonista scorre tranquilla, monotona, e la
protagonista soffre questo declassamento da donna indipendente a semplice angelo del focolare, sentendo
“l’amarezza senza nome della mia solitudine, il vago timore di una morte possibile, prossima, lì, tra quella gente ostile e
straniera, senza aver lasciato traccia della mia anima.” Mentre osserva suo figlio, si avvia la riflessione sulla maternità
che la condurrà all’abbandono del figlio e del marito e alla conclusione del libro, per portarla alla nascita per la
scrittura. Mentre rovista fra le carte della madre, scopre una sua lettera, mai recapitata, in cui scriveva al marito di
volerlo lasciare – la cosa sconvolge la protagonista. Questa riflessione viene introdotta dalla scoperta di una lettera
scritta mai spedita, in cui la madre, in preda alla disperazione, rivela di voler partire e abbandonare tutti: “ E una lettera
mi fermò il respiro. La mamma annunziava a suo padre il suo arrivo pel dì dopo; diceva di aver già pronto il baule colle
poche cose sue, di essere già stata nella camera dei figlioli a baciarli per l’ultima volta.... «Debbo partire.... qui
impazzisco.... egli non mi ama più.... Ed io soffro tanto che non so più voler bene ai bambini.... debbo andarmene,
andarmene.... Poveri figli miei, forse è meglio per loro!...»”. L’inserto si divide poi in due nuclei: la prima parte delinea
l’immagine ideale di una donna nuova, contrapposta a quella di madre, modello esemplare di umana dignità: “ Perché
nella maternità adoriamo il sacrifizio? Donde è scesa a noi questa inumana idea dell’immolazione materna? Di madre in
figlia, da secoli, si tramanda il servaggio. È una mostruosa catena. Tutte abbiamo, a un certo punto della vita, la
coscienza di quel che fece pel nostro bene chi ci generò; e con la coscienza il rimorso di non aver compensato
adeguatamente l’olocausto della persona diletta. Allora riversiamo sui nostri figli quanto non demmo alle madri,
rinnegando noi stesse e offrendo un nuovo esempio di mortificazione, di annientamento. Se una buona volta la fatale
catena si spezzasse, e una madre non sopprimesse in sè la donna, e un figlio apprendesse dalla vita di lei un esempio
di dignità?”. Il secondo nucleo del tema è centrato invece sull’ideale della coppia umana, origine della maternità
ideale: “Quando nella coppia umana fosse la umile certezza di possedere tutti gli elementi necessari alla creazione
d’un nuovo essere integro, forte, degno di vivere, da quel momento, se un debitore v’ha da essere, non sarebbe questi
il figlio?”. L’immagine rivela il doppio senso di questo tema che, se da un lato, legittima l’abbandono del figlio,
dall’altro, ripercorre la propria nascita, risalendo alla sua origine profonda. Nella parte conclusiva del libro, i due nuclei
svolgono una diversa funzione narrativa.
> 1° nucleo: conduce alla conclusione del libro, portando a compimento un itinerario prestabilito: la “donna”
nuova abbandona il figlio e si avvia al suo destino di “idea vivente”. L’ultimo capitolo del testo che inquadra il racconto
nel tempo della scrittura, conclude il romanzo con la dedica del libro al figlio: la scrittura, presenza che può risarcire il
figlio dell’abbandono, è insieme pretesa di essere vista e richiesta di non essere dimenticata.
> 2° nucleo: conserva il tema d’amore ma, una volta tolte le parti su Damiani e Cena, si proietta l’immagine della
“coppia umana perfetta”. L’immagine della nuova donna, Sibilla, idea vivente, chiude quindi il racconto da sola,
licenziando il libro che le ha dato la vita, memoria del passato, preannuncio del futuro.

Una donna è un’opera che attraversa più generi letterari, dall’autobiografia al romanzo.
- non è un romanzo, nonostante così dica il sottotitolo, per la fragilità della struttura narrativa e per l’invadenza degli
elementi autobiografici.
- non è un’autobiografia, per la presenza di un pensiero auto-progettante che si fa selettivo nella memoria e
fortemente creativo nella proiezione fantastica dell’immagine di sé.
- non è un diario o un libro di memorie, anche se il racconto è esplicitamente costruito attraverso il filtro della
memoria.
Non ha modelli, anzi si propone esso stesso come modello, come “grande libro della verità”, che comunque ha preso
spunto da varie opere di riferimento:
 Casa di bambole (Henrick Ibsen, 1879), modello seguito da Sibilla per esporre la “guerra” tra maschi e
femmine, e nel quale la scrittrice sembra identificarsi con la protagonista dell’opera teatrale. Nel testo,
inoltre, la figura di donna è centrale perché cerca di rivendicare per sé sia il titolo di madre e moglie, sia lo
status di essere dotato della stessa dignità di qualunque uomo.
 L’Europa giovane (Guglielmo Ferrero, 1898), libro che le fu donato dal padre e che dà l’avvio alla
trasformazione di Sibilla. Ha indotto in Sibilla una sorta di “incontro spirituale” con l’autore del libro.
 la figura del profeta è molto probabilmente ispirata a Umano (Eugenio Meale), di cui Rina aveva recensito
l’opera
 La questione femminile, su cui Sibilla ha pubblicato una serie di articoli. Questa attività giornalistica dimostra
l’impegno di S. sul fronte civile e raggiunge l’apice quando l’autrice è chiamata a dirigere l’Italia femminile.
Secondo la Aleramo, poeti e romanzieri ignorano le donne per un motivo molto semplice: le scrittrici italiane
dell’epoca erano assenti o avverse al pensiero femminista, e quelle che si definivano, appunto, “scrittrici”,
nelle proprie opere non facevano che creare una pallida imitazione della scrittura maschile. Sibilla affermava
che le donne dovessero marcare il loro “essere donne”, appunto, in quanto dotate di un sentimentalismo
diverso da quello maschile; continuava incoraggiando le donne a mostrare loro stesse in quel linguaggio che
sì, era neutrale ed uguale fra uomini e donne (perché unico), ma che poteva differenziarsi da quello maschile
tramite il ritmo.

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