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Letteratura e giornalismo A.A.

2021/2022

LA NECESSITA’ DELLA SCRITTURA: ANNA MARIA ORTESE TRA


GIORNALISMO E LETTERATURA

• Prima sezione del corso → storia del giornalismo letterario. Come nasce? Come si afferma?

Che rapporti ci sono tra letteratura e giornalismo? Come si evolvono e si modificano?

• Seconda sezione → Anna Maria Ortese

La nascita della stampa periodica moderna è legata all'affermazione della società borghese, poiché
diventa più incisiva nel momento in cui sale alla ribalta politica la classe borghese. Il romanzo e il
giornalismo sono i generi più caratteristici della società borghese. Questa evoluzione del giornalismo ha
a che vedere con le trasformazioni che subisce nel corso del tempo la figura dell’intellettuale, il cui ruolo
cambia e si modifica, assieme al ruolo dell’autore, nella società borghese. Nella società borghese lo
scrittore diventa un produttore di merce: non ha più un ruolo garantito dal sistema della corte o dal
mecenate e per vivere deve veicolare i suoi prodotti all’interno di una società e vivere del frutto del
proprio lavoro.

Per tanti scrittori il mestiere che consentirà loro di mantenersi sarà quello del giornalista, che è il più
contiguo a quello dello scrittore. Questo perché vi è un rapporto di contaminazione e di osmosi, di
scambio fra letteratura e giornalismo, e riguarda sia il livello dei contenuti che quello dello stile (alcuni
contenuti passeranno dal giornale alla letteratura e viceversa). Lo stile subirà modifiche che investiranno
sia il giornale che la letteratura, e questo livello porterà a una semplificazione dello stile letterario. La
letteratura a contatto con l’universo della stampa periodica diventa meno aulica e ricercata, e tende a
indirizzarsi a un pubblico più ampio e diversificato. E dunque il linguaggio letterario, dalla
contaminazione con quello giornalistico, trae una capacità di semplificazione, di essere più diretto nei
confronti del pubblico. Anche sul giornale a un certo punto si affaccia una prosa più letteraria, più aulica
(espressione della prosa d’arte agli inizi del ‘900). C’è quindi un rapporto reciproco di influenza fra questi
due ambiti. La letteratura appare all’interno del giornale in forme che si attagliano alla misura del
giornale, il quale non nasce immediatamente per scopi letterari.

Da un certo momento in poi, sui giornali vengono stampati i romanzi d’appendice, i cosiddetti
“feuilleton”, romanzi pubblicati a puntate e che il lettore segue quotidianamente o settimanalmente.
Questa forma impone determinate scelte allo scrittore: la pubblicazione frammentata nel giornale ha
determinate regole e misure. Ad esempio, il capitolo deve occupare uno spazio preciso.

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LETTERATURA E GIORNALISMO

La letteratura è un termine non univoco e difficile da definire. Da un punto di vista etimologico, la parola
viene dal latino “littera”. Il litterato era colui che possedeva la scrittura, e quindi un uomo colto. La
letteratura è tutto ciò che ci è stato tramandato dal passato attraverso la scrittura a mano, grazie al
lavoro dei copisti, e successivamente grazie alla stampa a caratteri mobili. Man mano che l’idea della
letteratura si evolve, si impone una classificazione dei generi letterari: la letteratura diventa
un’istituzione che ha il compito di trasmettere il patrimonio culturale del passato.

Alla letteratura come istituzione, con regole e caratteri particolari e specifici, si lega la conoscenza della
letteratura come espressione di determinati gruppi sociali. La letteratura, quindi, ha una valenza sociale
e ha sempre rappresentato la forma privilegiata di espressione culturale di una società. Tutte le società
hanno elaborato una forma di espressione di sé, hanno voluto lasciare un segno ai posteri attraverso le
loro espressioni artistiche. La letteratura rientra tra le espressioni artistiche ed estetiche, ma rispetto
alle altre forme (pittura, scultura, musica), si serve di parole e linguaggio.

La letteratura riunisce in sé due funzioni:

- Funzione comunicativa → la letteratura vuole comunicare qualcosa a qualcuno. Talvolta le opere


hanno un destinatario diretto, ma a prescindere un’opera letteraria è sempre rivolta a un lettore
specifico o generico, con l’obiettivo di informare e trasmettere qualcosa.
- Funzione espressiva → non si tratta di una semplice scrittura comunicativa, le forme letterarie
vogliono esprimere qualcosa con un linguaggio selezionato e ricercato, non è la lingua della
comunicazione basica.

La parola letteraria si configura come parola dialogica, che si pone in relazione con gli altri codici della
comunicazione, accogliendoli o rifiutandoli. La storia della letteratura incontra la storia del giornalismo
sin dalle prime espressioni: tra questi due ambiti si stabiliscono ben presto degli stretti rapporti.
L’affermazione su larga scala del giornalismo più vicino a quello che conosciamo oggi la possiamo far
risalire al ‘700. Prima del ‘700 ci sono state delle forme di scrittura giornalistica ma sono delle forme
molto lontane da quelle che possiamo immaginare al giorno d’oggi.

I. Le attestazioni più antiche relative all’uso di comunicati a stampa risalgono al Cinquecento. Già
dal ‘500 si diffonde l’abitudine di affiggere degli avvisi, ossia dei fogli volanti in cui si dava notizia
di avvenimenti importanti o curiosi, importanti per la comunità e di carattere essenzialmente
politico, poiché il governo cittadino aveva la necessità di far conoscere ai cittadini determinate
informazioni.
II. A Venezia, nella seconda metà del ‘500, questi avvisi assunsero un carattere periodico e vennero
chiamate “gazzette”. Il termine gazzetta fa riferimento al costo di questi avvisi: una monetina
da due soldi che si chiamava gazeta. Questo termine si diffuse su scala nazionale e ancora oggi
indica il giornale. In Francia questo termine arrivò con il termine gazette e può farsi risalire al
termine veneziano.
III. Questo modo di chiamare il giornale attraverso il riferimento alla moneta che serviva per
acquistarlo lo ritroveremo anche in epoche più recenti. Nell’800 negli Stati Uniti si diffonderà la
cosiddetta “penny press”, un tipo di stampa popolare acquistabile con un penny per venire

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incontro alle esigenze della popolazione meno abbiente e acculturata. Nacque così il quotidiano
Sun di New York, che costava solo un penny.
IV. Nella seconda metà del Seicento cominciano ad essere pubblicate in Italia delle gazzette con una
periodicità regolare, perlopiù settimanale.
V. La gazzetta diffonderà soprattutto informazioni di carattere politico, a differenza del giornale
che serve a diffondere soprattutto informazione culturale e libraria. All’inizio questi due canali
sono distinti, ma nel corso del tempo questa distinzione si evolverà e cadrà: non ci sarà più
questa netta separazione.

Il termine giornale è già in uso a partire dal ‘500, ma non era utilizzato nell’accezione moderna: si
trattava di una forma di annotazione scritta, un uso ricorrente anche nella lingua francese → le journal
intime. Esistevano giornali di bordo che fornivano informazioni sull’andamento della navigazione.

Il termine gazzettiere, invece, assume una connotazione negativa, poiché è colui che diffonde le notizie
condizionato dalla politica e dal governo, manipolato dal potere. Il giornalista, invece, all’inizio del ‘700
è chi scrive nei giornali letterari, mentre verso la fine del ‘700 inizia a diffondersi per indicare ciò che
conosciamo oggi. In questo periodo inizia a circolare il termine giornalismo.

Il quotidiano nella forma moderna nasce in Germania nel ‘600, l’“Einkommende Zeitungen” (giornale in
arrivo), pubblicato a Lipsia nel 1650, prima come settimanale e poi, nel 1660, come quotidiano. Questo
giornale era letto principalmente dalle classi benestanti ed era costituito da notizie di cronaca, politica,
ecc. In Italia il quotidiano più antico è “La Gazzetta di Mantova”, fondata nel 1664 come settimanale,
ma nel 1866 le pubblicazioni diventano giornaliere. Tuttavia, è a Torino che nasce il quotidiano più antico
a tiratura nazionale: dapprima si chiamava La Gazzetta Piemontese (fondata nel 1867 da Vittorio
Bersezio), ma nel 1894 cambiò nome e fu intitolato “La Stampa” (esiste ancora oggi).

L’economia della società antica prevede che tutti sappiano fare tutto, per cui è fondata sull’adattamento
dell’individuo che deve prevedere ai suoi bisogni. Con l’avvento della società borghese cambia il ruolo
dell’intellettuale, poiché inizia ad affermarsi il principio di specializzazione del lavoro. Il sistema
produttivo è diviso e parcellizzato, perché il sistema della produzione è diversificato, ognuno ha la sua
mansione. Queste modificazioni avranno delle conseguenze sul sistema culturale: lo scrittore perde la
sua aura di sacralità e non gli è più garantito il mantenimento e una sistemazione (come accadeva prima
a corte). Lo scrittore, quindi, avrà bisogno di mettere le sue opere in un mercato: le opere devono essere
vendute per poter sopravvivere.

Inoltre, lo scrittore deve lavorare anche in pubblico rischiando di abbassare anche la qualità letteraria
delle opere. Per poter sopravvivere, lo scrittore è obbligato a trovare un secondo lavoro, che molto
spesso è quello del giornalista (come affermato anche da Montale). Altri intellettuali ripiegano su
benefici ecclesiastici (come Parini), altri hanno fortuna di appartenere a famiglie nobili (Alfieri, che ha
scritto in piena libertà potendo contare su delle cospicue vendite fondiarie); altri scrittori trovano
impieghi negli apparati statali (grazie all’avvento dell’articolazione dello stato moderno).

Inizia a svilupparsi un mercato librario, che comporta l’adattamento dello scrittore ai gusti del pubblico
con una certa settorializzazione. Si sviluppa anche l’industria dell’editoria, che diventa più complessa in
quanto l’editore finisce per condizionare e commissionare gli scrittori, suggerendo determinati prodotti
da stampare per riuscire a garantire delle entrate sicure (più il libro circola, più l’editore guadagna). Dei
cambiamenti profondi intervengono anche sulla configurazione del pubblico: anche il lettore,
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destinatario dell’opera letteraria, subisce delle trasformazioni sociologiche. In Inghilterra, ad esempio, il
pubblico si amplia notevolmente, includendo più classi sociali, tra cui la piccola borghesia dei gentlemen
che ha accesso alle piccole pubblicazioni. I gentlemen non hanno titoli nobiliari, ma sono dediti al traffico
commerciale e hanno dei luoghi di ritrovo e di discussione (club e cafè) per discutere animatamente
delle questioni legate alla realtà locale (politica, costumi, eventi riguardanti la collettività).

Da questo pubblico che si allarga nasce una nuova forma di giornalismo, di stampa periodica, che non si
rivolge solo ai letterati, ma anche alla borghesia. Così nascono in Inghilterra alcuni giornali che hanno
finito per cambiare la struttura e la forma del giornale, fondati e diretti da scrittori importanti della
letteratura inglese:

➢ Daniel Defoe, nel 1704, fondò “the Weekly Review”, che dapprima fu pubblicata come
settimanale e poi divenne trisettimanale. Questa rivista era attenta soprattutto alla società e ai
cambiamenti che si verificavano al suo interno, e ai rivolge soprattutto alle classi intermedie
(media borghesia);
➢ Un altro scrittore inglese che diresse una rivista è Jonathan Swift, che diresse The Examiner: il
target di questa rivista era l’aristocrazia terriera.

Questi scrittori praticano l’attività giornalistica che è molto importante, anche per la loro produzione
letteraria. Quindi c'è già un livello di contaminazione fra questi due livelli. Per esempio, se pensiamo a
Jonathan Swift, l'attività giornalistica è importante per mettere a punto quella satira e quella critica dei
costumi della società che porterà avanti con “I Viaggi di Gulliver”. Quindi, quella forma di critica sociale
e di satira prende corpo dapprima nell'attività giornalistica e poi finisce per condizionare anche l'attività
letteraria. Altre riviste importanti del ‘700 inglese sono:

➢ The Tatler (= il chiacchierone), fondata da Richard Steele. Anche in questo caso inizialmente la
pubblicazione era settimanale, poi divenne trisettimanale. Questa stampa non pubblica soltanto
notizie, ma cerca di intrattenere il lettore per creare un livello di conversazione coi lettori.
Quindi, il giornale acquisisce un carattere di “divertissement” (= intrattenimento).
➢ The Spectator (= lo spettatore, colui che assiste e registra la realtà e la trasmette), fondato da
Joseph Addison. L’ambizione del giornale è quella di stabilire una forma di comunicazione tra le
diverse classi sociali e ampliare l’utenza che ha accesso a queste forme di cultura: la filosofia
deve uscire dagli studi e dalle biblioteche per entrare in società.

Alcuni letterati e gruppi di letterati fonderanno delle riviste anche in Italia:

I. La Frusta Letteraria (che si ispira alla rivista di Addison), un periodico quindicinale fondato a Venezia
nel 1763, diretto e scritto quasi interamente dal letterato Giuseppe Baretti, celato dietro un
personaggio fittizio che si chiama Aristarco Scannabue, reduce da una vita di viaggi e avventure, che
ha deciso di muovere guerra ai cattivi libri pubblicati in Italia. Questo giornale ebbe vita breve (1763-
1765) a causa dei suoi toni violenti.
II. Il Caffè, fondato dai fratelli Pietro e Alessandro Verri (1764-1766), che facevano parte dell’Accademia
dei Pugni (così chiamata a causa dei toni accesi delle sue discussioni). Questa rivista era costituita da
un foglio di quattro pagine, che usciva ogni dieci giorni. Alla fine dell’anno, questi fogli venivano
rilegati in volume. I testi pubblicati nel giornale erano il frutto di discussioni che si svolgevano nella
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bottega di un caffettiere greco. All’interno del Caffè si discute dei temi più disparati: agricoltura,
medicina, filosofia, clima, contrabbando. Si tratta di una cultura aperta a 360° sulla realtà, che mette
a fuoco tutti gli aspetti e i problemi della società. Uno dei motti del caffè è “cose, non parole”. Questo
motto punta l'attenzione sul fatto che, per raggiungere il maggior numero di lettori, era necessario
utilizzare un linguaggio semplice e diretto.

A quest’epoca, l’attività giornalistica diventa per gli aspiranti scrittori un’opportunità per allenarsi e
sperimentare, una sorta di trampolino di lancio. Si verifica una sorta di osmosi tra l’attività del giornalista
e quello dello scrittore: non sono livelli che rimangono distinti e separati. Il romanzo, come afferma
Bachtin, è un genere ibrido, che nasce dalla contaminazione di generi diversi. Molti fatti di cronaca
diventano degli spunti per la scrittura letteraria; quindi, i contenuti del giornale finiscono per riversarsi
nelle opere letterarie e per condizionare e modificare i generi.

L'altro elemento importante che filtra dalla stampa alla letteratura è la tendenza a ricercare un
maggiore contatto con la realtà. Il realismo nasce quindi anche da questa contaminazione fra letteratura
e giornalismo. Gli scrittori sono spinti a occuparsi della realtà che sta loro attorno; quindi, non a scrivere
e pubblicare opere fantastiche o astratte o che si occupano di periodi lontani, ma a ricercare un contatto
con la realtà che li circonda.

Terzo elemento che filtra dal giornalismo alla letteratura è la ricerca di un linguaggio semplice, diretto
e comunicativo.

Il romanzo, andando indietro nel tempo, viene veicolato anche dal giornale. Molti scrittori si sono
cimentati con l’attività di giornalista: nell’Ottocento ricordiamo Balzac e ?Dickens, che hanno praticato
sia il giornalismo, sia la letteratura ed entrambi sono stati esponenti importanti del realismo. Dalla
stampa periodica entrambi hanno tratto degli elementi che hanno fornito linfa vitale ai loro romanzi, sia
a livello dei contenuti (traendo ispirazione dalla cronaca contemporanea, soprattutto cronaca nera), sia
a livello linguistico, utilizzando un linguaggio semplice. Per esempio, possiamo citare i faits divers, gli
avvenimenti che hanno alimentato la fantasia dei lettori e degli scrittori e la curiosità sulle circostanze, i
luoghi, i moventi di questi eventi (molto spesso dei delitti).

HONORÉ DE BALZAC

Il rapporto tra Balzac e il giornalismo fu tormentato: spesso Balzac nei suoi romanzi fa la satira
dell’universo giornalistico. Inoltre, scrisse anche un pamphlet, pubblicato nel 1843, La monographie de
la presse parisienne, in cui mette in luce le vergogne e le contraddizioni del mestiere: molto spesso il
giornalista è condizionato dall’asservimento politico. Il mestiere del giornalista allontana Balzac dal
romanzo storico: nasce così il progetto della Comédie Humaine, un progetto di 137 romanzi.

Nei primi decenni dell’800 iniziano ad essere pubblicati i feuilleton (> romanzo d’appendice), pubblicati
a puntate (di domenica, quando il lettore aveva più tempo). Si tratta di un romanzo che ha determinate
caratteristiche e limiti: deve essere confezionato in modo da lasciare aperta la suggestione del lettore,
e deve occupare uno spazio limitato.

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Lo spazio originariamente occupato da opere colte viene riempito dai romanzi a puntate, più semplici e
che attirano il lettore. Dai feuilleton il giornale trae profitto, perché i lettori sono incuriositi e spinti ad
acquistare l'uscita successiva. Questa modalità di pubblicazione delle opere modifica anche la scrittura
delle opere, poiché la puntata va scritta in un determinato modo.

Questo condizionamento noi lo possiamo vedere, per esempio, se facciamo il confronto tra i romanzi
pubblicati in appendice sul giornale e lo stesso romanzo pubblicato in volume. Un caso noto, per
esempio, è il “Mastro don Gesualdo” di Verga. Se confrontiamo l’opera del 1888 pubblicata sulla nuova
antologia e quella del 1989 pubblicata in volume, possiamo vedere che si tratta di due opere molto
diverse fra di loro, perché la prima obbedisce a quella tipologia di ritmo narrativo e di pubblicazione,
mentre l'edizione in volume nasce come un'edizione più rassettata e coesa che non obbedisce
immediatamente a questa esigenza di catturare l'attenzione del lettore per l'uscita successiva.

Quindi, lo scrittore che pubblica in appendice sul giornale i propri romanzi deve assoggettarsi ai tempi e
allo spazio ristretto, per cui deve scrivere in maniera frenetica per stare nei tempi, deve condensare la
materia narrativa perché quella materia deve entrare in quello spazio circoscritto e deve seguire in
qualche modo anche i gusti e le attese del pubblico.

La moda del feuilleton decade a partire dagli anni ’20-30 del ‘900, quando nascono i primi tentativi di
editoria libraria popolare, più economica. Poi, negli anni ’50-60, nascono le edizioni tascabili e,
successivamente, nasceranno anche i fotoromanzi, storie raccontate attraverso le immagini e le parole.
In tempi recenti, possiamo pensare alle soap opera, che ricercano l’attenzione del pubblico e le cui
puntate si interrompono nel momento clou per spingere lo spettatore a continuare a guardare.

CHARLES DICKENS

Anche Dickens è uno scrittore che ha praticato a lungo l'attività di giornalista ma, rispetto a Balzac, è
stato meno critico nei confronti del giornalismo. Anche Dickens ha collaborato a testate giornalistiche e
ha anticipato le uscite delle sue opere in volume sui giornali, traendo già una certa fama.

Dickens scrive Sketches by boz, una raccolta di bozzetti (prima pubblicati sul giornale e poi in volume)
che descrivono la realtà londinese e diventano una sorta di allenamento dello scrittore a rappresentare
la realtà circostante.

Ad esempio, c’è un racconto, intitolato “A visit to Newgate”, che focalizza l'attenzione sulla realtà delle
carceri londinesi, una realtà che a più riprese Dickens affronterà nei suoi romanzi. Questa indagine sulla
condizione carceraria viene dapprima fissata in questo racconto e poi sviluppata nei romanzi, per
esempio ne “Il Circolo Pickwick” oppure in “Little Dorrit”.

Anche Dickens trae dall’analisi della realtà una semplificazione del suo linguaggio. Il suo è un linguaggio
più comunicativo e diretto, non retorico. La stampa, quindi, ha un ruolo importante per lo sviluppo del
romanzo realista: spinge il romanzo ad affrontare delle tematiche più attuali, ad occuparsi di vicende
tratte dalla realtà, e a sperimentare una forma di semplificazione del registro linguistico.

Un altro scrittore che trae linfa dal giornalismo per i suoi scritti è Thackeray, un altro scrittore che nel
romanzo Vanity Fair fa una satira della società e si sofferma soprattutto sull’universo mondano, quindi
la critica e la satira delle classi alte. Questa critica, che nel romanzo viene svolta in un impianto narrativo

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romanzesco, finisce per essere suggestionata da una rubrica che Thackeray teneva sul giornale “Punch”.
Gli articoli di critica e di satira mondana tenuti per questa rivista servono allo scrittore per avvicinarsi a
quel mondo e per farne la satira. Gli articoli scritti su questo giornale confluiscono poi nel volume “The
Book of Snobs” (1855).

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Due giornalisti-scrittori hanno segnato la storia letteraria nella seconda metà dell’800, quando il mondo
del giornalismo comincia a diversificarsi in sottosettori (inchieste, recensioni, reportage di viaggio o di
guerra): anche sul giornale si verifica quella forma di specializzazione che investe il sistema dei generi
letterari, che si fa sempre più frammentato. In questo periodo in Inghilterra nasce la penny press e
questa stampa economica, grazie al basso costo, è in grado di raggiungere un pubblico più ampio.

Sono soprattutto gli scrittori realisti e naturalisti che traggono alimento dal giornalismo, soprattutto a
partire dall’irruzione della cronaca. I naturalisti volevano una forma di letteratura basata sulla verità e
realtà e fondano la “scuola del documento umano”: le storie raccontate hanno una forte aderenza alla
realtà. Questa forma si tradusse, in Italia, nel lirismo degli scrittori meridionali, che guardavano le realtà
senza alcun abbellimento, le quali vengono rappresentate in maniera distaccata e oggettiva. Occorre
pensare alla tecnica dell’impersonalità di Verga, per cui lo scrittore non deve entrare con il suo punto di
vista e i suoi giudizi all’interno dell’opera letteraria. Questi scrittori si avvicinano alla realtà quotidiana
anche attraverso i giornali, che sondano quelle che sono le zone più oscure della personalità umana
(cronaca nera).

EMILE ZOLA

È soprattutto la cronaca nera ad alimentare questo rapporto di scambio con la letteratura. Tra gli autori
che maggiormente hanno risentito di questo contatto con la realtà e di questa commistione fra
letteratura e giornalismo ricordiamo la figura di Emile Zola, uno dei capostipiti del naturalismo francese.
Egli intrattenne rapporti molto stretti con il giornalismo, praticando la professione sia come cronista
politico che come commentatore di costume, e scrisse anche articoli di critica teatrale (avendo
competenze in materia letteraria).

Zola rappresenta la nascita dello scrittore engagé (impegnato), che prende posizione su determinati
avvenimenti e che ricerca soltanto la verità (→Affaire Dreyfus, il generale accusato di spionaggio e alto
tradimento per aver favorito il nemico tedesco). In realtà, Dreyfus era ebreo e si trovava in un periodo
di alta crescita dell’antisemitismo in Francia. Poiché la sua grafia somigliava a quella della lettera
incriminante, fu inviato nella Guiana francese, sull’isola del Diavolo, a scontare la sua pena pur essendo
innocente. Verrà assolto, ma solo nel 1906 viene riabilitato, un danno enorme per la sua carriera ed
esistenza. Zola interverrà nel dibattito con articoli sottoforma di lettere aperte, scritte dal 1897 (tra cui
“la lettre à la jeunesse” et “la lettre à la France” pubblicate nel Figaro) per scuotere l’opinione pubblica,
e infine scrive una terza lettera dai toni più aspri che il Figaro si rifiuta di pubblicare. La lettera, diretta al
presidente della repubblica e passata alla storia con il nome J’Accuse, viene pubblicata nel giornale
L’Aurore. In seguito a questi scritti viene condannato all’esilio, e solo in seguito alla sollevazione
dell’opinione pubblica che potrà fare ritorno. Zola rappresenta l’emblema dello scrittore libero, che non
si fa condizionare, che esprime liberamente le sue idee e non ha paura di farlo. Il suo, messo su un
giornale, è un nome importante.
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Nella stesura dei romanzi, Zola tiene presenti molti fatti di cronaca realmente accaduti, appoggia le sue
storie a inchieste su determinati problemi di scottante attualità, la situazione nelle città, nelle campagne
e nelle miniere (Germinal). C’è un riciclo di materiale giornalistico all’interno del romanzo, di articoli
scritti in precedenza e delle note che Zola raccoglieva nei suoi taccuini, per annotare schizzi di
personaggi. Egli si cala nella pelle dei suoi personaggi cercando di provare le loro sensazioni. Il romanzo
Nana si muove su una direzione teatrale.

Il giornalismo avrà un grosso impatto su Zola: anche lui sperimenterà una semplificazione del linguaggio
letterario. Nel J’Accuse, Zola rinfaccia al primo accusatore di Dreyfus di essersi servito di artifici
romanzeschi per ordire le sue accuse. Per denunciare questo complotto, Zola usa delle immagini che
denotano fastidio per le convenzioni letterarie.

MATILDE SERAO

Per quanto riguarda la situazione italiana, una figura importante è stata Matilde Serao, una scrittrice
giornalista del secondo ‘800 che si inserisce in quel filone di rappresentazione realistica della realtà. La
sua attività giornalistica è stata molto intensa: ha collaborato con testate romane e napoletane, è stata
la prima donna ad essere redattrice di un giornale, a Roma, durante l’esperienza al Capitan Fracassa e
poi al Corriere di Roma, dove conosce il suo futuro marito, Edoardo Scarfoglio, con il quale fonderà Il
Corriere di Napoli del 1887 e che poi prenderà il nome Il Mattino dal 1892.

Ad un certo punto, i rapporti fra i due si deteriorano in maniera brusca: per un certo periodo la Serao
continua a collaborare al Mattino, ma questa situazione diventa insostenibile; quindi, lascia il giornale e
nel 1904 fonda un quotidiano rivale, il Giorno, con il suo nuovo compagno. La Serao si interessò anche
allo studio della vita mondana: la sua indagine tocca tutte le classi sociali, anche quelle più basse. La
Serao è stata colei che ha inventato la rubrica di cronaca mondana, con la sua rubrica “api, mosconi,
vespe”, una forma di dialogo con i lettori in cui si propongono vari temi, aprendo le porte per un vero e
proprio giornalismo al femminile. La Serao si colloca in un periodo in cui è in crescente interesse la
soggettività umana: lo studio della realtà e la volontà di andare oltre la pura apparenza delle cose
coesistono nella figura di questa scrittrice.

I giornali pubblicati a Napoli da Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao contribuiscono a rinnovare il


panorama napoletano, anche perché si cerca di dare rilievo a notizie provenienti dall’estero: la realtà
napoletana si apre alla conoscenza di quello che accade al di fuori dei confini della realtà napoletana.
Entrambi puntano ad avere collaborazioni prestigiose nei loro giornali. Un limite di questa azione di
allargamento della cultura napoletana è rintracciabile nell’atteggiamento che queste testate hanno nei
confronti del potere: la Serao ha avuto spesso un’attitudine trasformistica verso il potere, cambiando
spesso opinione e dirigendosi dove tira il vento, non rimanendo ferma nei suoi principi. Pur con questo
limite, la Serao ha avuto una grande capacità di osservazione della realtà del suo tempo, su cui si innesta
anche la scrittura della Ortese.

La Serao ha anche scritto romanzi e novelle; le pagine più incisive e che ricordiamo maggiormente sono
quelle dedicate alla rappresentazione della realtà napoletana, delle condizioni precarie dell’esistenza
che gli individui dovevano fronteggiare, descrive le sofferenze della popolazione, lo “struggle for life”,
l’ascensione sociale. La Serao si sofferma ad analizzare questa lotta per la vita e l’esistenza che si
consuma nei vicoli napoletani, in cui si vive in condizioni di estrema povertà. Una penetrante analisi di
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questa realtà napoletana la troviamo nell’inchiesta giornalistica intitolata Il Ventre di Napoli, ispirata da
Il Ventre di Parigi di Zola. La Serao si reca personalmente nei vicoli napoletani per condurre questa
inchiesta, dove famiglie numerosissime vivono in uno spazio limitato. Ci sono anche classi intellettuali e
benestanti che non fanno parte di questa realtà: dunque, si vuole fornire al lettore un quadro realistico
della realtà napoletana. La popolazione napoletana appare rassegnata ma non del tutto chiusa alla
possibilità di elevare le proprie condizioni. Nell’inchiesta ci sono artifici stilistici che divengono
dall’universo letterario. Quindi, l’inchiesta giornalistica viene condotta attraverso un linguaggio
letterario. Inoltre, nell’inchiesta, si riscontra il meccanismo di sospensione tipico del feuilleton.

Il Paese della Cuccagna è un’opera celebre della Serao: è un romanzo a puntate pubblicato sul Mattino
(1890 sul giornale, 1891 in volume): viene studiata la propensione dei napoletani (classi alte e basse) a
giocare al lotto. Questa attrazione determina un’ulteriore degenerazione: nel miraggio di poter
conquistare una vincita, si finisce per sottrarre soldi a situazioni molto spesso già precarie.

Un altro sguardo eloquente sulla realtà contemporanea viene fornito da un altro scritto della Serao.
I Telegrafi dello Stato è un racconto tratto da una raccolta del 1886 chiamata il Romanzo della Fanciulla,
che si focalizza sulla condizione di sfruttamento delle donne telegrafiste, direttamente sperimentata
dall’autrice per tre anni per avere un’entrata sicura. Quando la Serao si occupa della scrittura
giornalistica, cerca sempre di rappresentare in maniera oggettiva la realtà, anche considerando gli
aspetti negativi. Il contatto con il giornalismo le permette di svecchiare le tecniche letterarie, di
rinnovare il suo linguaggio letterario e i suoi mezzi espressivi.

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Il giornale così come lo abbiamo conosciuto nacque all’inizio come forma di comunicazione chiusa e
ristretta (si trattava di una forma di sapere dotto), per persuadere la popolazione e avere un ruolo di
elaborazione del consenso intorno a un determinato regime politico. Via via, il giornalismo si allontana
dalla sfera del potere per rivendicare la propria autonomia. Si afferma sempre più la tendenza a fornire
una rappresentazione critica della realtà e della società. La stampa viene definita come il quarto potere:
già nel 1777 Edmund Burke parla della stampa inglese come quarto potere su cui si fonda una nazione,
soprattutto quando la stampa è indipendente.

I faits divers (fatti di cronaca nera) finiscono per chiamare l’attenzione non solo della stampa
sensazionalistica, ma anche dei letterati: infatti, vengono presentati con dei toni appartenenti alla
letteratura. Il resoconto di questi fatti di cronaca finisce per essere condotto con dei mezzi di espressione
letterari. Si produce un effetto paradossale: una rappresentazione “veritiera” dei fatti viene fatta con
degli strumenti appartenenti alla fiction. Gramsci, per esempio, ha osservato che la cronaca giudiziaria
è “redatta come un perpetuo Mille e una Notte”, quindi attraverso una forma narrativa. Per effetto di
questa rappresentazione, alcuni delinquenti hanno assunto un certo fascino nell’immaginario del
lettore, e vengono quasi rappresentati come degli eroi (ad esempio, Jack lo Squartatore o Al Capone,
Bonnie e Clyde). Spesso, questi eventi di cronaca nera sono dei casi irrisolti: questo finisce per stimolare
la fantasia del lettore, lo spingono a lavorare attivamente con la mente, a patteggiare per una parte o
per l’altra, contribuendo con il suo pensiero all’elaborazione della verità → ruolo attivo del lettore, alla
ricerca della verità. Il potenziale narrativo dei faits divers è stato sfruttato ampiamente dalla stampa e
dagli scrittori: la verità entra nella finzione grazie al realismo e al naturalismo, e la finzione viene spesso

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spacciata per verità. Ad esempio, Edgar Allan Poe spaccia per fatto vero una sua storia che aveva soltanto
inventato (The Mystery of Marie Rogêt).

Possiamo definire i rapporti tra letteratura e giornalismo come una convenienza reciproca. Un altro
livello da considerare è il fatto che il giornalismo si serve della letteratura per conquistare un peso
maggiore e attirare lettori.

Modi della letteratura per essere presente nei giornali:

I. Pubblicazione di racconti o puntate di romanzi d’appendice alla fine dei romanzi. La letteratura
è il soggetto di riflessione. Questa moda cessa negli anni ’30 con la diffusione della stampa a
basso costo.
II. Pubblicazione di rubriche a sfondo letterario in cui prendono corpo polemiche letterarie. La
letteratura entra come oggetto di riflessione. Questa opzione esiste ancora oggi con gli inserti
dedicati alla cultura, ad esempio.

Per cui anche la letteratura cerca di essere presente sul giornale per riuscire a raggiungere un pubblico
più ampio di lettori. Ci sono due canali attraverso i quali si struttura questo rapporto fra letteratura e
giornalismo.

Da una parte la letteratura entra nel giornale come soggetto di riflessione con la pubblicazione di
racconti, di romanzi d’appendice, pubblicati a puntate. L’altro modo in cui la letteratura è presente nel
giornale la vede partecipe come oggetto di riflessione (pagine di giornale che vengono dedicate a
recensioni e studi critici su determinati autori o libri).

Questo tipo di pubblicazione raggiunge l’apice tra fine Ottocento e inizio Novecento. Questa modalità è
quella che è sopravvissuta di più rispetto alla pubblicazione di romanzi d’appendice sul giornale. Questo
accade soprattutto quando cominciano ad apparire edizioni economiche dei suddetti romanzi, rendendo
meno necessaria la loro pubblicazione sulla stampa periodica. L’altra modalità sopravvive più a lungo e
in forme diverse è presente ancora nei giorni nostri.

La narrativa è il genere che più va incontro ai lettori (per quanto riguarda la prima modalità), anche quelli
di strati più popolari. La scuola ha avuto il merito di contribuire notevolmente alla alfabetizzazione delle
masse. L’altro canale di alfabetizzazione è rappresentato dal socialismo, appuntato a educare il popolo
e ha cercato di formare una coscienza operaia, una coscienza condivisa e informata. I lavoratori, per
poter rivendicare i propri diritti, dovevano prima di tutto conoscerli, quindi studiare ed essere in grado
di muoversi nel mondo della regolamentazione del lavoro.

La narrativa è quindi il genere più pervasivo. Pian piano si avvicinano alla lettura anche le donne e la
scuola e il socialismo aiutano all’emancipazione della donna. Il pubblico femminile mostra interessa
soprattutto per la sfera dell’interiorità, delle passioni, dell’analisi della coscienza, delle emozioni. La
narrativa che viene pubblicata sui giornali è una narrativa destinata a un consumo veloce, vorace,
costretta a rimanere negli spazi che gli sono assegnati. Questo favorisce il confezionamento di prodotti
seriali, in cui determinati schemi narrativi vengono riproposti in maniera seriale nei racconti perché sono
schemi di successo, consolidati, che hanno una facile presa sul lettore. Da una parte c’è una riproduzione
meccanica e seriale di schemi, situazioni, personaggi; dall’altra, la scrittura trova però anche lo stimolo
per una maggior concentrazione, un racconto più incisivo, più concentrato, più immediatamente
comunicativo. Quindi stare in quella misura circoscritta porta lo scrittore a mettere a punto delle nuove
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modalità di racconto che possano essere più concentrate e che stimolano la curiosità del lettore (es.
short stories americane; le prose narrative di Montale).

Le strategie ricorrenti messe in atto dagli scrittori che confezionano prodotti da pubblicare sul giornale
sono:
- Gli stereotipi consolanti, quel tipo di scrittura che ha un certo fascino sul lettore, perché in grado di
fornire consolazione;
- La tendenza a lasciare aperta la storia, la tensione del finale.

Lo scrittore viene stimolato anche da un maggiore contatto con una realtà (si interfaccia con un pubblico
di lettori reale che legge ciò che viene scritto), ci si avvicina di più all’attualità. Il tiro del racconto viene
modificato e aggiustato anche in base alla risposta che lo scrittore ha da parte dei lettori, risposta che
dipende in gran parte dal numero delle vendite. Quindi la scrittura letteraria, attraverso il contatto con
la stampa, da un lato si mercifica, dall’altra viene spinta a ridefinirsi, a ridarsi nuove regole, in grado di
rispondere meglio all’attualità, alle esigenze della modernità.

LA TERZA PAGINA

Questo spazio di riflessione che viene dedicato dai giornali alla letteratura attraverso il riferimento a
commenti, recensioni e avvenimenti culturali lo possiamo datare dall'avvento della terza pagina, quella
destinata dai giornali alla cultura, ossia al 1901. Questa prima terza pagina fu pubblicata sul giornale
d’Italia quando il suo direttore, Alberto Bergamini, decise di dedicare una pagina intera ad un evento
culturale che aveva animato la città di Roma nel dicembre 1901. Questo evento era la messa in scena
della pièce Francesca da Rimini al teatro Costanzi di Roma, scritta da Gabriele D’Annunzio e che aveva
come attrice Eleonora Duse. Se n’era parlato così tanto che Bergamini decise di dedicarvi una pagina
intera. Questo fu il primo felice tentativo di integrare lo spazio culturale nel quotidiano, attraverso
l’attualità (la rappresentazione teatrale). L’evento viene presentato in vari articoli riguardanti
l’allestimento scenico, il testo, la rappresentazione come evento mondano e quindi gli spettatori illustri
presenti alla rappresentazione, le musiche presenti, ecc.

Questo schema messo in atto dal giornale d’Italia fu sperimentato successivamente da molti altri
giornali. Nel 1905, il Corriere della Sera introduce la terza pagina sotto la direzione di Luigi Albertini. La
terza pagina del Corriere della Sera aveva uno schema fisso, adottato poi anche da altri giornali. All’inizio
questo schema ha una struttura più variabile e poi, dal primo dopoguerra, assume questa struttura
codificata che prevede tre parti principali: un elzeviro, un reportage e una spalla.
I. L’elzeviro si chiama così perché deriva dal carattere tipografico con cui veniva stampato (da
Amsterdam). È l’articolo di fondo, collocato in alto a sinistra e dedicato sia ad argomenti di critica
letteraria, sia a scritture creative. Molto diffusa nella prima parte del Novecento è la prosa
d’Arte, una prosa non comunicativa, ma artistica, ricercata, letteraria, non è un pezzo puramente
informativo. Anche l’elzeviro è un genere ibrido, aperto alle contaminazioni. Fra i più famosi
ricordiamo quelli di Emilio Cecchi, che raccolse nel 1920 questi pezzi pubblicati su vari giornali in
un volume intitolato Pesci Rossi. Un altro autore di elzeviri è Ugo Ojetti, che raccolse i suoi scritti
(1921-1943) nel volume Cose Viste. Ugo Ojetti aveva una rubrica sul Corriere della Sera, chiamata

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“Tantalo” (suo pseudonimo nel giornale), poi raccolta in Cose Viste. Nella seconda metà del
Novecento, l’elzeviro diventa soprattutto un intervento di critica letteraria, quindi perde quella
natura espressiva avuta nella prima metà del ‘900, ma può definirsi un saggio di critica letteraria.

II. Al centro della terza pagina c’era poi l’articolo di taglio, rappresentato da un reportage, che
poteva essere sia una testimonianza, sia un racconto di viaggio (più creativo). Il termine
reportage nasce nel giornalismo francese per indicare un tipo di articolo in cui viene privilegiata
la testimonianza diretta, spesso correlato da immagini (illustrazioni). I reportage più diffusi sono
stati quelli di viaggio (hanno dato la possibilità ai lettori di entrare in contatto con realtà diverse)
e quelli di guerra (i giornalisti si recavano personalmente sui fronti di battaglia e davano conto
sull’andamento di queste battaglie). Questo genere di scrittura mette il lettore a contatto con
realtà diverse ed eccezionali, mette insieme la sfera della scrittura e la sfera dell’azione.

Tra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900 il reportage richiama grandi nomi della letteratura:
ex. George Orwell, Ernest Hemingway (lo scrittore-giornalista per antonomasia, scrisse sia
corrispondenze di viaggio che di guerra, sia dal fronte della guerra di Spagna che dal fronte della
Seconda Guerra Mondiale, le cui corrispondenze sono puntuali e descrittive ma che trovano
anche una parte più artistica), André Malraux, Jean-Paul Sartre, ecc. L’attività di reporter lascia
un segno negli scritti di questi autori:
▪ usano nelle opere letterarie un linguaggio agile e immediatamente comunicativo ed
espressivo;
▪ l’influenza del giornalismo può essere ritrovata nei contenuti delle loro opere;
▪ nelle loro opere spesso trattano temi che hanno già trattato come giornalisti.

Questo è un giornalismo che risente di una componente più soggettiva. Non è tanto la messa in
situazione ambientale, precisa, puntuale, come poteva essere quella della scrittura naturalistica,
ma è un fornire le coordinate in cui si muove il personaggio, segnato da una condizione di
spaesamento, tipica di questo periodo. I personaggi rappresentati non si inseriscono in maniera
armonica nella realtà, vivono sempre esperienze di sradicamento, le stesse che ha vissuto
l’autore spostandosi in vari luoghi. Si tratta anche di una rappresentazione filtrata dalla propria
soggettività e dal proprio stato d’animo. Il reporter comincia ad avere un ruolo da protagonista,
non è solo un occhio che osserva, ma ha un ruolo attivo grazie anche a questi grandi scrittori. C’è
anche una riflessione meta giornalistica, sulla condizione dello scrittore-giornalista. Ad esempio,
fa riferimento alla necessità di continuare il proprio lavoro di reporter nonostante abbia una
malattia tropicale o alla difficoltà di comunicare con la testata giornalistica durante la guerra.
Questa è una dimensione tipica del Novecento, ad esempio il metateatro di Pirandello, che
riflette sul modo di fare teatro.

III. In alto a destra c’era una spalla che conteneva pezzi di varia natura. Confluiscono in questo
spazio tutti quei contenuti tipici della pagina di varietà: troviamo argomenti diversi, che possono
essere di costume, di cronaca, di natura storica, anche argomenti scientifici.

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La terza pagina fu a lungo considerata una vetrina importante: da una parte veniva ambita dagli scrittori
(Pirandello, Croce, Pasolini) e dall’altra il quotidiano voleva accaparrarsi le firme dei letterati più in vista,
perché pubblicando i grandi nomi della cultura, finivano per aumentare il prestigio della testata
(rapporto di reciproca convenienza). D’altro canto, Mario Missiroli (Il resto del Carlino) pubblica sulla
terza pagina non nomi di scrittori importanti, ma di scrittori emergenti che non si erano ancora affermati
presso il grande pubblico: la sua intraprendenza lo porta a favorire il lancio di questi scrittori. Molti
giovani scrittori si affacciano così su una ribalta più importante (Es. Umberto Saba).
La fortuna della terza pagina diminuisce nel momento in cui viene dedicato più spazio nei giornali alla
cultura.
Nel 1956, Il Giorno abolisce la terza pagina, e sposta quei temi dedicati alla terza pagina in uno spazio
diverso nel giornale. Nel 1976 nasce il quotidiano La Repubblica (direttore Eugenio Scalfari) già senza la
terza pagina, ma al suo interno troviamo una sezione culturale più ampia che viene collocata nella
sezione centrale del giornale. Altri giornali aboliscono via via la terza pagina (Il Corriere della Sera nel
1992) oppure nascono i supplementi letterari distribuiti insieme al giornale.
Questo meccanismo di allargamento del giornale ci mostra che si apre soprattutto allo spazio del
quotidiano, a ciò che è comune. I giornali possono anche tenere a battesimo la letteratura attraverso il
loro potere di reclame, possono avere un ruolo importante nel reclamizzare la letteratura, anche quella
che non viene stampata sul giornale. L’annuncio di uscite di opere letterarie o le recensioni di opere
letterarie possono avere il potere di influenzare il pubblico, di creare il caso mediatico, poiché ci sono
dei libri che, ancor prima di uscire, suscitano la curiosità dei lettori.
Il pendolo di Foucault di Umberto Eco è stato presentato dai giornali come un libro di difficile digestione
e il ruolo della stampa in questo caso è stato quello di sconsigliare questa lettura, di proporla come una
lettura elitaria.

Vediamo ora come si arriva dalla terza pagina alla fiction novel.

Come abbiamo detto, la narrativa è costretta a sottostare a determinate restrizioni. Il feuilleton, lanciato
nel 1836, è il primo prodotto letterario seriale destinato alla massa: da una parte rappresenta il livello
più alto di mercificazione del romanzo, ma dall’altro il livello di diffusione più alto del romanzo. Il
romanzo d’appendice offre un esempio significativo dell’interazione che si produce tra le intenzioni dello
scrittore e la ricezione del pubblico. Nella scrittura giornalistica, l’autore è direttamente a contatto con
il pubblico e il suo lavoro si configura come work in progress, che viene aggiustato di volta in volta.
Questo è un genere che raggiunge l’apice nell’Ottocento e che offusca il genere del racconto per un
certo periodo. Il genere del racconto recupera importanza a fine Ottocento, da una parte in virtù degli
scrittori naturalisti perché si presta bene a offrire uno spaccato sulla realtà quotidiana, dall’altra perché
acquista fama la scrittura umoristica. Il racconto non ha necessità di essere frammentato come il
feuilleton, ma ha già una misura circoscritta che si adatta bene agli spazi del giornale.
Con l’avanzare del Novecento si diffondono, oltre al romanzo e al racconto, altre forme di
intrattenimento seriale, come il fumetto o i fotoromanzi, forme che poi vengono superate dall’avvento
di nuovi mezzi di comunicazione e quindi da teleromanzi e soap opera della televisione; inoltre, nascono
i cartoni animati, le fiction e le serie TV.

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NEW JOURNALISM

Un punto di svolta importante per i rapporti fra letteratura e giornalismo è rappresentato dall’avvento
del New Journalism, che finisce per modificare questi rapporti e per dare nuova linfa sia al giornalismo
che alla letteratura. Questo termine fu coniato dal giornalista americano Tom Wolfe, che nel 1973
pubblicò un’antologia di scritti giornalistici con Edward Warren Johnson intitolata The New Journalism.
Il New Journalism è una scuola di scrittura nata negli Stati Uniti negli anni ’60, che adotta gli stili e le
tecniche della narrativa per la scrittura giornalistica (altra forma di contaminazione tra letteratura e
giornalismo).

I giornalisti di questa corrente vogliono superare il giornalismo canonico (che si fondava sulle cinque
famose W, pilastri del giornalismo – who, what, when, where, why), e vogliono andare oltre la pura
referenzialità del giornalismo. Non vogliono analizzare soltanto i fatti, ma scavare nelle atmosfere in cui
quei fatti sono avvenuti e scandagliare la psicologia dei personaggi. Inoltre, cambia anche il modo di
condurre le interviste: non c’è più solo un botta (intervistatore) e risposta (intervistato), ma ci sono dei
ritratti più a tutto tondo, delle conversazioni che servono a far capire al lettore la personalità
dell’intervistato. I reportage dilatano la cronaca, si soffermano sui contesti e sui caratteri e rendono più
vivace la narrazione attraverso l’introduzione della suspense e dei dialoghi. Questa innovazione
introdotta dal New Journalism però non mette in discussione il primato della notizia, poiché non ci si
abbandona a tecniche di finzione pura.

Nell’antologia The New Journalism Tom Wolfe prova a mettere per iscritto le quattro regole che devono
essere alla base del New Journalism:

1) La costruzione della storia: la storia va costruita attraverso il montaggio di scene successive,


attraverso la giustapposizione di flash visivi, senza che ci sia un intervento massiccio della voce
del cronista;
2) Registrare tutti i dettagli, anche quelli apparentemente insignificanti: tutte le minuzie possono
essere utili per la ricostruzione del fatto, i gesti, le abitudini, tutto ciò che caratterizza i
personaggi;
3) Bisogna utilizzare i dialoghi e le conversazioni: corrisponde alla volontà di mettere il lettore
direttamente a contatto con il fatto, facendolo assistere a dialoghi e conversazioni e non a freddi
resoconti del fatto;
4) Presentare ogni scena dal punto di vista interiore di un personaggio: il cronista si cala nel fatto
attraverso la percezione del personaggio al centro della notizia.

Durante gli anni Sessanta negli Stati Uniti si verificano tantissimi cambiamenti, riguardanti sia la struttura
dell’informazione del giornale, sia la società americana nel suo complesso. Comincia a venir meno la
fiducia nella capacità di analizzare i fatti attraverso la ragione, attraverso filtri razionali. La realtà si
dimostra sempre più incoerente e sempre più in movimento. Il mondo, quindi, non può essere
conosciuto soltanto attraverso un filtro razionale, ma entra in gioco una componente soggettiva ed
emotiva nella comprensione dei fatti. Per rappresentare la complessità di questa realtà sempre più
problematica è necessario ricorrere a più punti di vista, guardare da più prospettive per vedere il fatto
nella sua totalità, senza cadere in giudizi scontati, senza abbandonarsi a degli stereotipi, senza ricorrere
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a quelle coppie dicotomiche che contrappongono in maniera netta il male al bene, il razionale
all’irrazionale. Quindi, i giornalisti che si raccolgono intorno a questa corrente sono portati a scomporre
la realtà, cercando di capire ogni atteggiamento senza giudicare.

In questo periodo storico si introduce una nuova forma di notizia. Nei giornali americani, infatti, si può
distinguere tra le features e le news, che sono due tipi di notizie differenti. Negli anni Sessanta si
impongono nei giornali americani soprattutto le features. Le features (alla lettera le “caratteristiche”)
sono dei servizi speciali raccontati attraverso una storia partendo da un suo aspetto caratteristico.
Questi vengono quindi scritti con un modo diverso di raccontare rispetto alle news, che sono raccontate
con uno stile prettamente cronachistico, quello delle 5 W. Le features lasciano dei margini più ampi alla
soggettività del giornalista, quindi sono i fatti ampliati, dilatati e interpretati dal giornalista. Non sono
delle fiction o delle invenzioni, hanno sempre lo scopo di informare il lettore, ma sono confezionate in
modo da accattivare il lettore e avere una maggiore presa su di lui. Le features sono articoli che partono
da fatti reali, di cronaca, ma vanno oltre, comunicando l’atmosfera, l’emozione, qualcosa in cui il lettore
può rispecchiarsi e riguardano soprattutto aspetti della vita umana e della vita sociale. Per affrontare
questi aspetti usano uno stile, un registro che si avvale della creatività del giornalista. Questi scritti si
diffusero negli anni ’60 con lo scopo di rendere più vivace il linguaggio giornalistico, rendendolo in grado
di reggere il confronto con il giornalismo televisivo, affermatosi prepotentemente in questi anni. Per
sopravvivere, quindi, i giornalisti della carta stampata devono rendere più accattivante il loro prodotto.

Gli anni Sessanta negli Stati Uniti furono estremamente vivaci, sia dal punto di vista politico (innovazioni
introdotte dal presidente innovativo JFK), sia dal punto di vista sociale. Si sviluppò un certo interesse nei
confronti delle discriminazioni razziali, ci furono le lotte per l’uguaglianza, le lotte per l’emancipazione
femminile, furono gli anni della contestazione giovanile, dei figli dei fiori, del pacifismo, della società dei
consumi, del dibattito sulle droghe. Il New Journalism si afferma in questo quadro in rapido mutamento
e per riuscire a confrontarsi con questo quadro serviva al giornalismo un nuovo linguaggio, delle
strutture di racconto diverse rispetto a quelle della pura registrazione della cronaca ed è quello che si
propone di essere il New Journalism.

La specialità di Tom Wolfe è soprattutto la satira di costume. Uno dei suoi testi più importanti si intitola
Radical Chic (1970), un titolo che è passato a identificare uno stile, un atteggiamento. In questo articolo
Wolfe fa la satira dei rivoluzionari da salotto, ossia coloro che appartengono all’alta società ma
manifestano delle simpatie rivoluzionarie, stando però sempre nei loro salotti e manifestando un
atteggiamento velleitario. Nell’articolo, Wolfe si sofferma su un party organizzato dal direttore di
orchestra Leonard Bernstein, in cui si raccolgono fondi in appoggio delle Black Panthers,
un’organizzazione rivoluzionaria afroamericana che va oltre il pacifismo di Martin Luther King e che
rivendica il principio dell’autodifesa. Wolfe fa la satira di questo mondo elitario che si schiera però
accanto alle rivendicazioni rivoluzionarie.

Nei quotidiani italiani non esiste una distinzione così netta e rigida come nei Paesi anglosassoni tra news
e features, ma c’è una distinzione tra cronaca e storia. La cronaca è assimilabile alle news, mentre la
storia alle features americane. La prima cosa necessaria è l’abilità della scrittura del giornalista per
trasformare la pura e semplice notizia in una storia. L’altro elemento importante che serve per scrivere
una buona storia è quello di inserire la gente con i suoi problemi, i suoi sentimenti, con tutto ciò che
riguarda la soggettività della persona e che è in grado di sollecitare il lettore. Quindi, il lettore deve

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essere posto a contatto con le persone che hanno vissuto il fatto e deve cercare di farsi una sua opinione
in autonomia (anche se spesso viene manipolato e condizionato dal punto di vista del giornalista).

Alcuni esponenti del New Journalism sono diventati anche importanti scrittori, praticando questo
doppio canale. Fra questi troviamo il fondatore del New Journalism Tom Wolfe, Truman Capote, Norman
Mailer, ecc., i quali hanno fatto un giornalismo servendosi di elementi della scrittura narrativa e hanno
scritto romanzi che hanno profondi legami con fatti reali.

IL NON-FICTION NOVEL

Mentre la scrittura giornalistica andava rinnovata per far fronte alla concorrenza del giornalismo
televisivo, la scrittura letteraria andava rivitalizzata perché il romanzo si trovava in una stagione di crisi
ed occorreva renderla più moderna e accattivante. Nasce così, negli stessi anni del New Journalism, il
non-fiction novel (romanzo verità). Questo genere, che si impone dagli anni Sessanta e che è ancora in
voga, ha dei confini difficili da definire proprio a causa della contaminazione con il giornalismo. Ma pur
nell’estrema varietà delle tipologie di non-fiction novel, si può individuare una costante di fondo,
rappresentata dalla rielaborazione narrativa di materiali autentici. Questo tipo di narrativa parte
innanzitutto da un lavoro svolto sul campo: lo scrittore si reca sul luogo in cui è successo il fatto che si
vuole rappresentare nel romanzo e raccoglie una serie di informazioni, intervistando la gente del posto.
Questi materiali documentali raccolti vengono successivamente plasmati e inseriti in questa dimensione
narrativa, il montaggio, seguendo quelle che sono le regole della narrazione (anticipazioni, flashback, lo
spostamento della narrazione seguendo punti di vista diversi sulla vicenda).

TRUMAN CAPOTE

Il non-fiction novel nasce all’interno del New Journalism. Uno degli esempi più emblematici di questo
genere letterario è rappresentato dall’opera di Truman Capote A Sangue Freddo (1965), romanzo che
parte dalla rielaborazione narrativa di fatti autentici e racconta di un fatto di cronaca nera verificatosi in
una piccola città del Kansas nel 1959. Il fatto è rappresentato dallo sterminio di una famiglia di agricoltori
ricchi (i Clutter). Vengono uccisi in maniera inspiegabile sia i genitori, sia due dei quattro figli (le altre
due figlie non erano in casa, già sposate). Capote, la mattina del 16 novembre 1959, legge sul New York
Times un trafiletto che racconta questo episodio di cronaca nera: questo fatto lo inquieta e lo
suggestiona e lo porta a scrivere questo romanzo. Capote dedica sei anni alla realizzazione di
quest’opera e parte proprio dalla raccolta delle informazioni con dovizia di particolari, recandosi
personalmente nel luogo dove era avvenuto questo fatto di sangue, che poi racconta adottando i modelli
narrativi tipici del romanzo. Gli assassini vennero scoperti successivamente e si scoprì che il movente era
quello di compiere una rapina. I due, usciti recentemente dal carcere, avevano saputo da un loro
compagno di cella dell'esistenza di una cassaforte nella casa di un agricoltore, motivo per cui si diressero
ad Holcomb, cittadina del Kansas. Nella notte, penetrati armati nella casa, cercarono invano il denaro e
la cassaforte, poi uccisero tutti i membri della famiglia presenti in quel momento. Mentre i due erano in
fuga, la polizia brancolava nel buio, non trovando alcun movente verosimile per l'atroce delitto. Sarà
l'informazione di un carcerato a fare luce sul movente e sull'identità degli assassini, permettendo alla
polizia di rintracciarli e catturarli sei settimane dopo: i due saranno condannati alla pena di morte.

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Capote prima segue questa storia come cronista, poi decide di scriverci un libro, ricavando una storia da
questo fatto di cronaca. È la passione per il fatto che lo porta a raccogliere tutti gli indizi all’interno della
comunità in cui si è svolto il fatto. Capote, infatti, decise di arrivare sul luogo per scrivere sul crimine e
fu accompagnato dalla sua amica d'infanzia e scrittrice Harper Lee: assieme interrogarono a lungo le
persone del luogo e gli investigatori assegnati al caso. Il libro fu pubblicato prima a puntate sul New
Yorker tra settembre e ottobre 1965 e poi in volume nel 1966 presso Random House.

A Sangue Freddo è l’archetipo della non-fiction novel, il primo romanzo di questo genere della storia
della letteratura. Il narratore non compare tanto nel romanzo, ma fa riferimento a sé stesso in maniera
sfuggente, esprimendosi in terza persona. Il discorso di Capote non è un discorso tendenzioso, non vuole
avvalorare una determinata visione del fatto, non ha intenzioni di denuncia, non prende posizione sulla
disumanità della pena di morte in quello Stato americano, è un romanzo che si attiene alla realtà e che
cerca di capire quella realtà, anche scavando nelle ragioni del disagio dei due assassini. Quell’uccisione
si configura anche attraverso la lettura che ne dà Capote, come un senso di rivalsa nei confronti di questi
ricchi. I Clutter devono pagare per il male ricevuto e per le condizioni disagiate di vita in cui hanno
vissuto, sono una sorta di capro espiatorio della loro volontà di rivalsa nei confronti di una società che li
ha emarginati e tenuti in condizioni precarie.

La volontà di rimanere aderenti ai fatti si vede anche nella scelta di presentare l’omicidio non narrandolo
in terza persona, ma raccontandolo attraverso la deposizione giudiziaria resa da uno dei due assassini,
proprio per renderlo più autentico e veritiero, più distaccato dal punto di vista del narratore.

Il libro suscitò molte polemiche, sia di carattere letterario, sia di carattere etico-sociale perché Capote
fu accusato di aver avuto un atteggiamento di tipo voyeuristico nella presentazione della vicenda,
indugiando sugli aspetti cruenti della vicenda, in maniera fredda e cinica. Fu accusato di non aver preso
parola contro la pena di morte, di non aver espresso alcuna critica riguardo a questa legge. L’ultimo
capitolo del libro si presenta come una narrazione fredda e cronachistica collocata nel braccio della
morte, dove verrà eseguita la pena capitale dei due assassini.

Quest’opera, portata avanti da Capote parallelamente alla professione di giornalista, segnò talmente la
sua esperienza artistica ed umana da rimanere l'ultima sua opera portata a termine.

Sulla scia di questo romanzo è fiorita tutta una stagione di romanzi ascrivibili al filone del non-fiction
novel, costruito su fatti di cronaca reali per lo più appartenenti alla cronaca nera, ambito in cui la
contaminazione fra giornale e romanzo è più fertile. Un filone di non-fiction novel che è stato molto
sviluppato è quello che ha rappresentato la mafia e le organizzazioni mafiose, (es. negli Stati Uniti la
mafia italoamericana), in alcuni casi anche presentate in una maniera apologetica. Ad esempio, Il
Padrino è diventato personaggio rappresentativo del fascino del male, negativo ma comunque
presentato in una forma quasi mitizzata.

In Italia nel 2006 è stato pubblicato Gomorra di Roberto Saviano, che ha voluto mettere in luce la realtà
della Camorra, conosciuta ma molto meno esplorata rispetto alla mafia siciliana. Il libro di Saviano
esplora l’universo degli affari legati agli ambienti della Camorra, occupandosi di vari aspetti. Ad esempio,
si sofferma sulla realtà del porto di Napoli, dove vengono sbarcate le merci contraffatte provenienti dalla
Cina e quindi il mercato parallelo di questi prodotti; oppure analizza le condizioni di sfruttamento della
sartoria napoletana, che lavora per le grandi firme ma viene retribuita in maniera inadeguata. O ancora
i traffici veri e propri di droga, di rifiuti illegali, di materie tossiche non smaltite adeguatamente.
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Anche il racconto di Saviano si basa su una documentazione reale, si fonda su atti processuali, su indagini
della polizia realmente condotte. Anche Saviano utilizza la letteratura e il reportage per raccontare
quella realtà, diventando uno strumento di comunicazione efficace per trasmettere questa realtà al
lettore, rispetto alle fredde inchieste degli investigatori.

Il clamore di questo libro ha cambiato la vita privata di Saviano, costretto da allora a vivere sotto scorta
a causa delle minacce di morte ricevute, ma anche la vita lavorativa, poiché non ha potuto più fare il
reporter andando direttamente sul campo, ma si è trasformato piuttosto in un opinionista televisivo.

IL REPORTAGE

Anche il reportage nasce da una commistione tra letteratura e giornalismo, per questo si parla di un
genere ibrido, che si rivela uno strumento efficace della conoscenza della realtà. La voce reportage
deriva dall’inglese to report, che vuol dire riferire, riportare qualcosa. Questo verbo poi è stato ripreso
dal francese antico, in cui è presente come reporteur, e anche in questo caso indica un fatto da riportare.
Racconta un avvenimento che viene ritenuto degno di essere raccontato, non uno banale, poiché
bisogna attirare comunque la curiosità del lettore. Il reportage nasce in Francia, e questo termine è stato
poi adottato anche al di fuori dei confini francesi per indicare il servizio che un reporter svolge durante
la sua missione per analizzare e approfondire un determinato argomento.

I. Il primo elemento che caratterizza questo tipo di scrittura è il fatto che per raccontare, il reporter si
deve esporre in prima persona. Il reporter è inviato in un determinato luogo e deve avere conoscenza
diretta di ciò che racconta (non racconta per sentito dire, ma osserva con i suoi occhi).
II. L’altro elemento che entra in gioco nel reportage, oltre al diretto coinvolgimento, è l’empatia che il
reporter deve avere per immergersi nei fatti, per comprenderli e restituirli al lettore, poiché senza
umanità non ci può essere il reportage. Il reporter non si limita a fornire notizie, ma descrive in
maniera approfondita il contesto che sta attorno a quel fatto, cercando anche di scavare nel
retroterra che ha prodotto quell’avvenimento. Rispetto alla notizia, il reportage procede per
dilatazione, parte da una notizia, da quella si allarga per mettere in evidenza il contesto, le
motivazioni, ecc. Partendo da un fatto o da un particolare, si crea una storia, una narrazione.
III. Il terzo step è procedere con il racconto.

Uno dei più grandi giornalisti-scrittori del Novecento, Ryszard Kapuściński, ha scritto un libro prendendo
spunto dalla figura di Erodoto, da lui considerato come il primo reporter della storia. La narrazione
storica di Erodoto, secondo Kapuściński, si apre al confronto con l’altro, poiché Erodoto raccontava le
guerre delle polis tra greci e persiani. Nel momento in cui si sofferma a riflettere su queste guerre,
proietta lo sguardo verso l’altrove, verso la Persia, con i suoi costumi, con il suo mondo diverso.

In questo libro, che si intitola Viaggio con Erodoto, fissa i tre punti cardine da cui prende forma un buon
reportage (i tre step menzionati sopra). Il primo punto è il viaggio, spostarsi nel luogo in cui si è svolta la
vicenda, osservare la realtà con quella sensibilità che appartiene all’empatia. Il secondo punto è l’uomo:
gli esseri umani rappresentano il centro della storia, devono avere un ruolo centrale anche gli uomini
che stanno attorno alla storia (ex. I testimoni). Il terzo elemento necessario per scrivere un buon
reportage è il cosiddetto compito a casa, ossia la scrittura vera e propria del reportage. Questo compito
a casa non è altro che un’operazione di sintesi, di ciò che ha visto, di ciò che gli è stato definito, degli
incontri che ha fatto. Nasce dal montaggio di differenti tessere raccolte in questo viaggio che vengono
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assemblate all’interno della scrittura per fornire una rappresentazione completa della realtà. Soltanto
in questo modo l’esperienza si converte in scrittura.

Il reportage è un documento fortemente connotato dal contesto in cui si svolge: è connotato a livello
geografico (ex. il fatto che un evento sia avvenuto in un determinato luogo ha una certa rilevanza); è
connotato a livello storico (ex. nel reportage di guerra, quelle guerre sono legate a quella situazione
storica); è legato al contesto sociale (ex. I moti terroristici degli anni di piombo degli anni ’70); è
connotato a livello antropologico (ex. Reportage di viaggio che raccontano di popolazioni aborigene).

L’esperienza soggettiva del reporter entra in qualche modo nella sua scrittura. Anche se ha intenzione
di rimanere imparziale e distaccato, facendo riferimento alle sue emozioni, il suo racconto risentirà
comunque delle sue impressioni. C’è sempre un contatto tra l’avvenimento reale e la risposta soggettiva
di quell’avvenimento reale.

Il reportage nel senso moderno compare nei quotidiani a partire dall’Ottocento. In questi anni, negli
Stati Uniti, comincia a diffondersi la Penny Press, la stampa che raggiunge un pubblico di lettori più
ampio. Questo allargamento del pubblico fa nascere una nuova idea di notizia, un’idea di racconto che
deve prendere per oggetto il mondo che sta intorno ai nuovi lettori; quindi, si deve allargare a raccontare
anche l’ordinario, non soltanto gli eventi straordinari.

Il giornalista comincia a prestare attenzione a quelli che sono gli interessi del lettore e a cercare notizie
che possano interessare a un determinato pubblico. Nasce così anche l’idea che la notizia è ciò che ne
fanno i giornalisti: è il giornalista stesso che può creare la notizia, raccogliendo i gusti del pubblico, ossia
tutto può diventare notizia grazie all’abilità del giornalista. La sua presenza è soggettiva, perché
necessariamente la notizia risente della costruzione e dell’impressione del giornalista. Quello del
giornalista è un ruolo destinato a diventare centrale.

In questo caso, è la letteratura ad aiutare il giornalismo, prestando le sue tecniche e il suo modo di
raccontare la realtà al giornalista. In questo modo, attraverso l’uso di tecniche narrative, il giornalismo
si arricchisce di nuove modalità di racconto e diventa più efficace nel coinvolgere il lettore. È in questo
modo che nasce il giornalismo di storie (news e features).

L’età del reporter è segnata dall’introduzione delle tecniche della fiction nell’universo delle news, della
notizia pura e semplice. Il genere che favorisce questo incontro è la narrativa realistica, la quale fornisce
tecniche di racconto che si prestano bene a questa trasmigrazione di ambiti, come il linguaggio in prosa.
In questo modo, l’informazione si allarga a toccare storie vicine alla realtà del pubblico, e le tecniche
narrative forniscono al giornalista la possibilità di raccontare quel mondo. L’introduzione della penny
press allarga il pubblico, rende il giornale più diffuso e introduce sul giornale la realtà quotidiana.

Il linguaggio usato dal giornalista per raccontare queste storie è chiaro, preciso, accurato, che deve
rendersi accattivante per catturare l’attenzione del lettore. Con l’introduzione delle tecniche narrative
nel reportage, questo acquista anche una dimensione estetica, non è solo un servizio giornalistico
funzionale. La linea fra letteratura e giornalismo è estremamente sottile e tende a sfumare facilmente
nel campo avversario. Questa linea, riguardo al reportage, è rappresentata anche dalla percezione che
ne ha il pubblico. Se una rappresentazione della realtà viene percepita dal pubblico come finzione si ha
una certa reazione, se la scrittura viene percepita come realistica la reazione cambia. Il lettore che legge
sa se quello che sta leggendo è vero o qualcosa di romanzato. Il lettore che legge la pagina di giornale si
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aspetta qualcosa di reale, quello che legge un romanzo si aspetta la finzione. Il ruolo del lettore non è
puramente passivo, ma attivo e partecipato.

Gli esponenti del New Journalism utilizzano i procedimenti letterari per coinvolgere maggiormente il
lettore. In questo modo, anche la scrittura giornalistica acquista una dimensione estetica, e in quel caso
diventa difficile capire se si tratta di finzione o meno. Il New Journalism utilizza espressioni ossimoriche,
che esprimono contrasto. Ad esempio, si parla di non-fiction novel, di literary journalism, di romanzo
reportage, oppure di factual fiction (fiction che ha relazione con i fatti). Queste sono tutte espressioni
che mettono in evidenza la difficoltà di classificare questi generi ibridi e contaminati di scrittura.

Rispetto alla non-fiction novel, il reportage narrativo presenta storie di cui il giornalista è stato testimone
in qualità di reporter, ma non ricorre a quelle ricostruzioni interiori e psicologiche che sono presenti
nella scrittura romanzesca (es. Truman Capote, A Sangue Freddo). Le condizioni di vita sono descritte in
maniera attenta, dopo aver raccolto una documentazione ampia. Nell’espressione “reportage
narrativo”, l’attenzione si sposta sul concetto di non-finzione, ossia sul reportage in quanto genere non
di finzione che appartiene alla pratica giornalistica.

Le differenze fra reportage giornalistico e reportage narrativo si possono identificare sia a livello
quantitativo (struttura del testo, numero di pagine), sia a livello del tempo. Il giornalista che scrive un
reportage giornalistico deve rispettare un criterio di immediatezza, poiché la notizia va raccolta e offerta
subito al lettore, e i limiti imposti dalla pagina giornalistica (due-tre colonne). Il reportage giornalistico
nasce da una forma di concentrazione massima di tempo e spazio.

Il reportage narrativo, invece, si concede un approfondimento di respiro più ampio, poiché non c’è
necessità di concentrazione, né di tempo né di spazio, per cui può essere scritto in un lasso di tempo più
ampio e c’è una maggiore capacità di approfondimento della notizia.

Inoltre, cambia anche lo spazio, poiché il reportage narrativo non deve rispettare i limiti e le misure
imposte al reportage giornalistico. Cambia anche il rapporto con il lettore, perché il lettore si può
imbattere in un reportage giornalistico anche in maniera casuale, sfogliando il giornale. Nel caso del
reportage narrativo, invece, il lettore non è casuale, poiché egli acquista il giornale appositamente per
leggere quel reportage.

Anche lo stile è differente, perché nel reportage giornalistico la concentrazione di spazio e tempo rende
necessario un linguaggio rapido, semplice e breve, mentre nel reportage narrativo il ritmo della
narrazione può essere più disteso, non è necessaria quella incisività e rapidità.

Spesso i reportage in volume nascono come dilatazione di reportage giornalistici. A volte, sono gli stessi
giornalisti che raccolgono i loro pezzi e decidono di pubblicarli in volume. In questo caso, non c’è una
semplice operazione di raccolta e ripubblicazione dei testi, ma un’operazione di riscrittura. Questo
perché sul giornale il testo obbediva alla contingenza del racconto mentre ora può essere risistemato
con uno stile più disteso e riflessivo rispetto a quello concentrato della scrittura giornalistica. Quindi, i
reportage pubblicati in volume sia allargano, creano delle storie.

Il reporter che scrive sul giornale ha invece questa spinta di immediatezza, poiché i reporter scrivevano
prima nei taccuini (annotazioni in condizioni che presupponevano rapidità di scrittura, ex.
Corrispondenze di guerra dal fronte).

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Anche il reporter scrittore osserva la realtà in rapido svolgimento ma, a differenza del reporter
giornalista, ha la possibilità di maturare le sue riflessioni in tempi più distesi, ha più tempo per il “compito
a casa”. Questo indica una dimensione critica maggiore, poiché il viaggio che compie nella scrittura è
meno concitato. Cambia anche il rapporto con i materiali narrativi, perché per un reporter narrativo gli
appunti o le interviste raccolte sul campo non entrano direttamente nell’articolo come materiali
immediati e semilavorati, ma come materiali preliminari che contribuiscono alla scrittura del reportage
narrativo dopo essere stati rielaborati.

Ci sono diversi modi di creare reportage narrativi: in qualche caso, sono gli stessi reporter-giornalisti che
decidono di raccogliere i propri scritti in volume, in un reportage narrativo. Altre volte, ci sono casi in cui
gli scrittori decidono di cimentarsi con il reportage narrativo rielaborando e ricreando la materia
giornalistica di servizi a loro commissionati (da reportage giornalistico a libro di narrativa). Questo tipo
di tendenza è diffusa anche ai giorni nostri e ci sono molti scrittori-reporter che hanno scritto opere di
questo genere. Kapuściński afferma che in questi tempi moderni è cresciuta una nuova generazione di
scrittori visionari, che fanno la nuova letteratura, sapendo guardare lontano e mimetizzarsi con il
contesto per poi descriverlo e farne letteratura. Queste parole possono identificare anche la Ortese, la
cui scrittura si è mescolata con gli eventi che racconta, con i fatti che entrano nei suoi articoli. La Ortese
ha saputo mimetizzarsi in questi contesti, riuscendo a descriverli e farne letteratura.

Oltre a queste differenze riguardanti la tecnica di scrittura, tra reportage giornalistico e reportage
narrativo ci sono anche delle affinità. Prima fra tutte, l’attenzione a indagare la realtà, i fatti di attualità,
l’attenzione all’esperienza in prima persona.

Nel reportage narrativo, ovviamente, ci vuole un’idea narrativa forte per rimontare questi fatti. Il
reporter narrativo si serve delle tecniche del romanzo, del registro della descrizione e dell’analisi, del
registro mimetico, calandosi nella realtà che descrive. Il genere del reportage narrativo è ibrido, fra
scritture diverse sia dell’ambito giornalistico sia dell’ambito narrativo-letterario. Il reporter-scrittore
deve saper parlare per immagini, selezionandole per ricreare un contesto, deve offrire sempre al lettore
la possibilità di calarsi e immedesimarsi nel contesto. Deve quindi fungere da mediatore fra il mondo
che rappresenta e quello del lettore. La comunicazione fra questi due mondi passa attraverso la
sensibilità del reporter, che quindi entra in gioco in prima persona con la sua empatia, i suoi sentimenti,
il suo modo di leggere la realtà.

Per riuscire a catturare l’attenzione del lettore, il reporter-scrittore si serve anche di determinate scelte
stilistiche e narrative, oltre che tematiche. Sceglie un tema che possa accattivare il lettore, ma anche un
modo di raccontarlo. Questo genere ibrido è stato definito anche come “faction” (fiction + fact). La
dimensione giornalistica accredita la veridicità del racconto, per cui se so che si tratta di un reportage
narrativo sono portata a pensare che sia qualcosa di realmente accaduto, poi manipolato dall’abilità
dello scrittore.

La sensibilità del narratore-scrittore è quella che garantisce il contatto con la sfera dell’umano, poiché
lui osserva la realtà e la riversa al lettore facendo appello alla sua umanità. L’empatia, la sensibilità e
l’amore per l’umano sono gli elementi fondamentali che devono caratterizzare lo scrittore. Il mestiere
del giornalista non si può fare senza questa predisposizione verso l’essere umano. Il reporter deve
sempre ricordare di essere dalla parte dell’uomo e proiettato verso lui; quindi, c’è sempre attenzione
nei confronti della materia umana.
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Le ramificazioni del reportage sono molteplici: reportage di viaggio, reportage di guerra, reportage di
inchiesta (che vedremo con la Ortese per quanto riguarda lo studio della realtà napoletana).

IL REPORTAGE PER LA ORTESE

Il reportage (termine che deriva dal giornalismo francese) è un tipo di articolo, spesso corredato da
immagini, in cui viene privilegiata la testimonianza diretta del cronista. Il cronista viene inviato in un
luogo e deve osservare la realtà del posto, non limitandosi a fornire notizie ma cercando di descrivere
l’ambiente in cui si trova e di mettere a fuoco il contesto in cui è avvenuto un fatto. Inoltre, interviene
con delle sue notazioni che aiutano il lettore a comprendere quegli elementi che circondano la
rappresentazione di una data realtà.

• Il reportage nasce all’inizio come reportage di viaggio, poiché prima l'accesso ai viaggi e agli
spostamenti era molto più limitato ed era riservato solamente alle persone più ricche che potevano
permettersi di viaggiare. Gli spostamenti avvenivano in un tempo molto più lungo poiché i mezzi di
comunicazione erano meno veloci rispetto a quanto non lo siano oggi. Quindi il reportage nasce
anche come momento di evasione per il lettore, che attraverso la lettura conosce posti esotici e
realtà distanti dalla sua. E il reporter indugia sugli elementi che contribuiscono a mettere a fuoco la
realtà e a farla conoscere al lettore, come usi e costumi.
• Gli eventi catastrofici del ‘900 hanno alimentato la nascita del reportage di guerra, in cui i reporter
venivano inviati al fronte, stavano fianco a fianco con i soldati e raccontavano gli avvenimenti e le
battaglie. Anche in questo caso talvolta c'erano delle immagini ad accompagnare il reportage.

Il reportage di viaggio subisce l'evoluzione dei mezzi di trasmissione delle informazioni, prima con
l'introduzione del telegrafo e poi con il telefono, la radio, la tv e così via. Quindi sia l'evoluzione
tecnologica sia l'incalzare degli avvenimenti storici hanno determinato l'evoluzione di questo genere
giornalistico.

Inoltre, vedremo alcune figure di scrittori-reporter, che poi hanno veicolato quell’attività nella loro
produzione narrativa. Ad esempio, Ernest Hemingway è stato un reporter di viaggio, lasciando filtrare
l’esperienza giornalistica nelle sue opere.

I reportage della Ortese sono definiti singolari. Spesso, la lettura di questi testi produce nel lettore una
forma di spaesamento, portandolo a perdere il filo del discorso. Questo avviene proprio perché
l'osservazione della Ortese e la sua scrittura procedono a sbalzi, non c'è una rappresentazione lineare e
ordinata.

▪ Il paesaggio è rappresentato attraverso la giustapposizione di scorci di paesaggi, senza che si passi


da uno all’altro in modo ordinato. Questo fa sì che il filo del discorso sia spezzato.
▪ Manca molto spesso una cornice contestuale che spieghi al lettore il contesto in cui si trova colui
che scrive.
▪ Le descrizioni dei luoghi che troveremo in questi scritti di viaggio finiscono per tendere
all'astrazione, puntano più sull'utilizzo della luce e dei colori. Anche il tempo in questi reportage
procede in maniera discontinua e astratta, non attraverso un flusso ordinato e lineare: ci sono
momenti di stasi e calma assoluta che si alternano a momenti di brusche accelerazioni → Quindi
anche il ritmo della narrazione è discontinuo, che non procede sempre alla stessa maniera. La

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rappresentazione dei nessi spazio-temporali nella Ortese non va verso la concretezza, ma tende
all’astratto.

La scrittura è quindi uno specchio straniante del reale, non riflette la realtà così com’è, ma c’è sempre
una interferenza del dolore di chi osserva, che finisce per alterare la rappresentazione neutra della
realtà.

Non possiamo parlare di scritti assolutamente realistici, anche se la Ortese è stata inquadrata fra gli
scrittori neorealisti. Il neorealismo è la corrente letteraria che si sviluppa in questi anni, ma è difficile
inquadrare la Ortese in questa corrente così come è difficile farla inserire nel contesto del realismo
magico di Bontempelli, che aveva avuto fortuna anche negli anni precedenti. Sia gli scritti raccolti ne Il
mare non bagna Napoli sia i reportage raccolti ne La lente scura ci fanno vedere come la scrittura della
Ortese si rapporti alla realtà. Questa infedeltà al dato concreto è una costante. Quindi, c’è l’impossibilità
in lei di rappresentare la realtà attraverso una lente trasparente, poiché la lente attraverso cui riflette la
realtà è oscurata dalla malinconia. In questi scritti ci sono degli smarrimenti visivi dell’autrice, come se
in questa realtà l’autrice si perdesse e tornasse a essere raccolta intorno alla propria percezione della
realtà e al proprio dolore, alla propria sensazione di spaesamento. Lo sguardo che conferisce unità alle
cose e che diventa garante di ciò che racconta è quello del personaggio dell’autrice, così come viene
rappresentato in questo reportage. Dunque, chi scrive è l’unico depositario della verità, il lettore non ha
una percezione alternativa perché la realtà viene rappresentata attraverso questo sguardo parziale.

La viaggiatrice che si sposta da un luogo all’altro si presenta come un personaggio debole e irregolare,
anche poco determinato nelle sue scelte. Le ragioni del suo viaggiare sembrano spesso labili e
contraddittorie, poiché ovunque vada la controfigura letteraria della Ortese appare sempre in disparte.
Questa condizione di marginalità talvolta assume tratti patologici. Ad esempio, in uno di questi scritti, la
scrittrice si rappresenta come pazza, parla di sé facendo riferimento a degli attacchi di nevrastenia. Però,
come accade spesso nella tradizione letteraria, la figura del personaggio pazzo è quella di colui che riesce
a mettere a fuoco lucidamente la realtà.

In ogni luogo attraversato la Ortese prova disagio, come se non riuscisse a adattarsi a nessuna realtà. Da
una parte, quindi, c’è la tendenza all’autoisolamento e una forma di relegazione ai margini, dall’altra
una spinta positiva dettata dalle esigenze del vivere, dal bisogno di capire la realtà. Nonostante lei tenda
a relegarsi ai margini, è tuttavia sollecitata a cercare di comprendere ciò che le sta intorno. Questa spinta
a viaggiare esprime sia l’impossibilità di trovare un posto nel mondo, sia la volontà a trovare un posto
dove vivere le sia più gradito e semplice, dove possa sentirsi in armonia con sé stessa. La costruzione di
un alter ego che è presentato come una figura debole e imprevedibile è anche una maschera letteraria.
Ciò le consente di poter dire ciò che vuole, dandole la possibilità di muoversi liberamente e parlare senza
filtri.

In questi reportage vedremo come spesso la fantasia della narratrice è colpita da oggetti insignificanti,
elementi di dettaglio del paesaggio, così come è colpita da figure marginali. C’è quindi l’attenzione per
il dettaglio, per la sfumatura, per una rappresentazione che centra l’essenza delle cose. E c’è sempre
una partecipazione emotiva della descrizione della realtà, che non è mai neutra e asettica. Questa
partecipazione passa attraverso una forma di ragionamento che procede non tanto attraverso delle
affermazioni, quanto attraverso le immagini che, così come vengono presentate, seguono il
ragionamento dell’autrice.
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Negli scritti di viaggio della Ortese c’è molto spesso un linguaggio figurato, con un uso frequente di
metafore, similitudini, analogie, ossimori (figura più presente nei suoi racconti). Questa
rappresentazione ossimorica della realtà, secondo la Ortese, si può individuare nella vita, poiché è la
stessa vita ad essere fatta di un insieme di aspetti contrastanti fra loro.

Lo sguardo che ritroviamo in questi scritti è umanamente partecipe, poiché non c’è mai un distacco
emotivo di chi scrive, e al tempo stesso c’è quella tendenza a sentirsi fuori dal quadro. Il mondo
osservato da questa scrittrice è osservato a distanza ed è filtrato da quella lente scura dell'angoscia, che
la porta a sentire un sentimento di empatia per la realtà che osserva. La realtà che osserva viene
osservata con un senso di amore, di pietà per le situazioni e per i luoghi che osserva.

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Contesto letterario di Annamaria Ortese: condizione femminile di quegli anni (fine Ottocento,
Novecento) e della donna-scrittrice.

A partire dal 1870, in Italia si verificano molti cambiamenti. Il mercato librario si allarga, nascono molte
case editrici, si sviluppa un’editoria giornalistica fervente. In questo periodo le scrittrici si affacciano sulla
scena letteraria: le donne non sono più solo lettrici ma diventano un soggetto attivo della vita culturale
italiana. Molte donne diventano scrittrici e giornaliste, un binomio che vale per il genere maschile ma
che è ancora più diffuso nel genere femminile. Questo è un periodo di rapido mutamento sociale,
economico e politico per la nazione. Alla questione femminile si interessano sia il movimento socialista,
sia le forze politiche cattoliche, che focalizzano l’attenzione sul ruolo della donna nella società moderna.
Nel 1881, viene fondata la Lega promotrice degli interessi femminili, una prima forma di associazionismo
femminile volto a rivendicare determinati diritti per le donne e a rivendicare la necessità per le donne
di ricoprire un ruolo attivo nella società.

Considerando quest’arco cronologico (1870-1960), possiamo identificare diversi momenti segnati da


caratteristiche in parte uguali e in parte differenti. Possiamo individuare tre quadri storiografici:

I. Il primo va dagli ultimi decenni dell’800 fino agli anni della Prima guerra mondiale;
II. Il secondo racchiude il periodo fra le due Guerre Mondiali, soprattutto la Resistenza (1915-1943);
III. Il terzo periodo va dal 1943-44 fino alla seconda metà degli anni ’60.

PRIMO QUADRO STORIOGRAFICO

Nel primo quadro storiografico possiamo individuare due orientamenti nei movimenti emancipazionisti:

• il primo indirizzo del movimento emancipazionista si forma sul principio di uguaglianza, secondo
cui uomini e donne sono uguali, la differenza di sesso non influisce sui rapporti tra cittadino e
Stato;
• l’altro indirizzo piuttosto parla di equivalenza tra uomo e donna, ossia la specificità del ruolo
della donna all’interno della società, uomo e donna vengono considerati nella loro specificità,
ciascuno di essi ha un ruolo particolare all’interno della società, questa differenza va notata e
valorizzata.

Il movimento di emancipazione si spacca sulla questione dell’interventismo dell’Italia in Guerra. In


questa fase di prime rivendicazioni di emancipazionismo femminile si sviluppa una tendenza di donne
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più acculturate (ceto culturale: maestre, donne giornaliste, scrittrici che sviluppano una professione
alternativa a quella canonica di moglie-madre riservata alla donna). Questo comporta un rinnovamento
anche nel campo dell’editoria, perché si sviluppa una produzione editoriale più ricca, destinata a target
diversi, con l’imposizione di questo nuovo soggetto femminile che scrive e legge. In questo tipo di
produzione editoriale c’è anche la volontà di formare una certa mentalità, e questo avviene soprattutto
negli scritti maschili che vogliono pedagogizzare le donne sull’obbligo famigliare e sociale delle donne
come madri e mogli (continua a persistere questa idea secondo cui alla base della stabilità sociale ci deve
essere una stabilità della famiglia vista in maniera tradizionale).

Lo sviluppo dell’industria fa sì che ci sia un coinvolgimento delle donne anche in queste attività (contabili,
operaie, apparati dello Stato, uffici, amministrazione statale), c’è tutta una schiera di nuovi mestieri che
si aprono alla sfera femminile (insegnanti, appendiciste, donne giornaliste, donne traduttrici, poetesse).
In questo periodo sono soprattutto due le città che possono essere considerate il centro della vita
culturale italiana: Milano e Roma. Milano soprattutto è fortemente segnata dalle spinte di
modernizzazione, dall’industrializzazione. In questa zona si afferma maggiormente una borghesia
progressista, imprenditoriale (questi sono gli anni di una mentalità positivista, scientifica). Qui nascono
molte case editrici (Sonzogno, Treves) e si sviluppa una serie di attività giornalistiche che coinvolgono il
ceto intellettuale, a cui partecipano sempre più le donne.

Il secondo polo culturale è rappresentato da Roma, soprattutto da quando diventa capitale (1871).
Anche qui ci sono diverse case editrici: la più importante è quella di Angelo Sommaruga, che non stampa
solo libri, ma produce anche riviste e testate giornalistiche. Roma rappresenta il lato mondano del ceto
intellettuale italiano. La letteratura femminile italiana è favorita dall’affermazione di questi movimenti
emancipazionisti, che rivendicano il diritto per la donna a condizioni di lavoro paritarie all’uomo, e anche
all’alfabetizzazione. La letteratura femminile comincia ad affermarsi dai piani più bassi (mercato di
consumo e intrattenimento) fino ad innalzarsi a quelli più alti (con testi importanti).

In questo primo quadro storiografico si individuano due generazioni di scrittrici: la prima nata a metà
Ottocento, la seconda nata intorno al 1870. Tra le prime troviamo Marchesa Colombi, Bruno Sperani,
Emma, Neera, Contessa Lara, Matilde Serao. Tra quelle più giovani, ricordiamo Ada Negri, Grazia
Deledda, Sibila Aleramo, Anna Franchi. Queste due generazioni di scrittrici portano avanti sia la scrittura
letteraria sia quella giornalistica e anche una riflessione teorica sul rapporto tra soggettività femminile
e scrittura, come entra la particolarità della cifra femminile nell'elaborazione della scrittura.

A Milano, questa prima generazione di scrittrici è rappresentata soprattutto da Marchesa Colombi,


Emma, Bruno Sperani e Neera, la scrittrice di maggior successo fra queste. Soffermandoci su questi nomi,
possiamo già notare che nessuno di questi è il nome di battesimo di queste scrittrici, le quali firmano le
loro opere tutte con degli pseudonimi. La scelta dello pseudonimo nasconde la propria immagine e nasce
da un parte da un senso di inferiorità, poiché la donna che scrive e che pubblica prova un senso di timore
nell’affacciarsi alla ribalta letteraria o teme di essere considerata meno rispetto agli uomini. Molte donne
scelgono uno pseudonimo maschile per presentarsi al lettore con una veste più tradizionale e accettata:
il libro scritto da una donna viene ancora letto con un certo sospetto e una certa ironia, poiché la donna
non ha la stessa credibilità dello scrittore uomo. Dall’altra parte, queste donne hanno paura di essere
considerate poco serie, leggere. Ad esempio, Marchesa Colombi è lo pseudonimo di Maria Antonietta
Torriani, una scrittrice piemontese che si trasferisce a Milano.

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• I temi più frequentati dalla produzione lombarda sono il mondo del lavoro e dello sfruttamento
femminile nell’ambito lavorativo. Di Marchesa Colombi (Maria Antonietta Torriani) è il romanzo In
Risaia (1878), che mette in risalto la condizione di sfruttamento femminile nelle risaie.
• L’altro tema frequente è l’analisi di personaggi e di interni familiari, quindi la sfera della vita
coniugale. Emma (Emilia Ferretti Viola) scrive un romanzo intitolato Una fra tante (1878) che tratta
il tema della prostituzione. Viene avviata una discussione dibattuta anche a livello parlamentare e
dà l’avvio alla discussione di un progetto di legge per la regolamentazione della prostituzione.
• Altro tema sociale affrontato da queste scrittrici è il tema del divorzio. Anna Franchi scrive nel 1902
un romanzo intitolato Avanti il divorzio, a favore della possibilità di sciogliere il vincolo del
matrimonio. La legge italiana non lo consentirà fino al 1970.
• Un’altra storia di povertà e sfruttamento è quella raccontata da Bruno Sperani (alias Beatrice Speraz,
giornalista, traduttrice e autrice di romanzi) che scrive La Fabbrica (1908), in cui parla dello
sfruttamento femminile all’interno di una fabbrica. Questa attenzione per la realtà si inserisce nel
solco della scuola verista (anche i veristi propongono l’esplorazione dei problemi della realtà). La
presenza di queste scrittrici è stata considerata come un verismo minore al femminile, di tentativi di
scrittura realistica che si inseriscono in quel solco letterario.

Presto però a queste stanze di rappresentazione oggettiva si aggiungono delle stanze di tipo
autobiografico. Ci sono molte opere letterarie che hanno una forte componente autobiografica e che
vengono scritte nella forma ibrida del romanzo autobiografico. La rappresentazione autobiografica
nasce dalla volontà di essere vere, da una voglia di rappresentare l’oggettività (cosa si conosce di più se
non sé stessi?). Vi è la descrizione di casi umani di cui si ha una conoscenza diretta, o di cui sono venute
a conoscenza o che riguardano loro stesse. Una scrittura romanzesca di tipo realistico, lontano dalla
fiction.

La scrittrice lombarda più importante di questo periodo è Neera (pseudonimo di Anna Radius Zuccari).
Molto prolifica, ha collaborato a diverse testate giornalistiche e ha avuto anche una rete di
corrispondenti letterari importanti (Verga, Capuana, De Roberto, Benedetto Croce, Matilde Serao,
Marchesa Colombi, Sibila Aleramo). Il romanzo più famoso è Teresa (1886), che racconta la storia di un
modello femminile ancora persistente, quello della zitella, e del problema sociale di questo status. Neera
ha scritto anche opere di carattere più teorico. La più controversa è Le idee di una donna (1904) ed è
controversa perché l’autrice in quest’opera si schiera contro l’emancipazionismo femminile. Quindi c’è
una contraddizione di fondo nei suoi scritti perché, mentre nelle opere letterarie porta avanti modelli
femminili moderni che si rivoltano contro i cliché della figura femminile, nelle opere teoriche si schiera
contro l’emancipazionismo e rivendica per la donna il ruolo di moglie e madre.

Neera crede che la donna non debba essere in competizione con l’uomo per ricoprire determinati ruoli
e posizioni, lei è più per il principio di equivalenza. La specificità della donna è quella di generare e di
educare i figli, di trasmettere loro il sapere, e quindi rivendica l’importanza di questo ruolo. Secondo
Neera è da lì che passa la formazione di una società civile, ossia dal ruolo centrale di educazione delle
nuove generazioni. Il tema del matrimonio borghese è presente in molti altri romanzi della fine dell’800.
Comincia ad affacciarsi una corrente di scritti che puntano a demistificare il matrimonio borghese e la
menzogna matrimoniale. Max Nordau scrive un libro che ha segnato le coscienze e gli intellettuali di
questo periodo, intitolato Le menzogne convenzionali della nostra civiltà, nel quale dedica un capitolo
alla menzogna matrimoniale e mette in evidenza la falsità del matrimonio borghese inteso come
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contratto. C’è una critica delle istituzioni tradizionali e la rivendicazione di rapporti fondati
sull’autenticità e non sulla convenienza economica e sociale.

Altro nome importante è quello di Sibila Aleramo, la cui opera più importante è Una donna (1901-1904).
Si tratta di un romanzo autobiografico ma non è una autobiografia, perché il nome dell’autrice non
compare mai. Racconta la storia di Sibilla Aleramo ma questa storia viene romanzata, cambiano i nomi
dei personaggi e dei luoghi. Questo “romanzo” racconta la sua scelta di lasciare il marito con cui ha un
rapporto negativo, conflittuale, tenta anche il suicidio ma non ci riesce e alla fine decide di abbandonarlo
nonostante questo significhi per lei rinunciare al figlio (all’epoca non esisteva il divorzio né la possibilità
di un affidamento). Il romanzo pone l’attenzione su questa impossibilità della donna di salvaguardare sé
stessa, anche dalla violenza. Questo romanzo fece molto scalpore e alcuni criticarono anche la Aleramo
per la scelta di abbandonare il proprio figlio. Lei scrive di averlo fatto proprio per il figlio, per fornirgli un
modello di limpidezza e di coerenza, di una donna che non si piega alle convenzioni di questa società,
che non accetta di tenersi un marito infedele e violento per non creare scandali.

A Roma ci sono diverse testate giornalistiche e nella realtà dell’ambiente romano muovono i primi passi
Matilde Serao (vedi p. 17) e Grazia Deledda. La scrittura della Deledda segue il modello verista, quindi
rappresenta la realtà della sua terra (lei era sarda trapiantata a Roma). L’opera più famosa è Canne al
vento (1913), il cui titolo allude alla precarietà dell’esistenza. È importante anche il fatto che la Deledda
è stata tradotta da David Lawrence, il quale è stato attratto dal suo modo di scrivere.

SECONDO QUADRO STORIOGRAFICO

La seconda generazione di scrittrici si colloca nel secondo quadro storiografico, ossia tra le due Guerre,
in un periodo storico fortemente segnato dall’avvento del fascismo, che dagli anni ’20 si impone sul
piano politico. Sul piano letterario in questi anni si assiste a una ripresa della forma romanzo, che nei
primi anni del ’900 subisce un momento di crisi, poiché vengono predilette forme letterarie più brevi,
come la prosa d’arte.

In questo periodo storico i percorsi delle donne si fanno meno comunitari e più individuali. Tra la fine
degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’40 molte scrittrici importanti cominciano a pubblicare le loro opere. In
molti casi, si tratta di scrittrici che hanno una formazione al di fuori dei canali istituzionali, che hanno
viaggiato molto e si sono spostate in vari luoghi, che si sono formate da sole, in maniera autodidatta.
Questo gli ha dato la possibilità di non rimanere intrappolate nelle maglie della cultura fascista, che era
di tipo più nazionale, poiché rivendicava il primato della cultura italiana sulle altre culture (vengono
vietate le traduzioni e persino i nomi stranieri). Queste donne sono donne senza patria, che hanno
condotto la loro esistenza in luoghi differenti (es. Fausta Cialente, che a causa della professione del
padre, è costretta fin dalla più tenera età a continui cambiamenti di residenza (Ancona, Bologna, Roma,
Teramo, Firenze, Genova, Milano), formandosi però culturalmente principalmente a Trieste, città della
famiglia materna.

Molte di queste donne hanno avuto una formazione itinerante, cosmopolita, sono entrate in contatto
con molti gruppi intellettuali con i quali hanno collaborato e interagito, lavorando da pari a pari. Fra
questa schiera possiamo collocare anche Anna Maria Ortese. Altre scrittrici che pubblicano le loro opere
sono Elsa Morante e Paola Masino, le quali raccontano un tipo di storie di crisi, storie di formazione,

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storie che riflettono sull’interiorità. Questo è uno scavo analitico funzionale allo studio e all’analisi della
storia, quello che sta fuori del loro spazio.

TERZO QUADRO STORIOGRAFICO

A questo periodo di formazione segue una fase più matura, in cui si inquadra il terzo quadro storiografico
(dal 1943-44 alla metà degli anni Sessanta). Le stesse scrittrici che negli anni ‘30 pubblicano le loro opere
di esordio, in questo periodo pubblicano invece le loro opere più mature e più importanti. C’è
un’ulteriore passo avanti nei movimenti femministi, si impone un nuovo femminismo a partire dagli Stati
Uniti. In questo periodo l’Italia subisce dei cambiamenti profondi, sono gli ultimi anni della Guerra,
segnati dalla Resistenza, molte speranze verranno disattese e deluse nel dopoguerra (questo lo
ritroviamo nella Ortese, che critica il gruppo intellettuale della rivista Sud, e parla della situazione di
stagnazione e di immobilità che permane nella società italiana e in quella napoletana in particolare). Si
verificano cambiamenti a livello civile nella società, vengono raggiunti alcuni degli obiettivi
dell’emancipazionismo, come il diritto al voto delle donne, il diritto allo studio, al lavoro. Sono anni di
evoluzione e modernizzazione della società, negli anni Cinquanta gli elettrodomestici agevolano
notevolmente le attività domestiche. Tra la seconda e la terza generazione di scrittrici ci sono elementi
di continuità, poiché continua il dialogo e la collaborazione con il ceto intellettuale maschile, ci sono
riviste in cui la collaborazione maschile e quella femminile sono sullo stesso piano. Permane il rapporto
con la storia, con la riflessione sulla storia recente, la Resistenza occupa uno spazio importante negli
scritti delle donne in questo periodo. Gli argomenti storici sono trattati come punto di partenza e di
riflessione su questioni che non sono solo questioni storiche, ma contribuiscono a connotare il contesto
storico. C’è il richiamo della tradizione del romanzo storico e molte scrittrici a questa tradizione fanno
riferimento nel trattare opere che sono una ricostruzione della loro vita. Ad esempio, la de Céspedes
scrive un’opera che rimane incompiuta, intitolata Con Gran Amor (2011), che vuol essere una
ricostruzione storica della storia di Cuba e della sua famiglia.

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ANNA MARIA ORTESE

La biografia non è mai soltanto un insieme di date ed elementi relativi ai luoghi che segnano la vita di un
autore, ma è una traccia importante per la genesi delle opere letterarie (non soltanto nelle
autobiografie).

Anna Maria Ortese (Roma 1914 – Rapallo 1998) è stata una scrittrice e giornalista che ha vissuto a pieno
il ventesimo secolo e che ha sviluppato la sua doppia competenza da autodidatta, ma anche una grande
osservatrice delle diverse realtà con cui si è confrontata nella sua vita. La sua è una scrittura molto acuta
e penetrante, che ha la capacità di cogliere l’essenza della realtà, andando oltre la superficie della realtà
e riuscendo a leggerla in maniera più approfondita.

È stata una scrittrice molto isolata, che non si è inserita nei circoli letterari e editoriali che contavano e
che garantivano protezione agli scrittori, ma spesso è stata emarginata e ostacolata da questi ambienti.
Questo isolamento lei lo attribuì al proprio carattere, dichiarando più volte nelle interviste di essere una
persona schiva e antipatica, che se ne infischiava degli ambienti che contavano, come i circoli letterari e
i salotti, e non è stata mai abile a sfruttare le occasioni pubbliche. La vita della Ortese è segnata da
un’esperienza continua di sradicamento, una condizione di perdita materiale, in quanto la sua esistenza
è stata marcata dalla povertà della sua famiglia d’origine e da lutti continui, che hanno condizionato il
suo rapporto con gli altri e con la scrittura.

In questa autrice c’è una tendenza all’autoanalisi, l’attenzione per tutto ciò che va al di là delle
apparenze. La Ortese ha guardato la realtà cercando di leggerla al di fuori delle proiezioni esterne e
provando a coglierne l’essenza. Questo fa sì che la sua sia una scrittura visionaria, che trascende l’aspetto
percepibile, e si indirizza a cogliere la natura nascosta delle cose. Oggi la critica ha rivalutato la sua figura,
che ha saputo praticare l’esperienza letteraria e quella giornalistica ad alti livelli, e ha saputo fornire
un’immagine fedele della realtà dell’Italia del secondo dopoguerra.

Figlia di Oreste Ortese, originario di Caltanissetta, funzionario di Prefettura, e di Beatrice Vaccà,


originaria di Napoli, discendente da una famiglia di scultori originari della Lunigiana, la scrittrice ha
cinque fratelli e una sorella, Maria, con la quale convivrà per tutta la vita. Ha un fratello gemello, Antonio,
con cui avrà un rapporto simbiotico. La sua, guardandola dalle origini, non si configura come una famiglia
povera, ma nasce come una famiglia borghese. Lei stessa, in più circostanze, ha dichiarato di avere origini
borghesi. Nel corso del tempo, le vicende familiari e della storia hanno contribuito a impoverire la
famiglia.

Infatti, nel 1915, suo padre è richiamato alle armi per lo scoppio della Prima guerra mondiale e la famiglia
si trasferisce prima in Puglia, in Basilicata, poi si traferisce a Tripoli, e infine a Portici, vicino Napoli. Anna
Maria condurrà una vita frenetica e vagabonda, spostandosi freneticamente da un posto all’altro e
cambiando 36 residenze in 10 città diverse nei suoi 84 anni di vita.

La tendenza alla fuga è un tratto caratteristico della personalità della Ortese. Alla fine del conflitto, nel
1919, la famiglia si riunisce a Potenza, dove il padre viene trasferito come funzionario governativo, e
resta qui fino al 1924. Qui Anna Maria frequenta le prime classi della scuola elementare, che continuerà
a Tripoli, dove la famiglia si trasferisce per tre anni. Questa esperienza in Libia mette Anna Maria in
contatto con la natura incontaminata di queste terre, legato ad uno spazio preistorico, un mondo poco

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segnato della storia. Si tratta di un momento positivo nella vita di Anna Maria, in quanto c’è una
condizione ideale per la sua infanzia.

Nel 1928 la famiglia ritorna a Napoli, dove Anna Maria frequenta per un breve periodo una scuola
commerciale, che abbandonerà poco dopo. La sua formazione scolastica si limita alle elementari e ad un
anno di scuola commerciale: non si è formata nei luoghi istituzionali, ma ha continuato in maniera
autonoma a studiare le altre letterature percorrendo una strada tutta sua e non regolamentata dall’alto.
Questo è un tratto comune a molti scrittori del ’900, che hanno avuto una formazione non tradizionale,
come Italo Svevo o Montale (formazione da autodidatta, con studi tecnici). Dopo aver lasciato la scuola
commerciale, A.M. si cimenta prima nel disegno, poi nel pianoforte, e pian piano si appassiona di
letteratura e scopre la sua vocazione di scrittrice. Continua a studiare leggendo i libri di testo dei fratelli
e aiutandoli nei compiti, completando le scuole in maniera privata, da autodidatta, senza frequentare
regolarmente una scuola. A casa viene considerata come una sorta di factotum che si occupa di scrivere
lettere, fare compiti, impara a scrivere a macchina, e vengono così gettate le fondamenta per quella che
sarà un’attività di scrittura praticata per sopravvivere, ossia il mestiere di dattilografa. Inoltre, ama
passeggiare per la città, passando intere giornate fuori casa, senza che nessuno glielo impedisse.

La Ortese è attratta dai libri e dalle riviste, e continua a leggere libri che celebrano l’epopea western
(indiani d’America), un riferimento costante per la Ortese: i nativi vengono considerati come una risorsa,
l’espressione di una natura non ancora condizionata dalla civiltà; per questo, una natura più autentica e
meno falsa. Il suo esordio narrativo fu, infatti, l’opera Pellerossa, racconto pubblicato su L’Italia letteraria
nel 1934 e poi racchiuso nella raccolta Angelici Dolori nel 1937. È inoltre vicina al mito del bon sauvage
di Rousseau, che considerava negativamente i processi di civilizzazione perché corrompono la bontà
originaria e ostacolano la natura. La Ortese guarda a questo mondo come a un mondo positivo. Oltre al
western, la Ortese legge Defoe, Jules Verne (romanzi d’avventura), Edgar Allan Poe, e si interessa al
romanzo popolare dell’800, in particolare a Hugo, Dumas, Dickens, Goethe, e si avvicina anche alla
letteratura russa (Dostoevskij, Cechov). L’itinerario di formazione della Ortese è un itinerario personale
che parte da questi classici e poi si sviluppa in maniera personale ed originale.

Nel gennaio del 1933 un evento traumatico segna l’esperienza familiare della Ortese: suo fratello
Emanuele muore precipitando mentre sistemava le vele della nave su cui era imbarcato al largo della
Martinica. La perdita dell'amato fratello le lascia un dolore cupo, uno smarrimento che la porta a
scrivere. La madre perderà anche il senno in seguito a questa tragedia: la Ortese la raffigura spesso come
una bambina incapace di intendere e di volere. Per lei invece, oltre a segnarla, questo evento da l’avvio
alla sua scrittura, segna uno spartiacque tra la vita d’infanzia e quella adulta. Scrivere assume un ruolo
catartico, diventa una strada per dare voce e sollievo al dolore, dando modo al dolore di sciogliersi sulla
pagina. Ne Il Porto di Toledo, un’autobiografia romanzata del 1975, l’autrice parla di questo dolore, un
impietramento che solo il mare della scrittura può sciogliere. La scrittura può calmare l’animo turbato e
rasserenare certe emozioni che finirebbero per distruggerci. La scrittura è, quindi, un elemento
catartico, per rendere il dolore più sopportabile. La scrittura ha la capacità di trasfigurare quella
sparizione della persona amata, di trasformare quell’immagine memoriale in un fantasma che acquista
nuova vita come personaggio di un’opera. Inoltre, la Ortese pone molta attenzione a tutti gli aspetti del
vivente, anche agli animali, che lei definisce “piccole persone”.

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Gli eventi massimi che stanno al di là dell’anima felice del mondo, di cui l’autrice parla nella sua opera,
sono il tempo, lo scorrere del tempo e lo svanire di tutto. La scrittura nasce per trovare sollievo dalla
morsa dolorosa che stringe l’anima. Il silenzio in cui si trova immerso chi subisce una perdita dolorosa,
come un macigno sulla sua anima, si scioglie nel momento in cui A.M. prende la penna, mette su carta i
suoi sentimenti e scrive una poesia per il fratello. La scrittura nasce quindi come valore terapeutico,
aiutando a trasformare il dolore in una possibilità di serenità con sé stessa e col mondo.

Il debutto della Ortese avviene dopo questo evento. Il trittico di poesie intitolato Emanuele appare sulla
rivista L'Italia letteraria nel 1933. Questa apparizione con le sue poesie sulla rivista fa conoscere la Ortese
al pubblico italiano come una giovane promessa della letteratura. Questo le dà la possibilità di
continuare a scrivere e pubblicare su questa rivista. L'anno successivo, sempre per la stessa rivista,
pubblica il primo racconto, Pellerossa, “dove è adombrato un tema fondamentale della mia vita: lo
sgomento delle grandi masse umane, della civiltà senza più spazi e innocenza, dei grandi recinti dove
saranno condotti gli uomini comuni". La Ortese scriverà una lettera alla direzione della rivista chiedendo
di pubblicare i racconti con uno pseudonimo, in quanto a casa, a causa dei racconti precedentemente
pubblicati, la prendono in giro. Nel 1937 l'editore Bompiani, dietro consiglio di Massimo Bontempelli,
pubblica alcuni racconti di Angelici dolori sotto il nome di Franca Nicosi. Approfondendo questa richiesta
di essere pubblicata sotto falso nome, si è scoperto come non fosse tanto il fatto che a casa la
prendevano in giro, quanto il fatto che quei racconti pubblicati sotto pseudonimo avevano una
componente autobiografica molto forte, poiché trattavano argomenti sentimentali con lei protagonista.

In questa fase della sua vita l’autrice inizia a sentire il bisogno di allontanarsi da Napoli, di partire e di
vedere altre realtà. In una lettera a Paola Masino del 1937 scrive “A casa, in questa Napoli, sento che
finirei con l’impazzire, col perdermi come in una palude.” È grazie alla Masino e a Bontempelli se nel
1938 riesce a lasciare Napoli e a relazionarsi con altre realtà. Il libro Angelici dolori viene accolto sia in
maniera positiva, sia in maniera negativa. Riceve due pesanti stroncature da parte di Enrico Falqui e
Giancarlo Vigorelli, che criticano fortemente i racconti della Ortese e secondo i quali “si tratta di uno di
quei casi clinici degni più dello studio dello psichiatra che della commiserazione del critico letterario”. Il
libro suscitò polemiche e interesse poiché si tratta di un libro atipico nel panorama culturale di questi
anni. C’è ancora, in questo periodo, l’onda lunga delle avanguardie, una letteratura che vuole rompere
con gli schemi tradizionali, c’è ancora una certa scia di dannunzianesimo, è presente una scrittura in
prosa segnata dall’esperienza della Ronda. La Ortese mostra con audacia e sfrontatezza i suoi sentimenti,
nonostante sia analfabeta e autodidatta, senza un’affermazione solida. Il contrasto che si evidenzia in
questo libro è tra la presentazione del personaggio e le strategie di rappresentazione dei suoi sentimenti,
ossia gli artifici retorici usati in questa raccolta. Si tratta di un personaggio di donna timida, problematica,
riservata, che mostra però con sfrontatezza i suoi sentimenti. Per quest’opera però la Ortese vince anche
un premio letterario, che le consente di aiutare la famiglia economicamente.

La scrittura diventa per Anna Maria la prima fonte di sostentamento: l’autrice ha dichiarato di essersi
sempre battuta per il problema della sussistenza. Per lei, la scrittura è diventata la via per
l’emancipazione, per riuscire a sopravvivere. Questa emancipazione non è stata facile poiché per l’uomo
essere scrittore, negli anni in cui ha iniziato, era un modo di vivere rispettoso; mentre per la donna era
diverso, tanto più al sud, dove le ragazze non erano attratte dalla scrittura. La sua passione per i libri e
la scrittura è percepita, negli ambienti del mezzogiorno, come qualcosa di strambo. Per tutta la vita, la

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Ortese si appoggerà alla sorella Maria, che lavorava alle poste, e il suo stipendio rappresentò per molti
anni l’unica entrata per le loro esistenze.

A Napoli, la Ortese inizia a frequentare i ragazzi del GUF (gruppi universitari fascisti), anche se non tutti
erano allineati al fascismo. Però, per chi vuole affacciarsi alla scrittura ed emergere, diventa un canale
obbligato. Il rapporto con questi gruppi è stimolante, perché anche in questo caso ha la possibilità di
scambi culturali. In questo modo, pur non essendo andata a scuola e all’università, la Ortese ha modo di
rapportarsi con le letture universitarie di questi giovani. Il rapporto con questi gruppi la mette a contatto
con una realtà prettamente maschile, anche se, essendo molto indipendente, la Ortese non presta
attenzione alle chiacchiere per la frequentazione di questi gruppi maschili.

Sempre nel 1937 un altro grave lutto colpisce la scrittrice: muore in Albania il fratello gemello Antonio,
marinaio (Tenente di Vascello) come Emanuele, pugnalato in circostanze poco chiare dal suo attendente.
Questa perdita segna ulteriormente A.M., che la descrive come una mutilazione, la perdita di una parte
di sé. Anche questo avvenimento contribuirà a renderla ancora più malinconica e autoriflessiva. Il
successo della raccolta Angelici dolori rappresenta un punto di svolta, perché grazie a quest’eco si passa
da una scrittura autoreferenziale (= pubblicata per sé stessa) a una scrittura come disegno progettuale
da realizzare per gli altri. Da questo momento in poi, scrivere è una risposta espressiva ad una necessità
interiore e diventa un mezzo di emancipazione culturale, grazie ai compensi ricevuti per ciò che scrive.

È grazie all’appoggio di Bontempelli che, dal 1938, la Ortese lascia Napoli e comincia a spostarsi in varie
città del Nord, tra cui Venezia. Massimo Bontempelli, che aveva mostrato indifferenza al progetto di
politicizzazione della cultura intrapreso dai fascisti, è condannato in esilio a Venezia. A casa sua e della
sua compagna (Paola Masino, scrittrice del ‘900), egli ospiterà anche la Ortese. A Venezia la Ortese trova
un lavoro come correttrice di bozze in un gazzettino veneziano, e qui scrive anche delle prose che
vengono pubblicate nella rivista. Per un certo periodo di tempo lavorerà anche all’ufficio stampa del
cinema: fa tutti quei lavori para-culturali, che hanno a che fare con la sfera della scrittura e che le
consentono di trovare dei mezzi di sostentamento.

In questo periodo è difficile seguire tutta la traiettoria degli spostamenti della Ortese: resta per un paio
di anni a Venezia, tornando ogni tanto a Napoli dalla famiglia. Comincia a sorgere quel meccanismo di
inquietudine e soddisfazione che le fa desiderare Napoli, ma quando ritorna non vede l’ora di
abbandonarla per trovare nuovi spazi di libertà, dimostrando di avere un rapporto contraddittorio con
la città di Napoli. Il soggiorno veneziano è interrotto dalla notizia che il padre è stato richiamato alle armi
(siamo all’inizio del secondo conflitto mondiale) e Anna Maria è costretta a tornare a Napoli, perché
sono venute meno tutte le forme di sostentamento.

Nel 1939 Anna Maria Ortese si reca a Trieste e partecipa ai Littoriali Femminili, competizioni artistiche,
culturali e sportive che venivano organizzate dal regime fascista a livello universitario. La Ortese non è
iscritta ai GUF in quanto non andrà mai all’università, ma partecipa in maniera irregolare ai concorsi
avendo conosciuto i giovani che ne fanno parte. Vince una competizione in poesia e arriva seconda per
la prosa. Anna Maria in rapporto entrerà in rapporto con i gruppi di intellettuali prettamente maschili,
ma è sempre stata indipendente, autonoma, non si cura delle critiche di coloro che la prendono in giro
per aver frequentato dei gruppi esclusivamente maschili.

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Vincendo i Littorali, la Ortese avrà la possibilità di collaborare con importanti riviste come Belvedere,
L'Ateneo veneto, Il Mattino, Il Messaggero e Il Corriere della sera. Il rapporto della scrittrice con il mondo
giornalistico è controverso: molte testate vogliono un prodotto confezionato in una certa maniera,
commissionano dei prodotti che devono obbedire a certi clichés di confezionamento e produzione
dell’opera. La Ortese prova fastidio ed insofferenza per questo modo di concepire la scrittura, sente che
nessuno di quei “cappellini già pronti” vada bene per la sua testa, come risponde in un’intervista. Questo
dimostra l’audacia nel rispondere ad un intervistatore allineato nell’editoria fascista. Emerge così quel
temperamento indipendente ed insofferente per le imposizioni dall’alto, che contribuiranno a renderla
in qualche modo isolata.

La Ortese partecipa anche ai Littoriali del 1940 a Bologna e vince anche quelli per quanto riguarda la
sezione della prosa, cerca anche di trovare un finanziamento grazie all’Accademia d’Italia, che elargiva
sovvenzioni e premi che consentivano a molti intellettuali di poter sopravvivere. Molti intellettuali, in
epoca fascista, ricevono finanziamenti pubblici per realizzare opere e progetti. La Ortese riesce ad
ottenere un premio d’incoraggiamento di circa 3000 lire, destinato agli intellettuali più poveri e meno
conosciuti.

È stato possibile ricostruire gli itinerari di spostamenti della Ortese grazie alle sue lettere e ai francobolli
utilizzati. Dal 1942 al 1945 la Ortese si sposta in diversi luoghi, spesso con la famiglia al seguito.

La scrittrice si trasferisce in una casa che si affaccia sul porto di Napoli, molto spesso menzionata nelle
sue opere, soprattutto nel romanzo autobiografico Il Porto di Toledo. A Napoli la Ortese si scontra con
una realtà di violenza e povertà. La scrittrice ha dichiarato di aver vissuto l’esperienza napoletana come
un inferno che ha provocato lo sfaldamento della famiglia. Da questa realtà i fratelli sono spinti a fuggire
man mano che terminano gli studi; di fatto, tre dei suoi fratelli si imbarcano per mare dopo la scuola.
Questo appartamento al porto viene descritto nel romanzo autobiografico Il porto di Toledo. Questa
casa era situata all'ultimo piano della Via del filiero, che oggi non esiste più. In quest’opera, sia i nomi
dei personaggi che dei luoghi sono alterati; quindi, pur essendo un romanzo autobiografico, i
protagonisti hanno nomi differenti (anche se sono facilmente riconoscibili). In questa casa affacciata sul
porto la famiglia resta fino al dicembre 1942, quando iniziano i bombardamenti del porto da parte degli
alleati e quella zona della città viene bombardata pesantemente, motivo per cui la famiglia è costretta
ad abbandonare l’abitazione.

Nel 1943 è a Roma, dove trova un impiego temporaneo, poi ritorna a Venezia e a Napoli. Si tratta di un
periodo molto buio per Napoli, continuamente bombardata, mentre gli alleati risalgono dalla Sicilia,
toccando varie città e arrivando infine a Napoli. Qui aumenta la miseria, la povertà, la delinquenza, la
prostituzione, le malattie. La Ortese inizia a scrivere nella rivista del GUF napoletano, 9 maggio, su cui
pubblica vari testi. Viene accettata all’interno del GUF perché è noto ormai il caso letterario scatenato
da Angelici dolori. Un ritorno più stabile a Napoli la Ortese lo fa dal 1945 con la fine della guerra, e in
questo periodo frequenta la casa di Benedetto Croce, in cui si trattiene a scrive spesso negli studi. Verso
la fine della guerra, la Ortese matura una coscienza politica e aderisce al partito comunista. Considera le
guerre come eventi catastrofici, ha sperimentato sulla sua pelle cosa significa vivere durante la guerra.
Riguardo questo periodo, ha raccontato a Dacia Maraini di essere tornata a Napoli in tempo per
affrontare lo sfratto, l’esodo, i bombardamenti, la fame. Quindi, sceglie di schierarsi al fianco dei
comunisti perché, nel clima di rovina generato dal fascismo, individua su quel fronte un’alternativa.

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Il mito del comunismo per la Ortese crolla però nel momento in cui si reca in Russia e si rende conto
delle condizioni di vita della popolazione russa.

In queste condizioni di miseria e povertà della città, la Ortese decide di far valere le sue competenze
professionali e di tentare la strada del giornalismo in maniera più assidua. Riprende così a viaggiare, a
spostarsi in varie città d’Italia, soprattutto quelle che rappresentano il cuore pulsante dell’editoria
italiana. Il rapporto tra la Ortese e giornalismo nascerà quindi per necessità economica, poiché fa dei
lavori che la aiuteranno a mantenersi. La mattina scrive per sé stessa scritti creativi, mentre il pomeriggio
lavora come dattilografa.

In questo periodo la Ortese alterna soggiorni a Napoli e in altre città, come Roma, Milano e Trieste. Torna
a Roma nel 1947, dove frequenta la sfera della società letteraria romana. Di questa cerchia culturale la
Ortese fa un ritratto critico nello scritto Roma la capitale, dove ritrae molti personaggi di questi ambienti
culturali. Frequenta soprattutto il salotto di Maria Bellonci, che assieme al marito è fondatrice del Premio
Strega, in cui si raduna l’intellighenzia romana. Qui conosce anche Alberto Moravia, con cui non avrà
mai un grande feeling, ed Elsa Morante.

Questi frequenti spostamenti sono indicativi di una caratteristica della scrittrice, che è mossa da una
forma di ipercinesi patologica, non riesce a stare ferma da nessuna parte. Di fatto, dopo essere arrivata
in un posto, poche ore dopo risale su un treno per allontanarsene, perché quella realtà la disturba.
Questi spostamenti sono il riflesso di un’inquietudine interiore della scrittrice, che cerca disperatamente
la sua strada, un’affermazione come scrittrice, ma non riesce in nessun luogo a trovare un ambiente
favorevole alla sua espressione artistica. Per un certo periodo sogna anche di lasciare l’Italia e andare
negli Stati Uniti, chiede anche raccomandazioni per trovare un appoggio e un lavoro negli Stati Uniti, ma
questi progetti non si concretizzeranno mai.

Dopo questi continui spostamenti la Ortese torna a Napoli, dove comincia a frequentare gli esponenti
della rivista Sud, pubblicata dal 1945 al 1947. Il dopoguerra è un periodo di liberazione, in quanto, per
svecchiare questo clima asfittico del fascismo, viene incoraggiato il rapporto con le letterature europee.
Nel dopoguerra nasceranno anche molte riviste, tra cui Sud, diretta da Pasquale Prunas, di origine sarda,
accanto a giovani scrittori come Luigi Compagnone e Raffaele La Capria. La Ortese sarà molto critica nei
confronti di questo ambiente intellettuale, e per questo sarà allontanata.

Nell’ambiente culturale napoletano e milanese, maturano i racconti e i reportage giornalistici della


Ortese, che vengono pubblicati in questi anni su diverse testate e che confluiscono nel volume Il Mare
non bagna Napoli. La Ortese finirà per allontanarsi da Napoli, almeno fisicamente, poiché non finirà mai
di ricordare la città, come testimonieranno due libri scritti molti anni più tardi: Il porto di Toledo (1975)
e Il Cardillo addolorato (1993). Dopo la raccolta del 1953, inizia dunque per la scrittrice un periodo molto
sofferto e problematico, d'emarginazione e di strisciante ostracismo, a causa delle sue posizioni critiche
nei confronti del mondo intellettuale e culturale dell'Italia dell'epoca.

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LA RELAZIONE DELLA ORTESE CON IL GRUPPO “SUD”

Sud è una delle riviste sorte nel secondo dopoguerra. Queste riviste sorgono in un clima di nuova libertà
e di democrazia, dopo anni di soggezione al regime fascista. Queste riviste del secondo dopoguerra
hanno in comune una volontà di innovamento della cultura, il desiderio di superare il periodo
oscurantista appena trascorso (il fascismo). Durante il regime, la cultura era rigidamente organizzata e
la censura era forte, in cui si sosteneva la supremazia della letteratura italiana sulle letterature straniere.
Nel dopoguerra si affacciano nuove prospettive critiche, viene ripresa la lezione del marxismo, si afferma
la psicanalisi e nasce la critica psicoanalitica, c’è anche un grande sviluppo industriale. Invece, in materia
letteraria, si sente l’influenza delle culture straniere (quella americana in particolare, con riferimento al
cosiddetto “sogno americano”) e viene anche recuperato l’esistenzialismo di Sartre.

Tra il 1945–1950, nascono una serie di riviste che condividono la volontà di un’apertura intellettuale,
un’apertura della cultura alle spinte della modernità e ad un confronto aperto con la realtà. Sono anche
gli anni del “neorealismo”. Le riviste di maggiore rilievo in questi anni sono:

• Mercurio di Alba de Céspedes (pubblicata dal 1944 al 1948), una rivista di letteratura, politica, cultura
e arte diretta da una donna che ospita contributi di personaggi appartenenti a orientamenti politici
diversi;
• la rivista Retusa (pubblicata dal 1944 al 1946);
• la Rinascita di Togliatti (pubblicata dal 1944 al 1990);
• il Politecnico di Vittorini (pubblicata dal 1945 al 1947), dove c’è una grande contaminazione tra
sapere letterario e sapere scientifico.

Quindi, Sud è una delle tante riviste sorte in questo periodo (pubblicata dal novembre 1945 al settembre
1947) ed è una rivista importante per la crescita intellettuale della Ortese. La rivista era diretta da
Pasquale Prunas e raccoglieva attorno a sé molti intellettuali napoletani (molti di questi già si
conoscevano poiché avevano scritto sulla rivista del GUF, 9 maggio, a cui collaborò anche la Ortese). Il
gruppo della rivista è molto vivace e si riunisce nel collegio militare della “Nunziatella” (di cui il padre di
Prunas era preside). Oltre a questa sede, i collaboratori si riuniscono nelle case dei membri del gruppo,
soprattutto in casa di Luigi Compagnone (giornalista celebre presso il Tempo, La Repubblica, Il Resto del
Carlino). Del gruppo Sud fanno parte Domenico Rea (scrittore consacrato alla realtà napoletana),
Raffaele La Capria, Francesco Rosi, Vasco Pratolini (scrittore toscano, motivo per cui la Ortese non lo
include nella sua inchiesta).

Di questa rivista vengono pubblicati solo una decina di numeri, che riguardano vari argomenti (politica,
letteratura, cinema, traduzioni di poeti inglesi e francesi). C’è una grande volontà di aprirsi al mondo
esterno e di confrontarsi con il mondo della politica, di ricostruire l’Italia politicamente e culturalmente,
ma anche un grande fermento per le traduzioni (ad esempio, dopo il rinnegamento delle letterature
straniere durante il fascismo, nel dopoguerra questi giornalisti si dedicano alle traduzioni per diffondere
le letterature straniere). Anche la Ortese viene invitata a tradurre delle opere straniere, ma si rifiuta in
virtù delle sue scarse conoscenze linguistiche. Il lavoro di traduttore può essere un modo per sostenersi
economicamente: molti autori e intellettuali percorrono questa strada (es: Cesare Pavese), anche per
ampliare le proprie vedute. La Ortese descrive questo gruppo come un gruppo promotore di una nuova
cultura contro la “vecchia” che aveva cullato Napoli in uno stato di “blocco” culturale.

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Come afferma la Ortese, per la prima volta questo gruppo guardava Napoli “nelle sue crepe” e criticava
anche il linguaggio corrente con cui la città veniva descritta (ossia le immagini stereotipate che
circondavano Napoli e che la rendevano una specie di “cartolina” sentimentale). I borghesi venivano
rappresentato come dei “morti”, ossia come una classe sociale inerte. Gli intellettuali di Sud vogliono
promuovere un rapporto tra la cultura napoletana e quella italiana ed europea: per loro, fare letteratura
significa assolvere ad un dovere sociale (la letteratura ha una caratterizzazione di tipo etico, non solo
estetico). La cultura proposta si confronta con la realtà sociale e politica e deve avere una funzione
educatrice. Il messaggio culturale di questo gruppo si rivolge ad un pubblico molto ampio: la loro
letteratura vuole rivolgersi a tutte le classi sociali, poiché tutte le classi hanno la necessità di confrontarsi
con la realtà e di essere educate. Quest’esperienza con il gruppo è fondamentale per la Ortese.

Tra l’esperienza col gruppo Sud e la redazione de Il mare non bagna Napoli si interpone l’esperienza
milanese della Ortese (dal 1948 al 1950). La Ortese si trasferisce a Milano con la sorella Maria, notando
una realtà molto diversa da quella napoletana. Nella realtà milanese (realtà imprenditoriale) vi è meno
calore e meno sensibilità rispetto a quella napoletana, non c’è spazio per i sentimenti di umanità e di
pietà nei confronti dell’altro. La realtà milanese filtra ne La lente scura e nella raccolta Silenzio a Milano.
Però, Milano rappresenta una svolta per la carriera giornalistica dell’autrice. Qui collabora con Milano
sera, su cui pubblica 33 articoli e molti racconti (poi raggruppati nella raccolta L’Infanta sepolta del
1950). A partire dal 1950, il suo nome inizia a comparire sull’Unità, dove firma una rubrica destinata alla
pagina della donna, ossia una rubrica di posta con i lettori, prima chiamata “Anna Maria Ortese vi
risponde” e successivamente “La posta di Anna Maria”. Dal 1951, comincia a pubblicare sul settimanale
dell’Unione donne italiane, chiamato Noi donne. Collabora anche con L’europeo, per cui scrive dei pezzi
che sono una riscrittura romanzata di fatti di cronaca realmente successi (specie di cronaca rosa). Per
esempio, riscrive la storia d’amore tra Wallis Simpson e il principe Edoardo VII di Inghilterra. Nel 1954,
la Ortese viene lanciata da L’europeo come reporter internazionale.

IL MARE NON BAGNA NAPOLI


La collaborazione con la stampa milanese diventa un trampolino di lancio: riesce a farsi conoscere e a
pubblicare per testate nazionali sempre più importanti, tra cui ricordiamo la collaborazione con Il Mondo
(fondato da Mario Pannunzio). Tra il 1951 e il 1965 la Ortese pubblica 25 pezzi su questo giornale. Il
primo pezzo qui pubblicato è “Un paio di occhiali” (che apre Il mare non bagna Napoli); questo racconto
era però già stato pubblicato sulla rivista “Omnibus” con un titolo diverso (“Ottomila lire per gli occhi di
Eugenia”) e in modalità diversa (in due puntate). Molti racconti e articoli per Il Mondo vengono poi
ripubblicati in volume. Per esempio, il terzo racconto de Il mare non bagna Napoli, “Oro a Forcella”, era
già stato pubblicato su Il Mondo con il titolo “La plebe regina”. Inoltre, vi pubblica anche “La città
involontaria” (il quarto racconto de Il mare non bagna Napoli), ma sul Mondo, il racconto appare in due
puntate (“La città involontaria” e “L’orrore di vivere”). Dal 1938 al 1953 la Ortese pubblica sul Mondo (e
anche su altre testate) tre tipologie di scritti (i confini tra queste tipologie sono abbastanza morbidi):

• Racconti fantastici, ossia racconti di tipo astratto, che non hanno agganci con la realtà;
• Racconti semi-fantastici, ossia racconti fantastici che descrivono comunque ambienti e
personaggi concreti;
• Racconti realistici, che fanno riferimento a realtà molto concrete.
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I racconti de Il mare non bagna Napoli si agganciano all’ultima tipologia di scritti (quelli realistici). La
prima differenza tra Angelici dolori e Il mare non bagna Napoli riguarda la natura dei personaggi: in
Angelici dolori i personaggi sono delle figure stilizzate ed eteree; mentre ne Il mare non bagna Napoli i
personaggi sono concreti e realistici (troviamo figure del sottoproletariato urbano e personaggi
ripugnanti).

L’idea de Il mare non bagna Napoli nasce a partire dagli scritti-racconti pubblicati su Il Mondo. Per questi
racconti, la scrittrice aveva vinto nel 1952 un premio giornalistico (“Premio Saint-Vincent”), attirando
anche l’attenzione dell’allora presidente della Repubblica Luigi Einaudi che si adopera per aiutare la
Ortese, facendola ospitare ad Ivrea presso Olivetti. Ad Ivrea, la Ortese termina proprio il volume Il mare
non bagna Napoli (paradosso: la Ortese termina il “quadro” stando a distanza con gli occhi della mente,
ossia quegli occhi per i quali passa il ragionamento e che si attivano meglio stando a distanza dal quadro
per averne una visione di insieme). A Torino, procede poi alla sistemazione del lavoro.

Questo libro parla della condizione di Napoli nel secondo dopoguerra, in cui riaffiorano in maniera molto
forte problemi e contraddizioni che risalgono a molto tempo prima della pubblicazione. La guerra e la
condizione di miseria che quest’ultima provoca sono il portato di una tradizione secolare di arretratezza,
condizione di tutto il Mezzogiorno nel secondo dopoguerra.
Quest’opera racchiude cinque testi. I primi due scritti sono racconti di tipo letterario, il terzo e il quarto
tendono verso il genere del reportage giornalistico, mentre l’ultimo è uno scritto, Il silenzio della ragione,
che mescola reportage e inchiesta giornalistica.
Questo libro in qualche modo nasce da un suggerimento di Elio Vittorini. Sotto invito di Prunas, Vittorini
legge sul “Mondo” gli articoli della Ortese, in particolare un pezzo sui granili.

I Granili erano un palazzo di Napoli che si trovava in prossimità del porto, un casermone costruito come
deposito di granaglie e derrate alimentari. Questo edificio è adibito nel corso dei secoli a usi diversi e nel
1943 viene bombardato dagli alleati ma non distrutto completamente. In questo edificio bombardato e
fatiscente vanno a vivere molte famiglie che erano rimaste senza un tetto a seguito dei bombardamenti.
È un luogo in cui si respira e si vive la miseria della realtà napoletana della guerra e del dopoguerra, un
edificio in cui emergono le contraddizioni sociali della società napoletana, che diventa un rifugio per i
senzatetto. In questo scritto sui Granili, pubblicato su Il mondo, si sofferma a descrivere la realtà di questi
bassifondi e la vita degradata, recandovisi personalmente. Poco dopo l’uscita del libro della Ortese
(1953) l’edificio fu demolito e le famiglie trasferite in abitazioni popolari alla periferia di Napoli.

Vittorini lesse questo pezzo, La città involontaria, e rimase colpito dalla capacità di penetrazione della
Ortese, nella capacità di esprimere quella realtà. Perciò chiese proprio alla Ortese di provare a descrivere
i vari aspetti della sua città, di continuare quest'opera di descrizione e di analisi della società partenopea.
Dopo questa richiesta, la Ortese scrive un racconto sulla piccola borghesia, ossia Interno familiare, e
rivela a Vittorini l’intenzione di scriverne un altro a proposito sugli intellettuali, ossia Il silenzio della
ragione. Il progetto della Ortese ben si raccorda col progetto editoriale di Vittorini, che voleva “costruire”
attraverso la sua collana una cronaca del tempo portata avanti da scrittori diversi. Nel febbraio del 1953
il libro è concluso e viene pubblicato nel giugno dello stesso anno dall’editore Einaudi per la collana
diretta da Vittorini “I Gettoni”. Vittorini è soddisfatto del lavoro della Ortese e trova interessante lo
scritto sui lettorati napoletani (Il silenzio della ragione).

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Il titolo della raccolta viene suggerito all’Ortese- dall’esperienza con il gruppo Sud (era un modo di dire
spesso usato da Prunas e già nel 1946 Gianni Scognamiglio inizia una sua poesia con i versi “io me ne
vado per sempre da questa città, ove il mare è scomparso”). Questo titolo è particolarmente caro alla
scrittrice, che pubblica anche altri scritti con lo stesso titolo: per esempio ne La lente scura (pag. 407)
troviamo un articolo pubblicato su Milano sera nel 1950 che si intitola proprio Il mare non bagna Napoli.
Questo articolo parla di un'occasione mondana, cioè delle nozze della figlia dell'armatore napoletano
Achille Lauro. I novelli sposi partono alla volta di Capri, dove passeranno la luna di miele. Da qui il
discorso slitta e si focalizza sulla realtà napoletana, e per spiegare questo concetto che il mare non bagna
Napoli la Ortese scrive: “Qui a Capri come il mare le altre isole sono distribuite solo in dose minima alla
popolazione”, spiegando che la popolazione napoletana ha accesso in maniera sporadica e occasionale
a questa esperienza di divertimento.

Il mare che non bagna Napoli è il mare che non è accessibile alla totalità della popolazione, è l’elemento
che consente di discriminare fra una plebe attanagliata dal bisogno e dalla povertà che non ha accesso
al mare e l’alta società che può recarsi a Capri per puro divertimento. Questo titolo rinvia quindi al fatto
che Napoli non ha una società omogenea, ma è fondata su grandi disuguaglianze sociali.

Il titolo de Il mare non bagna Napoli è diventato col tempo una forma paradigmatica per rappresentare
la realtà napoletana. È una formulata largamente impiegata da scrittori, intellettuali e storici per definire
la condizione di Napoli, ma è anche una specie di paradosso, perché il libro è stato spesso accusato di
fornire una rappresentazione “falsa” della realtà, benché sia un titolo che va ben oltre la congiunzione
storica. Infatti, il titolo ha finito per rappresentare una realtà che va oltre i confini storici (ecco perché è
stato ampliamente impiegato da scrittori, storici, intellettuali). È un titolo che va oltre i confini della
realtà, mettendoli in crisi (mette in dubbio la realtà oggettiva del mare che bagna effettivamente Napoli);
il titolo segna anche una rottura contro la rappresentazione tradizionale di Napoli (una Napoli
rappresentata come cliché dal mare, dal Vesuvio, etc.). Sin dal titolo, la Ortese lancia un avvertimento al
lettore: lei non vuole esplorare topografie convenzionali (secondo stereotipi e cliché) e scontate; lo
sguardo della Ortese è quello del poeta, ossia colui che sa andare oltre le apparenze delle cose. Si mette
in luce una realtà diversa da quella che osserverebbe l’uomo comune: la scrittrice ha, invece, un occhio
più sensibile che percepisce realtà intelligibili non visibili dalla maggior parte delle persone. Già il titolo
è emblematico, poiché si intuisce la volontà di fornire al lettore uno sguardo diverso.
La Ortese scrive due volumi di impronta autobiografica: Poveri e semplici (1967) (che porta la Ortese a
vincere il “Premio Strega”) e Il cappello piumato (1979), che ci offrono anche le coordinate per
comprendere come si snoda la carriera dell’Ortese.

Attraverso la scelta di questo titolo, l’autrice vuole dire al lettore che all’interno del libro non
rappresenterà la Napoli del folklore, legata agli stereotipi del sole e del mare, ma quella che non si vede
e non si vuole vedere. La Ortese è colei che riesce a penetrare, con una lucidità maggiore rispetto
all’osservatore comune, ciò che le sta davanti agli occhi. L’osservatore comune si ferma sulla superficie
delle cose, mentre il poeta è colui che ha una visione più acuta, che riesce a vedere più in profondità.

Il mondo portato alla luce dalla Ortese è un mondo sconosciuto alla nazione, un mondo di cui nel resto
d'Italia non si ha notizia, è il mondo della plebe napoletana che vive in una condizione di povertà e
indigenza, in luoghi in cui mancano anche i requisiti più elementari del vivere (es. i granili).

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Il mare non bagna Napoli è un testo letterario, composto da tipologie di scritti differenti, e in un testo
letterario normalmente agiscono due prerogative:

➢ da una parte agisce un’assenza di verità (poiché si basa sulla finzione);


➢ dall’altra la produzione di verità. Da quell’assenza di verità, il testo letterario riesce a produrre una
verità.

Tutti i testi hanno in comune questa produzione di verità che scaturisce da racconti inventati. Oltre al
titolo, altri indizi presenti nel libro ne attestano la dimensione narrativa e non saggistica. Ad esempio,
vediamo come la Ortese non ha fornito una descrizione esatta di cose e di persone, non fa riferimento
a statistiche e a dati oggettivi raccolti, non ha l’intenzione di sviluppare delle teorie dall’osservazione di
questi dati. L’autrice ha inventato a partire da una base realistica, che non stravolge la realtà ma che vi
si inserisce.

Nel racconto La città involontaria, il quarto della raccolta, l’autrice afferma in maniera esplicita (tra pag.
74 e 75 del libro) che non ha fatto riferimento a dati espliciti o statistiche, ma sottolinea esplicitamente
che tali dati non possono rendere conto dell’orrore e della miseria. Per cogliere l’orrore di quello
scenario di degradazione, è necessario trovare un sentimento morale di rivolta. Il rifiuto morale della
disumanizzazione non passa per un approccio tecnico, ma per un approccio umano, che passa attraverso
la sensibilità.

Pur essendo inventati, i personaggi della raccolta sono portatori di verità. Tuttavia, la Ortese fu accusata
di aver fornito una falsa testimonianza della realtà napoletana: furono i cittadini stessi a ribellarsi,
soprattutto il ceto intellettuale, che fu toccato dall’ultimo reportage della Ortese.

Di questo gruppo di intellettuali, che ruotava attorno alla rivista Sud, la Ortese ne analizzò le
contraddizioni. L’esperienza di Sud è un momento di infervoramento, propositi, rinascita, rivalutazione
del ruolo dell’intellettuale. Durante tutto il dopoguerra ci sono grandi aspettative, si pensa che
finalmente si potrà dar vita a una società liberale e democratica, come se magicamente tutte le questioni
irrisolte saranno risolte. Ben presto, però, subentrerà una delusione perché quelle aspettative non
trovano riscontro nella realtà del dopoguerra.

Ne Il silenzio della ragione, la Ortese racconta queste attese e speranze e le disillusioni che vi seguono
da parte del gruppo di intellettuali, di cui facevano parte giovani scrittori napoletani: il direttore Pasquale
Prunas e poi altri scrittori, come Michele Prisco, Domenico Rea, Raffaele Lacapria. Questi intellettuali
avevano tentato di dar vita a una cultura nuova, capace di sollevare la città di Napoli dal secolare
immobilismo in cui si trovava immersa e la Ortese insiste più volte nei suoi scritti su questa natura della
città di Napoli. Risentiti di essere rappresentati con nome, cognome e caratteristiche all’interno di
questo reportage, gli intellettuali misero in dubbio la veridicità della rappresentazione della Ortese,
escludendola dalla realtà intellettuale napoletana. La Ortese, in seguito a questa vicenda, sceglie una
forma di autoisolamento, quasi di esilio. Di fatto, lascia per sempre la città di Napoli, in cui ritorna
sporadicamente e per brevissimi soggiorni, come se fosse stata trattata come un’amante delusa.
L'autrice, a partire da allora, non ritornerà più sulla realtà napoletana in maniera realistica, ma deciderà
di descrivere i luoghi napoletani in cui ha vissuto in maniera astratta e indefinita, quasi fossero
immaginari. Ad esempio, nell’autobiografia romanzata Il porto di Toledo, la città di Toledo è in realtà
Napoli, e il sottotitolo dell’opera è Ricordi di vita irreale.

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Napoli è presente anche ne Il Cardillo addolorato, rappresentata sempre in maniera irrealistica. È come
se la scrittrice abbia deciso, in questo modo, di difendersi preventivamente da nuove accuse di
menzogna.

La Ortese dice che la sua scrittura in questo libro ha un che di esaltato e febbrile, tende a toni di
allucinazione, quasi in ogni punto della pagina presenta un senso di eccessivo e segni di una nevrosi
riconducibile alla sua autrice. La rappresentazione della realtà è quindi filtrata dal suo stato di
esaltazione e di agitazione e l’opera appare come uno schermo non proprio inventato su cui lei ha
proiettato questo senso di doloroso spaesamento che provava, una condizione soggettiva di disagio e
nevrosi. Questa è quindi una lettura condizionata dallo sguardo dell’occhio che si ferma su quella realtà,
dalla sua soggettività che in quel momento è spaesata e sofferente.

La Ortese a riguardo ha dichiarato di aver avvertito una profonda irritazione contro il reale, un senso di
disaccordo e spaesamento con la realtà. Questa Napoli e la condizione che descrive diventano l’emblema
di una condizione universale: questo disagio del vivere rappresentato è una condizione non solo sociale,
ma esistenziale, che coinvolge l’intera forma del vivere.

Napoli diventa metafora della travagliata condizione umana e del suo stato di precarietà. Non c’è nella
Ortese, però, una volontà di indugiare sullo stato di cose, ma c’è sempre la voglia di trovare una via di
riscatto rispetto a questa realtà negativa. Quindi nello sguardo dell’autrice non c’è una condiscendenza
rassegnata, ma la volontà di denunciare questa condizione umana per cercare di individuare delle
soluzioni a questo male.

Negli ultimi anni della sua vita, la Ortese viene riabilitata e riconosciuta come scrittrice importante, e
vengono ripubblicate alcune sue opere, tra cui Il mare non bagna Napoli. Nell’aprile del 1994, con la
riedizione del libro, la Ortese decise di aggiungere una prefazione come una sorta di autocommento al
libro e una giustificazione di ciò che ha fatto e scritto, ossia per aver fatto passare il libro come un’offesa
contro Napoli. All’opera sono state aggiunte una prefazione, intitolata “Il mare come spaesamento” e
una postfazione chiamata “Le giacchette grigie di Monte di Dio”, scritta in omaggio al gruppo Sud, che
più si è offeso per l’opera. In tali testi si vede come la penna della Ortese si muova sotto il peso delle
mortificazioni che ha subito negli anni, una sorta di autocritica che contiene anche una sorta di
autosmentita. È come se la Ortese prima riconoscesse di aver sbagliato, ma in seguito si tirasse indietro,
chiedendosi ancora se ha davvero sbagliato.

ANALISI DELLA PREFAZIONE: IL MARE COME SPAESAMENTO

La prima considerazione fatta dalla Ortese riguarda la scrittura, poiché nella scrittura c'è la sola chiave
di lettura di un testo, e la traccia di una sua eventuale verità. La Ortese si focalizza sulla scrittura che
appare ne Il mare non bagna Napoli: non è una scrittura pacata, con un tono medio, bensì è una scrittura
“febbrile, accalorata, compulsiva”, tende ai toni alti. Il termine “allucinato” viene usato come un
sinonimo di “confusione della vista”. Riferita alla scrittura, l’allucinazione dà come risultato uno
straniamento, ottenuto mediante lo spostamento del punto di vista al di fuori della rappresentazione
mimetica, all’esterno del quadro. Lo straniamento si può notare anche nei Malavoglia di Verga, che
consiste nel far sembrare strano ciò che è normale e normale ciò che non lo è. Lo sguardo che
rappresenta la realtà è uno sguardo che la osserva dall’esterno.

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Secondo la Ortese, la sua nevrosi non ha delle motivazioni legate alla realtà contingente, ma è una
nevrosi che ha un’origine “metafisica”, cioè che riguarda i principi essenziali della realtà. La conoscenza
teoretica della realtà ha delle caratteristiche di conoscenza assoluta: la metafisica è ciò che sta a monte
alle cause. È come se la scrittrice stesse analizzando le cause che abbiano determinato quel tipo di
scrittura. Il meccanismo di distruzione che sta a monte ha però un’aggravante portata dall’esperienza
storica contingente che ha vissuto, in particolare la guerra, momento che ha esacerbato l’irritazione
contro il reale dell’autrice. Napoli, oggetto della rappresentazione, è la proiezione della sua nevrosi,
quella nevrosi che le ha impedito di vedere anche le risorse della città. La Ortese si sente priva di radici,
è stata protagonista di lunghe peregrinazioni. Questo spaesamento è una situazione che apparteneva
all’occhio che osservava quella realtà.

La Ortese comprende che il libro che ha scritto era solo uno schermo, non proprio inventato, su cui si
proiettava questa nevrosi e questo sentimento di spaesamento. Alla fine della prefazione si rammarica
del fatto che Napoli si sia sentita offesa, ma non rinnega in nessun modo il suo libro, pur giustificandosi.
Questa logica contraddittoria la troviamo anche nella postfazione.

ANALISI DELLA POSTFAZIONE: LE GIACCHETTE GRIGIE DI MONTE DI DIO

Anche qui la Ortese esprime affetto e compassione per la giovinezza ormai andata e finisce col ribadire
che l’analisi da lei effettuata era veritiera.

Le giacchette grigie erano quelle indossate dai membri della rivista Sud, come specificato dalla Ortese
all’interno del testo. La scelta del titolo non è mai casuale, ma studiata e ponderata, che mette
drasticamente in evidenza un conflitto.

“Ora, tutto è pace, laggiù” (pag. 173) → Vuol dire che i fermenti intellettuali sono spenti. Quel gruppo
ha avuto il merito, che la Ortese gli riconosce, di aver voluto progettare un mondo diverso, utopico.
Quelle aspirazioni poi si sono spente a contatto con la realtà, però la Ortese è grata a quel gruppo per
aver acceso in lei quegli ideali utopici. Alcune nozioni, come “l’intollerabilità del reale”, erano state già
presentate nell’introduzione e nella prefazione (come il riferimento alla metafisica). L’angoscia
dell’inconcepibile deriva dalla lettura di Edgar Allan Poe: la Ortese afferma che scrive il suo primo libro
sulla scia delle opere di questo autore.

“Nel secondo libro di racconti […] c'era stato, accanto a me, Pasquale Prunas.” (pag. 174) → Pasquale
Prunas viene indicato come colui che ha messo in evidenza questa realtà abnorme della Napoli di allora.
Questa non era una visione solo sua, ma era innescata dalle riflessioni e da un certo modo di osservare
le cose che le ha consentito di illuminarlo e metterlo a fuoco in maniera precisa. Ciò che la Ortese ricorda
ancora del dopoguerra sono tutte quelle frequentazioni del periodo della giovinezza, gli ideali di un
gruppo che, all’indomani della guerra, dopo aver visto le macerie della storia, spera di poter ricostruire
un mondo diverso. Queste speranze, per molti intellettuali, naufragheranno, ma per tutti loro resterà
vivo questo sogno.

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La Ortese ribadisce di essere stata condizionata a compiere quel lavoro di indagine dagli intellettuali che
gravitavano attorno al gruppo Sud, che l’hanno poi accusata. Anche la modalità di rappresentazione di
questo scorcio di realtà napoletana prende corpo all’interno di quel gruppo. Quella visione
dell’intollerabile viene scelta in base alla decisione del direttore del giornale. Questi intellettuali si
caratterizzano per una forma di modestia, soprattutto intellettuale (che si fonda sulla religione dei libri,
sul valore che viene assegnato alla cultura). L’ideologia di questo gruppo viene descritta come
un’ideologia non dai toni accesi, caratterizzata non dal rosso o dal blu delle nuove divisioni italiane, ma
da questo tono grigio, anche se puntava comunque a una rinnovamento della città. Il libro della Ortese
nasce quindi dalle sollecitazioni che lei ha ricevuto nel gruppo, chiamando in causa il direttore della
rivista, che ha condizionato la misura della scrittura e la rappresentazione visiva molto forte, che lei
ascrive all’influenza di Prunas.

“E dopo? Dopo venne il tempo di partire” (pag. 175) → La fine di quel tempo è segnata da uno “stacco”
tipografico, in cui viene ricordata l’ultima sera. Qui c’è l’immagine di Prunas che si ritrova solo, perché
gli altri intellettuali si sono allontanati e sono andati via, e la Ortese immagina cosa possa aver pensato
il capo di Sud. La tensione ipotetica di questa immaginazione viene scandita e sottolineata a più riprese,
grazie ai vari “forse” che la Ortese usa nella conclusione.

__________________________________________________________

La scrittrice cerca in qualche modo di giustificarsi, di scusarsi per aver scritto questo libro che è stato
accolto con polemiche. C’è il tono della scusa e della giustificazione, ma al tempo stesso la scrittrice
finisce per rivendicare le ragioni di quell’atto della scrittura. Quindi, è come se da una parte volesse
giustificarsi e dall’altra finisce per riavvalorare le sue ragioni. Questo tono e questa volontà di giustificarsi
sono presenti sia nella prefazione che nella postfazione. Nella postfazione Le giacchette grigie di Monte
di Dio la Ortese si riferisce direttamente agli intellettuali raccolti attorno al gruppo Sud. Questo nuovo
abbozzo della rappresentazione del gruppo Sud non contraddice quello che lei ha fatto ne Il silenzio della
ragione. Quindi, questi due ritratti del gruppo Sud sono sovrapponibili, anche se nella postfazione vuole
assumere un tono diverso e ritrattare ciò che scritto. Il senso della fine di un’esperienza, di un clima di
speranza e ideali è presente anche nella postfazione (pag. 175), dove la Ortese dice “E dopo? Dopo venne
il tempo di partire. Partimmo (o morimmo?) a poco a poco, tutti.” e successivamente, nella
rappresentazione di Prunas che se ne va, quando dice “Aveva deciso. Allora volse le spalle al Cortile, e
cominciò a scendere senza tristezza verso la città”. C’è quindi un senso di fine di un’esperienza che chiude
definitivamente con il passato e che chiude in maniera dolorosa e sofferta.

Anche per quanto riguarda la situazione del degrado napoletano, l’autrice non sembra aver cambiato
idea e le sue idee affiorano in altri scritti autobiografici, quell’immagine di Napoli ritorna e si ripropone
in altri scritti. Ad esempio, nel volume Corpo celeste c’è un pezzo che si intitola “Attraversando un paese
sconosciuto”, che parla della Napoli degli anni ’50 e mette in evidenza che nel clima successivo
all’esperienza della guerra, la confusione dei bombardamenti e della guerra cessa e le cose, scrive la
Ortese, si disposero come sarebbero state per sempre. Quindi anche lì sottolinea la condizione definitiva
di rassegnazione che è presente nella realtà e nella psicologia napoletana. Le cose rimangono immobili,
caratterizzate da devastazione e miseria anche dopo la guerra. L’immagine della popolazione napoletana
come insetti ritorna in più articoli e racconti, come Un paio di occhiali, dove vi è questa rappresentazione
degli uomini che vivono nel vicolo come formiche, in bassi fatiscenti, in abitazioni come grotte,
paragonabili ai sassi di Matera, prive di servizi igienici ed acqua.
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Sia nella prefazione che nella postfazione, la Ortese afferma di non aver mai accettato la realtà
napoletana e definisce la realtà come “intollerabile”, aggettivo che ritorna assieme all’aggettivo
“incomprensibile”. A primo impatto, la Ortese è portata a fuggire dal reale. Pur non accettando la realtà,
in questo libro fissa questa realtà con degli occhi lucidi che le consentono di cogliere le storture di questa
realtà, che è rappresentata spesso attraverso una visione sfocata, distorta. Prevale questa scrittura
allucinata, una scrittura non misurata, poiché la Ortese di misure non è mai stata capace. Il testo va visto
non come una pura e semplice rappresentazione realistica, ma come una visione. Il poeta è colui che
vede oltre lo schermo prossimo della realtà, è in grado di andare più in profondità. Questi due scritti
vanno letti come una sorta di cornice degli altri racconti inseriti nel libro, poiché forniscono delle
coordinate a tutto il libro.

UN PAIO DI OCCHIALI

I primi tre racconti sono dei racconti letterari più degli scritti giornalistici. Di questi, il primo è Un paio di
occhiali. Per esplicita richiesta della Ortese, il racconto che apre il libro è stato scritto a casa di Pasquale
Prunas, sulla spinta della lettura di una novella di Matilde Serao. La Ortese aveva letto questo racconto
intitolato “O Giovannino, o la morte”, che l’aveva impressionata. In un’intervista del 1994 la Ortese ha
dichiarato di aver scritto il racconto Un paio di occhiali dopo aver letto “O Giovannino, o la morte”,
sull’onda dell’ammirazione per la scrittura della Serao. Questo racconto della Serao appartiene alla
raccolta intitolata Racconti napoletani, del 1989. Qui viene narrata una struggente storia d’amore
infelice, che viene inserita nella cornice della realtà e della società napoletana, fondata sulla maldicenza,
sul pettegolezzo e sull’omertà, un ambiente in cui la protagonista non si sente felice e a suo agio. Questo
personaggio ha una grande aspirazione verso la libertà. Come recita il titolo, “O Giovannino, o la morte”,
segna la dimensione dell’amore impossibile. Giovannino non sarà della protagonista, Chiarina, figlia di
un’usuraia che ostacola questa relazione, ma che a un certo punto viene sorpresa dalla figliastra mentre
bacia Giovannino. La protagonista, dopo questo evento, decide di suicidarsi gettandosi in un pozzo in
cortile. La protagonista è dolce e sognante, che aspira alla libertà di poter scegliere l’uomo da amare,
ma in questo contesto non è possibile. Da questa novella, più che la trama, è l’ambientazione napoletana
che ritroviamo nel racconto Un paio di occhiali.

Oltre a questa fonte esplicitamente dichiarata ce n’è un’altra, rappresentata da una lettura di Edgar
Allan Poe, uno degli scrittori più amati. C’è un racconto nello specifico, The Spectacles, del 1844, in cui il
protagonista è un ragazzo di 22 anni afflitto (come la protagonista della novella della Ortese) da una
forma grave di miopia, che non indossa gli occhiali. Con una parabola analoga a quella di Eugenia
(protagonista del racconto della Ortese), egli scopre con orrore, alla fine della vicenda, una realtà che
non aveva visto fino ad allora. Di fatto, il protagonista si è invaghito di una vedova molto ricca, che senza
gli occhiali gli sembra bellissima, e decide di sposarla. La protagonista femminile si chiama Eugenia
Laland che, quando il protagonista indosserà gli occhiali, si rivelerà essere una donna di 82 anni e anche
sua bisnonna.

Il racconto della Ortese, pur avendo subito il fascino di questi racconti, è originale e differente. C’è questa
suggestione della rappresentazione dell’ambiente napoletano a tinte forti per quanto riguarda la Serao
e questa parabola che scopre l’orrendo della visione dopo aver indossato gli occhiali di Poe. Queste
dichiarazioni della Ortese sono del 1994 e si riferiscono al periodo precedente al maggio del 1949, che è
la data in cui la novella è stata pubblicata in due puntate sulla rivista Omnibus. Quindi, questa scrittura
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in casa di Prunas è precedente al maggio del 1949, quando la novella viene pubblicata col titolo
“Ottomila lire per gli occhi di Eugenia”. Questo racconto, pubblicato su Omnibus in due puntate, fu
ripubblicato come primo racconto della Ortese su questa lista di Mario Pannunzio col titolo definitivo
Un paio di occhiali.

La collocazione di questo testo in apertura del libro non è casuale, poiché vuole attirare il lettore su una
questione di punti di vista, di prospettiva. Per la comprensione del libro, è necessario fare attenzione al
punto di vista da cui le cose sono messe a fuoco. Il mare non bagna Napoli è stato accusato di essere un
libro disorganico, di essere stato messo insieme solo per costituire la misura di un volume, ma in realtà
questo libro è molto costruito. Ci sono elementi disorganici per quanto riguarda le tipologie di scritti che
racchiude, però è un libro che ha un nucleo che resiste in tutti i quadri presentati, ossia una precisa
topografia di Napoli. Ci sono soprattutto idiomi popolari, ci sono i vicoli della Napoli sottoproletaria,
mancano delle raffigurazioni di zone alte e nobili. Il libro è attraversato da molte analogie, richiami
tematici, atmosfere e suggestioni. Anche i due capitoli che apparentemente sono distanti (primo e
ultimo), in realtà mostrano diversi punti di contatto. Questi scritti hanno una matrice autobiografica e si
reggono su una metafora visiva, poiché la vista ha un ruolo centrale all’interno del libro.

L’episodio svolto in “Un paio di occhiali” nella sua essenzialità è accaduto direttamente all’autrice, ossia
quello di provare vertigini e nausea all’indossare gli occhiali per la prima volta. La protagonista della
novella è una bambina quasi cieca, Eugenia, che vive con la sua famiglia in un basso (abitazioni collocate
in seminterrati). Eugenia è entusiasta perché finalmente potrà mettere gli occhiali e vedere bene, e non
vede l’ora. Ma, nel momento in cui indossa gli occhiali, viene assalita da conati di vomito, e quando li
indossa le si rivela un mondo che fino ad allora non aveva messo a fuoco in maniera precisa e aveva una
percezione sfumata e addolcita della realtà che le sta attorno. Questo racconto è fondato sul problema
centrale di messa a fuoco, di rivelazione che passa attraverso l’artista. E anche l’ultimo, Il silenzio della
ragione, è un racconto in cui la visione ha un ruolo importante, perché i personaggi mettono a fuoco la
realtà degli anni ’40-’50 e scoprono il vero volto della città di Napoli, e lo fanno attraverso le lenti della
ragione, come se fosse caduto un velo e la realtà fosse emersa nella sua crudezza. Questi intellettuali
scoprono una Napoli diversa rispetto a quella propagandata, ossia la Napoli del folklore, del sole, del
mare. Essi invece scoprono una dimensione diversa, fatta di immobilismo sociale, di rassegnazione, di
incapacità politica a gestire i problemi della città.

Sempre per mettere in evidenza le relazioni che si possono stabilire tra il primo e l’ultimo testo, possiamo
notare che se la delusione di Eugenia assume toni drammatici, anche i ragazzi del gruppo Sud portano
incisi nel fisico i segni della disillusione: Compagnone zoppica, Prunas a tratti viene rappresentato come
uno smemorato, Rea ha comportamenti curiosi, Scognamiglio diventerà pazzo.

Per quanto riguarda le tecniche con cui sono stati scritti questi due racconti, tecnicamente questi due
capitoli sono complementari, poiché si servono di tecniche diverse. La novella di apertura, dal punto di
vista della scrittura, può essere definita verista, prima ancora che neorealista. Questo racconto si serve
di tecniche di rappresentazione e di messa in scena che appartengono alla tradizione verista. La stessa
Ortese ha dichiarato che il racconto è scritto col modulo verista, caratterizzato dalla narrazione
impersonale. La rappresentazione verista si fonda su una rappresentazione oggettiva della realtà.
Inoltre, l’autore vuole lasciare direttamente la parola ai personaggi, metterli in situazione di mostrare al
lettore con il loro modo di essere e di parlare, senza intervenire con il suo linguaggio e il suo punto di
vista. Il verismo si serve anche di forme di rappresentazione morale, ad esempio nei Malavoglia di Verga.
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Questo racconto d’apertura è scritto seguendo il modello verista, con una narrazione oggettiva. Al
contrario, l’ultimo pezzo è fortemente intriso di soggettività, in cui emerge il punto di vista soggettivo
della scrittrice.

Se il primo testo è inventato ed assume carattere di concretezza, al contrario, nello scritto finale, che è
vero, quel tono sovraeccitato e allucinato finisce per conferire allo scritto un tono e un aspetto astratto.
Nel primo capitolo del libro viene rappresentato un microcosmo fuso, quello del vicolo della Cupa, un
mondo ristretto, confinato in limiti ben precisi; mentre nell’ultimo capitolo la giornalista si sposta in
maniera veloce da un posto all’altro della città e, in quegli spostamenti, attraversa diversi luoghi che
sono stati oggetto di rappresentazione nei capitoli precedenti.

Lettura paragrafi 1-5 → L’incipit del racconto è in medias res, e questo tipo di attacco è tipico del
racconto verista. Non c’è l’iniziale messa in situazione dei personaggi, ma un attacco cantato che rende
subito il colore locale, l’immagine di Napoli come città baciata dal sole. Sin dall’incipit, però, emerge il
contrasto stridente tra la rappresentazione classica dei topoi della napoletanità e la malattia e la miseria
che derivano da tale realtà.

L’altro elemento che emerge poco dopo è la tristezza che caratterizza l’ambiente in cui vivono. Inoltre,
vengono messe in luce le scarse condizioni di igiene, poiché vi sono scarafaggi, e l’ambiente viene
rappresentato come una grotta piena di ragnatele. In questo contesto, entra in scena la protagonista,
Eugenia, affetta da una grave forma di miopia. A questa bambina l’autrice ha dato il nome di Eugenia,
ma anche il nome è antifrastico, ossia contrasta con la realtà che caratterizza questa bambina. Eugenia
significa “eccellenza della specie umana”, ma la bambina non è assolutamente l’immagine della
perfezione. L’autrice lo fa per risarcirla dalle disgrazie che la vita le ha provocato (condizioni di vita, vista
quasi nulla). Dal punto di vista della prospettiva, le cose sono viste dal basso, sia letteralmente (da dove
vive Eugenia), sia dal basso della sua età infantile. Le immagini che vede da lontano appaiono sfocate,
non nitide, mentre quelle che vede da vicino appaiono grandi e deformi.

Il modulo della narrazione verista presuppone anche una mimesi del parlato, per cui oltre ad essere
inserite numerose battute di dialogo, anche nel racconto in terza persona si inseriscono versi dialettali,
come a pag. 6 del libro, dove viene detto che la zia si era offerta di fare gli occhiali ad Eugenia (“tanto
che si era offerta lei di fare gli occhiali ad Eugenia” – pag. 16), un’espressione dialettale che in italiano
non si usa. Poi c’è questo light motive che ricorre in tutto il racconto, ossia il costo degli occhiali
(“Ottomila lire vive vive!” – pag. 16).

Dopo questa parte, c’è un’analessi, ossia un flashback, poiché la narrazione ritorna alla settimana
precedente, quando Eugenia ha ordinato gli occhiali. Per andare dall’ottico, Eugenia lascia il vicolo della
Cupa, ossia la realtà in cui vive, per recarsi in Via Roma, una delle vie più eleganti di Napoli. Il dottore le
fa provare diverse lenti per trovare quelle adatte a lei e la invita a guardarsi intorno. Eugenia prima
guarda nel negozio, che è molto elegante, poi viene invitata a guardare nella strada, e quando guarda
fuori scopre un mondo meraviglioso, fatto di eleganza, di persone ben vestite sedute ai tavoli dei bar, di
automobili scintillanti, ecc. Anche la stagione in cui è ambientato il racconto è simbolo di rinascita,
poiché la primavera dovrebbe segnare la rinascita di Eugenia, che però è illusoria. Questa illusione
crollerà presto e prima del crollo effettivo all’interno del testo ci sono già molte spie lessicali nelle
battute dei personaggi che anticipano questo crollo.

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Ad esempio, “Figlia mia, il mondo è meglio non vederlo che vederlo, - aveva risposto con improvvisa
malinconia Nunziata.” (pag. 18) → l’esperienza della zia si caratterizza già per l’illusione, perché lei il
mondo l’ha già sperimentato ed è giunta alla conclusione che il mondo è meglio non vederlo, perché
vederlo fa male.

La ragazzina non segue il dialogo fra il dottore e la zia, la quale si lamenta del costo degli occhiali. Come
risposta, l’ottico sottolinea l’ignoranza della zia. Il dottore prende nota della paziente: “Eugenia Quaglia,
vicolo della Cupa a Santa Maria in Portico” (pag. 17) → questo indirizzo, in realtà, era di una via in cui
abitava Anna Maria Ortese, la quale però non viveva in un basso, ma in un appartamento con terrazzo,
occupando una posizione più privilegiata rispetto agli abitanti del basso. Proprio la posizione più alta le
ha fornito la prospettiva per guardare a quella realtà da una certa distanza e con una maggiore acutezza.

Dopo aver guardato per la prima volta il mondo attraverso le lenti, Eugenia pensa che sia meraviglioso
e non vede l’ora di osservare la realtà attraverso le lenti. All’inizio, gli occhiali sono definiti come
benedetti (“Benedetti occhiali” – pag. 18), alla fine, a pag. 33, diventano “cerchietti stregati”.

Lo sguardo di Eugenia è miope, che ha difficoltà a mettere a fuoco ciò che sta lontano e ciò che sta
lontano, proprio perché non viene messo a fuoco in maniera nitida, assume anche delle caratteristiche
immaginarie. La prima volta che Eugenia guarda fuori, prova felicità perché si trova su questa via
importante, dove c’è un altro mondo rispetto a quello in cui è abituata a vivere. Questa prima visione è
una visione estasiata di un mondo scintillante, fatto di lusso, persone ben vestite, oggetti scintillanti. A
questa rappresentazione dell’esterno così positiva e sognante si contrappone questa visione ravvicinata
di Eugenia che, quando dorme con la madre e i fratelli, li può osservare da vicino sotto la luce di una
lampada ad olio. Questi volti che osserva hanno una rappresentazione espressionistica, deformata,
poiché da vicino la realtà rivela questo deforme dell’esistenza. La madre viene rappresentata mentre
dorme con la bocca aperta, il che permette di vedere i suoi denti rotti e gialli; mentre i fratelli sono
rappresentati nella sporcizia e nelle patologie che porta, poiché sono sempre raffreddati e pieni di
catarro, motivo per cui, mentre dormono, fanno un rumore molto forte. Questo respiro è affannoso,
quasi un ruggito animalesco. Eugenia, osservandoli a distanza ravvicinata, mette a fuoco questo aspetto
deformato della realtà.

Questi ritratti sono espressionistici. L’espressionismo è quella forma di arte diffusasi poi anche in
letteratura, che privilegia una visione partecipata ed emotiva della realtà, e non oggettiva e distaccata.
Rappresenta la realtà attraverso il tratto emotivo e presenta tratti esasperati della realtà.
L’espressionista tende alla deformazione delle forme e ad usare un colore molto acceso, vivace. Questo
tipo di rappresentazione artistica non considera la pittura come espressione del bello, ma della verità,
quindi come strumento di analisi dell’animo umano. Questa rappresentazione tende a evidenziare i tratti
umani attraverso la deformazione, poiché i volti che vengono raffigurati qui sono alterati, non sono volti
composti nel sonno, sono caratterizzati da sofferenza e malattia.

A quest’altezza del racconto, Eugenia guarda ancora la realtà che la circonda, ma non è in grado di
comprenderla. Questo lo vediamo anche sottolineato dalla rappresentazione che la Ortese fa di questa
fanciulla. Ci sono delle indicazioni che evidenziano come la sua sia una conoscenza ancora confusa e
parziale. Agli inizi di pag. 19 ci viene detto che “tutto era coperto per lei da un velo sottile”, per cui la sua
visione è annebbiata e sfumata, non chiara.

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Sempre sulla stessa pagina ci viene detto che “Eugenia, qualche volta, si sorprendeva a fissarli, senza
capire, però, che stesse pensando.” Qui viene sottolineata l’inconsapevolezza di Eugenia che osserva.
“Sentiva confusamente che al di là di quella stanza, […] aveva avuto una vera rivelazione: il mondo, fuori,
era bello, bello assai.”

Anche questa non è una percezione nitida, ma confusa. Qui Eugenia percepisce che c’è una possibilità
di felicità nel mondo che sta al di fuori del basso, percepisce che al di là di quella realtà caratterizzata da
miseria e fatiscenza c’è un altro mondo, fatto di cose belle. Ma questa rivelazione che ha avuto
guardando con gli occhiali attraverso via Roma si rivelerà una pura illusione.

Subito dopo troviamo uno stacco tipografico, che segna un passaggio nel testo. Dopo lo stacco, l’azione
ritorna alla mattina in cui saranno ritirati gli occhiali. In questo passo viene messo a fuoco il rapporto
della famiglia Quaglia con la marchesa D’Avanzo, che abita sopra il basso, è proprietaria delle abitazioni,
e i rapporti con questa famiglia e con gli abitanti del vicolo si caratterizzano per una forma di
sfruttamento. La marchesa si serve dei servigi degli abitanti del vicolo e questi lavori li retribuisce poco,
facendosi pagare anche un fitto molto alto per queste case fatiscenti. Quindi emergono rapporti di classe
gerarchici e immodificabili, poiché nel racconto non c’è una prospettiva di cambiamento, di
avanzamento sociale per queste persone che vivono in queste condizioni. Si vede subito la soggezione
in cui si trovano gli abitanti del vicolo dalla prima battuta dialogata.

Il padre saluta con deferenza la marchesa, con un atteggiamento di sottomissione. Quando la marchesa
apre bocca, Don Peppino subito si mette a disposizione, evidenziando un rapporto di totale soggezione,
poiché non c’è possibilità di rifiutare un favore alla marchesa, proprio perché è la proprietaria
dell’abitazione in cui vivono.

Successivamente viene messa in luce la figura di Eugenia e soprattutto viene sottolineata questa infanzia
privata dell’allegria e delle fattezze dell’infanzia. Eugenia è descritta come una piccola vecchia, poiché
privazione e povertà hanno spento questo viso, e questo aspetto ritorna più volte nella novella. Per
contrapposizione a questa immagine di piccola vecchia, viene contrapposta l’immagine della marchesa,
vestita di tutto punto. La marchesa si rivolge con un tono di comando al padre, chiedendo di far rifare il
materasso per il nipote e stabilendo anche l’orario. Eugenia, parlando col padre, la definisce come una
persona buona, credendo che tratti il padre come un galantuomo. Qui si vede come Eugenia abbia una
visione falsata della realtà, sia in senso letterale, poiché non ci vede, sia in senso metaforico, perché non
vede la realtà dei fatti. Come risposta, il padre la definisce come “una buona cristiana”, anche se
intendeva tutt’altro.

“è vero che le figlie gliele aveva fatte chiudere lei” (pag. 20) → qui possiamo notare una mimesi del
parlato, poiché è una frase che avrebbe usato Don Peppino e che non appartiene al registro linguistico
della scrittrice.

“Ringraziate... ringraziate la Provvidenza, che vi ha messo in questa condizione... che vi ha voluto


salvare...” (pag. 20) → qui emerge l’uso strategico che viene fatto della religione da parte delle classi
alte, utilizzata come strumento per educare i poveri all’accettazione della loro condizione di miseria.
Quindi, i poveri devono considerarsi fortunati per lo stato in cui versano e accettare di essere
subordinanti alle classi che detengono il potere. C’è una ratio, un ordine che non si può cambiare. Inoltre,
si vede che la fede della marchesa è fittizia, ma lei esorta comunque donna Rosa ad aspettare e sperare,
e questo solo perché le fa comodo avere il controllo nei confronti dei suoi inquilini.
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Dopo questa parentesi che mette a fuoco i rapporti tra la marchesa e la famiglia, il discorso cade di
nuovo sull’evento del giorno, ossia il ritiro degli occhiali. Per un momento, l’evento sembra allontanarsi
e sfuggire al desiderio di Eugenia perché nessuno può andare a ritirare gli occhiali. Quando donna Rosa
vede gli occhi tristi della figlia, però, si intenerisce e decide di andare lei a ritirare gli occhiali, nonostante
non stia bene. Eugenia attende con ansia il ritorno della madre seduta sui gradini del cortile e inganna il
tempo provando a leggere un giornalino trovato per strada, anche se ci sta col naso sopra perché non
vede.

Alla fine di pag. 22 Mariuccia, la portinaia, le chiede se quel giorno si sarebbe messa gli occhiali, ed
Eugenia, contenta, inizia una conversazione con lei. Ad un certo punto, la zia di Eugenia la chiama
inviperita per mandarla a sbrigare una commissione, il che in qualche modo rivela la scarsa
considerazione in cui viene tenuta l’infanzia in questo ambiente. L’attenzione per l’infanzia è cresciuta
nel corso del tempo, e anche l’affezione nei confronti dei bambini è una conquista moderna, questo un
po’ per questioni legate alla mortalità infantile, per cui prima ci si affezionava più tardi ai bambini.

Quando Eugenia esce dal cortile, viene sottolineata la sua difficoltà a muoversi nello spazio, poiché non
vede bene e rischia di essere investita dai cavalli. Quando si aggira a tentoni per la città, ci sono delle
immagini che vede. Ancora una volta qui troviamo verbi che rinviano alla sfera visiva, come “scorgere”
(“scorse quel bagliore caldo, azzurro, ch’era il cielo” – pag. 23), scorge il cielo anche se non riusciva a
vedere chiaramente e ha una visione sfumata di ciò che le sta intorno. Eugenia intuisce che al di là della
sua visione sfocata c’è una possibilità di felicità e rinascita, ma a questa realtà non ha accesso; quindi,
questa rinascita è quindi illusoria e apparente.

Eugenia guarda questa realtà luminosa e fiorita come se fosse qualcosa a cui anche lei può prendere
parte, ma in realtà quel “come se” (pag. 24) dice al lettore che si tratta di un’illusione, anche se il
narratore non lo comunica esplicitamente. Eugenia non può partecipare a questa festa, e rimane
rappresentata come quel topo destinato a rimanere legato al fango del suo cortile, non si dà per lei una
possibilità di emancipazione da quella realtà. Anche la luce del sole è distribuita secondo la scala sociale,
poiché tocca le abitazioni poste in alto, mentre filtra appena nei bassi.

Un’altra spia lessicale che rinvia all’illusorietà di questa rinascita la troviamo a pag. 31, dove le parole
della marchesa la feriscono in qualche modo e la preparano ad una vita priva di gioia.

“E le parve, sia pure un attimo, che il sole non brillasse più come prima, e anche il pensiero degli occhiali
cessò di rallegrarla.”

Anche qui c’è il verbo “parere”, che rinvia alla percezione soggettiva e in questa frase possiamo vedere
che la rivelazione della negatività dell’esistente le appare per barlumi, non ne ha la certezza. Lei vorrebbe
partecipare alla vita ed essere felice, ma questo desiderio di felicità è stroncato sul nascere, poiché la
sua è una giovinezza che non fiorisce, di fatto appare già vecchia, cosa che le fa notare anche la marchesa
in maniera indelicata (pag. 30).

La marchesa, dopo aver assistito dall’alto alla lite fra Eugenia e la zia, per rabbonire la zia invita la
bambina a salire perché vuole regalare un abito alla zia. Anche questo regalo però è una forma di carità
penosa, poiché è logoro e appartenuto alla sorella morta. La bambina viene invitata a prendere questo
vestito e a portarlo alla zia, ma a lei, che ci vede male, l’abito sembra bellissimo. Di lì, il discorso va a
finire agli occhiali, perché la marchesa si rende conto che la bambina non ci vedeva davvero, altrimenti
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avrebbe visto che era vecchio e rattoppato. Solo dopo un momento, la marchesa sposta l’attenzione
sugli occhiali, affermando che questa spesa poteva essere evitata, poiché lei aveva visto degli occhiali
migliori ad un prezzo minore e soprattutto ad Eugenia non servivano, poiché non leggeva e con quei
soldi potevano comprarci pane per giorni. La marchesa ha questo fare pedagogico nei confronti della
bambina e del popolo, vuole educare i poveri all’accettazione del proprio destino.

A questi discorsi Eugenia si rattrista, guarda la roba fine della marchesa e poi si affaccia sul balcone, con
una proiezione dello sguardo prima all’interno e poi verso l’esterno. Questa volta, ciò che guarda
all’esterno ha però una connotazione negativa, poiché le viene rivelata la miseria e la ripetitività di
questa esistenza misera. Il sole, l’aria e il vento sono elementi che appartengono alle classi sociali alte,
mentre ciò che osserva al di sotto del balcone è la realtà del vicolo, che sembra come un pozzo, una
voragine infernale. Di fatto, gli abitanti del vicolo sono come tanti dannati che ripetono quotidianamente
sempre le stesse azioni. Eugenia, osservando il vicolo, si pone domande sul senso della vita, chiedendosi
che senso ha vivere così, poiché per i poveri la vita non è altro che ripetizione di attività faticose, mentre
intorno a loro c’è un altro mondo fatto da Dio.

Assorta in queste meditazioni, Eugenia ritorna nel vicolo e si rincuora perché vede sua madre che torna
con gli occhiali nuovi. Gli occhiali, che appaiono come un insetto lucentissimo a causa della montatura,
vengono indossati per la prima volta. Se la prima volta che li ha provati nel negozio, guardando su Via
Roma, Eugenia ha una visione positiva, segnata dal meraviglioso, adesso che guarda al di fuori del vicolo
della Cupa le cose prendono un aspetto diverso, poiché le si rivela la visione spaventosa del basso e della
miseria in cui vive. Eugenia, tenendosi gli occhiali con le mani, va fino al portone per guardare nel vicolo,
con le gambe tremanti e senza più gioia. Quando guarda fuori, le si rivela quella realtà che fino a quel
momento non ha percepito in maniera precisa, come se mettesse a fuoco per la prima volta la miseria
in cui vive.

La situazione descritta è quella dello spaesamento e del capogiro che coglie chi indossa gli occhiali per
la prima volta nell’avere una prospettiva diversa. Ma, al tempo stesso, questa reazione fisica si
caratterizza per essere un istante rivelatore, perché ha messo a fuoco il mondo in cui ha vissuto fino a
quel momento, segnato dalla sporcizia e dalla miseria. L’immagine di ciò che vede la lascia stravolta,
poiché le cose sembrano abbattersi su di lei. Eugenia vede anche rifiuti e scarti di cibo, simbolo di miseria
e scarsa igiene, e i volti li vede molto vicini, ritratti di un’umanità deforme ed esasperata. Inoltre, l’unica
forma di luce che vede è data da questa devozione religiosa, dai lumi accesi attorno alla Madonna (pag.
33). Gli occhiali, che all’inizio erano apparsi come benedetti, ora sono cerchietti stregati, come se
innescassero un maleficio che le fa cogliere questa realtà.

Eugenia, non reggendo all’impatto con gli occhiali, vomita e viene soccorsa, tanto che Mariuccia le toglie
gli occhiali. Si cerca di rianimarla, ma rimane attonita, e chiede alla madre “Mammà, dove stiamo?” →
questa domanda non è frutto dello spaesamento causato da quella visione, poiché Eugenia sa che si
trova nel basso in cui abita, ma significa “in che posto viviamo”. Quella domanda nasce da un’improvvisa
rivelazione della miseria che le sta intorno. Se questa domanda assume una connotazione così profonda
per Eugenia, la risposta della madre è invece letterale, non in grado di rispondere alla domanda posta
dalla figlia. Donna Rosa preferisce glissare sull’inquietudine in cui la getta quella domanda, preferisce
non rendersi conto che anche per la figlia è caduto quel velo di illusioni. Con quest’attimo rivelatorio,
Eugenia diventa come gli altri adulti, consapevoli di ciò che gli sta intorno, e diventa, come ha detto
Mariuccia precedentemente, “tale e quale a noi”.
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“D'altra parte, pure loro debbono sfogare, - rispose donna Mariuccia, - sono anime innocenti. Avranno
tempo per piangere. Io, quando li vedo, e penso che devono diventare tale e quale a noi... […]mi domando
che cosa fa Dio”.

A pag. 28 vediamo come Mariuccia prende le difese di Eugenia, che ha sottratto una caramella alla zia,
e commenta cercando di mettere pace. Mariuccia è colei che incarna la saggezza, guarda questa infanzia
ma sa che è destinata a trasformarsi in breve tempo in una condizione di coscienza, consapevolezza e
tristezza, pensa che diventeranno rassegnati a quella realtà come lo sono i grandi. La madre, invece,
piuttosto che prendere atto di questa avvenuta lacerazione del velo delle illusioni, preferisce non
comprendere e accusare la figlia di essere cecata e scema, come se quella domanda fosse il frutto di uno
stato di irrequietudine. Come sappiamo, quella domanda non si riferisce alla realtà topografica in cui
vivono, ma alla realtà miserabile che quel luogo incarna. Ed è Mariuccia, alla fine, ad invitare la madre a
lasciarla stare, poiché è solo stupita, attonita.

Inoltre, Mariuccia ha il viso torvo di compassione perché è colei che “ha capito il gioco”, ha capito come
funziona la realtà, e proprio per questo è portatrice di questo sentimento di compassione. Mariuccia
riesce a penetrare lo stato di angoscia in cui è stata gettata Eugenia da quella visione rivelatrice. Questo
personaggio ci pone delle domande relative al ruolo che ha nella narrazione, e cioè è colei che si fa
portavoce del punto di vista della Ortese in questa vicenda e in qualche modo interprete di quelli che
sono i suoi sentimenti. Inoltre, ci potrebbe essere una spia onomastica in questo, poiché
Mariuccia potrebbe far riferimento al secondo nome della Ortese, Maria.

Nel racconto abbiamo visto il dubbio sulla univocità e sulla possibilità di decifrare il reale, che è sempre
indecifrabile o aperto a più interpretazioni, non c’è mai una interpretazione univoca della realtà, e
questa interpretazione riguarda sia i personaggi che l’autrice. I testi della Ortese appaiono costellati da
una serie di riferimenti alla sfera visiva, come a sottolineare che attraverso prospettive diverse si
possono cogliere diversi strati di realtà. Ci sono anche molteplici riferimenti alla sfera del dubbio e
dell’apparenza. Più volte il testo è costellato di “come se”, “sembrava”, “le parve”, elementi che
sottolineano uno stato apparente. Ad esempio, a pag. 24 si dice che “[…] Eugenia cominciava a respirare
con una certa fretta, come se quell'aria, quella festa e tutto quell'azzurro ch'erano sospesi sul quartiere
dei poveri, fossero anche cosa sua.”, e si usa il come se poiché quella realtà a lei è negata. O ancora, a
pag. 31, “E le parve, sia pure un attimo, che il sole non brillasse più come prima, e anche il pensiero degli
occhiali cessò di rallegrarla.”, le sembrò, ma in realtà il sole brilla come prima, anche se non brilla più
come prima per lei, perché è subentrato il disincanto. Questa modalità di scrittura la incontreremo
anche in altri testi di questo libro, dove c’è sempre la sottolineatura della necessità di attenersi a una
visione parziale della realtà, che è sempre più problematica e con più facce. Solo lo scrittore ha la
capacità di trasformare l’infinita cecità del vivere in visione della realtà, poiché è una sorta di testimone
cieco che però ha delle capacità visionarie, che brancola nel buio ma indovina la realtà, ed è in grado di
fornire una lettura più penetrante della realtà.

Pur non essendo un’opera realistica nel senso classico del termine, Il mare non bagna Napoli ci mette
davanti ad alcune realtà, pur partendo da dati fittizi (personaggi inventati). Attraverso una resa non
documentaria mette in evidenza le ferite di questa società, la profonda disgregazione sociale. In questo
racconto abbiamo visto una sproporzione incolmabile tra le classi sociali alte e basse, e come ci sia anche
la volontà da parte delle classi alte di tenere assoggettate le classi più basse, perché più comodo

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(immobilismo). La marchesa è l’esempio di questa realtà e usa la religione per inculcare nelle classi più
povere la rassegnazione e l’accettazione del proprio destino.

Ne Il mare non bagna Napoli possiamo trovare diverse figure femminili che vengono umiliate e offese,
costrette a soffocare sul nascere i propri desideri. In questo racconto è Eugenia a vivere questa
esperienza, è un personaggio caratterizzato da una tendenza al sogno, che appena indossati gli occhiali
ha una visione positiva della realtà e aspetta quasi un miracolo, una possibilità di sottrarsi alle regole del
contingente. Spesso, negli scritti della Ortese, possiamo trovare questo tipo di dialettica, tra necessità e
scatto miracoloso, che sembra aprirsi come uno spiraglio sulla realtà, ma finisce, nella stragrande
maggioranza dei casi, per non realizzarsi. Questa dialettica la ritroviamo anche in Montale, quando fa
riferimento alla possibilità di trovare una maglia rotta nella rete che ci stringe, al possibilità di sovvertire
l’ordine del mondo.

Indossare gli occhiali e prendere coscienza della realtà che le sta attorno proietta Eugenia nell’età adulta.
Quella fantasia di liberazione e di scoperta di una realtà altra si rivela come la scoperta dell’inferno dei
bassifondi in cui vive. Gli occhiali diventano una sorta di metafora di iniziazione all’ingiustizia sociale,
poiché il sogno si rompe e rivela una realtà molto diversa. C’è una sorta di trauma da risveglio, come se
Eugenia si svegliasse dal sonno in cui è stata immersa fino a questo momento.

I personaggi cercano di resistere alle promesse mancate, tentando la fuga nel sogno,
nell’immaginazione, ma la scrittura non consente questa fuga. Ciò che emerge, all’occhio del lettore,
sono le fratture di questa società, le ingiustizie sociali di una società fondata sulla legge dell’utile, una
società deterministica, segnata dalla sopravvivenza del più forte, dal predominio delle leggi economiche,
superiori a qualsiasi principio morale. La Ortese fa affiorare in queste storie un magma di tensioni, sogni
repressi, desideri celati negli strati più profondi della coscienza che emergono per attimi, per barlumi,
ma poi finiscono per risospingere queste figure nel disincanto e nella consapevolezza della realtà (spiragli
illusori). È come se lo scrittore volesse restituire ai personaggi quelle voci sepolte dei loro desideri
frustrati e sepolti dalla società.

INTERNO FAMILIARE

Anche il secondo racconto della raccolta ci mette davanti a una situazione di improvvisa accensione della
speranza che finisce per far ripiombare la protagonista nello stato precedente, di soggezione e di
disincanto. Il secondo racconto, Interno familiare, insieme a Il silenzio della ragione, è uno dei due testi
inediti aggiunti dalla Ortese che non sono stati pubblicati nelle riviste, ma direttamente nel libro. Se Un
paio di occhiali è scritto secondo i canoni del racconto verista (esordio in medias res, presenza di battute
di dialogo, narrazione impersonale), in questo racconto c’è una narrazione di tipo più tradizionale, c’è la
voce di un narratore che si fa interprete dei desideri e dei pensieri della protagonista. Qui siamo quindi
nella narrazione verista di tipo psicologico, che cerca di interpretare e di restituire al lettore quelli che
sono i pensieri dei personaggi.

La protagonista si chiama Anastasia Finizio, figura che viene subito introdotta e descritta. Poi, l’autore
comincia a mettere a fuoco i pensieri della donna e lo fa attraverso una sorta di discorso vissuto. Questo
è un narratore che si cala nella pelle dei personaggi, si narra attraverso il loro sguardo, si sofferma sulle
percezioni ed emozioni dei personaggi. Questo racconto rappresenta i turbamenti della protagonista,
giovane donna giunta alla soglia dei 40 anni, che per un attimo vede riaccendersi dentro di sé il desiderio
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di realizzazione come donna, un barlume di una possibile felicità. Per un attimo immagina di poter vivere
un sentimento d’amore che aveva rimosso da tempo immemorabile ma che la fortuita fatalità del caso
le pone dinanzi agli occhi. Il cognome Finizio ha dentro di sé sia l’inizio che la fine (Fin-izio), un inizio che
ha già davanti a sé una F, qualcosa che allude alla fine, una vita bloccata in partenza.

“[…] andava avanti e indietro per la camera da letto che divideva con sua sorella Anna, non riuscendo a
contenere una visibile agitazione.” (pag. 35) → L’agitazione è un tratto che caratterizza diversi
personaggi dei racconti della Ortese.

L’autore, attraverso una narrazione classica, ci descrive la protagonista, dice di chi è figlia, dice che la
protagonista sta tornando dalla messa di Natale (dice subito l’arco temporale in cui si svolge la vicenda),
c’è una descrizione fisica del personaggio (estrema magrezza tipica della sua famiglia, personaggio alto),
viene caratterizzato lo stato d’animo della protagonista, che è di visibile agitazione. Successivamente, ci
viene detto che prova uno smarrimento e che “Nel suo cervello, in quel momento, c'era un vero
scompiglio” (pag. 36) → sono tutti termini che caratterizzano questo stato di alterazione e agitazione
della protagonista.

La condizione economica della famiglia Finizio è più agiata rispetto a quella della famiglia del primo
racconto. Anastasia ha un negozio di maglieria che le consente di mantenere la sua numerosa famiglia,
ma questa agiata condizione economica non solleva il personaggio dalla sua condizione di soggezione
agli altri. Il fatto di lavorare e farsi carico di un’intera famiglia quando il padre muore non le consente di
essere libera e indipendente ma, al contrario, le impone il sacrificio dell’Io. Anastasia è costretta a
soffocare la sua natura di donna poiché ha dovuto indossare i panni del padre di famiglia, facendosi
carico dell’attività lavorativa che, in una società organizzata in questo modo, appartiene alla figura
maschile. Dal lavoro non trae indipendenza ed emancipazione, ma il sacrificio delle sue aspirazioni di
donna. La sua vita, fino a quel momento, era stata solo servitù, rinunce, sacrifici, sonno. È giunta alla
soglia dei 40 anni, età che in quella società significava ormai rimanere zitella per tutta la vita. Anastasia
aveva ormai messo da parte ogni speranza di bene personale con rassegnazione. L’unica soddisfazione
che le resta è quella di vestirsi come una grande donna di città. Ma questa consolazione è una
consolazione effimera perché comunque corrisponde ad un essere che si è spogliato della sua identità
sessuale, quell’abbigliamento riveste un guscio che ha spento ogni connotazione femminile.

Anche in questo caso, vi è l’annuncio di una possibilità di salvezza. Nel primo racconto, vediamo la
prospettiva di indossare gli occhiali, che consentirà ad Eugenia di vedere con nuovi occhi la realtà, che si
annuncia meravigliosa. Qui, invece, la speranza di salvezza viene innescata da una frase che le viene
rivolta da una persona che ha incontrato all’uscita dalla messa.

“Se vedi Anastasia Finizio, mi ha detto, falle un saluto particolare". Tutto qui; poteva essere molto, e
nulla, ma Anastasia, ch'era stata sempre così fredda e prudente, questa volta, come se qualcosa si fosse
guastato nel suo rigido meccanismo mentale - il vecchio controllo, tutte le difese di una razza costretta
a rinunzie sempre più grandi, ché guai se non le avesse accettate - si lasciava andare come incantata alle
divagazioni di un sentimento oscuro quanto straordinario.” (pag. 36)

Improvvisamente, la narrazione fa un salto indietro e ci spiega le ragioni per cui Anastasia si trova in
quello stato di agitazione e smarrimento. In questa atmosfera sovraeccitata di sensi, abbagliata da canti,
luci e colori scintillanti di quella messa cantata, Anastasia incontra questa Lina Stassano, che le riferisce
che è ritornato a Napoli dopo anni di assenza Antonio Laurano. C’è questa estrema timidezza
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nell’esprimere questo sentimento d’amore nei confronti di Antonio Laurano (un giovane al quale lei
aveva pensato), che tornato da Napoli, dopo aver trascorso del tempo a solcare i mari, vuole rimanere
lì e manda ad Anastasia “un saluto particolare”. Viene vissuto come un preludio di una possibilità di
riallacciare quella storia. Questo annuncio riaccende quell’attesa di felicità che lei fino a questo
momento ha messo a tacere. Torna qui quel “come se”: si allenta per un momento quel meccanismo di
autocensura, saltano all’improvviso i meccanismi di difesa e gli autoinganni. Verrà però anche
incoraggiata a compiere questa rinuncia dalla famiglia e da certe convenzioni sociali che attribuiscono
lo stato di nubilato a una donna giunta alla soglia dei 40 anni. Inoltre, anche il rapporto con la madre è
problematico, poiché in questa volontà di rinuncia molta responsabilità ha la madre, che ci tiene a
mantenerla in questo stato di soggezione perché fa comodo alla famiglia.

Questo attimo improvviso fa scattare un cortocircuito e innesca il meccanismo del sogno e della
fantasticheria ad occhi aperti. Quella frase mette in moto la fantasia di Anastasia, le dà modo di ripensare
alla sua vita e di vedere una possibilità di liberazione da quello stato. Questo lo vediamo nel passo
successivo, costruito attraverso la trasposizione delle esclamazioni mentali della protagonista.

"Ah, Madonna!" andava dicendo nella sua mente […] ed è vestita la gente nelle fotografie...” (pag. 36-
37) → sono tutti virgolettati gli inserti di discorso rivissuto mentalmente, e in questo discorso prendono
corpo le fantasie di una possibile liberazione. Queste fantasie poggiano su una valutazione realistica di
quella che potrebbe essere questa relazione perché si potrebbe trattare di una relazione che
converrebbe ad entrambi. Da un lato lei vedrebbe realizzato il sogno di una famiglia, dall’altro lui, stanco
di aver navigato tanto, può trovare in Anastasia una sistemazione tranquilla. Pian piano questa visione
più positiva comincia a smorzarsi, innanzitutto perché constata di trovarsi in uno stato prossimo
all’invecchiamento. C’è una sorta di consultivo impietoso della propria esistenza, che si esprime
attraverso le frasi ipotetiche, le disgiuntive (o…o…), l’avversativa (ma…). Anche la consolazione del
vestirsi bene già comincia a venir meno. Questo abbigliamento riveste una figura inerte, in cui la
femminilità è spenta, si tratta di un rivestimento che copre un qualcosa di inanimato (come le statue in
chiesa) e questa cura dell’abbigliamento è destinata al culto della memoria (la gente nelle fotografie).

Anche in questo caso abbiamo una visione distorta della realtà: così come la miopia di Eugenia l’aveva
indotta ad avere un’immagine distorta del reale, allo stesso modo anche Anastasia si trova in questo
stato di autoinganno. Lei si stupisce di aver immaginato una realtà diversa, si trova in questo stato di
meraviglia e di abbattimento (pag. 37). Qui ritorna l’aggettivo “meravigliata”, che troviamo alla fine del
racconto Un paio di occhiali, e descrive lo stato d’animo di Anastasia dopo la rivelazione. Anastasia ha
avuto un’improvvisa rivelazione di quella che è stata la sua vita fino a quel momento. Come Eugenia
scorge il mondo orrido in cui è vissuta mettendo gli occhiali, così lei, sentendo nascere in sé quel
sentimento di amore e volontà di realizzare la sua femminilità, ha la percezione di quella che è stata la
sua vita fino a quel momento, una vita fatta di rinunce e sacrifici. Considera “in un baleno” (percezione
attimale della realtà) che la sua vita altro non era stata che servitù e sonno. Nel testo ritorna spesso il
riferimento a uno stato di coscienza intontito, a una forma di sonnolenza, di stupidità. E questa immagine
del sonno e della servitù la ritroveremo alla fine del racconto.

Queste divagazioni che compie Anastasia nella sua stanza e poi il riconoscimento della realtà avvengono
dal punto di osservazione della stanza che Anastasia condivide con la sorella. Rientrata a casa, si chiude
in camera prima di cambiarsi e mettersi a disposizione della madre per il pranzo, e rimugina su quello
che è avvenuto, cerca di auto analizzarsi per capire le ragioni del suo turbamento, quindi guarda dentro
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di sé, cerca di capire le sue reazioni ed emozioni. Dopo aver guardato dentro di sé, guarda “fuori”: c’è
sempre questa alternanza di sguardi verso l’interno e verso l’esterno, che abbiamo già visto nel racconto
precedente. Essendo cambiato il suo punto di vista, anche il panorama fuori dalla finestra le sembra
diverso, le provoca spaesamento, non lo riconosce (p. 38). I muri e i cornicioni dei palazzi che ha
osservato tante volte sembravano la bava di un mondo, più che la sua realtà. È come se quell’immagine
fosse rappresentata come apparente, non reale. Anastasia guarda giù e quasi non riconosce i luoghi e le
persone. La vertigine dello spaesamento mette a fuoco una profondità diversa della realtà, ad esempio
la strada le appare più profonda e triste. Osserva il via vai delle persone che tornano a casa dopo la
messa, ma anche in questo caso viene sottolineato che si tratta di una visione parziale, non completa.
→ “Per quanto l’occhio riusciva a vedere” (pag. 38)

L’affaccendarsi della gente per strada le rimette davanti la ripetitività della vita monotona e l’idea della
festa come puro rituale, non come una festa religiosamente sentita, un rituale vuoto in un mondo in cui
si è perso il senso del sacro.

“quasi che la festa cristiana stesa temporaneamente sul formicolio dei vicoli, non fosse tanto una festa,
quanto la bandiera di un esercito sconosciuto levata al centro di un villaggio devastato e bruciato.” (pag.
38)

Questa constatazione dell’apparenza della festa e della rinascita in un mondo segnato dal profano e
dalla legge economica riaccende in lei il desiderio di cambiare questa vita monotona. Ritorna la
proiezione del “sogno”, si riaccende l’idea della possibilità dello scarto dal disegno prestabilito, l’idea di
una possibile deviazione da un destino che appare già segnato. Questa volontà di avere una vita sua
prende forma nell’immagine di lei che lascia la casa paterna e va a vivere con l’uomo che ama in una
casa sua. Prende vita questa proiezione di un desiderio di serenità coniugale, di una vita in una casa sua.
Ma già mentre prende forma questa proiezione del desiderio, questa le si rivela estranea. Nel momento
in cui si immagina non vede sé stessa, ha una percezione di straniamento, e questo sogno comincia già
a smontarsi. Ciò si accentua nel momento in cui constata la differenza di età fra lei e Antonio.
Quest’ultimo viene rappresentato con un’immagine solare e luminosa, con un sorriso splendente, che
accende l’idea della giovinezza e della salute che lei non ha mai avuto. La sua immagine, invece, appare
caratterizzata dai segni della fatica, con le sue mani dure da lavoratrice.

Nello stesso momento in cui è assorta in una fantasticheria di rinascita, questa si rivela fragile,
impossibile, dura pochissimo. La rottura di questa proiezione del desiderio è causata, anche in questo
caso, dall’apparizione della luce artificiale. La luce della lampadina elettrica nascosta nella pergola
illumina questa realtà di impossibile assortimento di coppia, rivelando la disarmonia della coppia. La luce
artificiale disvela sempre realtà negative: abbiamo visto come, in quel caso alla luce di una lampada ad
olio, appaiano i volti dei familiari a Eugenia. Nel momento in cui li guarda da vicino, emergono quei
ritratti mostruosi e deformati dall’eccessiva vicinanza e dalla proiezione della luce. Anche in questo caso,
la luce artificiale disvela la disarmonia.

La ritroviamo a pag. 54, quando si fa riferimento al presepe allestito in casa Finizio. Anche in questo caso,
c’è una lampada elettrica posta nel presepe per illuminare la stalla e la luce illumina una realtà che
appare negativa. Anche l’immagine di San Giuseppe e la Madonna rappresentata precedentemente è
un’immagine deformata e i personaggi del presepe presentano segni di deformazione, come se
facessero delle smorfie. La realtà interna alla grotta appare con questi segni stravolti di deformazione,
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mentre la realtà esterna, quella che sta al di fuori del presepe, viene rappresentata positivamente.
Quando constata questa possibilità il viso le si indurisce, la fronte appare aggrinzita, ha dei tratti irrigiditi,
si fissa in una espressione ebete.

“Guardava sempre giù, ma la sua faccia era un'altra: la fronte raggrinzita nello sforzo di dominarsi, le
palpebre troppo rosee abbassate, col moto meccanico di una bambola, sugli occhi turbati dalla
mortificazione” (pag. 40)

Anche lei è caratterizzata attraverso questo tratto della stupidità (come Eugenia) ed è immersa in questo
torpore. Anastasia non riesce a prendere le distanze da quella prospettiva di vita che le è stata imposta
dalla famiglia e anche dalla società. In questa società, lei ha l'impressione di sentirsi realizzata ma è
soltanto un'impressione. Lo vediamo alla fine di questa pagina, dove ritorna il come se: “Come se fosse
felice, come se le bastasse il suo lavoro […]”, trattandosi di una realtà apparente, che viene poi smontata.

Questo status le è stato imposto sia dalla famiglia che dalla società, che non provvede ai bisogni di una
famiglia rimasta senza padre, per cui è lei che si carica del peso della famiglia. Di fronte a questa
condizione, diventa desiderabile persino questa dimensione di asservimento incondizionato al volere
maschile. Lo ribadisce alla fine di questo passo, dove ritorna quest’affermazione: “Come una vera donna,
serve un uomo... Sì, nient'altro” → qui c’è una concezione arcaica del rapporto tra uomo e donna. La
condizione femminile è ancora presentata come una condizione di totale asservimento al volere
maschile. Ciò nonostante, avrebbe preferito buttar via tutte quelle soddisfazioni pur di servire un uomo.
I rintocchi delle campane la scuotono da questa proiezione fantastica e la riportano alla realtà, facendole
riempire gli occhi di lacrime perché constata che quel sogno è impossibile.

C’è poi uno stacco tipografico, dove finisce la prima parte. La vicenda la possiamo articolare in tre fasi:
la prima fase è quella che abbiamo letto, che è quella dell'illusione che prende corpo nella sua fantasia
e viene poi sottoposta alla riflessione. Ma da questo confronto con la riflessione, quell’illusione resta
schiacciata. Prende corpo, da questa riflessione, un doloroso e faticoso chiarimento intimo, poiché
chiarisce a sé stessa come stanno le cose: da una parte analizza come potrebbero essere, dall’altro le
sottopone alla realtà, in cui queste fantasie non reggono.

Nella seconda fase c’è la dimensione della realtà, non più solo discorsi interiori rivissuti ma il confronto
con gli altri personaggi che popolano la scena. Ci sono qui le circostanze oggettive della realtà.

Nella terza fase, la vicenda si chiude con una sorta di smemorato ritorno all'ordine, ritorno alla sua vita
sempre uguale, poiché questo tentativo di cambiare la sua esistenza si rivela illusorio e fallimentare.

Nella seconda fase viene rappresentata la sua famiglia, che appare segnata da una parte dalla difficoltà
della sussistenza, dall’altra dalla salute malferma e precaria. C’è una sorta di inferiorità genetica della
sua razza: più volte nel testo è sottolineata la presenza della malattia come una tara ereditaria, e questo
è un tratto molto tipico della narrativa naturalista più che di quella verista. La malattia di cui soffrono
molti componenti della famiglia è la tisi, e più volte nel testo si fa riferimento a questa condizione.

In questa famiglia, Anastasia è colei che è costretta a soccorrere tutti, vive in uno stato di soggezione nei
confronti di tutti i membri della famiglia, soggiace a tutte le richieste e gli egoismi imperanti all’interno
della famiglia. Nonostante il fratello e la sorella siano segnati dalla malattia, tutti i personaggi della
famiglia hanno però una volontà di sopravvivenza molto forte, che li porta ad essere egoisti e ad
appoggiarsi completamente sulla sorella.
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La prima a legittimare questo tipo di atteggiamento nei confronti di Anastasia è la madre, che appare
come la più inflessibile carceriera della figlia, ha un bisogno costante di tenerla in uno stato di
soggezione, di mortificarla e di assimilarla in qualche modo alla sua condizione di donna invecchiata. Più
volte la considera come se avesse la sua stessa età, riferendosi a lei facendo riferimento alla condizione
di donna invecchiata che è stata costretta a sacrificare per il bene degli altri la sua giovinezza. Anche se
Anastasia non ha la sua età, la madre la attira in quella condizione di rinuncia alla vita e alla giovinezza
che ha dovuto subire lei.

“Aveva finito presto d'essere giovane, lei, e non perdonava facilmente chi voleva sottrarsi alla legge che
lei aveva subìto.” → A pag. 49 questo passo che mette in evidenza la dinamica psicologica che si innesca
nella madre, la quale prova un risentimento verso la figlia, perché le sembra che la figlia abbia la pretesa
di volersi sottrarre al destino che incombe su di lei. La madre ha finito presto di essere giovane, ma non
perdona facilmente chi tenta di sottrarsi a questa legge che lei aveva subito.

Non ha alcuna simpatia per Anastasia, poiché la sua preferita è Anna, fidanzata e malata di tisi. Questo
viene esplicitato a pag. 48, quando ci viene spiegato che questo stato di torpore è quello che fa comodo
a tutti, che consente alla famiglia di vivere sulle spalle di questa donna, ed è bene che Anastasia continui
a stare in questo torpore. Se si spezzasse questo stato di torpore, gli equilibri della famiglia sarebbero
tutti sconvolti.

“Si stupiva sempre che la figlia fosse così rassegnata, ma certo rientrava nei disegni di Dio.” (pag. 48) →
anche in questo caso la religione viene utilizzata per avallare questo destino di soggezione.

La madre, in qualche modo, si rivede in Anastasia e confronta l’immagine di Anastasia con il ricordo di
sé che aveva da ragazza, e la confronta con l’immagine di Anna che, pur nella malattia, ha un’immagine
più solare rispetto alla sorella. Questa luminosità nasce proprio dal fatto che ha una condizione affettiva
e sentimentale più risolta, ha una prospettiva di felicità davanti a sé. Le parole che la madre rivolge ad
Anastasia sono sempre parole rivolte a lei attraverso una forma di cattiveria, sta sempre a pungolarla e
ad usare questo tono cattivo e acido con lei.

Anche lei è venuta a sapere del ritorno di Antonio, sa che la figlia era stata innamorata di lui, e comincia
a stuzzicarla, dapprima indirettamente, poi in maniera diretta. A pag. 49, mentre le due donne
chiacchierano, il discorso slitta sulla sorella, e la madre dice che la sorella non vuole fare niente.
Anastasia prova a giustificarla dicendo che è giovane e malata, e la madre inizia a sondare indirettamente
lo stato d’animo di Anastasia di fronte alla notizia ricevuta. → “Tante volte mi dico: che sarà di quella
figlia mia, il giorno che Anastasia vorrà sposarsi? Basteranno, a proteggerla, gli occhi del marito? Perché
una volta o l'altra, quel giorno può venire.” La figlia si schernisce, la prende come un’ipotesi non
praticabile a causa della sua bruttezza. Non contenta di questo effetto, la madre ritorna sull’argomento
in maniera diretta, completando l’informazione parziale ricevuta da Anastasia e dicendole che Antonio
è tornato ed è fidanzato. Questa notizia atterrisce Anastasia, e si vede la cattiveria della madre nei suoi
confronti, poiché gliel’ha detto per ferirla. La madre è invidiosa della sua indipendenza e dei suoi
tentativi di emancipazione e tenta di umiliarla e mortificarla continuamente → “La irritavano
continuamente le intenzioni segrete, la mancanza di umiltà di Anastasia, quel vederla vivere così
indipendente, quasi una signora, mentre lei conduceva una vita servile.” Ovviamente la madre sa di aver
raggiunto il suo scopo, ovvero di colpirla e ferirla.

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A pag. 52 c’è un’altra interpretazione del pensiero della madre → “Mortificarla, doveva, ecco tutto,
mortificarla, e, indirettamente, con delicatezza, richiamarla ai suoi doveri” → il richiamo ai doveri di
Anastasia passa attraverso l’umiliazione e l’abbattimento, si deve sentire in uno stato di soggezione.

I colloqui tra la madre e Anastasia sono sempre caratterizzati da questa sorta di schermaglia, di continui
attacchi e parate. Anastasia prova a difendersi soprattutto con il silenzio, non da corda alla madre, non
vuole darle la soddisfazione di vedersi colpita e abbattuta, ma la madre ha sempre questa tentazione di
colpirla e di mortificarla.

Perché Angelina Finizio si comporta così? Il narratore prova a decifrare la sua psicologia, prova a capire
perché ha questo tipo di atteggiamento nei confronti della figlia. A pag. 51, quando si sta mettendo a
fuoco un altro evento che irromperà in questa giornata di Natale, cioè quello della morte di donna
Amelia, riflette su questo modo di comportarsi della Finizio.

“Il pensiero che donn'Amelia, una sua buona vicina, fosse agli ultimi giorni (era gravemente ammalata
di cuore), commoveva e insieme rallegrava la Finizio, che nella sua grama esistenza traeva
dall'avvilimento degli altri un'oscura consolazione”.

La psiche della Finizio è segnata da questa forma oscura di consolazione. Si consola del suo stato
constatando la miseria e l’infelicità degli altri. La notizia della prossima morte di donna Amelia la
commuove e la rallegra perché non tocca a lei questo destino, ma ad un’altra persona.

Anastasia nei confronti della famiglia si mostra sempre arrendevole e disponibile. Mentre nel lavoro
all'esterno è sempre determinata, tenace, (la possiamo definire una donna di successo nell'ambito
lavorativo perché ha avviato questa attività), all'interno della famiglia ha sempre un atteggiamento di
arrendevolezza, è alle dipendenze ed è soggetta ai voleri di tutti i componenti della famiglia.

Anna, sua sorella, è esonerata da tutti i doveri, mentre il peso di tutta la gestione della casa incombe su
Anastasia. A pag. 45 viene detto che Anna non faceva che suonare il pianoforte e passeggiare. Lei ha la
possibilità di vivere una vita diversa rispetto ad Anastasia, di vivere una relazione amorosa, di sposarsi,
tutto ciò di cui Anastasia si è privata. Anastasia cerca aiuto per tirar fuori dei bicchieri polverosi dal baule,
poiché non si vuole piegare perché era ancora vestita dopo la messa. Ma nessuno la aiuta: il fratello
scappa via, la sorella le dice che si è appena fatta le unghie e non può rovinarsi le mani, e fare questo
lavoro tocca a lei.

Il rapporto fra queste due sorelle è un rapporto di soggezione: c’è stata, fino ad un certo punto, una
sintonia fra le due e uno stato di confidenza, ma poi anche questo è venuto meno. C’è un contrasto
stridente tra i doveri di Anastasia, che oltre a dover lavorare fuori quando torna a casa deve occuparsi
delle faccende domestiche, del pranzo, ecc., e lo stato di libertà in cui vive Anna. Alla fine di pag. 43
troviamo la battuta in cui Anna si rivolge ad Anastasia dicendo “Mammà dice pure se vai un momento in
cucina a darle una mano. Io devo ripassare le canzoni”. Quindi, ad Anastasia tocca il lavoro pesante,
mentre Anna vive in uno stato di leggerezza, di non assunzione delle responsabilità.

E anche il fratello, che porta sul corpo impressi i segni della malattia pur essendo guarito, la comanda a
bacchetta. Alla fine di pag. 45, Eduardo viene descritto fisicamente: è alto come Anastasia, e orribilmente
magro. “Alto come Anastasia, e orribilmente magro, aveva il petto incavato come la luna, di tutti quelli
della sua razza.” → Qui c’è il concetto deterministico della razza, non si sfugge all’ereditarietà di

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caratteri. Subito dopo, Eduardo esclama “Anastasia, le mie camicie”, chiedendole se avesse stirato le
sue camicie e facendo cadere su di lei anche questa incombenza.

Tutti all’interno della famiglia la comandano, il suo è un destino di soggezione riservato alla donna nubile
che rimane nella casa paterna. Il suo destino è anticipato in quello della zia Nana, che vive con loro,
costretta dal suo stato di zitella a una vita servile e silenziosa in casa della sorella maritata. Questo
destino si tramanda di generazione in generazione, che tocca in sorte a tutte le ragazze che restano
nubili. Questo personaggio vive di vita riflessa, come se la sua vita fosse congelata e assistesse da
spettatrice alla vita che le scorre intorno.

“Un vero mostriciattolo, poi, sembrò agli occhi turbati di Anastasia la zia Nana, ch'era curva a lavare il
pavimento. […] Con gli anni era diventata quasi del tutto sorda, così da non afferrare più quei rimbrotti
e quelle risate che si facevano di tanto in tanto a suo riguardo” (pag. 44) → Il suo è un destino di
soggezione e derisione. Anche le letture che ama fare mettono in evidenza la passione per la vita degli
altri: faits divers, cronache passionali, suicidi, omicidi, avvenimenti amorosi.

Questa rappresentazione della zia è espressionistica, le fattezze di questa donna sono irregolari,
stravolte, col volto gonfio, gli occhi neri inquietanti, la statura bassissima, sembra raccorciata e contorta.
Anche i suoni con cui viene rappresentata sono aspri, duri (prevalenza della c, della t, della r). Questo
ritratto espressionistico è presente anche nel Mastro don Gesualdo: quando nel capitolo tre si trova
indicato a casa della baronessa per assistere al passaggio della processione del Santo patrono, c'è tutta
una galleria di ritratti espressionistici e deformati. Uno di questi è quello di donna Fifì Margarone.
“Donna Fifì”, scrive Verga, “disseccata e gialla dal lungo celibato, tutta pelosa, con certi denti che
sembrava volessero acchiappare un marito al volo, sovraccarica di nastri, di fronzoli e di gale, come un
uccello raro.” Qui ritorna l’immagine di questo aspetto, questo colorito giallo, come se fosse la rinuncia
alla soddisfazione di un bisogno primario a contraffare i suoi lineamenti. E quegli occhi sono neri e
terribili, sono gli occhi di chi cerca il peccato e la soddisfazione. Quegli occhi, nel Mastro don Gesualdo,
sono attribuiti a una monaca di casa che, però, nello sguardo rivela tutta la sua passionalità. È stata
costretta dalla famiglia a farsi monaca, ma tutto nel suo corpo e nel suo fisico contrasta con questo
destino che la famiglia le ha imposto.

(pag. 45) → Quando la guarda, Anastasia si sente invadere dalla tristezza, poiché la zia incarna quel
destino che è dietro l’angolo per lei. E se questo barlume di speranza che si è acceso col ritorno di
Antonio si dovesse spegnere, Anastasia sa che è quello il destino che le tocca.

Anche Anastasia, come la zia, dovrà prendersi cura dei nipoti che verranno. A partire dalla fine di pag.
45 viene detto che il fratello e la sorella di Anastasia sono in procinto di sposarsi e sono tutti animati da
una forte volontà di sopravvivenza. Quindi, pur essendo segnati nel corpo dalla malattia, hanno questa
tensione vitale che in loro viene accesa dall’amore mentre Anastasia, che di salute sta bene, non ha
questo slancio vitale così acceso. La condizione della donna nubile è tracciata dalla società come una
condizione di segregazione femminile: la donna nubile non può uscire da sola ma sempre accompagnata
da un uomo, non ha libertà.

A pag. 46 troviamo le considerazioni relative ai nipoti che Anastasia avrebbe dovuto crescere assieme
alla cognata.

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“Le spese del mobilio erano di Dora Stassano, che lavorava da sarta guadagnando abbastanza bene, ma
anche Anastasia vi avrebbe contribuito, e i figli che sarebbero venuti, con la schiena lunga e la faccia da
piccoli cavalli vecchi, Dora Stassano e lei avrebbero dovuto mantenerli.” (pag. 46)

Le spese del mobilio erano a carico della moglie perché i fratelli non mettono su una casa loro, ma
occupano alcune stanze della casa sfrattando Anastasia che, come vedremo, sarà poi costretta a passare
nella camera della madre. Anche Anastasia contribuirà alle spese, poiché è l'unica lavorare nella famiglia:
di fatto, suo fratello aspetta ancora di ottenere un posto al municipio, ma nel frattempo non ha un
lavoro. Inoltre, si fa nuovamente riferimento all’infanzia rappresentata in questi racconti come
invecchiata a causa delle difficili condizioni di vita: l’abbiamo visto anche in Eugenia, che è una bambina
con già i tratti della vecchiaia. La voce narrante, utilizzando i termini “solo Anastasia”, sottolinea come
lei sia segnata da un destino di morte. Il narratore, infatti, è colui che è in grado di guardare oltre e di
vedere la prospettiva che attende Anastasia. La percezione del destino che l'attende non fa che
aumentare il peso che Anastasia si sente sulle spalle, poiché ha l’impressione di essere come un cavallo,
schiacciata da una soma troppo pesante.

“solo Anastasia, aiutata da quel commesso avrebbe dovuto portarli avanti.” (pag. 46) → questa
considerazione non è tratta dal discorso rivissuto di Anastasia, ma appartiene alla voce narrante. Subito
dopo, il narratore dice “Ma su questo particolare non si fermò”, quindi Anastasia non si sofferma a
pensare che i figli della sorella avrebbe dovuto tirarli su lei da sola. Ma il narratore, che vede oltre, può
affermarlo perché sa qual è il destino che incombe su Anastasia.

Quindi, l’unica certezza che ha Anastasia è quella di essere costretta a portare questo fardello così
pesante: si sente sempre più schiacciata dai pesi e dalle responsabilità che è costretta a portare. Pur non
essendo in una condizione senile, viene risospinta soprattutto dalla madre verso una condizione di
vecchiaia. Questa operazione portata avanti dalla madre per assimilare la figlia al suo destino di infelicità
continua e viene perseguita anche nella scelta di spostare Anastasia nella stanza della madre. Il fratello
più piccolo, invece, avrebbe avuto un lettino nella stanza da pranzo, perché entrambi sono sfrattati dalle
stanze che occupano per essere occupate dai neosposi.

La madre non perde occasione di accomunare Anastasia a sé stessa, al suo destino di soggezione e
privazione, segnato dalla fatica, dal lavoro, dalla rinuncia, ha bisogno di schiacciarla ed umiliarla per
asservirla. La madre la coinvolge in un consuntivo drammatico di questo momento festoso. A pag. 53,
prima dello stacco tipografico, Anastasia dice alla madre “Vi sarete stancata, mammà” e lei risponde
“Forse. Queste feste sono una fatica terribile, se le godono solo i giovani. In quanto a noi, alla nostra età,
non c'è più niente che possa portarci consolazione. Servire, servire fino alla morte, ecco quanto ci rimane.
E tutto quanto facciamo, è per gli altri.” La madre la paragona sempre a sé, ma sappiamo bene che hanno
due età differenti. Il destino di Anastasia oramai è segnato e deciso dalla madre, questo destino bloccato,
senza possibilità di liberazione.

Anastasia razionalmente sa qual è la realtà, sa che non c’è nulla di straordinario che possa essere
possibile nella sua vita. Ciò nonostante, per un momento l’irruzione di pulsioni represse la portano a
sognare ad occhi aperti un destino diverso. → “Non c'era nulla di straordinario. […] Il suo cervello sapeva
questo, ma il suo sangue non lo sapeva più.” (fine pag. 56) Nel momento in cui si mettono a tavola,
Anastasia era assorta nel suo sogno che il giovanotto si rechi in casa a salutare, così lei lo avrebbe rivisto
dopo tanto.
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Questo stato di piacevole stordimento viene interrotto bruscamente perché dal cortile si sentono delle
voci e si sente piangere, e si diffonde la notizia che donna Amelia era morta. È la zia Nana a tracciare un
bilancio drammatico di quella che è l’esistenza, commentando la notizia della morte di donna Amelia.
“Questa era la vita, un giorno o l'altro, quando non c'era più la gioventù: l'ospizio o una cassa da morto.”
(pag. 59) → è un destino assolutamente tragico quello che incombe sulle generazioni che hanno
oltrepassato la gioventù. Questo bilancio potrebbe essere ancora più tragico se si fermasse a considerare
che la morte nella sua famiglia minaccia anche la gioventù. Alla notizia della morte di donna Amelia,
Anastasia si mette a piangere, non tanto di pietà per la defunta, quanto di dolcezza di fronte a questa
vita, come se avesse appena scoperto la profondità dell’esistenza. È questo stato di profonda
esasperazione di sentimenti che porta Anastasia a guardare con altri occhi la realtà e la gente che le sta
intorno. Questa consapevolezza, che raggiunge l’apice in questo momento, (è come se il personaggio
fosse colto da un’illuminazione improvvisa) è destinata a piegarsi nella rassegnazione e nell’accettazione
passiva del proprio destino. Il narratore precisa, a pag. 60, che “Per questo i suoi occhi erano pieni di
lacrime: non perché donn'Amelia fosse stesa sul letto di morte, bianca in faccia e mite com'era sempre
stata, ma perché in questa vita c'erano tante cose, […]” → è come se il cerchio si chiudesse, ritorna allo
stesso scenario iniziale, quando ha fatto riferimento alla morte del padre, sepolto su quelle colline.

Il pensiero di Anastasia ritorna calmo, inerte, com’era sempre stato. Questa scoperta del mondo si rivela
effimera, poiché quella speranza di liberazione da questo stato di servitù viene schiacciata da un destino
che appare segnato dai doveri. Questo coesistere di pulsioni opposte (la pulsione verso la rassegnazione
e quella verso una proiezione di desiderio di realizzazione del proprio lato femminile) finiscono per
essere smorzate nel meccanismo di ripetizione della vita quotidiana. Anche nella tradizione di
tramandare gli stessi nomi a figli e nipoti si vede questo destino di ciclica e monotona ripetizione
dell’esistenza. Cambiano le figure ma non cambiano i ruoli. Le speranze nutrite la mattina, ritornando
dalla messa festiva, rivelano adesso tutta la loro illusorietà agli occhi della protagonista. Anastasia, dopo
aver provato quell’accensione sognante e momentanea, ritorna in quello stato di rassegnazione che la
caratterizza e, alla fine del racconto, ritorna al culto degli abiti che abbiamo visto all’inizio, l’unica
consolazione che le resta.

“Meccanicamente, in quel torpore ch'era sopravvenuto adesso nel suo cervello, e la faceva inerte, quieta,
Anastasia andò all'armadio, lo aperse, e visto il mantello turchino, che stava lì come una persona
abbandonata, vi fece scorrere delicatamente le dita sopra, provando una pietà che però non era legata
a niente, a nessun particolare ricordo o sofferenza. Quindi, avvertito a un tratto il richiamo della madre,
rispose adagio, senza alcuna intonazione: - Vengo.” (pag. 61)

Quella pietà è riferita al suo stato, alla percezione del ruolo che i vestiti ricoprono nell’esistenza, un ruolo
di copertura come un guscio svuotato. Di fatto, accarezza il mantello che indossa la mattina come una
persona abbandonata, come se fosse una parte di sé. Quel mantello diventa una sorta di metonimia, un
Io che oramai è spento. La sua è una personalità repressa e sottratta al ciclo vitale. Quel “Vengo” finale
che chiude la novella sancisce l’accettazione del suo destino di soggezione nei confronti della madre e
della società che ha costruito in questo modo i ruoli. Rinuncia, in questo modo, alla propria realizzazione
come donna.

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I racconti della parte centrale, Oro a Forcella e La città involontaria, hanno un tono più cronachistico
rispetto ai primi due, che hanno una dimensione più narrativa. Nel primo c’è il prevalere della tecnica di
rappresentazione verista, nel secondo un verismo più introspettivo e psicologico, col narratore che è
contiguo al protagonista, e questi due racconti mettono in scena gli effetti di uno sviluppo bloccato. I
loro desideri si accendono e si spengono immediatamente. Eugenia sogna la prospettiva di vedere un
mondo diverso fatto di colori e luci scintillanti ma, nel momento in cui indossa gli occhiali, la realtà le
appare completamente diversa e orrida. E così Anastasia, che nutre questo sentimento che la risveglia
da quello stato di torpore, ma poi questo sogno si sgonfia e lei ritorna allo stato iniziale.

Gli scritti successivi, invece, ampliano lo spettro d’indagine: non c’è più un unico protagonista ben
rilevato, ma uno sguardo più rivolto a situazioni collettive e una dimensione più saggistica, un intento
più documentario, l’intento di fornire una fotografia della realtà. Anche dal punto di vista delle tecniche
narrative, questi scritti sono condotti in maniera differente rispetto ai primi due.

ORO A FORCELLA

Oro a Forcella fa da cerniera fra i racconti narrativi e quelli documentari: possiamo definirlo un ibrido
poiché ci sono gli aspetti di entrambe le tipologie di scritti. Questo racconto è uno di quelli già pubblicati
sulla rivista Il Mondo di Mario Pannunzio nell’ottobre del 1951 con il titolo La plebe regina, un titolo che
è tratto da una frase racchiusa nel racconto. Il racconto è condotto in prima persona da una narratrice
che da una parte è perplessa, in seguito alla realtà che le si para dinanzi, dall’altra dimostra un occhio
partecipe, appassionato alla realtà che vede, e questo la porta a rappresentare questa realtà con tratti
forti e accesi. Anche qui troviamo quella rappresentazione di figure espressionistica. La narratrice, ad
inizio racconto, si raffigura su un autobus mentre si dirige a San Biagio dei Librai, ma l’autobus è così
pieno di gente che non riesce a scendere alla sua fermata, ma a quella successiva. Qui, si trova
catapultata nella realtà di Forcella, quartiere del centro storico di Napoli che prende il nome dalla forma
di bivio a Y che ha questa zona. Questa zona è popolare e densamente abitata. Guardando quella folla
ronzante, la narratrice ha l’impressione che stia succedendo qualcosa, e pensa che o c’è un mercato o è
scoppiata una rissa. Per questo, chiede che cosa stesse succedendo ad una signora anziana seduta in un
angolo della via, che conosce quella realtà. E la risposta che le da rende conto della natura estranea della
narratrice.

“C'era una vecchia seduta accanto a una pietra, all'angolo della via, e mi fermai a domandarle che
stessero facendo tutte quelle persone. Alzò il viso butterato dal vaiuolo, chiuso in un gran fazzoletto nero,
guarda anche lei a quella lontana striscia di sole, in mezzo a Forcella, dove si gonfiava, come un serpe,
tanta folla, e ne veniva quell'alterno doloroso ronzìo. - Niente stanno facenno, signò, - disse calma, - vuie
sunnate.” (pag. 63) → subito la inchioda nella percezione stravolta che ha della realtà. Il fatto che ci sia
così tanta gente che si muove su e giù per la via da l’impressione all’occhio esterno di un evento
straordinario. La narratrice sogna, è stranita, ma anche i personaggi che popolano questa strada hanno
una strana aria ebete, sono in uno stato di istupidimento. Anche il sole (l’elemento che più caratterizza
l’iconografia napoletana) non è luminoso, ma velato dalla polvere. Già la luce che si vede in questo
quartiere è smorzata, che anticipa l’universo popolare che si trova davanti agli occhi la narratrice man
mano che procede in questa strada. Persino gli asini rappresentati successivamente incarnano questa
condizione di rassegnazione ed apatia della gente del posto. Questa caratteristica degli animali è la
stessa degli abitanti del luogo: la loro inerzia vitale è la stessa degli abitanti.
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Rassegnazione, pazienza e apatia sono i tre tratti caratterizzanti di questo microcosmo. E l’immagine
più emblematica che rappresenta questa atonia silenziosa è quella che troviamo subito dopo, cioè
l’immagine del mendicante che appare seminascosto dal carrettino della nettezza urbana e che siede
addormentato. Questo mendicante sta lì inerte, non fa niente per risvegliare la pietà negli altri, accetta
il suo destino in maniera passiva e rassegnata.

La narratrice passa da una visione generale a una visione che man mano stringe il campo visivo e si fissa
sulle figure viventi che popolano questa strada (asini e mendicante). Anche queste figure umane sono
rappresentate in questa chiave espressionistica: lo vediamo subito dopo, quando tornano nuovamente
le immagini di personaggi affetti da nanismo (già visti precedentemente: Mariuccia la portinaia in Un
paio di occhiali e la zia Nana in Interno familiare). La deformità viene moltiplicata e trasmessa per via
ereditaria, perché non c’è nessuna attenzione per il contenimento delle nascite, altro tratto
caratteristico della realtà napoletana che osserva l’autrice. Queste figure segnate nel fisico devono stare
ancora più attenti, poiché essendo bassi sono destinati ad essere urtati e calpestati da tutti. Dopo i nani,
troviamo mendicanti minorati, o semplicemente professionisti della finzione che vogliono trarre
vantaggio. Qui mette insieme due tratti caratteristici: quello dell’autenticità, ossia della convinzione di
minorità, e quello della furbizia e della finzione. Questi personaggi sono tutti rappresentanti di
un’umanità offesa, segnata dalla malattia e dalla deformazione. La narrazione della Ortese, con questo
tipo di rappresentazione caricaturale, finisce per deformare ulteriormente queste sagome già segnate
dalla deformità.

Accennando al fatto che ci siano professionisti della finzione, anticipa quello che sarà l’episodio finale in
cui una donna, esasperata e con toni teatrali, chiederà di saltare la fila per accedere al banco del Monte
di Pietà per impegnare una catenina e mette in scena tutta una situazione familiare precaria e segnata
dalla sofferenza. Uno dei fattorini che si aggirano per la sala rivela al lettore che si tratta di una
messinscena e non c’è nessuna situazione urgente. Questa tendenza all’amplificazione e alla finzione
viene sottolineata già all’inizio quando sta ancora mettendo a fuoco il quadro.

L’umanità di questi personaggi è stravolta, sofferente: anche nei tratti somatici si ha la percezione della
lamentosità di questa gente. L’immagine che ci offre la Ortese è opposta a quella dello stereotipo

dell’allegria napoletana, contrasta con quell’idea di solarità che è stata tramandata. La narratrice
sottolinea questo contrasto tra la sua percezione e la vulgata della condizione napoletana.

“Quel tappeto di carne, che anche entrando in San Biagio dei Librai mi era parso fittissimo, una volta sul
posto non c'era più, o per lo meno non era così allucinante […]” (pag. 65) → prevale qui una
rappresentazione di tipo metaforico, poiché usa una metafora molto forte per rappresentare tutta
quella gente. È la stessa narratrice che sottolinea come la sua visione sia opposta rispetto a quella legata
allo stereotipo della tradizione napoletana. I registri stilistici che usa la Ortese non hanno nulla a che
vedere con questa rappresentazione solare, del sentimento, del cuore. La sua è una rappresentazione
più asettica e impassibile, è lo sguardo del chirurgo che affonda il bisturi in maniera cruda perché sa che
deve fare il suo dovere. Il giudizio e la morale che si può trarre di ciò che osserva non vengono manifestati
in maniera esplicita, ma risaltano in maniera implicita attraverso questa rappresentazione deformata
della realtà. Emerge dall’accostamento di queste figure deformi e segnate dalle condizioni di vita
disagiate. Il fine di questa scrittura, che è portata a mettere a fuoco queste figure deformi, è quello di
denunciare che l’ordine delle cose è stato sovvertito, che la realtà è stravolta.
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Nel terzo racconto troviamo immagini di un’umanità che porta i segni della sopraffazione e dello stato
di soggezione, che stravolge le sembianze umane, le quali non appaiono composte e armoniche ma
portano i segni di questa disarmonia. Il fine di questo tipo di scrittura, che punta a mettere a fuoco le
forme, le smorfie, i tratti alterati, è quello di denunciare un ordine delle cose che è stato sconvolto.
Questo procedimento di scrittura finisce per deformare ancora di più queste sagome umane, che
appaiono alterate e stravolte.

La scrittura della Ortese è una scrittura di controcanto rispetto alla scrittura iconografica prevalente
della napoletanità, ovvero la rappresentazione non solo letteraria ma anche musicale della Napoli come
posto del cuore, del sole e del sentimento. La Ortese invece punta a smascherare questa falsa immagine
di Napoli che è stata trasmessa nel mondo con una scrittura che può sembrare a tratti crudele, perché
si sofferma sui tratti deformi, e può sembrare impassibile nella sua freddezza e lucidità, che punta a una
analisi minuziosa.

Alla fine della scena in cui emerge l’immagine metaforica della folla come tappeto di carne, l’autrice
stessa mette a fuoco che questa voce è una voce spezzata e del tutto diversa da quella della Napoli
tradizionale letteraria e iconografica. Questa visione del tappeto di carne che va spostandosi verso il
quartiere di San Biagio dei Librai genera una visione sgomenta, una “meraviglia” nell’accezione di
sgomento, con connotato negativo. “Veramente era cosa che meravigliava, e oscurava tutti i vostri
pensieri” (pag. 65) → la ricorrenza del testo del termine “meravigliato/meravigliare” ricorre in tutti i
racconti de Il mare non bagna Napoli.

Quello che sgomenta è soprattutto il numero dei bambini. L’occhio si sofferma sulla cornice dell’infanzia,
sul numero molto alto di bambini. La Ortese sottolinea che questa moltiplicazione non è guidata da un
processo razionale, ma nasce piuttosto da una forza incontrollata, scaturita dall’inconscio, da un delirio
della carne (pag. 67). Quindi non c’è una logica razionale: questa razza è una razza svuotata di ogni logica
e raziocinio. Ritorna l’immagine dell’infanzia e dei bambini come topi (già nella prima novella, Eugenia è
rappresentata come un topo che si aggira tra le abitazioni, rappresentate come topaie da cui i bambini
sbucano).

Questa umanità contrasta con l’immagine serafica rappresentata nelle icone sacre disseminate in questi
luoghi.

“Faceva contrasto a questa selvaggia durezza dei vicoli, la soavità dei volti raffiguranti Madonne e
Bambini, Vergini e Martiri, che apparivano in quasi tutti i negozi di San Biagio dei Librai, chini su una culla
dorata e infiorata e velata di merletti finissimi, di cui non esisteva nella realtà la minima traccia.” (pag.
67)

L’autrice mette a fuoco questo contrasto tra l’asprezza dei tratti delle persone che popolano questi vicoli
con la soavità dei volti delle vergini e dei martiri. Non c’è traccia di immagini serafiche o di ricchezza nella
realtà. (Nel racconto successivo vedremo che non c’è traccia di un’infanzia protetta).

La Ortese mette a fuoco l’abolizione della razionalità: anche la procreazione si riduce a un semplice
cedimento agli istinti, è un puro sfogo di sensualità. Su questa popolazione incombe un destino di
sopraffazione e alienazione. Anche qui c’è il riferimento alla corruzione di una razza, una accentuazione
dei tratti deterministici che hanno portato alla corruzione di questa razza svuotata da ogni logica e
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raziocinio. L’uomo è un’ombra di se stesso, segnato dalla malattia (non solo organica ma anche mentale
e psicologica). La Ortese accenna alla rassegnazione di questa gente, la cui allegria non è che un riflesso
incondizionato, una sensazione che nasce dalla mancanza di pudore. La popolazione cresce e si espande
nonostante la miseria che si dirada come una ragnatela tessuta da un ragno (sono molto frequenti i
riferimenti al mondo animale, soprattutto agli insetti, a quegli animali che incutono ribrezzo
nell’immaginario quotidiano).

Viene rappresentata una forma di religiosità ottusa che punta a esaltare la miseria e il martirio per
riaffermare quei rapporti di forza e quelle gerarchie che reggono la società napoletana. Il traviamento e
la perpetuazione di questo stato di miseria sono in parte attribuiti a una forma di religiosità ottusa che
poggia sulla malafede del clero e sulla volontà di continuare a esercitare il proprio potere su questa
popolazione ridotta sempre più allo stremo.

“Qui, il mare non bagnava Napoli.” (pag. 67) → ritorna il riferimento al titolo (questa locuzione è
presente in più scritti della Ortese); in questo caso serve a sottolineare il fatto che questa è un’umanità
per nulla segnata dalla possibilità di redenzione, della contemplazione del mare come elemento
paesaggistico rasserenante: l’unica distrazione possibile in questa realtà è rappresentata dal sesso.

Le madri di Forcella non hanno i volti serafici delle icone sacre disseminate per la città, ma assomigliano
a immagini sacre annerite dal tempo. Le donne sono segnate dalla sporcizia, dagli zigomi gialli (tipici del
colera), gli occhi pensierosi, i capelli raccolti sul capo con una forcina, le braccia stecchite (eccessiva
magrezza) giunte sul grembo (riferimento alla maternità della vergine che in questo caso non ha nulla di
serafico). L’immagine del sacrificio e del martirio rappresentata dal clero non è che la rappresentazione
di schemi fissi, di una organizzazione sociale fissa e incontrovertibile: non c’è possibilità di sovvertire
quei rapporti di classe, non c’è nemmeno la volontà di farlo. La critica si scaglia contro il clero, la
borghesia e l’aristocrazia che arricchiscono e si giovano di questo stato di cose.

La Ortese mette a fuoco questa realtà e tende a smontare anche l’iconografia sacra in relazione allo
scenario che si trova a rappresentare. E questa critica della religione viene portata avanti anche
attraverso l’immagine che raffigura il gioco dei bambini (pag. 66).

“Chi giocava con una scatola di latta, chi, disteso per terra, era intento a cospargersi accuratamente il
volto di polvere, alcuni apparivano impegnati a costruire un piccolo altare, con una pietra e un santino,
e c'era chi, imitando graziosamente un prete, si rivolgeva a benedire.”

Qui c’è una sorta di recita, una pantomima del rito sacro: la religione è ridotta a farsa, a recita. Le
consolazioni della religione sono effimere e contrastano con quelle che sono le necessità di questa
popolazione.

Questa contrapposizione tra le consolazioni religiose e le necessità della popolazione è rappresentata in


maniera architettonica attraverso la contrapposizione della Chiesa e del Monte dei Pegni, dove i poveri
si rivolgono per impegnare i loro beni per riuscire a tirare avanti (pag. 67-68).

“Quando giunsero davanti alla chiesa di San Nicola a Nilo, si segnarono, e poi entrarono nel cortile che
le si apre di fronte. O Magnum Pietatis Opus era scritto sul frontone dell'edificio in fondo al cortile. La
facciata, di un grigio inerte, era simile a quelle di tutti gli ospedali e gli ospizi dei quartieri di Napoli. Ma
dietro, invece di lettini, si allineavano gli sportelli del Monte di Pegni, "grande opera di pietà" del Banco
di Napoli.”
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Da una parte, c’è la Chiesa che rappresenta la religione, una misera consolazione a cui si contrappone,
dall’altra parte, l’urgenza del bisogno e della necessità. Le donne si segnano velocemente con il segno
della croce fermandosi davanti alla chiesa, ma poi entrano nel cortile che si apre di fronte alla chiesa
dove si trovano gli uffici del Monte dei Pegni. Qui si mette a fuoco un altro aspetto della realtà
napoletana: l’attitudine di impegnare non solo beni di lusso (come gioielli) ma persino la biancheria, per
avere qualcosa in cambio per sopravvivere. In quelle scale e nelle sale del monte di Pietà si affolla una
umanità dolente, sofferente rappresentata soprattutto da donne e bambini, gli uomini presenti sono
pochi perché sono loro che cercano di lavorare, di tirare a campare, mentre le donne portano con sé i
bambini al banco dei pegni.

In questo scenario desolante, fatto di miseria, viene messa a fuoco la sala destinata al traffico di oggetti
preziosi: qui le donne sono sedute per terra in attesa del loro turno. In questo scenario di miseria e
desolazione irrompe la figura della zagrellara (merciaia), Antonetta De Liguoro, che si fa largo tra la folla
e si finge disperata, lamentando l’urgenza di impegnare una catenina in cambio di un pegno. In realtà,
alla fine si scopre che sta solo recitando per non fare la fila. Questa recita è pietosa, perché mette in
evidenza come questa gente metta in atto qualunque stratagemma per riuscire a garantirsi un livello
minimo di sussistenza (pag. 69).

“Quella infelice, di cui poi si conobbe nome e mestiere, Antonietta De Liguoro, zagrellara, cioè merciaia,
aveva saputo in strada che il Banco dov'era diretta per impegnare una catena, quel giorno chiudeva
prima, e non l'avrebbero più fatta passare. […] Con gli occhi infiammati, ma ora perfettamente asciutti,
Antonietta De Liguoro ripassò di lì a poco davanti a tutti, trascurando fieramente, o forse senza affatto
vederli, a causa della sua angoscia, quelli che poco prima le erano stati vicini con la loro cristiana pietà.”

La narratrice mette a fuoco uno scenario sociale animato da emozioni differenti: da una parte l’egoismo
che si rivelerà caratterizzante per la figura della merciaia, e dell’altra la compassione di chi le sta intorno.
Ci sono slanci di compassione e pietà da parte delle donne sedute ad aspettare il loro turno che,
nonostante il loro bisogno, davanti a questa donna sono portate a mettere in secondo piano le loro
disgrazie. Emerge in questa pagina il temperamento teatrale del popolo napoletano, la tendenza alla
teatralità nel modo di gesticolare e di parlare (rappresentata proprio dalla recita della merciaia ideata
per saltare la fila). Questa pratica materna dell’inganno si vede già negli sguardi dei figli che, pur essendo
piccoli, sembrano aver assorbito la tendenza al cinismo e all’inganno della madre. Anche qui c’è una
rappresentazione animalesca dell’infanzia, poiché i bambini sono così bianchi e sottili che vengono
rappresentati come dei vermi. Ritorna anche il riferimento a un’infanzia consumata, privata
dell’ingenuità (“avevano sul viso di cera certi sorrisetti così vecchi e cinici, ch'era una meraviglia”).

L’inganno, tuttavia, non salva dalla miseria e dalla catastrofe: pur essendo passata davanti agli altri, la
donna non ha migliorato la sua condizione di vita. Il dialogo fra la donna e l’impiegato sottolinea
l’assenza di compassione dell’impiegato stesso nei confronti delle tragedie umane che si trova davanti.
La donna prova a chiedere qualcosa in più, prova a implorare esponendo le sue finte drammatiche
ragioni, ma l’impiegato resta sobrio e indifferente e porta avanti in parallelo un altro dialogo con un
impiegato, chiedendo un altro caffè, incurante della disperazione della donna.

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L’ultimo segmento narrativo mette a fuoco che si tratta di un inganno. Dopo che la donna esce, la gente
commenta: è un inganno ripetuto nel tempo e che non stupisce più. La vittima rimane tale pur essendo
una presunta vittima: pur avendo messo in scena una finzione, la donna è nel bisogno e nel bisogno
rimane. La gente continua a commentare questo episodio invocando l’aiuto di Gesù, affinché la donna
sia aiutata dai santi per risollevarsi, ma questa monotonia vene rotta da un evento improvviso: l’ingresso
di una falena marrone che irrompe nella sala. Questa immagine genera nella sala un infantile stupore
che rinvia alla possibilità di un imprevisto che possa determinare il sorgere di una speranza, l’infrangersi
di quella catena della necessità-miracolo. Nel finale del racconto, l’irruzione della farfalla rinvia alla
possibile leggerezza del vivere, che stupisce perché è in contrasto con le situazioni angoscianti che si
vivono e sono rappresentate all’interno di questa sala. La farfalla irrompe con questa leggerezza, con
tanti fili d’oro sulle ali e volteggia: questa leggerezza contrasta con la gravità che è presente all’interno
della sala del Monte dei Pegni.

Dopo averci presentato nei primi due racconti due figure individualizzate (Eugenia e Anastasia), in questo
racconto la Ortese focalizza l’occhio narrante sulla rappresentazione della folla, su questa massa di
diseredati. Vengono messe a fuoco la condizione di miseria, le condizioni dell’infanzia e anche l’idea che
senza una forma di alfabetizzazione e istruzione questa popolazione è destinata a rimanere nella miseria.
Viene sottolineata l’importanza di smascherare i rapporti di classe, di mettere in evidenza come
un’autentica compassione non è quella esercitata dall’alto per mantenere il potere, ma quella che può
risollevare questa gente attraverso la conoscenza, l’istruzione e la presa di coscienza di questi dislivelli
sociali. La via per superare questa situazione non è la pietà della marchesa D’Avanzo, che ha fatto
rinchiudere le sorelle di Eugenia nel convento per sottrarle al peccato e alla fame, ma è la diffusione
della consapevolezza dell’ingiustizia perpetrata a danno di queste classi, che vengono sfruttate dai nobili
e dai borghesi. Finché la cultura e la coscienza non raggiungeranno i bassi e i diseredati, il mare
continuerà a non bagnare Napoli.

Gli ultimi due scritti sono più di natura giornalistica e sono destinati a una rassegna ancora più analitica
e più icasticamente forte del disagio della realtà napoletana. Sono testi che invitano a ribellarsi contro
questo stato di cose. La città involontaria rappresenta un caso limite di reclusione in questo universo
angosciante e soffocante, mentre Il silenzio della ragione si sofferma soprattutto su una involuzione
ideologica della cultura napoletana, che per il momento sembrava avesse assunto una maggiore
consapevolezza e sembrava mossa da una volontà di rinnovamento, tentativo che risulta fallimentare
agli occhi della Ortese.

LA CITTÀ INVOLONTARIA

La città involontaria è uno scritto che inclina verso il reportage giornalistico e fu pubblicato
precedentemente in due puntate sulla rivista di Pannunzio, Il mondo: la prima puntata con il titolo La
città involontaria il 12/01/1952 e la seconda con il titolo L’orrore di vivere il 19/01/1952. Qui viene
raccontata una visita ai Granili condotta dalla narratrice, che possiamo identificare con la stessa Ortese,
dal momento che nasce da un episodio autobiografico. L’autrice si era recata a visitare questo edificio e
questa realtà sconvolgente grazie alla madre di Pasquale Prunas, che le aveva suggerito di visitare questo
luogo affinché potesse descrivere al meglio la realtà napoletana che studiava. Un giorno di novembre,
sotto un cielo nero e plumbeo, la Ortese segue il consiglio dell’amica. In questa zona costiera non c’è
nessuno, nemmeno i contrabbandieri di benzina che popolano il litorale. La Ortese visita questo edificio
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in tutte le sue parti e quando torna è così sconvolta che per due giorni non riesce a dormire. Viene
descritta mentre sta seduta in silenzio in una stanza, un silenzio da cui nasce questo scritto e questa
testimonianza.

Dopo aver letto questo testo, Vittorini invita la Ortese a proseguire questa opera di analisi e indagine
della realtà napoletana, per scrivere un libro che la racconti a tutto tondo. Questo è dunque lo scritto
che ha suscitato sia l’attenzione della personalità autorevole di Vittorini (che la invita a scrivere questa
cronaca di Napoli, colpito dall’incisività della scrittura della Ortese) sia quella del presidente della
Repubblica Luigi Einaudi che, dopo aver letto questo racconto, (che fa esplodere sul piano nazionale la
realtà di questo edificio fatiscente di Napoli) ordina la soppressione dei Granili, facendo trasferire i
senzatetto di questa zona in alloggi popolari.

Si tratta di un racconto-reportage centrale per la creazione dell’intero libro. Anche in questo caso, come
in Oro a Forcella, lo scenario da investigare si offre agli occhi della narratrice scendendo da un mezzo di
trasporto: la narratrice ha preso un tram per andare ai Granili e, una volta scesa, le si para davanti questo
imponente edificio. La visita ai Granili viene presentata come una visita necessaria per comprendere la
realtà napoletana.

“Una delle cose da vedere a Napoli, dopo le visite regolamentari agli Scavi, alla Zolfatara, e, ove ne
rimanga tempo, al Cratere, è il III e IV Granili, nella zona costiera che lega il porto ai primi sobborghi
vesuviani. È un edificio della lunghezza di circa trecento metri, largo da quindici a venti, alto molto di più.
L'aspetto, per chi lo scorga improvvisamente, scendendo da uno dei piccoli tram adibiti soprattutto alle
corse operaie, è quello di una collina o una calva montagna, invasa dalle termiti, che la percorrono senza
alcun rumore né segno che denunci uno scopo particolare.” (pag. 73)

La Ortese immagina lo stupore che coglie chi, giunto lì per caso, viene colpito da questo edificio
imponente. C’è prima una descrizione secca e relativa all’esterno, una descrizione fredda delle misure,
e dopo una notazione che si sofferma sulla realtà di questo edificio, che sembra una collina perforata,
piena di buchi e invasa dalle termiti. Qui ritorna l’immagine degli uomini come formiche, già vista nel
racconto Un paio di occhiali. Le finestre dell’edificio non conferiscono luminosità e alcune sono state
coperte con travi di legno per ripararsi dal freddo. Gli uomini che vivono in queste cellette sono come
termiti che percorrono questi spazi senza lasciare un segno: è la vita anonima e spersonalizzata di chi
vive senza uno scopo particolare. La vita è intesa come riproduzione ininterrotta della fatica e della
sofferenza, che appaiono insensate. Questa immagine dell’insensatezza del vivere l’abbiamo già vista
nel racconto Un paio di occhiali (pag. 30, quando Eugenia guarda nel vicolo e vede tante persone come
formiche): la monotonia e la ripetitività insensata della vita, che non è altro che un entrare e uscire dai
buchi come formiche con le briciole. Entrambi i racconti mettono in rilievo l’insensatezza della vita
umana.

Il contesto architettonico viene descritto nelle sue caratteristiche esteriori: prima si fa riferimento
all’antica colorazione delle mura, di colore rosso scuro, che ancora si scorge a tratti mentre altri colori vi
sono stati sovrapposti; poi, si descrivono le mastodontiche dimensioni dell’edificio e i diversi piani in
modo molto minuzioso.

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“Ho potuto contare 174 aperture sulla sola facciata, di ampiezza e altezza inaudite per un gusto
moderno. […] I piani sono 3, […] e comprendono 348 stanze […], distribuite con una regolarità perfetta a
destra e a sinistra di quattro corridoi, uno per piano, la cui misura complessiva è di un chilometro e
duecento metri. Ogni corridoio è illuminato da non oltre 28 lampade. […] La larghezza di ogni corridoio
va da sette a otto metri, la parola corridoio vale quindi a designare, più che altro, quattro strade di una
qualunque zona cittadina, sopraelevate come i piani di un autobus, e prive affatto di cielo”. (pag. 73-74)

Emerge subito la caratteristica più allucinante di questo posto, ossia la straordinaria densità abitativa.
Ogni appartamento contiene da 3 a 5 famiglie, che vivono in queste stanze dove mancano i servizi
igienici, collocati solo nel corridoio. C’è un secco resoconto della oggettiva realtà. Questa costruzione è
volutamente organizzata in questo modo (vedremo le considerazioni della Ortese dopo questi dati
statistici).

Il Palazzo dei Granili era un edificio di Napoli, sito in via Reggia di Portici, costruito a partire dal 1779.
Originariamente, l’edificio era stato costruito per essere utilizzato come deposito di granaglie e
vettovaglie tanto che, come dice la stessa Ortese, le scale hanno gradini bassi perché un tempo erano
attraversate dai cavalli che trasportavano vettovaglie. Nel tempo però l’edificio ha conosciuto impieghi
diversi: deposito, arsenale, fabbrica, carcere durante la Repubblica Napoletana, ospedale durante
l’epidemia di colera del 1836-37, a lungo anche caserma di fanteria. Durante i bombardamenti della
Seconda guerra mondiale, nel 1943, l’edificio fu parzialmente distrutto ma rimase in piedi e le famiglie
che avevano perso tutto durante i bombardamenti si trasferirono in questa struttura. Dunque, per gli
anni che vanno dal 1943 al 1953, fu riparo per le famiglie rimaste senza un tetto. La Ortese descrive
molto minuziosamente la struttura; subito dopo ci dice come questo approccio secco e documentario
non è in realtà sufficiente a rappresentare questa realtà. Le cifre non bastano, non rendono conto a
sufficienza della complessità della realtà qui racchiusa.

Ci siamo soffermati sul tono della Ortese in questo racconto-reportage, dal tono meno narrativo. Nella
prima parte il racconto presenta un resoconto molto analitico della struttura dell’edificio, si sofferma
sulla descrizione della facciata, sui corridoi, sul numero delle stanze e presenta tutta una serie di dati
relativi al palazzo dei Granili, un palazzo enorme che nel corso del tempo ha conosciuto gli usi più
disparati e che adesso è divenuto un riparo per senzatetto. Dopo aver tracciato questo secco resoconto
della struttura, la Ortese sottolinea come un approccio puramente documentario non sia sufficiente a
rappresentare una realtà così complessa.

“Enunciati così sommariamente alcuni dati circa la struttura e la popolazione di questo quartiere
napoletano, ci si rende conto di non avere espresso quasi nulla. […]” (pag 74) → questa parte del racconto
si contrappone alla prima, puramente descrittiva: i dati statistici non sono sufficienti a dar conto di
questa realtà. La Ortese sottolinea che l’approccio scientifico e “asettico” di chi studia la storia o la vita
su altri pianeti non è sufficiente: questo microcosmo, che ha tutte le caratteristiche di un intero mondo
(l’Italia meridionale), va analizzato esaminandolo da vicino, in tutte le sue deformità e gli orrori e
visitandolo piuttosto che esaminando delle cifre. Ci vorrebbe un approccio multidisciplinare per
analizzare e risolvere le realtà dei Granili (commissioni di economisti, giuristi e medici), un approccio che
sia economico (perché la miseria dilaga in questo luogo), legale (perché fondamentalmente in questo
luogo c’è un problema di mancata applicazione, rispetto, condivisione e comprensione delle leggi) e
anche sanitario (poiché questi luoghi sono segnati dalla malattia sia fisica che psichiatrica; spesso i
personaggi che si aggirano per i Granili presentano segni di squilibrio mentale).
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Questa realtà non è solamente nata dalla necessità di trovare una temporanea sistemazione per i
senzatetto (molte persone che vivevano lì si erano sistemate lì temporaneamente in attesa di una
sistemazione migliore dopo aver perso le case durante i bombardamenti), ma è il segno della decadenza
di una razza (ritorna il riferimento a una concezione deterministica della realtà). La Ortese parla di
decadenza: spiega che questa realtà è la putrefazione, la cancrena che attanaglia una parte della società
e solo un organismo degenerato potrebbe tollerare la cancrena di un suo arto senza fare nulla, senza
cercare di porvi rimedio, e questo è ciò che fa Napoli. Questo mondo è un mondo in cui finisce ogni
possibilità di conoscenza: i Granili segnano la fine di un mondo conoscibile, un mondo misurabile con
mezzi consueti (i barometri e le bussole, strumenti tradizionali usati per conoscere i fenomeni del
mondo, smettono di funzionare in questo luogo). In questo passo è presente un eco della poesia di
Montale (La casa dei doganieri – nella raccolta Occasioni: “la bussola va impazzita all’avventura / e il
calcolo dei dadi più non torna”): si riferimento all’impossibilità di servirsi agli strumenti di orientamento
consueti e convenzionali poiché questi non sono più sufficienti di fronte a una realtà non conoscibile.

Questo mondo descritto non è umano: è un mondo popolato da larve, da fantasmi che non possono più
fare del male, che non ricordano più nemmeno la realtà naturale (il sole, il mare) - l’assenza della luce
solare è un tratto caratteristico di questo edificio; chi popola questo spazio è gente paragonata ad
animali; sono persone che parlano poco e spesso con un linguaggio fatto di suoni non articolati, di
lamenti: non sono più napoletani, né nessun’altra cosa, scrive la Ortese. Si anticipa qui una certa
reificazione, una oggettivizzazione delle persone (le persone in questo luogo non sono che “cose”,
oggetti). Questa realtà è indescrivibile, irraccontabile: chi passa di lì torna indietro con sguardi e discorsi
incoerenti.

Considerando nell’insieme queste prime pagine, possiamo vedere come la descrizione iniziale, fatta di
dati e numeri, serve come termine di paragone per la descrizione della geografia umana di questo luogo.
Il contrasto tra dati e geografia umana farà apparire quella visione riluttante, accennata all’inizio
dell’inchiesta con l’immagine della calva montagna invasa dalle termiti, che percorrono lo spazio senza
uno scopo. Quindi, tutto il racconto che segue tende a stravolgere il racconto puramente descrittivo e
documentario.

La prospettiva di osservazione si sposta dall’esterno all’interno: dallo sguardo freddo rivolto alla realtà
esteriore, lo sguardo si proietta poi all’interno e si avvicina alla materia umana che popola questo spazio.
La percezione di questo spazio è condotta non solo attraverso lo sguardo ma anche attraverso il corpo,
con riferimenti ad altre sensazioni che la narratrice prova. Ad esempio, a pag. 76 dice “provai la
tentazione di rimandare tutto a un altro giorno. Era una tentazione violenta come una nausea di fronte
a un'operazione chirurgica”. La scrittura oltrepassa il livello della cronaca, ma diventa precisa analisi
sociologica e clinica.

Nel passo successivo si fa riferimento proprio alla nausea che coglie la narratrice, la quale si può
identificare con la stessa autrice (la Ortese è stata invitata dalla madre di Prunas a visitare quel luogo).
In questo passaggio la Ortese riporta, come in altri racconti, nomi e cognomi dei personaggi che incontra
(es. signora Lo Savio) che in questo caso non sono fittizi (come in altri racconti con una dimensione più
narrativa), ma veri, reali: la sua scrittura ha infatti l’obiettivo di essere una forma di denuncia e
testimonianza. La narratrice è stata inviata in questo luogo dal dottor De Luca, che le ha dato il nome di
questa signora Lo Savio affinché quest’ultima le faccia da guida in questo luogo. Un’altra caratteristica
della Ortese è che è una accanita fumatrice: il nome della Lo Savio è infatti appuntato su una scatola di
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fiammiferi. L’atmosfera è resa ancora più cupa dalla precisazione temporale: siamo nel mese di
novembre.

Se leggiamo questo brano con attenzione ci rendiamo conto che è presente una tecnica descrittiva che
tende a favorire il coinvolgimento fisico del lettore in questo spazio, ad esempio attraverso l’uso di
sinestesie che stimolano diverse percezioni sensoriali, rispetto alla sola visione. Giunge al lettore una
percezione olfattiva (l’odore acre del luogo) e uditiva (i suoni che caratterizzano il luogo: la rauca nenia,
le voci dei ragazzi percepite quasi come immagini). Inoltre, la condivisione dello spazio con il lettore
avviene attraverso l’uso dei deittici spaziali, indicazioni precise relative alla posizione della narratrice: è
come se il lettore la seguisse nello spazio con lo sguardo e si inoltrasse insieme a lei in questa visione
spaventosa (es: dietro di me, di fronte, nel centro ecc.). Ritorna, in più, l’idea che gli strumenti di
misurazione non sono sufficienti a dare idea di questo spazio (il corridoio sembra interminabile).
Troviamo qui una forma di realismo emotivo, non puramente descrittivo, poiché si basa sulla
condivisione delle emozioni che spinge fino al coinvolgimento fisico (è come se il lettore percepisse la
stessa nausea che prova la narratrice), e tuttavia, nonostante la voglia di fuggire, il lettore (come la
narratrice) è assorbito da questo spazio e vive quasi un’esperienza fisica attraverso la lettura. Così come
è coinvolta la narratrice, sono coinvolti anche i lettori.

L’accompagnatrice di Annamaria Ortese in questa metaforica discesa agli inferi è questa Antonia Lo
Savio, che ci viene presentata poco dopo (anche in questo caso) in termini espressionistici: anche questa
donna viene osservata e analizzata attraverso uno sguardo estremamente analitico, quasi impietoso,
che ne mette a fuoco i segni lasciati su di lei da questo luogo e dalla malattia che lo caratterizza. La
narratrice chiede della Lo Savio alla portinaia e ad altre donne ma nessuno sa chi è: troppe persone
vivono in questo caseggiato e non è possibile conoscersi tutti, ma c’è anche una volontà di depistare il
visitatore (la Ortese sottolinea, a pag. 77, che coloro a cui ha chiesto indicazioni hanno giuocato, durante
le mie visite, a non rispondere o a indirizzarmi verso luoghi da cui non avrei potuto facilmente risalire: il
personaggio eroe viene anche depistato dal percorrere questo viaggio “infernale”.

La descrizione espressionistica della Lo Savio ne mette in evidenza anche i tratti positivi, soprattutto
relativi alla sua persona e al suo carattere. “Una donnetta tutta gonfia, come un uccello moribondo, coi
neri capelli spioventi sulla gobba e un viso color limone, dominato da un grande naso a punta che cadeva
sul labbro leporino, stava pettinandosi davanti a un frammento di specchio, e tra i denti stringeva qualche
forcina.” (pag. 77-78)

Questa donna è segnata dalla malattia, è tutta gonfia, ha il viso ingiallito ed è intenta a pettinarsi (attività,
come vedremo, che rappresenta ciò che resta della femminilità, è un residuo di dignità che ancora
questa donna prova). Inoltre, ritorna il tratto di animalizzazione: la donna è definita come un enorme
pidocchio, tanto che la Ortese non sa se rivolgersi a lei con l’appellativo “signora”, che pronuncerà solo
scorgendo in fondo ai suoi occhi la grazia e la bontà che li animano, accostandosi a lei per spiegarle che
è stata mandata da lei dal dottor Del Luca affinché lei possa accompagnarla alla scoperta della realtà dei
Granili. In compagni di questa creatura ripugnante per certi versi nell’aspetto, ma illuminata dalla bontà
e della dolcezza, la narratrice accetta di compiere questo viaggio “infernale”, ritrovando il coraggio
proprio negli occhi della Lo Savio.

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Ci sono parecchi riferimenti a una mimesi del parlato, che avviene soprattutto con molteplici richiami al
dialetto (ci sono nel racconto molte frasi in dialetto, la lingua parlata usata dagli abitanti del caseggiato
nella loro consueta comunicazione). La scrittura, in questo modo, ci restituisce una percezione uditiva
di questi luoghi.

Il primo rappresentante di questa schiera di “dannati” che la Ortese incontrerà è il piccolo Luigino, che
irrompe nell’abitazione della Lo Savio in cerca di un po’ di pane. La Lo Savio allora racconta alla narratrice
che si tratta di un bambino rimasto orfano, ora ospitato dalla cugina, la quale si occupa di lui perché
malato. La conversazione tra la Lo Savio e la Ortese avviene in presenza del bambino. Luigino non è altro
che uno dei tanti rappresentanti di questa infanzia precocemente invecchiata, segnata dalla fame, dalla
malattia, dal contatto con un mondo corrotto. La narratrice fa delle domande al bambino, che
inizialmente le risponde e poi non più (pag. 79): il bambino, infatti, non ha più uno sguardo ingenuo
(tipico dell’infanzia) ma un’espressione assente e morta (perché quasi cieco) e il sorriso ambiguo e
sprezzante di un uomo navigato, che conosce bene il mondo (un mondo moralmente corrotto).

Uscendo dall’abitazione della Lo Savio, la Ortese prova nuovamente un forte istinto di fuga e vorrebbe
sottrarsi a questa prova; tuttavia, continua a seguire la Lo Savio (che è un po’ il Virgilio della situazione,
la guida del nostro Dante, la Ortese, chiamata a questo viaggio infermale), che viene vista come una
regina della casa dei morti (pag. 80). In questa citazione c’è un rimando a due opere che fanno
riferimento a luoghi di prigionia e segregazione: Le memorie della casa dei morti, di Dostoevskij, in cui si
presenta la realtà di un campo di prigionia in Siberia, e Ricordi della casa dei morti di Luciana Nissim,
testimone dell’orrore di Auschwitz, la quale riprende il titolo di Dostoevskij nel libro che raccoglie le sue
memorie. Anche i Granili sono quindi un luogo di “reclusione”, sebbene non ci sia nessuna pena da
scontare. Questa donna, segnata dalla deformità nel corpo, presenta però un lampo vivissimo in fondo
agli occhietti di topo (ancora una animalizzazione): nel suo sguardo si legge tanto la consapevolezza del
male e della sua estensione, ma anche la capacità di tenervi testa, di mettere in atto strumenti di
resistenza al male stesso. La Lo Savio è una donna non rassegnata, ancora illuminata dalla luce della
speranza, nonostante la miseria e la malattia. Ed è proprio questa speranza che spinge la narratrice a
tirare fuori il coraggio, a non fuggire, a mantenere la calma, a non mostrarsi debole. La Losavio ha deciso
di mettere a disposizione il suo tempo per gli altri presso l’ambulatorio del dottor De Luca, e questo fa
di lei un esempio per la narratrice: di fronte a questo esempio di resistenza, la Ortese sente di non potersi
mostrare debole.

Questo modo di essere della Lo Savio, questa generosità nel mettersi a disposizione degli altri
nell’ambulatorio, genera la gelosia di altre donne del caseggiato, convinte che la Losavio possa in qualche
modo trarre profitti di questa attività; in realtà si tratta solo di una forte volontà di mettersi a servizio
degli altri.

Come Virgilio alla soglia dell’inferno, la Lo Savio mette in guardia la Ortese: “Perché questa non è una
casa, signora, vedete, questo è un luogo di afflitti. Dove passate, i muri si lamentano.” (pag. 80) → In
questo passaggio c’è un’eco dell’Inferno, canto III). In questo luogo infero a un tratto si sente intonare
un inno sacro: è la voce del maestro Cutolo, una persona raffinata finita in questo luogo perché malato
di asma e incapace di continuare la sua professione di insegnante di musica. Questo inno sacro stride
fortemente con il luogo.

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La visita inizia con la discesa al pian terreno, dove il silenzio e l’oscurità sono più forti: come nell’Inferno
di Dante, più si scende e più la realtà è cupa. Il viaggio procede nella direzione di un lungo corridoio, ai
cui lati si aprono varie abitazioni (in alcune delle quali la Ortese entrerà guidata dalla Lo Savio). In alcuni
casi, ritorna il tono statistico e documentario attraverso la citazione di cifre (come i numeri degli
appartamenti).

In questo luogo cupo, l’odore è sempre rivoltante: i servizi igienici sono solo due per piano e gli ambienti
mantengono odori persistenti e pesanti, poiché gli appartamenti sono sprovvisti di finestre e non c’è
ricambio di aria. A questa percezione olfattiva sgradevole corrisponde una percezione visiva altrettanto
sgradevole: nell’appartamento della signora De Angelis Maria (tono documentario e burocratico, con
nomi e cognomi) si aggirano indisturbati dei ratti che consumano i resti delle croste di pane, e la donna
non se ne cura, poiché questa situazione è talmente frequente da essere ormai abituale (per cui la donna
non è nemmeno meravigliata da questa scena).

“La voce della donna era così normale, nel suo stanco schifo, e la scena così tranquilla, e quei tre animali
apparivano così sicuri di poter rodere lì quei tozzi di pane, che ebbi l'impressione di stare sognando, o per
lo meno di stare contemplando un disegno, di un'orrenda verità, che mi aveva soggiogata al punto da
farmi confondere una rappresentazione con la vita stessa.” (pag. 82)

Questa scena è così forte per la narratrice che pensa di vivere un incubo, ha l’impressione che quella
non sia una realtà e che quello che sta vedendo sia solo una rappresentazione esterna alla realtà. La
narrazione si discosta via via dal tono della cronaca giornalistica e pura descrizione, ma finisce per andare
al fondo di queste storie e di queste vite.

Questo primo ambiente visitato è un pugno allo stomaco per la narratrice, che dubita che quella possa
essere effettivamente la realtà. Ma quella è la realtà. Anche questa donna ha il volto segnato
dall’indigenza e dalla malattia. La donna ha molti figli (tratto comune della realtà napoletana), 8 per la
precisione, di cui uno è malato mentale (emerge il tratto della malattia mentale, un elemento che ricorre
in questa realtà).

Lo sguardo della narratrice si sposta ora nell’abitazione del maestro Cutolo, la cui voce si è sentita poco
prima intonare un inno sacro. L’abitazione del maestro, al contrario delle altre, è rischiarata dalla luce
del sole che può passare dalle finestre (la luce del sole rappresenta la vita, mentre l’assenza di sole è
sintomo di morte); la sua casa è illuminata poiché un benefattore ha fatto installare dei vetri alle finestre.
In questa atmosfera meno tetra e più solare può nascere persino il canto, un’attività che richiama la vita
“normale”. Oltre che dalla luce del sole, la vita della famiglia del maestro è rischiarata dalla luce della
fede.

Il maestro viene prima descritto fisicamente: “Era un uomo ancora giovane, sui quarant'anni, di media
statura, ma così fine da sembrare un adolescente. I suoi capelli erano biondi, gli occhi celesti, il viso
scavato e inondato da un sorriso il cui fondo, come quello di un'acqua bassa, era una sconsolata tristezza.
Sono lieto […] perché il mio cuore è pieno della santa obbedienza ai voleri di Dio.” (pag. 84)

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Il suo viso è scavato perché segnato dalla povertà, ma persiste il sorriso che seppur triste è un sorriso
lieto perché la fede gli permette di accettare questa realtà. La fede spinge il maestro da una parte ad
avere un atteggiamento caritatevole nei confronti degli altri, dall’altra alla rassegnazione, e questo è un
tratto anche negativo (egli accetta questo stato di cose come l’espletamento di una volontà divina e non
fa nulla per cambiare).

All’immagine del maestro si sovrappone un ricordo della Ortese: quella del maestro prima che arrivasse
ai Granili a causa della guerra e della malattia. La vita del maestro, insomma, era una vita normale prima
di essere catapultata in questo universo miserevole. Questo personaggio vorrebbe affrontare questo
inferno con le armi della gentilezza e dell’educazione: comprende che l’abbrutimento dell’infanzia e dei
comportamenti che dominano in questo edificio nasce dalla mancanza di educazione ed istruzione. Egli
vorrebbe mettere le sue conoscenze al servizio della comunità ma in questa realtà dominata dalla feroce
lotta alla sopravvivenza la sua voce rimane inascoltata. Prevale quella legge di sopraffazione del più
debole, a cui il maestro vorrebbe contrapporre il messaggio evangelico, che però è destinato a rimanere
inascoltato. Il maestro vive lì con la moglie (che fa la cameriera) e i figli, che si impegna a educare al
perdono e alla compassione, e si fa costantemente portatore di questo messaggio evangelico fondato
sul perdono.

Abbiamo visto come l’abitazione del maestro Cutolo sia migliore delle altre case descritte finora; è una
casa di una famiglia che apparteneva alla borghesia, la casa di un maestro di musica che però è stato
catapultato dal destino e dalle vicende della guerra in una condizione di indigenza; per di più è malato e
non può più lavorare. Nonostante questo, in questa realtà misera ha potuto fruire della benevolenza di
qualcuno che ha installato i vetri alle sue finestre, quindi la casa è illuminata dal sole e non si respira
l’aria cupa e tetra di altre abitazioni. La luce rappresenta anche la luce della fede: il maestro Cutolo è un
credente, accetta questa sua condizione e cerca di mettere in pratica la fede cristiana predicando il
perdono. Vorrebbe mettere le sue competenze a disposizione della comunità in cui vive ma in questo
mondo dove domina la legge del più forte, la lotta per la vita spinta ad ogni livello, non c’è la disposizione
ad accettare questo atteggiamento.

A pag. 85 ci sono le parole del maestro che dice “Amo tanto i bambini, qui ci sarebbe molto da fare.” →
C’è una popolazione intera di bambini in questo caseggiato che purtroppo non sono educati e questa è
la matrice di tutti i mali: la mancanza di educazione ma anche di istruzione. Attraverso l’istruzione passa
l’emancipazione di questi diseredati. Quando il figlio si lamenta di essere stato ferito da una sassata, lui
lo esorta a perdonare i bambini che non hanno avuto il vantaggio di una santa educazione. Il maestro
cerca quindi di condividere il messaggio cristiano fondato sul perdono e tenta di far capire al figlio la
differenza tra lui e i suoi fratelli e gli altri ragazzini, i quali non hanno avuto la possibilità di essere educati.
Questo rappresenta un elemento positivo e aggiuntivo che il maestro ha potuto dare ai suoi figli e che
invece ad altri non è stata concessa, come coloro che abitano in questo caseggiato, i quali rappresentano
il livello più basso e infernale della rappresentazione di questo mondo dei Granili.

“Tutto il terraneo, e il primo piano a cui risalimmo, erano in queste condizioni di inerzia sconsolata.” (pag.
86) scrive la Ortese: in questi piani non si ha nemmeno la forza di fare qualcosa, si versa in uno stato di
inerzia e di immobilità, senza nessuna possibilità di consolazione (inerzia sconsolata appunto, senza
possibilità di uscita). Non si aspettava nulla e nessuno, si attende e non si cerca e non si pone nessuna
resistenza a questa condizione.

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“Al secondo e terzo piano, mi spiegò la Lo Savio, la vita assumeva invece un aspetto umano, riprendeva
un ritmo che poteva assomigliare in qualche modo a quello di una normale città.”

La Lo Savio (accompagnatrice) le spiega che lì la vita assume un risvolto più umano, ha un ritmo più
“normale”, regolata delle stesse attività che normalmente si svolgono in una città: si rifanno i letti, si
pulisce la casa, molti bambini possono andare a scuola, c’è chi possiede una radio, in molte abitazioni ci
sono i vetri alle finestre e persino i mobili e illuminazioni artificiali che riescono a illuminare la stanza (il
voltaggio delle lampadine è superiore), ci sono armadi, lenzuola ai letti, centrini ai tavoli, divani, orologi
a muro… C’è persino chi passa il tempo a leggere, quindi qualcuno che è più istruito (riferimento a un
pensionato che legge il giornale: questo fa riferimento a qualcuno che entra in contatto con la realtà
esterna, qualcuno che si informa; c’è anche la descrizione di due ragazze che leggono un settimanale
illustrato davanti alla radio).

In questi piani superiori vivono famiglie che appartengono alla piccola borghesia, (pag. 87 “alcuni uomini
avevano un lavoro ben retribuito, gente dignitosa e tranquilla”), sono persone che lavorano e che o
hanno perso la casa in seguito alla guerra o a uno sfratto, e che si sono adattate a vivere
temporaneamente ai Granili. Sono dunque esponenti della piccola borghesia che vivono lì
temporaneamente, sperando di poter presto abba donare questa sistemazione temporanea. Chi occupa
questi spazi sente di meritare questa posizione privilegiata, non pensa che un qualsiasi evento fortuito
possa fare precipitare queste famiglie nella condizione delle famiglie che vivono ai piani sottostanti; sono
famiglie che incarano quel decoro borghese che credono al sicuro da un ulteriore peggioramento delle
condizione; hanno consapevolezza di una certa superiorità rispetto agli abitanti dei piani sottostanti,
tanto che li evitano come se fossero animali di un’altra specie e provano per loro un certo disprezzo
perché pensano che il loro stato di miseria dipenda dai loro costumi dissoluti e che quindi meritano
questo tipo di vita (mentre loro che sono stati virtuosi meritano una condizione privilegiata). Non si
rendono conto, quindi, che qualsiasi circostanza assolutamente casuale potrebbe gettarli nella stessa
condizione di miseria in cui versano gli abitanti dei piani sottostanti (una malattia, una perdita
momentanea di lavoro…). E qualsiasi famiglia non sia più in grado di mantenere le condizioni di vita dei
piani superiori e precipiti invece ai piani bassi, dice la Ortese, non sarà più in grado di tornare alla
superficie del pozzo né di uscire da quel pozzo stesso: la discesa non presuppone in nessun modo una
risalita, chi cade nel pozzo non può uscirne (ritorna l’immagine del pozzo come emblema di miseria).
Eppure, non c’è consapevolezza di questa condizione: “chi cominciava a scendere era perduto ma non
se ne accorgeva”; si prende coscienza di questa condizione quando ormai è troppo tardi.

La Ortese prova un senso di sollievo a risalire da quell’inferno che ha visitato, a vedere che ai piani
superiori c’è una vita più normale. Anche qui c’è una “colonna sonora” che la Ortese ci fa “ascoltare”
citando i versi di alcune canzoni napoletane. Il sollievo della Ortese però dura poco: improvvisamente si
sente un rumore di pianto e passi provenire dai piani sottostanti e l’attenzione della Losavio e della
Ortese viene catturata da questi rumori. Le due donne cercano di capire allora di cosa si tratta: la scena
che scoprono è toccante. Un bambino di sette anni è morto; è una morte improvvisa e inaspettata la cui
notizia è riportata con tono secco e burocratico a pag. 89: “Portavano via certo Antonio Esposito, di sette
anni, soprannominato Scarpetella, deceduto mezz'ora prima per cause sconosciute, mentre giuocava con
alcuni coetanei.”, come se fosse il resoconto di un ufficiale di polizia. Una rappresentazione straniata
che rende ancora più forte la scena di questa morte improvvisa. La Ortese è dunque presente a questo
semplice funerale improvvisato.
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La morte ha colto di sorpresa non solo il ragazzino (che ha un’espressione meravigliata, e ritorna
l’aggettivo “meravigliato”) ma anche i genitori. La madre lo porta in braccio come un oggetto (abbiamo
parlato della reificazione delle persone che diventano puri oggetti), come se fosse ancora vivo, mentre
il padre è sconvolto da questa morte, segue la moglie portando in mano le scarpe (come se potessero
servire ancora). Ha un atteggiamento di calma apparente che la Ortese sottolinea con l’aggettivazione o
con verbi come “sembrava”, “appariva”, “a giudicare da” (pag. 90), ma il movimento inquieto delle mani
tradisce questa calma apparente.

La morte è sconvolgente perché, come viene detto poi, la famiglia aveva perso un anno prima una figlia
nello stesso modo: questo fa pensare che i bambini possano avere una malattia cardiaca congenita, che
però in queste condizioni di miseria non è diagnosticabile. Questa compostezza del padre e della madre
colpisce la Ortese perché non sono tipiche della napoletanità: Napoli viene presentata come un paese
dove si recita continuamente, dove c’è un’esasperazione dei toni, del linguaggio, dei sentimenti; invece,
questa famiglia nella sua compostezza esprima tutta l’autenticità di questo dramma. I sentimenti
autentici sono caratterizzati quindi dal silenzio, mentre la falsità viene sottolineata attraverso
riferimento a parole eccessive, al pianto teatralizzato (contrapposizione tra silenzio autentico e
teatralizzazione dei sentimenti e del pianto).

I singhiozzi dei fratelli vengono contrapposti al silenzio dei genitori e vengono presentati come falsi, così
come falsa è la reazione di una sorella che ha abbandonato la famiglia e che ora, dopo la morte del
fratellino, irrompe nel caseggiato gridando ed esternando in maniera molto teatrale tutto il suo dolore,
descritta come una giovane di 20 anni lustra e adorna di cose false (ritorna il riferimento alla falsità).
Emergono i rapporti conflittuali tra questa ragazza e la famiglia: molto probabilmente, da quel che si
evince anche dall’epiteto che le rivolge il padre (svergognata), questa ragazza ha abbandonato la
famiglia e fa la prostituta, ha trovato una via di sopravvivenza che va al di fuori dei limiti del decoro e
della dignità. Si vede che le condizioni economiche della ragazza sono superiori di quelle della famiglia
di provenienza, ma viene sottolineato come questa superiorità è frutto di corruzione. La famiglia ha
provato a chiedere soccorso in più occasioni alla ragazza, ma la ragazza non li ha aiutati, e adesso le
rimproverano di essersi fatta viva solo quando ha scoperto che il fratello è morto e quindi tendono a
mettere in evidenza la falsità di questo dolore.

Anche il maestro assiste al passaggio di questo povero funerale e abbiamo visto come sia il portavoce di
una concezione religiosa dell’esistenza, per questo esclama, vedendo passare questo piccolo corteo, che
Dio nella sua bontà infinita ha voluto preservare questo bambino dalla possibilità di compiere il male e
che adesso quel birichino di Scarpetella si sta arrampicando sugli alberi del cielo; ha una visione
rassegnata della vita. In generale nel libro della Ortese, i religiosi o comunque coloro che rappresentano
la fede cristiana non fanno una bella figura, rappresentano la corruzione; anche in questo caso, il prete
pronuncia parole con indifferenza.

A pag. 92 la Ortese lo sottolinea: “Abbiate misericordia, - disse il prete con indifferenza, - Iddio ne avrà
pel vostro povero Antonio, che a quest'ora è davanti a Lui, con i suoi piccoli peccati -. Si curvò a
mormorare qualcosa all'orecchio della giovane, che subito alzò il viso, con un'espressione incantata,
mentre continuava a stringere al petto il rigido involto. Depose questo, con un bacio, in braccio alla
donna, cercò, tutta rossa in volto, ma senza più lacrime, nella borsetta di pelle lucida che le era scivolata
a terra, ne tolse un grande biglietto rosa, e lo porse alla madre. Questa sorrise, e anche il padre,
intenerito, abbassava il capo.”
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Il prete le suggerisce di prendere una banconota e darla alla madre. Il gesto compiuto e suggerito dal
prete rappresenta e dimostra la corruzione delle relazioni umane, dei rapporti affettivi e familiari: di
fronte al denaro i genitori si rabboniscono e perdono quella carica di rabbia che provavano nei confronti
della figlia e mostrano addirittura uno sguardo intenerito. La miseria fa sì che tutto si regga
sull’economia, sulla necessità di far fronte alle esigenze impellenti della vita.

Dopo questa scena, il mesto corteo funebre riprese il suo viaggio tranquillo e apparentemente doloroso,
verso l'arco grigio di luce che annunciava l'uscita. (ritorna l’accenna a qualcosa di apparente). Perché la
Ortese insinua il dubbio dell’apparenza? Lo fa perché, leggendo le affermazioni successive, ci rendiamo
conto come in questo luogo non ci sia spazio per la commozione, per l’emozione. In questo luogo infero
c’è solo buio e silenzio e ricordi di una vita più dolce, non c’è possibilità di sopravvivenza per le emozioni,
c’è spazio solo per la lotta per la vita. L’orizzonte dei valori appare stravolto, così come stravolti appaiono
i tratti di questi personaggi (spesso ritratti con cattiveria espressionistica, con sguardo che mette in
evidenza tutti i segni della malattia e della corruzione morale); non c’è quasi mai una notazione positiva.
Sono personaggi che hanno sia le sembianze stravolte e che agiscono secondo una morale capovolta e
stravolta.

“Donne, che di donna non avevano più altro che una sottana e dei capelli, piuttosto simili a una crosta di
polvere che a una capigliatura, si accostavano silenziose, spingendo i bambini avanti, come se
quell'infanzia maledetta potesse proteggerle o rincuorarle.” (pag. 92-93)

Le donne della loro femminilità conservano solo un logoro simulacro (sono donne che di donna non
avevano altro che una sottana): la femminilità è ridotta alla parvenza, alla presenza di un indumento (la
sottana) e ai capelli; si tratta di una femminilità che cerca di essere mantenuta in vita da piccoli gesti e
dell’apparenza (come quello di acconciarsi i capelli, nonostante non siano curati e ben lavati), sebbene
spesso questi possano essere gesti “insensati”.

“Gli uomini, invece, rimanevano più indietro, come vergognandosi. Qualcuno mi guardava le scarpe, le
mani, non osando però levarmi gli occhi in viso. In molte famiglie come già in quella della De Angelis,
c'era un tale che si presentava come malato mentale.” (pag. 93) → Gli uomini invece sono rappresentati
come figure umiliate, persone che si vergognano della loro condizione.

“Io guardavo soprattutto i ragazzi, e capivo che essi potessero morire d'improvviso, correndo, come
Scarpetella. Questa infanzia, non aveva d'infantile che gli anni. Pel resto, erano piccoli uomini e donne,
già a conoscenza di tutto, il principio come la fine delle cose, già consunti dai vizi, dall'ozio, dalla miseria
più insostenibile, malati nel corpo e stravolti nell'animo, con sorrisi corrotti o ebeti, furbi e desolati nello
stesso tempo. Il novanta per cento, mi disse la Lo Savio, sono già tubercolotici o disposti alla tubercolosi,
rachitici o infetti da sifilide, come i padri e le madri. Assistono normalmente all'accoppiamento dei
genitori, e lo ripetono per giuoco. Qui non esiste altro giuoco, poi, se si escludono le sassate.” (pag. 93)

I bambini invece mostrano i segni della povertà e della corruzione morale, sono rappresentati come
vecchi che hanno ormai scoperto tutti i misteri della vita; sono bambini condannati ad una infanzia
maledetta, una infanzia privata dell’innocenza, del mistero; è una vita concepita attraverso l’esperienza:
sono bambini rachitici (perché vivono al buio e sono malnutriti), che conoscono la tubercolosi, la sifilide
(come i loro padri e le madri) perché precocemente viziati al sesso.

76
Dopo queste considerazioni generali sugli uomini, le donne e i bambini, c’è un’altra scena toccante: la
Lo Savio guida la Ortese in un’altra abitazione e le mostra una piccola bambina (la Lo Savio la
accompagna proprio nei posti più disastrati di questa realtà perché sa che la Ortese la sta studiando). La
bambina è l’emblema di questa infanzia segnata dalla povertà: giace in una culla ricavata da una cassetta
di Coca Cola, non ci sono lenzuola né biancheria ma solo una vecchia giacca da uomo, incrostata e dura
(sottolinea la sporcizia di questi luoghi). Il primo tratto che balza agli occhi è la miseria; successivamente
viene messa in evidenza l’altra caratteristica di questa bambina: la malattia.

La descrizione della bambina è quasi “animalesca”: ha un corpo molto esile, ha due anni ma dall’aspetto
sembra sia neonata perché non è cresciuta, capisce ciò che viene detto ma non può parlare (viene detto
anche il nome della bambina: Nunzia Faiella). L’impossibilità di parlare di questa bambina contrasta con
la sua capacità di comprendere la realtà: la bambina comprende lo stato di indigenza in cui si trova, vive
al buio e ha visto la luce solo una volta nella sua vita; anche lei ha quella espressione meravigliata, non
in senso positivo ma nell’accezione dialettale (stupore e sgomento). La bambina vive nell’attesa di
qualcosa, dice la Ortese (pag. 95), come traspare dal suo sguardo; vive una vita sospesa, segnata e
cadenzata da un tempo sempre uguale, in attesa di qualcosa che non si sa cosa sia (l’unica cosa che si
può attendere, in queste condizioni, è la morte). Nel suo sguardo non c’è tristezza, c’è la percezione di
star scontando una pena in silenzio, che non è attribuibile a nessuna colpa (tanto più perché si tratta
dell’infanzia, di bambini innocenti). La Lo Savio, vedendo la bambina, chiede alla madre come sta ed
esclama (non mostrando grande sensibilità) “Che fai? Vuoi lasciare a mamma tua? Vuoi andare a fare
Natale con Gesù Bambino?” A questa affermazione, il volto della bambina si ritrae in una smorfia in cui
si legge la sua capacità di comprensione ma anche la sua consapevolezza di non poter mettere fine a
questo dramma. Infatti, dopo la smorfia, la bambina scoppia “in un pianto che sembrava venisse
dall'interno di un mobile, tanto era debole, soffocato, leggero, come chi piange in sé, senza più forza né
speranza d'essere udito.” un pianto senza speranza poiché non c’è giustizia nella sua condizione.

Il viaggio della Ortese è un po’ come il viaggio di Dante: in questo inferno, la scrittrice incontra i
personaggi più eloquenti ed emblematici di questi luoghi. Quando si diffonde la notizia che sono arrivati
dei giornalisti, intorno alla Lo Savio e alla narratrice si affacciano questi personaggi che vengono
presentati come fantasmi, larve, che si mostrano ansiosi di raccontare le loro vicende e la loro
condizione. In tutto il racconto la Ortese passa in rassegna questa umanità sofferente, descritta con
linguaggio fortemente metaforico ed espressionista, in cui sono frequenti i riferimenti a tratti di
animalizzazione.

Dopo aver analizzato questo luogo in una giornata, sui Granili cala il buio. La sera in questa città
involontaria non assume le fattezze della quiete e della tranquillità. È una pausa momentanea ma non
quieta, è febbrile: non c’è tregua neanche di notte in questa realtà, la sofferenza è perpetua e non si sa
quando finirà. Così si conclude il racconto: il finale chiarisce anche il senso del titolo (la città involontaria)
e mette in evidenza la ripetitività continua di questa condizione. Perché questa città è involontaria?
Perché si muove indipendentemente dalla propria volontà: la miseria rende inerti gli abitanti di questa
città sotterranea, è come se ne annullasse la volontà. In questo luogo ci si lascia vivere, la vita è subita e
per questo è involontaria. La condizione di miseria dei Granili spoglia l’uomo da qualsiasi forma di dignità
e di raziocinio: gran parte delle azioni sono compiute istintivamente, senza ricorso alla volontà; ciò che
resta vivo è solo l’istinto di sopravvivenza che permette sì di sopravvivere, ma anche di continuare il
male (non oppone resistenza al male).
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I Granili rappresentano una sorta di inferno in cui la scrittrice incontra le anime dell’oltretomba; oltre
500 famiglie sono costrette a vivere in questo luogo, a vagare in eterno e a “scontare una pena”, non si
sa per quale colpa. Questo edificio diventa il loro carcere, un carcere che sperimentano senza essere
stati condannati da nessun tribunale; la pena che si portano dietro non è una pena scritta ma non vi si
possono sottrarre in nessun modo. Questa città involontaria accetta rassegnata la realtà, senza fare nulla
per cercare un’alternativa; si aspetta inerti la fine, si accetta inermi la realtà fino a che non si viene
atterrati da essa. C’è una reificazione dei corpi (i corpi diventano oggetti) a cui corrisponde una
reificazione dell’anima (anche l’anima diviene un oggetto, appare pietrificata e neutralizzata). Questa
forma di reificazione dell’anima è una forma di autodifesa, un modo di rendersi impermeabili alle
emozioni, in modo da soffrire di meno, da percepire meno l’orrore e la sofferenza in cui si vive (mentre
una mente ancora illuminata dal raziocinio percepirebbe tutta la brutalità di questa condizione di vita).

Questa vita rappresentata all’interno dei Granili può essere considerata come una forma di microcosmo,
un micromondo in cui si esprime in maniera classicamente violenta una condizione universale di
disuguaglianza: il microcosmo dei Granili rappresenta gli stessi squilibri e le stesse alterazioni che ci sono
nella società che sta “fuori” dai Granili, sebbene si vivano in questo palazzo in maniera amplificata.
Questa immagine molto eloquente viene metaforicamente rappresentata dagli inquilini dei piani
superiori, i quali hanno costruito delle tubature per lo scarica dei rifiuti, che però finiscono per macchiare
e appestare gli individui dei piani inferiori → “Avevano acquistato delle radio e fatto costruire quelle
tubature per lo scarico dei rifiuti, che, sistemate al terzo piano, affliggevano col loro fetore e macchiavano
le finestre degli abitanti dei piani inferiori.” (pag. 86).

Questa immagine è la rappresentazione emblematica di una società classista che si regge sulla
prepotenza delle classi alte che si riversa su quelle inferiori (le tubature giovano agli inquilini delle classi
agiate, ma appestano le finestre dei piani inferiori: è una società squilibrata, senza giustizia; da una parte
la classe medio borghese che lavora a spese delle classi inferiori, dall’altra la classe dei reietti, coloro che
subiscono la vita, attendono inermi la fine). C’è uno squilibrio sociale, una società ingiusta e classista. La
differenza tra queste classi è rappresentata da un altro elemento simbolico: la luce. C’è vita dove c’è
luce: i piani inferiori non ricevono la luce del sole, hanno lampade piccole che emanano una luce fioca;
al contrario ai piani superiori non solo arriva il sole, ma anche la luce elettrica è più forte. La luce è vita:
chi possiede la luce, possiede la capacità di resistere al male; le tenebre sono l’emblema della miseria e
del peccato, del traviamento morale che è presente in questa realtà.

Questo racconto è molto forte ed è quello che attirò l’attenzione di Vittorini e del presidente Luigi
Einaudi, il quale, dopo la lettura del racconto, mandò una commissione di tecnici ai Granili e ne ordinò
la soppressione: in questo caso la letteratura è stata al servizio della società civile, ha contribuito al
miglioramento delle condizioni di vita di queste persone, che sono state poi distribuite in alloggi popolari
meno fatiscenti e dunque questa realtà è stata sbalzata agli occhi della nazione, che ne ignorava
l’esistenza.

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IL SILENZIO DELLA RAGIONE

Il racconto successivo è un racconto-reportage, un testo che mescola reportage, inchiesta e narrazione,


che si intitola Il silenzio della ragione. È il testo che più di tutti attirò le critiche da parte degli intellettuali
napoletani, i quali si videro rappresentati in questo testo con il loro nome e cognome da uno sguardo
tutt’altro che tenero e dolce, quello della Ortese, che scava attraverso le persone; si trovarono quindi
catapultati in questa descrizione iperrealistica che in qualche modo stravolge anche le loro personalità.

Questo scritto intorno alla realtà napoletana subito dopo la Seconda guerra mondiale, nasce dalla
frequentazione delle Ortese di quel gruppo raccolto intorno alla rivista Sud e dai rapporti con questo
gruppo di intellettuali che sono stati decisivi nella pubblicazione de Il mare non bagna Napoli. La Ortese,
come abbiamo visto nella postfazione, dice a pag. 174 che “Nel secondo libro di racconti, invece, la realtà
- la realtà abnorme della Napoli di allora - c'era; ma, per dire le cose come stavano, non era la mia realtà,
non l'avevo cercata io: c'era stato, a indicarmi le cose, e a dirmi come erano realmente e storicamente
— c'era stato, accanto a me, Pasquale Prunas.” La Ortese mette in evidenza l’importanza del rapporto
con Pasquale Prunas; la sua scrittura è il frutto di un modo di vedere che è incarnato nella figura di
questo giornalista, il quale rappresenta un po’ il capo di questo gruppo di intellettuali (il punto di vista
della Ortese è dunque fortemente influenzato e alimentato dalle frequentazioni con questo gruppo di
intellettuali). In questa realtà la Ortese entra a conoscenza non solo di scrittori ma anche molti pittori, i
quali subiscono l’influenza dell’espressionismo tedesco. È all’interno di questo gruppo che la Ortese
impara quella “cattiveria rappresentativa”, questo forte espressionismo, questo sguardo impietoso nel
ritrarre la realtà. E possiamo dire che questa forma di cattiveria rappresentativa finisce per ritorcersi
contro il gruppo che l’ha generata (il gruppo Sud), poiché con questa tecnica, ne Il silenzio della ragione,
la stessa Ortese ha rappresentato gli amici di un tempo, e gli amici non gliel’hanno perdonato, non hanno
accettato questa descrizione e non hanno letto la chiave puramente stilistica e artistica di questo tratto,
ma essendo stati in prima persona toccati, ha prevalso il risentimento soggettivo di vedersi rappresentati
con nome e cognome, vizi e virtù all’interno di un racconto, il quale però rappresenta comunque una
grande prova di scrittura letterario e va letto nelle sue implicazioni e le caratteristiche letterarie (e non
solo biografiche).

Il titolo del racconto vuole essere un omaggio al pittore Francisco Goya, in particolare all’opera Il sonno
della ragione genera mostri, dipinto del 1797: in esso viene fuori questo tratto di cattiveria
rappresentativa (possiamo definire Goya una sorta di pre-espressionista: la sua pittura è fortemente
espressionista, poiché mette in evidenza attraverso il tratto la drammaticità delle situazioni).

Il reportage della Ortese è stato pubblicato la prima volta nel 1953 e l’ambientazione de Il silenzio della
ragione la possiamo collocare nel 1952, perché fa riferimento a volumi usciti in quell’anno. Per questo
reportage è stata fondamentale l’esperienza di condivisione con il Gruppo Sud, soprattutto con
l’esperienza condotta da lei in casa di Prunas e Compagnone. Anche la cattiveria rappresentativa nasce
da questo ambiente, che si propone di esplorare la realtà napoletana con uno sguardo critico, di
sovvertire i cliché letterari e artistici tipici della napoletanità. Questa cattiveria rappresentativa, che
risente dell’espressionismo fatto propria all’interno della rivista (venivano pubblicati quadri e
rappresentazioni artistiche legate a questo movimento), in qualche modo finisce per ritorcersi contro i
componenti del gruppo, che pagheranno in questa rappresentazione un tributo, perché questo sguardo

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cattivo ed estremamente analitico verrà applicato dalla Ortese proprio a loro, descritti senza filtri con
nomi e cognomi.

Questo è un reportage abbastanza lungo, articolato in sei parti, ciascuna con un titolo e
un’ambientazione diversa. L’arco temporale in cui si colloca il reportage va dalla sera del 19 giugno alla
sera del 20 giugno. La sera del 19 giugno caratterizza il primo segmento, così come il secondo e il terzo.
A partire dal quarto fino all’ultimo segmento narrativo si possono collocare nel 20 di giugno. Secondo La
Capria, l’unico scrittore vivente di questa generazione, questo reportage non va letto per le informazioni
che riporta ma come uno scritto letterario, come un esempio di saggismo letterario, che confina con lo
scritto creativo. All’interno di questo testo c’è uno stile misto, per un verso caratterizzato da un forte
autobiografismo e dall’altro da una certa capacità di invenzione.

1) LA SERA SCENDE SULLE COLLINE

Questa parte si apre con un’immagine che abbiamo già trovato in apertura di altri racconti, come Oro a
Forcella e La città involontaria, in cui l’azione prende il via attraverso un viaggio compiuto su un mezzo
pubblico. Qui, la sera del 19 giugno, la Ortese prende un tram della linea 3 perché deve andare a trovare
Luigi Compagnone, uno dei membri del gruppo Sud. La Ortese va da lui perché spera di raccogliere
notizie e informazioni utili sugli scrittori napoletani del momento.

“Avevo bisogno di alcune informazioni sui quattro o cinque scrittori giovani di Napoli, Prisco, Rea,
Incoronato e La Capria (che aveva il suo primo romanzo in via di stampa presso un editore del Nord); non
escludevo Pratolini, benché l'autore di Cronache di poveri amanti non potesse dirsi napoletano, né alle
prime armi ma avevo saputo ch'era sul punto, se già non lo aveva fatto, di lasciare definitivamente la
città).” (pag. 99)

Va a casa di Compagnone perché la sua casa era stata un luogo di ritrovo al pari della Nunziatella e in
questa che è una finzione narrativa, la Ortese finge di dover scrivere un articolo per un settimanale
illustrato intitolato: “Che cosa fanno i giovani scrittori di Napoli?”. Questa è l’occasione che da l’innesco
alla narrazione. All’inizio la narratrice descrive un lungo viaggio in tram e descrive lo scenario che le si
presenta davanti agli occhi durante il tragitto. Sono passati degli anni dall’ultima volta in cui la Ortese ha
visto questa zona e la strada che percorre le appare una strada defunta. È una strada in fermento,
animata, poiché stanno rifacendo il manto stradale (la Napoli degli anni Cinquanta è una Napoli in
ricostruzione dopo la Guerra) e nonostante la strada sia viva a causa del fermento dei lavori, alla Ortese
sembra una strada morta.

“questa strada, piuttosto, rimaneva ridente e terribile, come appunto l'espressione d'intelligenza e bontà
che appare talora sul viso ai defunti. Era una strada defunta, così almeno la definii nel mio cuore,
sperando poterle trovare in seguito un attributo meno intenso ed irrazionale, cosa che invece non fu
possibile.” (pag. 100)

Notiamo già qui la tendenza della Ortese a descrivere sia la realtà del paesaggio che le persone
attraverso tratti ossimorici, contrastanti. Qui la strada ha un aspetto ridente e terribile al tempo stesso.
C’è un’umanità in fermento, ma al tempo stesso questa appare come animata da una forma di
esagitazione parossistica.

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“Ma quegli uomini e donne e bambini seminudi, e cani e gatti ed uccelli, tutte forme nere, sfiancate,
svuotate, tutte gole che emettono appena un suono arido, tutti occhi pieni di una luce ossessiva, di una
supplica inespressa - tutti quei viventi che si trascinavano in un moto continuo, pari all'attività di un
febbricitante, a quella smania tutta nervosa che s'impadronisce di certi esseri prima di morire, per un
gesto che gli sembra necessario, e non è mai il definitivo - quella grande folla di larve che cucinava
all'aperto, o si pettinava, o trafficava, o amava, o dormiva, ma mai veramente dormiva, era sempre
agitata - turbava la calma arcaica del paesaggio, e mescolando la decadenza umana alla immutata
decenza delle cose, ne traeva quel sorriso equivoco, quel senso di una morte in atto, di vita su un piano
diverso dalla vita, scaturita unicamente dalla corruzione.” (pag. 101 – 102)

Questa rappresentazione mette in evidenza questo tratto frenetico e compulsivo della folla di larve che
vede agitarsi al di fuori del pullman, ma questo movimento non è sinonimo di vitalità, ma è come se
fosse l’ultimo spasmo prima della morte. Questo moto continuo è pari all’attività di un febbricitante, a
un movimento dettato dalla malattia. Tutte queste attività sono apparenti, in realtà queste persone
esprimono il senso di una morte in atto. Questo sguardo corrosivo lo vediamo già mentre la narratrice è
sul pullman e osserva la realtà che sta fuori. Poi lo sguardo dall’esterno si sposta all’interno, e con il solito
sguardo crudele osserva i personaggi che le stanno accanto in tram. Di questi personaggi mette in
evidenza i segni delle ferite e della malattia: la donna che le sta accanto viene caratterizzata dagli occhi
neri al di sopra della cicatrice. L’aspetto che più la colpisce è quindi il segno di una ferita che porta sul
volto. Più avanti rappresenta un uomo magro e dall’aspetto seriamente ammalato.

Si sofferma a descrivere la Villa Comunale, uno dei luoghi di ritrovo della Napoli storica, di cui ricorda la
storia. Mette in evidenza i diversi utilizzi che ne fanno di questo spazio le diverse fasce della popolazione
napoletana. Ci sono i nobili, che vanno a passeggiare soprattutto sul lato del galoppatoio; i viali centrali
sono affollati dai bambini della borghesia, che vanno in bicicletta e sui monopattini; i giovani della plebe,
invece, si appartano e frequentano più volentieri i punti più nascosti di questo giardino. In questo luogo,
di notte, ci sono anche i militari statunitensi (ancora presenti in città) e i giovani napoletani, ma la Ortese
scrive che questo luogo di notte non è affatto sicuro.

Il riferimento ai ragazzi che popolano questo luogo di ritrovo la porta a fare considerazioni sui giochi che
si è soliti fare, giochi legati a una sfera primordiale: legati alla sfera del sesso da una parte e, dall’altra,
alla sfera della caccia, di un sentimento nato nella natura umana, vista come natura felina. Non è una
caccia utile, funzionale a trovare i mezzi di sussistenza (come i primitivi), qui questo residuo di istinto
primordiale è legato ad attività crudeli, di una violenza gratuita e non necessaria.

Alla fine di pag. 103, la Ortese scrive: “Due avevano impiccato una bestiola a un ramo, altri erano intenti
a trafiggere una farfalla. Qualcuno orinava qua e là. Non avevano occupazioni ragionevoli.” La Ortese
mette in evidenza come questi ragazzi non hanno delle occupazioni ragionevoli. Il sonno della ragione è
una condizione radicata e diffusa a tutti i livelli sociali, non solo riferito agli intellettuali napoletani al
centro di questo testo. La Ortese, infastidita dagli sguardi della vicina, decide di scendere dal tram, un
accidente che ricorre in un altro racconto (in Oro a Forcella, dove non ce la fa a scendere dal tram),
perché non scende mai alla fermata stabilita.

Come osserva questa realtà napoletana la Ortese dopo essere stata lontana da Napoli? Con uno sguardo
straniante e distaccato. Con questo sguardo osserva i suoi amici Prunas, Compagnone, Rea, Prisco, La
Capria, scrittori e giornalisti che hanno avuto relazioni e contatti con questo ambiente napoletano. La
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scrittrice, più che descrivere gli incontri che fa, si lascia andare ai ricordi: ci sono delle sezioni nel testo
in cui prevale il ricordo del passato. Soltanto uno spazio misurato è occupato dagli incontri reali che la
Ortese fa per scrivere questo reportage (per esempio la descrizione di Compagnone, prima dell’incontro
reale, è rappresentata dal riaffiorare del ricordo nella mente della Ortese).

“Il Compagnone abitava in Viale Elena da vari anni, e non ricordo se ne fosse mai compiaciuto. […] Vi era
qualcosa, in quel volto, tra l'estrema gioventù e la vecchiaia, e, da anni, si era fatta sempre più evidente
una lotta tra certa nobiltà e gentilezza ch'erano in lui, e una disperazione e perfidia che erano ugualmente
in lui, e poco alla volta, specialmente per chi lo rivedeva dopo un po' di tempo, quella parte inferiore di
lui, come un male nascosto, era avanzata. Non di molto, e si poteva anche non avvedersene.” (pag. 105)

Questa non è un’immagine che sta guardando, ma che si ricrea nella sua mente. Questo personaggio è
descritto con una polarizzazione di elementi contrastanti. Nella sua mente questo personaggio, nel corso
del tempo, ha visto crescere dentro di lui questa disperazione e perfidia, che si sono fatti strada come
un male nascosto.

“Attraversai la Piazza Principe di Napoli ed entrai in Via Mergellina, pensando di raggiungere Viale Elena
da Via Galiani, che taglia queste due parallele, e passa proprio davanti alla casa del Compagnone. Ero a
pochi passi dal Caffè Fontana, quando mi parve di vederlo. Veniva avanti dal marciapiede opposto, con
la sua andatura un po' stanca di claudicante, senza fretta. Il viso era leggermente pallido, come di chi ha
freddo, e gli occhi guardavano intorno senza gioia, anzi con una rabbia muta, greve. Stavo per salutarlo,
quando mi accorsi di averlo soltanto ricordato.” (pag. 106)

Non è un’immagine reale, è un’immagine che prende forma nella mente della Ortese. La Ortese è agitata
perché deve rivedere queste persone, non è in uno stato di tranquillità. Ci sono sempre quelle spie
linguistiche che mettono in guardia il lettore dal credere vero ciò che è rappresentato (Quando mi parve
di vederlo), spie che mettono in guardia il lettore e lo aiutano a decifrare la realtà. La Ortese si accorge
di aver immaginato la figura di Compagnone e di trovarsi in uno stato di agitazione.

“Mi accorsi anche di un'altra cosa: che la tranquillità con cui mi ero disposta a recarmi dal Compagnone,
quasi fosse, come finora lo avevo pensato, un semplice funzionario della Radio, quella tranquillità era
sparita. […] Anche le case mi parvero leggermente torte, e che qua e là si affacciassero figure inquiete,
molto pallide, piene di rassegnazione e di collera.” (pag. 106)

Anche le case portano i segni di questa percezione agitata e scomposta, e le figure che si affacciano a
queste case sono inquiete, perché inquieto è lo sguardo che le osserva, uno sguardo che filtra la realtà
attraverso una lente scura. Questa rassegnazione e questa collera che vede nelle figure inquiete che si
affacciano in queste abitazioni, in realtà fanno parte dello sguardo di chi le osserva. Il lettore, leggendo
questo testo, deve rendersi conto che ciò che legge è qualcosa che deriva da questo tipo di percezione
della realtà, che non è oggettiva e distaccata, ma la realtà è rappresentata attraverso un forte filtro
soggettivo.

Giunge finalmente a casa di Compagnone, entrando da un cancello secondario, e si sofferma a osservare


la sua casa dall’esterno. Anche in questo caso, con questa osservazione dall’esterno, si sovraimprimono
nella sua mente le impressioni di un tempo, vi immagina all’interno persone che appartengono a un
passato diverso. Anche nell’ambiente che osserva, proietta la sua percezione della realtà.

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“Proprio vicino alla porta di strada, sporgeva l'angolo di un grosso tavolo, coperto da un tappeto di lana
grigia; sopra, in una confusione che, in qualche modo, non era più quella dei primi anni, stavano
ammonticchiati certi libri, si vedevano allineati esigui fasci di carte, ed era visibile il fianco di una
macchina da scrivere chiusa nella sua custodia.” (pag. 107)

Ad un certo punto scorge vicino alla porta della strada un grosso tavolo, coperto da un tappeto di lana
grigia, sopra cui stavano ammucchiati dei libri e una macchina da scrivere nella custodia. Attraverso
questa rapida occhiata, la Ortese registra una forma di esaurimento di quella passione intellettuale di
un tempo. Dovunque coglie segnali di crisi e di impoverimento di questa stagione letteraria.

“Sulla consolle, un orologio di bronzo, con degli amorini, non segnava più alcun tempo: la lancetta si era
spezzata.” (pag. 108)

Più avanti fa riferimento alla vista di un orologio che sta su una consolle, di bronzo, che colpisce la
narratrice perché non segna più alcun tempo, poiché la lancetta si era spezzata. Il lettore che legge
questa descrizione si chiede se quest’impressione che ha l’osservatrice sia reale o sia solo la sua
percezione della realtà.

Da pag. 106, quando la Ortese arriva davanti alla casa di Compagnone, a pag. 124, quando lo incontra
davvero, intercorre un tempo limitato ma occupa uno spazio narrativo ampio, riempito dai ricordi e dai
giudizi della Ortese. Prima si sofferma su alcuni elementi dell’arredo, dopo prende corpo
l’immaginazione degli antichi personaggi che abitavano questa casa. Troviamo lo stacco fra la descrizione
degli arredi e questa improvvisa capacità d’immaginazione che la porta a vedere persone e amici di un
tempo in quella casa.

“[…] mi pareva scorgere delle figure, e avrei creduto udire il suono di voci familiari.” L’uso del verbo
parere mette in allerta il lettore e gli fa considerare che questa non è la realtà ma solo l’impressione
della narratrice.

I volti degli amici sfilano davanti ai suoi occhi e la Ortese ripercorre le loro caratteristiche. Questo
escamotage narrativo le consente di presentare queste figure al lettore, mettendo in evidenza le
caratteristiche fisiche e della personalità di questi personaggi.

Il primo a cui fa riferimento è Gianni Scognamiglio (che viene indicato col nome materno, Giovanni
Gaedkens). Ci sono tanti altri personaggi a cui fa riferimento, come la moglie di Compagnone, altri
giornalisti, altri impiegati della radio, il proprietario di una galleria d’arte moderna, ci sono tanti
personaggi che hanno animato la Napoli del secondo Dopoguerra. Queste immagini che sfilano davanti
a sé, a un certo punto svaniscono, anche questo dà l’idea di una percezione dell’illusione. Questi quadri
prendono corpo e poi sfumano nel sogno.

“Dissolte anche queste figure di marxisti, e con esse le voci un po' monotone e fisse di chi agisce in sogno,
la stanza si popolava delle più squisite figurine napoletane degli anni '45-50” (pag. 109)

Queste non sono voci reali, sono incontri inventati, di cui il lettore viene informato attraverso spie
lessicali nel testo. (Svanite queste figurette, ecco farsi un nero, e in quell'oscurità illuminarsi certi contorni
quasi tragici.). Attraverso questo escamotage narrativo, la Ortese ha modo di cominciare a descrivere i
personaggi di cui parlerà nel suo articolo.

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2) STORIA DEL FUNZIONARIO LUIGI

Subito dopo troviamo la storia di Luigi Compagnone, a cui si riferisce come al giovane funzionario della
Rai. Traccia la storia di Compagnone, che si è formato in quella temperie culturale e politica degli anni
’43-’45, ha collaborato alle attività antifasciste, è stato uno dei partecipanti delle quattro giornate di
Napoli, determinanti per la storia italiana, poiché in queste quattro giornate prese forma l’insurrezione
popolare che mise in fuga i tedeschi, che ancora occupavano Napoli, ed agevolò l’ingresso degli alleati.
Queste quattro giornate si situano tra il 28 settembre e il 1° ottobre del 1943 e rappresentano un
episodio importante perché per la prima volta un’insurrezione popolare mise in fuga i tedeschi.
Compagnone, durante l’occupazione alleata, si occupa di Radio Napoli, la radio degli alleati. Nelle
principali città occupate dagli alleati c’erano emittenti radiofoniche che informavano la popolazione
dell’avanzata degli alleati e la mettevano in guardia dai messaggi ufficiali diffusi dalla stampa fascista.

Ad esempio, a Bari c’era Radio Bari e, nel momento in cui gli alleati occupavano la Puglia, ha
rappresentato un’esperienza culturale molto importante, poiché c’erano trasmissioni che incitavano alla
resistenza. Importante a Radio Bari è stato il contributo di una scrittrice del ‘900, Alba de Céspedes, che
teneva una rubrica, “La voce di Clorinda”, come la guerriera del Tasso che era una paladina della libertà.
Finita l’esperienza di Radio Bari, quando gli alleati liberano il territorio pugliese, diventa centrale
l’esperienza di Radio Napoli, attorno al quale si concentrano gli intellettuali del gruppo Sud, e diventa il
centro della cultura napoletana antifascista di questo periodo. Compagnone lavora a Radio Napoli e
inizia a frequentare i futuri protagonisti della cultura napoletana: Francesco Rosi (regista importante),
Raffaele La Capria (scrittore che si sposterà da Napoli a Roma) e altri futuri giornalisti che diventano
rappresentanti della cultura, del giornalismo, della letteratura di questo periodo. Compagnone collabora
ad altre trasmissioni radiofoniche e inizia a lavorare in Rai, diventando capo servizio del telegiornale.

Compagnone, con Prunas, Rea, La Capria, Ortese, partecipò all’avventura della rivista Sud. Come autore
ha scritto delle poesie, dei saggi, e i suoi scritti sono caratterizzati da un tono fortemente ironico,
pungente. Ha collaborato a molte testate giornalistiche di stampo nazionale (Il resto del carlino, Il secolo
decimo nono, Il messaggero di Roma, La Stampa, Il corriere della sera, L’Unità…). Nei suoi scritti
Compagnone ha indagato la realtà del Mezzogiorno, ne ha individuato i punti critici, e si è soffermato
sul momento di passaggio segnato dal Dopoguerra, quando c’è sì un rifiorire dello sviluppo economico
ma che non sembra portare un conseguente sviluppo della civiltà. Questo è quello che ha fatto
Compagnone, adesso vediamo come ce lo descrive la Ortese, che ne fa un ritratto segnato da una
cattiveria descrittiva.

Già l’attacco è pungente: “Mi ricordai così che anche il Compagnone scriveva, o almeno si era illuso di
farlo, e solo ultimamente aveva finito per dedicarsi agli sketch. Mi ricordai altre cose.” (pag. 110) →
Esprime sin dall’inizio un giudizio negativo su questo personaggio. Ripercorre mentalmente, perché
ancora non l’ha incontrato, la fisionomia intellettuale del Compagnone e la ripercorre nella sua memoria.

La Ortese mette in evidenzia la capacità di Compagnone di aver evidenziato una Napoli diversa rispetto
alla Napoli delle rappresentazioni consuete, “non più ridente e incantata, o tambureggiante e grottesca,
ma livida come una donna da trivio (una prostituta) sorpresa da un subitaneo apparire della ragione.” A
questa rinascita della ragione ha contribuito la scrittura di Compagnone, nonostante la Ortese continui
a non riconoscere il valore della sua scrittura letteraria (“Non solo quella brutta poesia ch'egli pubblicò
in "Sud: giornale di cultura", fondato e diretto dal ragazzo Prunas: Questa è la mia città senza grazia”).
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“A momenti dava persino noia col suo entusiasmo, ma non poteva non intenerire; e durando e
diffondendosi la fama di quella sua intelligenza, di quel suo ridere così disperato, pieno di un tremito di
cieli infranti.” (pag. 111)

Anche nella descrizione fisica di Compagnone prevalgono i tratti ossimorici. I suoi sketch comici sono
pieni di disillusione, indicano un sogno che si è spezzato. Anche in questo caso il sogno è colto nell’attimo
in cui si spezza, in cui dà ancora un tremito.

Dopo aver descritto Compagnone, Napoli viene rappresentata così:

“Intorno, Napoli era quello ch'è noto, una colata lavica di pus e di dollari, l'Americano aveva sostituito il
Borbone, e bastava sentire dire okay, perché dalla Vicaria a Posillipo tutti i cuori tremassero, e in queste
due case, che in realtà erano una sola, se ne profittava per stendere, forse ingenuamente, ma con un
impegno evidente, le prime linee di quella scuola della Ragione, che, altrove, aveva già purificato i paesi,
e alla cui mancanza, qui, era dovuto il profondo sonno e la dispersione della coscienza. Si voleva sapere
tutto, capire tutto di questa mostruosità che, alla luce degli ultimi fatti, appariva Napoli.”

Gli Americani adesso dominano in città così come un tempo dominavano i Borbone. In queste due case,
quella di Prunas e di Compagnone, si riunivano intellettuali che volevano far risorgere una scuola della
Ragione, che altrove aveva già purificato i paesi, perché il fascismo e il nazismo sono visti come la
rappresentazione estrema di una forma di irrazionalità. I paesi che sono stati purificati da questa
infezione sono quelli che hanno fatto ricorso alla ragione. Anche a Napoli nasce questa volontà di fare
appello alla ragione, si nutre la speranza di poter purificare anche la realtà napoletana. La Napoli che ha
pagato il peso di quella deriva irrazionale appare mostruosa. Si ha per la prima volta la lucidità di
guardare la realtà e di non macchiarla di sentimentalismo, ma di concentrarsi sulla realtà per quella che
è.

“Si voleva sapere tutto, capire tutto di questa mostruosità che, alla luce degli ultimi fatti, appariva Napoli;
rimuovere la lapide finissima che posava sulla sua fossa, e cercare se, in quella decomposizione rimanesse
ancora qualcosa di organico. Si pronunciavano per la prima volta, nella tradizione locale, parole come
sesso in luogo di cuore, sifilide in luogo di sentimento, e ossessione come ispirazione. Si scopriva non
esservi un popolo, al mondo, infelice come il napoletano, e infelice perché malato; si cercavano le cause
di questa malattia, definivano i modi di questa infelicità, e smontando senz'altro il mito dell'allegria, e
ravvisando in quelle esistenze, in quei canti, una convulsa desolazione, il lamento dell'uomo perduto
nell'incanto e l'incoscienza della natura, dominato e succhiato continuamente da questa madre gelosa;
incapace ormai di coordinare i propri pensieri, comandare ai nervi, e muovere un solo passo meno che
barcollante; prendere viva parte alla storia dell'uomo, anziché esserne continuamente oppresso e
umiliato: se ne indicavano le conseguenze e studiavano i sistemi per liberarlo da una schiavitù così
grave.” (pag. 112) → Questo passo sembra essere scritto tutto d'un fiato, ci sono passaggi non segnati
da un punto, da un periodare staccato e ordinato, ma è convulso, fatto di due punti, specificazioni e
punti e virgola.

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La scuola della Ragione è in contrapposizione all’ondata di irrazionalismo segnata dalla guerra e dalla
deriva fascista e nazista. È quella scuola che in altri Paesi ha riportato al centro la razionalità e ha
contribuito a svecchiare il panorama culturale, facendo uscire dal sonno della ragione quei paesi. Anche
a Napoli c’erano stati alcuni fermenti di questa scuola della Ragione.

Riprendendo il passo precedente, possiamo dire che la Ortese riconosce il merito a questa scuola della
ragione di aver voluto guardare per la prima volta in faccia la realtà napoletana, guardandola con
disincanto, senza cercare di edulcorare quella realtà, così come avevano fatto le rappresentazioni
tradizionali di Napoli, che avevano messo al centro l’allegria del popolo napoletano, la musicalità, i
panorami soleggiati, senza mettere a fuoco le condizioni di miseria e indigenza di questa popolazione.
Per la prima volta si cerca di guardare la realtà in maniera oggettiva, e si scopre che non c’è un popolo
al mondo infelice come quello napoletano.

L’infelicità è il tratto che contraddistingue maggiormente la popolazione napoletana e questa infelicità


nasce da una condizione patologica: il popolo napoletano è infelice perché è malato. Si cerca di definire
quale sia la malattia che affligge questo popolo, si smonta il mito dell’allegria e si vede come questa
allegria non è nient’altro che una maschera dietro la quale si cela una convulsa desolazione. L’uomo
napoletano viene rappresentato come un uomo succube di Madre Natura, asservito agli istinti, privo di
ragione. Vista questa condizione, si cerca di mettere a punto dei sistemi per liberare il popolo napoletano
da questa soggezione alle forze della natura. Innanzitutto, si può liberare l’uomo attraverso la cultura,
intesa come conoscenza dei fenomeni e quindi coscienza. Per questi intellettuali, la cultura ha un ruolo
fondamentale, è la forza che si può contrapporre alla potenza della Natura.

“Fin dal primo momento, era stato chiaro che la cultura, intesa come conoscenza e quindi coscienza,
specchio dove fissare la propria immagine, fosse il più indispensabile. Bisognava rimuovere dall'opinione
pubblica il mito terribile del sentimento, chiarendo tutte le alterazioni e deformazioni cui esso aveva
condotto l'odierna società partenopea; sottrarre alla sua vista, finché le condizioni generali non fossero
migliorate, i cieli di Di Giacomo e Palizzi, proponendo e magari imponendo le manifestazioni di un'arte
arida e disperata.” (pag. 112 – 113)

Per distaccarsi da questo radicamento delle forze della Natura bisogna cercare di sfrondare quella realtà
edulcorata, proposta attraverso una rappresentazione piena di sentimentalismo con la quale Napoli
veniva descritta. Bisognava sottrarre alla vista dell’opinione pubblica quelle immagini stereotipate e
convenzionali presenti nelle opere di Salvatore Di Giacomo, che rappresenta la poesia e il teatro
tradizionale napoletano, e Nicola Palizzi, pittore di paesaggi napoletani tipici, come il Vesuvio). A questo
tipo di rappresentazioni bisogna contrapporre un’arte arida e disperata, secca, incisiva, piena della
disperazione che nasce dalla conoscenza della negatività del reale. Questo è stato il sogno di una
generazione, di riuscire a mostrare la realtà senza queste rappresentazioni sentimentali del popolo.
Questa generazione si è raccolta intorno alla rivista Sud e ha voluto mettere in primo piano una cultura
moderna, che fino a quel momento in Italia non era riuscita ad entrare. Queste riviste del Dopoguerra
tendono a voler svecchiare il panorama culturale italiano, a voler produrre autori stranieri fino a questo
momento non ammessi al panorama culturale italiano.

Alla fine di pag. 113 mette in evidenza questo disegno elaborato da Prunas, che decide di realizzare
questa rivista, la quale nasce da sacrifici personali dei collaboratori. Su questa rivista fu pubblicato il
primo saggio in Italia sulla poesia inglese contemporanea, il primo saggio di Sartre sull’Esistenzialismo,
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ecc. Questa è la cultura che si apre all’orizzonte europeo, alle filosofie contemporanee, contrapposta a
quella tipicamente nazionalista proposta dall’Italia fascista.

Il discorso della Ortese si basa su associazioni mentali, su passaggi mentali che si stabiliscono nella sua
mente. Subito dopo lo stacco che troviamo alla fine di questo passaggio, dalla rappresentazione di
Compagnone lo sguardo e la mente della Ortese si spostano alla rappresentazione di Pasquale Prunas.
Di Prunas la Ortese mette in evidenza il disinteresse e il distacco analitico che ha nei confronti della
realtà napoletana, poiché percepisce la realtà di Napoli standone a distanza, non è un figlio di quella
terra, è uno straniero che la osserva e ha la capacità di vederla meglio rispetto a chi è dentro questa
realtà. Prunas era di origini sarde e di famiglia nobile, ma senza un quattrino, poiché non aveva voluto
laurearsi e i genitori gli avevano tagliato i viveri. Lui invece vive le sue passioni totalmente, senza farsi
calcoli economici ma seguendo la passione.

Verso la fine di pag. 114, la Ortese descrive Prunas. → “il Prunas, con la sua aria appassionata e tetra, si
arrovellava e struggeva pensando cosa si poteva fare per questa grande ammalata, che pure gli era
estranea. Vestito come un impiegatuccio, senza mai una lira in tasca (i genitori non sapevano in qual
modo costringerlo a prendersi la laurea e rientrare nel numero delle persone dabbene), pure non
tralasciava occasione per dichiarare il suo rispetto alla città, ridotta com'era, e affermare che la
liberazione non doveva risolversi in un nuovo sistema di catene.”

Con “nuovo sistema di catene” la Ortese fa riferimento al fatto che ai vecchi padroni si sostituiscono gli
Americani e impongono il loro dominio in città, finendo per sostituirsi ai Borbone. Per rompere queste
catene, bisogna soprattutto fare ricorso all’indipendenza della cultura.

“L'indipendenza della cultura proclamata indispensabile, il diritto della cultura a sorvegliare lo stato,
qualsiasi stato, a contenerlo invece che esserne contenuta, gli parevano un luogo comune, per la loro
chiarezza, e tuttavia non ometteva mai di parlarne.” (pag. 114)

Considera queste idee riguardo la indipendenza della cultura come un luogo comune molto diffuso, ma
al tempo stesso non smette di parlarne perché anche lui riconosce che è un valore irrinunciabile. Via via
calerà però il consenso attorno a Prunas e attorno alla sua rivista. Con la maturità molti di questi scrittori
giornalisti finiscono per acquetarsi in una sorta di conformismo borghese, di accettazione della realtà,
come La Capria. Altri emigrano verso città in cui hanno trovato un’occupazione più stabile, altri ancora
trovano impiego nella stampa locale e finiscono per fare i giornalisti.

“Come da una spiaggia, sul finire della tempesta, si ritirano le nobili onde del mare, che più la percossero,
e solo rimangono al suolo, e brillano tra la rena, conchiglie, alghe e rottami, così si allontanarono dalle
stanzucce della "Nunziatella" certi nomi e volti che più avevano brillato, lasciandone a terra altri che non
avevano certo il loro splendore. Raffaele La Capria, che per un attimo, col suo "Cristo sepolto", era parso
esprimere una generosa inquietudine della borghesia, si rinchiuse nelle grotte di Palazzo Donn'Anna,
dove i suoi avevano un comodissimo alloggio, e là riprese a corrispondere con certi Inglesi che amava,
meditando la fuga a Roma, che effettuò dopo qualche anno, e rinsaldando la sua furiosa passione per
Proust e Gide, da cui doveva nascere infine Un giorno d'impazienza.” (pag. 116)

La Capria, che all’inizio ha mostrato questa carica rivoluzionaria, poi si è ripiegato in questo comodo
habitus di borghese, abitando con la sua famiglia in un comodo palazzo, immergendosi negli studi e
meditando la fuga a Roma, capitale della cultura.
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Dopo lo stacco tipografico, questa divagazione su Prunas finisce e il discorso ritorna su Compagnone.
Qui inizia un’analisi della condizione napoletana che non è esclusiva, ma appartiene a molte realtà
dell’estremo Sud. Queste realtà sono accomunate soprattutto quella difesa della Natura dalla ragione.

“Esiste, nelle estreme e più lucenti terre del Sud, un ministero nascosto per la difesa della natura dalla
ragione; un genio materno, d'illimitata potenza, alla cui cura gelosa e perpetua è andato il sonno in cui
dormono quelle popolazioni. […] Buona parte di questa natura, di questo genio materno e conservatore,
occupa la stessa specie dell'uomo, e la tiene oppressa nel sonno; e giorno e notte veglia il suo sonno,
attenta che esso non si affini; straziata dai lamenti che la chiusa coscienza del figlio leva di quando in
quando, ma pronta a soffocare il dormiente se esso mostri di muoversi, e accenni sguardi e parole che
non siano precisamente quelle di un sonnambulo. Alla immobilità di queste regioni sono state attribuite
altre cause, ma ciò non ha rapporti col vero. È la natura che regola la vita e organizza i dolori di queste
regioni. Il disastro economico non ha altra causa.” (pag. 117)

Questa realtà è una realtà schiacciata dallo strapotere della Natura. La Natura si difende dalla ragione,
le oppone resistenza. Natura e Ragione sono due forze grandi e incompatibili, non sono conciliabili così
come pensano gli ottimisti e, in questa terra, la Natura l’ha sempre vinta rispetto alla ragione dell’uomo,
che ha sempre fatto una fine miseranda, ogni volta che organizza una spedizione per smantellare questo
strapotere della ragione, qui il pensiero è destinato a essere servo della natura. La causa della Questione
meridionale è attribuita dalla Ortese al predominio schiacciante della Natura sulla Ragione. La Natura
tiene l’uomo oppresso in un sonno profondo e giorno e notte veglia il suo sonno perché non si svegli e
mostri la sua razionalità e la sua lucidità.

Compagnone rientra fra coloro che hanno subito questo strapotere della Natura. La Ortese ne traccia
un ritratto contradditorio.

“Quel Compagnone era, come molti di noi, nato nei vichi di Napoli, dove la natura infuria, e tutta la
ragione dell'uomo è nel sesso, la coscienza nella fame. Ancora giovanetto, e bello e vivace come un antico
dio, a tutto questo si era ribellato. A modo di una perfetta incubatrice, il Fascismo aveva scaldato e
favorito, con la sua, altre ribellioni; e nella umiliazione della guerra si era poi scoperto marxista, cioè
uomo nuovo, e per un attimo, insieme agli altri, aveva pianto le lacrime dolcissime di chi si riconosce
salvo. Apparso a tutti, nel suo freddo entusiasmo, il vero rivoluzionario, avevamo creduto che, vinta la
materna natura, egli potesse ormai dirsi al sicuro nel territorio della logica.” (pag. 118)

Compagnone è frutto dei vicoli di Napoli, dove la natura ha uno strapotere e la razionalità è ridotta al
minimo, dove la vita è dominata dagli istinti. Però, in quella fase di alti ideali, sembra essere riuscito a
ribellarsi alla Natura. Il fascismo, con la sua oppressione, ha favorito questa ribellione. Dopo la guerra,
Compagnone si era scoperto marxista e come lui molti intellettuali, che si erano iscritti al partito
comunista poiché vedevano nel comunismo il riscatto da quella realtà negativa segnata dal fascismo.

“Alla caduta di "Sud", il suo dolore fu sincero e la sua commozione veramente bella, come davanti alla
morte di persona profondamente cara. Ma, come avviene in certi funerali, che mentre il carro procede
per le strade i più devoti amici del defunto si distraggono, e quello si aggiusta il fazzoletto nel taschino,
questo guarda un negozio, un altro chiacchiera, e un altro ancora sbircia l'orologio per vedere l'ora; certa
distrazione e fatuità apparvero ben presto anche nei modi e l'intelligente viso del Compagnone. Il quale
continuò ad accogliere i superstiti membri del gruppo Sud, primissimo il pallido e silenzioso ragazzo

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sardo, e a compiangere l'immatura fine del giornale, ma ora non poteva nascondere un'eccitazione, una
gioia ch'erano, sembrerà strano, in diretto rapporto con quella disfatta.” (pag. 118)

La Ortese dipinge un Compagnone che mostra da una parte dispiacere per la fine della rivista Sud, ma
che, al tempo stesso, dentro di sé si mostra quasi compiaciuto di questa disfatta, e la Ortese attribuisce
questo atteggiamento alla ripresa dell’antico potere della Natura su di lui.

Questa stagione dei sogni e degli ideali della rivista Sud viene vista da Compagnone come la stagione dei
sogni della giovinezza, che finiscono per essere schiacciati dalla logica delle cose. In questa fase,
Compagnone sembra alla Ortese intento a rivedere il suo passato, a riconsiderarlo, e a riconsiderare il
passato della sua generazione. È una fase in cui è portato a fare il bilancio della sua esistenza, e ha un
tono giudicante nei confronti di se stesso e degli ideali di quella stagione. Considera gli amici di un tempo
come inutili, come uno “svolazzo di anime, inquiete larve, sulle acque profonde della Natura.” Li
considera come bagliori di una stagione di ideali ormai spenti.

“Sulla terza pagina dei giornali locali, e poi della rivista "Il Borghese", questi gridi divennero sempre più
fitti e striduli. Nessuno fu risparmiato. Egli obbediva contemporaneamente a due esigenze: quella di
distruggere le nostre anime, e la sua che aveva ferito le nostre. Egli attaccò vecchie e nuove religioni. La
sua stessa famiglia, e i giovani della "Voce". La Radio, come ministero, e ciò che era contro la Radio.
Denunciò una pazzìa e una inintelligenza generale, ma senza cordoglio, senza speranza di una
resurrezione, anzi compiacendosi di ciò che appariva silenzio, monotonia, morte, fine della ragione. In
questa passione si consumava. Egli l'affinava, e si sforzava di renderla sempre più attraente e bella, con
lunghi e diligenti studi. Voltaire e Flaubert erano divenuti i suoi idoli, cui chiedeva sempre nuovi mezzi
per portare questa smania di offesa sul piano dell'arte.” (pag. 120)

Compagnone sviluppa nel tempo uno spirito sarcastico, corrosivo, e per sviluppare questo spirito fa
riferimento a due scrittori classici della satira e della critica del conformismo borghese, vuole portare
questa smania d’offesa sul piano dell’arte.

“Ma accadde che la città, quegli ambienti antichi e moderni ch'egli aveva desiderato lacerare, si
abituarono anche a questo fenomeno, e i nemici ch'egli aveva sperato vennero meno. Subentrava invece
una certa noia, che a un tratto lo turbò più di quanto non avessero fatto prima le lacrime o l'ira. Avvertiva
in certi sorrisi indulgenti e affettuosi di persone che aveva inteso torturare, l'abitudine a tutto, l'antica
impassibilità all'ingiuria e al dolore, che formano l'essenza di Napoli, e di conseguenza l'inutilità
d'ingiuriare o ferire. Provò la medesima paura di chi si è gettato contro un fantoccio che ballava appeso
a un albero, e improvvisamente scopre che non è un fantoccio, ma un giustiziato; e avverte qualcosa
anche intorno al suo collo, e si accorge che lui stesso pende dal ramo di un albero. Continuò a ridere, ma
in un tono falso.” (pag. 120 – 121)

Compagnone scopre che anche questa critica, nella società napoletana, è destinata ad essere accettata
in maniera passiva. All’inizio genera lacrime e ira ma in questa città, dove si fa l’abitudine a tutto, anche
la critica finisce per rimanere inascoltata, quindi diventa inutile, perché nessuno si accende per le accuse
che gli vengono rivolte. L’immagine di Compagnone che viene fuori è quella di un uomo disilluso dalla
realtà. Compagnone è provato dalla disillusione da una parte e dalla malattia dall’altra: soffre di artrite,
ha avuto problemi con una gamba e ha iniziato a zoppicare. Questo stato di prostrazione psicologica
porta Compagnone ad avvicinarsi alle letture religiose, a cercare nella religione un conforto. Legge i

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Vangeli, san Paolo e finisce per leggere queste scritture anche agli amici che lo andavano a trovare la
sera. Percepisce anche lui, come Napoli, un senso incalzante di fine.

“Giovinezza era passata, con i suoi furori. Si riconosceva impiegato, e in tutti gli italiani, e particolarmente
nei napoletani, cercava crudelmente questa verità.” (pag. 122) → Sente che sono passati i furori della
giovinezza. Il passaggio dalle illusioni della giovinezza all’accettazione della realtà che si consuma nel
romanzo di formazione è costruito secondo questo schema. Qui Compagnone si accetta e riconosce in
sé un impiegato, un funzionario, e cerca di vedere anche negli altri questa condizione, perché questo lo
consola. Vive in questo stato di rassegnazione. Con lo stabilizzarsi dell’artrite abbandona le letture
religiose ma ormai non aspetta più nulla, accetta passivamente il proprio destino e non ha più
aspirazioni. Vive coltivando il mito dell’amico Domenico Rea, che in questo momento è apparso nel
firmamento letterario di Napoli con la pubblicazione di “Gesù, fate luce” nel 1950. Compagnone nutre
ammirazione per Rea e per il risorto mito della napoletanità, ma al tempo stesso prova invidia e
disprezzo verso lui.

“Non era invidia, ma un disprezzo che non gli era più concesso di esprimere, una malinconia furibonda e
legata. Egli doveva amare Rea, doveva onorare Rea, doveva salutare in Rea la voce più legittima di
Napoli. A tutto questo era giunto in vari anni di una lotta maliziosa e vittoriosa contro quella che aveva
bollato col nome di nullità, la classe media di Napoli: scalzi ragazzi di "Sud", poveri uomini della "Voce",
molti impiegati, gli studenti, l'inquieta folla che, a Napoli, non era più Napoli, e odiava Napoli, non era
colore, ma angoscia, e tentativo di pensiero.” (pag. 123)

Compagnone ha un rapporto contraddittorio con Domenico Rea: “non fosse salito rapidamente, come
un rosso pallone, sull'orizzonte notturno di Napoli” → la Ortese lo chiama praticamente un pallone
gonfiato. Compagnone subisce Rea, subisce la voglia di Rea di essere continuamente apprezzato, di
suscitare interesse nell’ascoltatore, di essere al centro dell’attenzione. Alla fine di pag. 123 qualche
amico lo mette in guardia sul fatto che Rea non è così grande, e Compagnone reagisce levando contro il
bastone.

“In quanto al nocerino, sano come un limone, e molto contento di come gli andava la vita, egli compativa
Luigi, perché era di cuore buono, ma lo disprezzava anche, e, se lo accostava, era proprio perché intuiva
in lui quella facoltà critica, il cui assenso gli premeva infinitamente. Ma non era l'antico dio, di cui aveva
sentito parlare, quello che adesso lo accoglieva in casa, e lo lodava, ma un napoletano come lui. E perciò
le conversazioni, i colloqui fra quei due, non erano mai reali e onesti, rimanendone il Rea indispettito e
insaziato, e Luigi sempre più nevrotico e pieno di oscuri pensieri.” (pag. 124)

A Rea Compagnone gli fa pena, ma al tempo stesso ha bisogno della sua approvazione poiché gli
riconosce certe abilità critiche. Le conversazioni fra di loro non erano mai reali e oneste, perché ognuno
ci mette la sua impressione, ciò che vuole tirarne fuori. Rea ci mette soprattutto la voglia di essere
apprezzato come scrittore e Compagnone, in queste lodi, ci mette anche del risentimento, gli oscuri
pensieri che nutre per la fine dei suoi sogni e delle sue aspirazioni.

“Questo il ricordo che avevo di Luigi, e adesso, come un'estranea, dopo aver tanto partecipato alla sua
vita e, infine, averlo dimenticato, mi trovavo ancora davanti alla porta della sua casa.” (pag. 124)

Dopo tutto questo tempo è ancora davanti alla porta di casa, non ha ancora incontrato Compagnone, è
tutto frutto del suo ricordo.
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3) CHIAIA MORTA E INQUIETA

La narrazione ritorna al presente dell’azione. Anche qui, come davanti al palazzo dei Granili, la Ortese
avverte quell’istinto di fuga.

“Staccai il dito dal campanello, e la mano dal muro, meravigliandomi di essere stata lì fino a quel
momento (molto tempo doveva essere passato, perché il cielo era divenuto verde), e ansiosa di scendere
al più presto gli scalini, rifare Via Galiani, e con il primo tram tornare in centro. Contavo anche di
rimandare la mia visita a domani, ma nella parte più segreta della mia coscienza c'era il proposito ben
determinato di non ritornare in quei luoghi mai più.” (pag. 124)

La tentazione è quella di desistere dal proposito di farsi raccontare dal Compagnone le notizie sui giovani
scrittori napoletani. Questo pensiero però muore sul nascere perché Compagnone si accorge della sua
presenza. L’ha riconosciuta, ma il suo viso non mostra alcuna espressione. La Ortese ricorda che una
volta avevano litigato ma questo non era sufficiente a giustificare questa freddezza mortale rivoltale
dallo sguardo di Compagnone. Egli la invita ad entrare e, osservando la casa dall’interno, si conferma in
quell'idea di inerzia e di fine delle passioni che ha già messo in evidenza osservando dall'esterno il tavolo
con le carte sopra di Compagnone.

Dopo un primo momento di soggezione e imbarazzo, la Ortese gli rivela il motivo della sua visita (inizio
pag. 126). Da un momento all’altro, egli cambia aspetto alla richiesta della Ortese, è scosso dalla sua
richiesta. Qui l’aspetto di viso angelico che ha descritto anche prima appare precocemente invecchiato
dalla malignità e dalla noia.

Compagnone interpreta la richiesta della Ortese come la richiesta di informazioni precise, di dati da
inserire nel suo articolo, e così trova il modo di liquidarla. Compagnone non è disponibile a rimettersi in
gioco e a fare un’analisi della realtà culturale napoletana, che la Ortese vorrebbe da lui. Questa richiesta
lo getta nell’agitazione, evita di guardarla direttamente, è inquieto e ansioso, come se davanti a lui ci
fosse un nemico. La Ortese è andata lì con un quadernetto degli appunti, tenuto sulle ginocchia per
annotare le informazioni che riceverà da Compagnone, però non trova un corrispondente disponibile a
collaborare con lei. Per attrarre l’attenzione dell’interlocutore gli dice alla fine che vuole parlare anche
di lui e Compagnone le risponde: “Perché mai?”. Compagnone non vede la necessità che si faccia il suo
nome, avendo ormai rinunciato a qualsiasi ambizione. Questa conversazione viene interrotta da Anita,
la moglie di Compagnone, che la Ortese conosce e saluta. La moglie, informata dello scopo per cui la
Ortese si è recata in casa loro, sollecita Annamaria a parlare nel suo scritto anche del marito, perché
riconosce che lui ha delle qualità che non riesce a mettere a frutto: non sa farsi valere, non è ambizioso,
non insegue il denaro. Quella irruzione improvvisa di Anita nella sala turba Compagnone ma, quando
Anita esce dalla stanza, egli ritorna indifferente. Raggiunge col suo “passo di volatile stanco” il suo tavolo,
tira fuori dal cassetto un foglio su cui aveva appuntato notizie su Rea per scopo personale e comincia a
dettare il contenuto di questo foglio alla Ortese, così quelle informazioni le possono essere utili per il
suo reportage.

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Le informazioni che Compagnone dà alla Ortese sono biografiche: all’inizio mette in evidenza il luogo di
nascita di Rea, ossia Nocera Inferiore, la data (l’8 settembre 1921) e poi cita i tre libri che ha pubblicato
fino a questo momento (Spaccanapoli, Le Formicole rosse, Gesù, fate luce.) Mentre sta fornendo queste
informazioni viene interrotto dai ragazzi che passano davanti alla sua finestra, che sono ragazzi di strada:
uno di loro sputa contro i vetri della finestra e Compagnone è distratto, colpito da questo gesto. Rientra
a casa la moglie di Compagnone e propone di andare a casa di Rea, ma Compagnone preferisce rimanere
a casa e così la moglie cambia programma, decidendo di recarsi dalla madre e lui rimane a casa. Poi,
invita la Ortese ad andarsene ora che le ha fornito le informazioni che le servono.

C'è disagio nel rivedersi da parte di entrambi, Compagnone non vede l'ora di liberarsi di questa visita,
perché gli ricorda un passato di sogni e aspirazioni, una giovinezza che ormai è passata. Un tempo di
disillusione, di dura realtà è invece quello di oggi. Anche la Ortese esita, rimane a lungo fuori casa a
fantasticare su un passato di sogni condivisi ed è tentata di fuggire. Appena uscita di casa, comincia a
correre, stenta a trattenere le lacrime poiché è provata da questo incontro. Nella parte seguente si sente
un contrasto stridente fra lo stato d’animo di estrema inquietudine della Ortese e il paesaggio che
appare calmo e sereno.

“Sentivo delle lacrime appena trattenute da una cosa più forte, una paura indefinita di quell'aria così
dolce, quel cielo così chiaro, quelle colline lunghe come lunghe onde che chiudevano nella loro serenità
tante inquietudini e orrori. Eppure, tutto sembrava così gaio e armonioso.” (pag. 133)

L’apparenza è di calma e di tranquillità nel paesaggio sereno, ma all’interno di quel guscio sereno si
addensano tormenti e inquietudini. Negli occhi di chi osserva quel paesaggio sereno prende corpo
l’ansia. E pian piano questa inquietudine si trasferisce allo scenario che si para davanti agli occhi della
Ortese.

Si immette nelle strade affollate di Napoli, piene di voci (C'era per le strade un effetto di movimento e di
eccitazione, che poi, guardando meglio, era nulla. – pag. 133). Questo tipo di percezione delle strade di
Napoli è una situazione ricorrente in altri racconti (Oro a Forcella), che porta ad avere l’impressione che
qualcosa sia successa, ma è un’impressione che porta al “nulla” (espressione che la Ortese usa spesso).
I popolani che affollano le strade di Napoli le appaiono zitti e stanchi. L’immagine che le si para davanti
è quella di un popolo avvilito, stanco, asservito senza avere coscienza del proprio stato; questa gente
vive come in un sogno (Non avresti detto che fossero svegli, ma che in un sogno oscuro si agitassero. –
pag. 134).

La Ortese si chiede allora chi o che cosa producesse quel rumore: erano le radio, i clacson delle auto,
l’urlo inutile di un cane preso a sassate da un ragazzo, schiamazzi di ragazzi che si rotolano nella polvere…

“La città si copriva di rumori, a un tratto, per non riflettere più, come un infelice si ubriaca. Ma non era
lieto, non era limpido, non era buono quel rumore fitto di chiacchierii, di richiami, di risate, o solo di suoni
meccanici; latente e orribile vi si avvertiva il silenzio, l'irrigidirsi della memoria, l'andirivieni impazzito
della speranza. Non sarebbe durato molto, e difatti, poco a poco, si spense.” (pag. 134)

Questi rumori sono come l’ebbrezza di un uomo infelice che si ubriaca per non sentire il dolore. Allo
stesso modo, Napoli si copre di rumori per non sentire l’immobilismo della società, si percepisce una
sorta di stordimento.

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La Ortese segue nella sua mente la costruzione di una poesia molto nota di Eugenio Montale, intitolata
“Spesso il male di vivere ho incontrato”, dove prendono corpo le immagini della sofferenza da una parte
e del bene dall’altra. Nella prima strofa ci sono tre immagini che emblematizzano questo male di vivere
(rivo strozzato che gorgoglia, l’incartocciarsi della foglia riarsa, il cavallo stramazzato), la sofferenza è
colta nel momento in cui si manifesta, dal regno minerale al regno animale. Nella seconda strofa
troviamo le immagini del bene, tutte immagini limitative: non c’è tanto gioia, piuttosto la cessazione
della sofferenza. Anche nella Ortese c’è questa ripresa del verbo essere all’imperfetto (era), in maniera
cadenzata, che indica delle rappresentazioni del male di vivere, sono segni di un’umanità stanca,
estenuata.

In preda a questa agitazione, la Ortese vaga di notte, arriva al Caffè Moccia e intravede all’interno delle
sagome di gente che conosce del mondo del giornalismo. Le intravede dall’esterno, fa dei cenni a questi
personaggi, rappresentati con sguardo pungente. Intravede alcuni dei personaggi che aveva immaginato
nella sua memoria, che ora ci sono davvero, e ripercorre molte di quelle figure che aveva citato prima.

4) TESSERA D’OPERAIO N. 200774

Nel racconto seguente, “Tessera d’operaio n. 200774”, vi è la messa a fuoco di Domenico Rea. Rea fu
uno scrittore e giornalista che ha avuto una formazione non tradizionale, venendo dal popolo, da
autodidatta. I primi libri, che ha rubato al mercato e che gli hanno cambiato l’esistenza, sono le “Operette
morali” di Leopardi e la “Storia della letteratura italiana” di De Sanctis. Attraverso la lettura di queste
opere ha sviluppato la sua curiosità per la letteratura e ha proseguito da autodidatta la sua formazione,
poiché non ha fatto le scuole classiche tradizionali, ma una scuola di avviamento. Questa smania di
conoscenza lo ha portato a collezionare libri, a crearsi una sua biblioteca, e ha cominciato anche a
scrivere, cercando di pubblicare le sue opere. A 17 anni partecipa ad un concorso letterario con un
racconto, che manda alla rivista Omnibus, e pur non vincendo il direttore Longanesi lo invita a proseguire
la scrittura poiché riconosce le sue qualità di scrittore. Durante la guerra conosce Michele Prisco e
Annamaria Perilli, che diventerà sua moglie. Nel 1944 si iscrive al PCI e diventa segretario della sezione
di Nocera Inferiore.

In questi anni anche lui si trova a Napoli e inizia a frequentare il gruppo di giovani intellettuali che darà
vita alla rivista «Sud» e stringe amicizia con Luigi Compagnone, l'eterno “amico-nemico”. Inizia quel
rapporto di amore – odio con Compagnone, che è fatto di superiorità e disprezzo da parte di Rea, ma
anche dalla necessità di avere costantemente l’approvazione di Compagnone. A Napoli conosce anche il
critico letterario Francesco Flora, che lo invita a continuare con la scrittura. Rea si trasferisce a Milano,
dove conosce Montale, Quasimodo e anche l’editore Mondadori e suo figlio. Anche in lui c’è da una
parte la voglia di scrivere e dall’altra la necessità di trovare qualche lavoro per sopravvivere. Alterna
viaggi al Nord e ritorni al Sud, per un certo periodo emigra pure in Brasile, ma non ha fortuna e ritorna
in Italia. Alla fine del 1947 pubblica il libro di racconti Spaccanapoli, che ha per oggetto la realtà
napoletana, e nel 1950 esce Gesù, fate luce, libro che rivela Rea alla critica italiana e al pubblico (ha
molto successo) e con cui vince anche il premio Viareggio. Con i soldi di questo premio è riuscito a
comprare una casa. Poi Rea ha pubblicato nel 1953 Ritratto di Maggio, un libro autobiografico
sull’esperienza della scuola (definito un anti-cuore, in contrapposizione al libro di De Amicis). Nel 1958
esce Una Vampata di rossore, non ebbe molto successo, mentre quello più famoso è Ninfa plebea nel
1992, vincitore del Premio Strega del 1993 e da cui è stato tratto il film di Lina Wertmüller.
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In questo racconto siamo alla mattina del 20 giugno, poiché la Ortese ha trascorso la notte fuori casa.
L’indomani prende l’autobus 115 per recarsi all’Arenella, a casa di Rea. Anche in questo tragitto la
percezione della città da parte della Ortese è quella di una realtà in disfacimento, la città sembra una
città abbandonata, i colori sembrano marci, sfatti. Questo paesaggio è un paesaggio che appare al tempo
stesso sensuale e funereo. Viene rappresentata poi la casa di Rea (fine pag. 139 – inizio pag. 140). Anche
in questo caso procede dall’esterno, c’è una rappresentazione quasi filmica, noi vediamo la realtà
attraverso i suoi occhi e attraverso il cammino che segue lungo la città.

A mano a mano si avvicina all’interno e al cuore della scena e della vicenda che vuole rappresentare. La
famiglia è sorpresa, a tavola, dall’arrivo della Ortese, e in casa di Rea c’è anche Pratolini. La Ortese nota
anche in Rea un atteggiamento di diffidenza nei suoi confronti, poiché la scruta con occhi duri, acutissimi.
Egli le chiede che cosa sia venuta a fare a Napoli. Alla fine di pag. 141 la Ortese annota che “Come tutti i
veri figli del popolo, pervenuti a fortuna e grandezza improvvise, Rea non era mai tranquillo, e
continuamente sollecitava gli altri a un giudizio che talora non esisteva, o, forzato, si palesava incerto.”
Rea, quindi, ha un atteggiamento diffidente nei confronti degli altri, sotto sotto è rimasto figlio del
popolo e porta i segni della sua formazione e della miseria che ha patito in giovinezza. Rea è un
personaggio tormentato, che ha sempre bisogno di avere l’approvazione degli altri, di essere apprezzato.
Questo stato di ansia è dovuto al fatto che ha saputo che la Ortese è stata anche da Compagnone e vuole
sapere cosa le ha detto di lui. Qui emerge il rapporto contrastante tra i due. E la Ortese lo mette a fuoco,
a fine di pag. 142 Rea chiede cosa Luigi abbia detto di lui e la Ortese risponde che Luigi ti manda i suoi
saluti. Ciò nonostante, ha un atteggiamento diffidente. L’immagine che viene fuori di Rea è quella di un
personaggio incline all’ira, che ha una forte passionalità, e poi ha una reazione animosa nei confronti
della moglie, la tratta male.

La Ortese presenta la moglie di Rea a pag. 140, dicendo che è “identica a Cora di Una scenata napolitana:
"bella, magra, piccola, coperta di carne livida, una seta"). La Ortese solo all’inizio la chiama Annamaria,
poi continua a chiamarla Cora, come la protagonista del racconto di Rea. Viene rappresentata come una
donna soggetta a Rea, con quell’aria di bestia amata e ferita, non c’è un rapporto paritario di rispetto.

Riguardo al rapporto con Compagnone, ha una reazione accesa quando la Ortese gli dice che Luigi gli
manda i saluti, e afferma che egli lo odia, ma la Ortese gli dice che Compagnone non nutre odio nei suoi
confronti e lui afferma “Non mi odia, forse, ma certo gli dò fastidio. Sono il primo scrittore di Napoli, ma
questa non è colpa mia. Con lui sono stato sempre gentile. Non lo considero nulla, è vero, anzi lo
disprezzo, ma questo lui lo sa. La verità, è che io sono sano, e lui malato. Sano come scrittore, s'intende.
Io amo il popolo. Io, anzi, sono popolo. […] Luigi, invece, che vuole? Ride, non fa che ridere. Su un uomo
simile, io sputo.” (pag. 143 – 144)

Rea ha una considerazione alta di sé e delle proprie capacità. Passa in rassegna i mestieri che ha fatto,
le collaborazioni che ha avuto, la formazione da autodidatta ma fondata sui classici; ha un atteggiamento
di superiorità nei confronti di Compagnone, che giudica perché ha lasciato il Partito Comunista. In realtà,
anche lui lascerà il partito dopo i fatti del ’56. Anche Pratolini ha un giudizio severo nei confronti di chi
lascia il partito comunista e finisce per condividere quel giudizio critico nei confronti di Compagnone
espresso da Rea.

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Dopo il pranzo, i tre si spostano nello studio e la Ortese rivela a Rea la vera motivazione della sua visita.
Nel momento in cui lo informa delle ragioni del loro incontro, Rea mostra un atteggiamento di
indifferenza.

“Pensavo che ne sarebbe stato molto soddisfatto, invece accolse la notizia con indifferenza. Forse non
aveva alcuna fiducia nelle mie qualità di giornalista, o lo seccava, come accade spesso a uomini del sud,
vedere in certe cose immischiarsi una donna. Certo, non mostrò alcun interesse.” (pag. 145)

Si può vedere l’atteggiamento maschilista di Rea, egli prova un senso di superiorità nei confronti della
Ortese che deve fare questo reportage. Questo ci fa riflettere sulle difficoltà che incontravano e che
incontrano ancora oggi le donne nel mondo della cultura, c’è una persistente situazione di squilibrio.
Rea chiede se in questo reportage ci sarà anche Compagnone, la Ortese risponde “no, non credo”. Rea
invece la invita a parlare di Compagnone, ma di parlarne male, dimostrando la forma di rancore che
nutre nei suoi confronti e vuole che la sua figura sia accostata alla propria, per poter brillare di più
rispetto a Compagnone, che è considerato minore di lui. Questo modo di fare di Rea fa riflettere la Ortese
sulla reale natura di questo personaggio.

La Ortese, a pag. 147, lo descrive come una forza della natura, in grado di sopraffare gli altri. Rea più che
espressione della napoletanità, sembra alla Ortese espressione del popolo della Campania. Ha ancora
forte dentro di sé quella matrice popolare. Ha quella forza dei contadini e dei carrettieri furibondi che
premono alle porte di Napoli, quei napoletani desiderosi e che aspirano ad affermarsi in città.
L’elemento negativo che lei sottolinea di Rea è questa tensione a ricercare continuamente il giudizio e
l’approvazione degli altri, in particolare di Compagnone (rappresentante di quel poco di coscienza che si
era fatta strada a Napoli dopo la Guerra, secondo lui, Compagnone è quel barlume di presa di coscienza
della realtà nel sogno napoletano). Rea dapprima mette in mano alla Ortese il quadernetto degli appunti,
poi ad un certo punto glielo strappa di mano e comincia, di suo pugno, a scrivere di sé. Dopo aver scritto
una pagina su di sé, sulle sue opere, sui critici letterari che lo hanno lodato, appunta anche un numero,
che fa riferimento al numero della sua tessera di operaio. Successivamente i coniugi Rea si preparano
ad uscire per incontrare i coniugi Compagnone e la Ortese ritorna al suo alloggio.

5) TRADUZIONE LETTERALE: “CHE COSA SIGNIFICA QUESTA NOTTE?”

La Ortese ripercorre la strada del ritorno e, con la mente, ripercorre le immagini di Prisco e di La Capria.
Prisco, come Rea, ha comprato casa con i soldi del premio Venezia (Gli eredi del vento, nel 1950). Tra le
opere di Prisco ricordiamo La Provincia addormentata (1949), con la quale Prisco vince una medaglia
d’oro per l’opera prima al Premio Strega. Anche lui è stato animatore di una rivista letteraria chiamata:
Le ragioni narrative. La sua opera si concentra soprattutto con la descrizione della borghesia napoletana
con i suoi vizi (l’incapacità di risollevarsi dalla condizione di immobilismo sociale ed economico) e i suoi
pregi.

La Ortese, parlando di Prisco a fine di pag. 150, mette in evidenza il “sereno distacco della sua
immaginazione dalla furiosa e sempre tetra realtà di questa terra. Grazioso a vedersi e ascoltarsi, era
per momenti in cui non si cercasse una verità.” Anche in questo caso il giudizio è pungente, poiché mette
in evidenza come la sua rappresentazione sia non veritiera.

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Poi passa a rappresentare La Capria. Del suo romanzo Un giorno d’impazienza (1952) esprime un giudizio
pesante, dicendo che questa narrazione si attacca a Proust e Moravia senza riuscire ad essere se stesso.
Quindi il libro si serve di ambientazioni, di tecniche di rappresentazioni di altri autori senza riuscire a
fornire una rappresentazione originale. Il romanzo è ambientato a Napoli, si svolge nell’arco di una
giornata, è la storia di una iniziazione sessuale e in questo riprende le atmosfere dei romanzi di Moravia.
Questa iniziazione viene desiderata dal protagonista, ma alla fine si rivela un fallimento, poiché il
protagonista non riesce a staccarsi da una dimensione autoreferenziale, rimane chiuso in se stesso e
nella sua percezione del mondo. E per la Ortese questo libro è emblematico del rapporto della cultura
napoletana con i fermenti della tradizione europea. La cultura napoletana “aveva raggiunto le mura di
certe esperienze europee, ma non aveva scavalcato la cinta”, non era riuscita ad oltrepassare quel
confine fra l’esperienza innovativa della cultura europea e l’esperienza più circoscritta e asfittica della
cultura napoletana.

Anche in questo caso, parlando di La Capria, la Ortese scrive che non le sembra l’emblema della
napoletanità. (“Malgrado tutto questo, non mi appariva importante per una identificazione di Napoli, e
difatti egli non era Napoli, ma la cultura e i vizi e le virtù di una borghesia più che altro meridionale, la
cui patria finisce sempre per essere Roma.” – pag. 151). Viene rappresentato come l’esponente della
classe borghese al suo comodo appartamento in questo palazzo nobiliare; quindi, conduce una vita più
agiata rispetto a lei e a molti giovani della cultura napoletana. Viene rappresentato come l’emblema
della borghesia di Napoli e della borghesia meridionale in genere. Questo scrittore non rappresenta ciò
che la Ortese cerca, l’espressione vera della napoletanità.

La Ortese alterna la riflessione su questi scrittori alla rappresentazione della realtà che trova nelle vie di
Napoli e sull’umanità che trova. In questo percorso a ritroso, incontra esponenti della plebe, della
borghesia e mette in evidenza che tipo di rapporti si sono stabiliti tra queste due classi sociali nel corso
del tempo.

E come, al cospetto, appariva mirabile e strana la serenità dei borghesi! Io mi dissi che due cose dovevano
essere accadute, molto tempo fa: o la plebe, aprendosi come la montagna, aveva vomitato questa gente
più fina, che, allo stesso modo di una cosa naturale, non aveva occhi per l'altra cosa naturale; o, questa
categoria di uomini, per altro molto ristretta, aveva rinunciato, per salvarsi, a considerare come vivente,
e facente parte di sé, la plebe. Forse, scaturite ambedue queste due forze dalla natura, non era mai sorta
in esse la possibilità di considerare una rivolta alle sue sante leggi. (pag. 153)

La Ortese ipotizza che questa distinzione fra plebe e borghesia si sia prodotta in due modi: o la plebe si
è aperta come il Vesuvio e ha prodotto come una colata lavica questa gente più raffinata (la borghesia
come prodotto nato dalla stessa natura del popolo) e la borghesia, come una cosa naturale, non aveva
più occhi per la plebe, quindi si è prodotta una frattura insanabile; o la borghesia, per salvarsi e non
essere trascinata in quella condizione dalla plebe, aveva rinunciato a considerare la plebe come una
parte di sé, mettendo un argine fra le due classi sociali. Entrambe le classi sociali sono nate da una forza
della natura, ma non hanno punti di contatto. Ci sono quindi rapporti di contiguità ed estraneità fra la
plebe e la borghesia: la borghesia è stata prodotta da un'evoluzione improvvisa del popolo, ma poi non
si è riconosciuta in quella sua natura, ha preferito continuare il suo cammino senza provare a risollevare
le sorti della classe sociale da cui si è formata.

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Questa riflessione viene interrotta perché si sente chiamare da un balcone, alza la testa e vede un suo
amico, Franco Grassi, uno dei figli del decano dei giornalisti napoletani. Anche lui scende in strada,
attirato da qualcosa che è successo. Questa volta quell'impressione di animazione per le strade come se
fosse successo qualcosa non è più “nulla”, ma qualcosa è accaduto. È accaduto che una cameriera
diciottenne si è lanciata da un balcone ed è morta, e questo evento suscita l’attenzione della folla per la
strada, che si interroga sui motivi di questo gesto. Secondo alcuni questo suicidio era dovuto ad un litigio
con la padrona presso cui lavorava, secondo altri è frutto di un litigio con il fidanzato, che l’aveva lasciata.

Franco Grassi lavora presso una testata giornalistica ed era sceso per raccogliere informazioni su questo
fatto di cronaca nera. Questo evento distrae l’attenzione della Ortese dalle meditazioni in cui si trova
assorta e la porta a intavolare una conversazione con Grassi, che la invita a prendere un caffè. Mentre
si allontana insieme a lui, fa mentalmente delle considerazioni sull’indifferenza del popolo napoletano
che, secondo la Ortese, è frutto di una forma di autodifesa dal commuoversi, definito come qualcosa di
pericoloso.

“Tutti erano indifferenti, qui, quelli che desideravano salvarsi. Commuoversi, era come addormentarsi
sulla neve.” (pag. 156) → il napoletano deve cercare di mantenere sempre questo indifferenza perché
commuoversi può equivalere a lasciarsi intrappolare dai sentimenti.

“La paura, una paura più forte di qualsiasi sentimento, legava tutti, e impediva di proclamare alcune
verità semplici, alcuni diritti dell'uomo e, anzi, di pronunciare nel suo vero significato la parola uomo.
Tollerato era l'uomo, in questi paesi, dall'invadente natura, e salvo solo a patto di riconoscersi, come la
lava, le onde, parte di essa. Da Portici a Cuma, questa terra era sparsa di vulcani, questa città circondata
di vulcani, le isole, esse stesse antichi vulcani; e questa limpida e dolce bellezza di colline e di cielo, solo
in apparenza era idillica e soave. Tutto, qui, sapeva di morte, tutto era profondamente corrotto e morto,
e la paura, solo la paura, passeggiava nella folla da Posillipo a Chiaia.” (pag. 156)

Il sentimento più forte in questi luoghi è la paura, in particolare della borghesia, che non si accorge dello
strapotere della Natura in questi luoghi. In tutto questo finale del reportage della Ortese si avverte l’eco
de La Ginestra di Leopardi, il cui messaggio fondamentale è l’infinita piccolezza dell’uomo, della sua
specie, delle sue illusioni. L’uomo è destinato a soccombere, a essere travolto dalla furia della Natura,
ma nonostante questo l’uomo si riempie d’orgoglio e non accetta questo stato di infinita miseria. La
ginestra accetta il suo destino in maniera lucida, senza farsi false illusioni. Qui, invece, non ci si rende
conto dello strapotere della Natura, ma si può scorgere la sua pericolosità, ad esempio attraverso i
vulcani. Si alternano spezzoni che descrivono quello che succede ai pensieri della Ortese.

Con Grassi la Ortese attraversa le strade più affollate di Napoli, in cui intravede alcune figure del
giornalismo e della cultura napoletana, tra cui Renzo Lapiccirella, uno dei più puri marxisti di Napoli. È
stato giornalista per La voce a Napoli e poi responsabile della cronaca per L’Unità. Era il marito di
Francesca Spada, giornalista de L’Unità il cui suicidio ha suscitato molto scalpore e a cui è dedicato un
libro di Ermanno Rea, importante scrittore di Napoli: Il mistero napoletano, condotto come un’inchiesta
sulla morte della giornalista. Questi personaggi che osserva le sembrano come figure di quella
rappresentazione allucinata di Napoli che sta nella sua mente. Questo senso di allucinazione porta la
Ortese a volersi allontanare da questo scenario perché non riesce a sopportare l’impressione della zona
di questo suicidio.
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6) IL RAGAZZO DI MONTE DI DIO

L’ultima parte è dedicata a Pasquale Prunas ed è chiamata Il ragazzo di Monte di Dio poiché questa è la
zona in cui ha sede il collegio militare dell’Annunziatella, dove la famiglia Prunas aveva il proprio alloggio.
È spostandosi in quest’altro caffè, il Gambrinus, che vede la sagoma di Pasquale Prunas. Accanto a lui
c’è Scognamiglio, chiamato con il nome materno Gaedkens. Entrambi vengono rappresentati dalla
Ortese con contrassegni funerei, entrambi le sembrano morti.

Di Prunas la Ortese dice che “Era così fermo da sembrare morto, morto in piedi. Invece ascoltava.”,
mentre di Scognamiglio (Gaedkens), dice che “La sua testa si muoveva in qua e in là, rassomigliando in
qualche modo a due cose: un'aquila morente ed un fiore. Aveva la stessa dissanguata ferocia, e la
grazia.” (pag. 159)

Anche in questo caso c’è una rappresentazione contrastante dell’aspetto di Scognamiglio: sembra
un’aquila morente, e questo aspetto contrasta con l’aspetto delicato e segnato dalla grazia di un fiore.
Il primo ad accorgersi della presenza della Ortese è Prunas, e anche lui ha un’espressione sorpresa. Al
bar si parla del fatto del giorno, non sembrano stupiti di quanto accaduto (Scognamiglio dirà che a Napoli
si uccidono tutti sempre allo stesso modo). La Ortese e Prunas scambiano alcune battute, si salutano,
ma a queste parole effettivamente pronunciate da Prunas, nella mente della Ortese si sovrappongono i
pensieri. Ha sempre questa tendenza a staccarsi dalla realtà con il pensiero.

Mi sentii osservata con un'intensità terribile, e scopersi dietro gli occhiali, che il Prunas si era rimessi, un
dolore e una curiosità infinita. "Devi avere pietà", dicevano quegli occhi spenti, "devi evitare di guardare.
È vero che siamo morti?" chiedeva, "è vero che siamo stati assorbiti dalla città, e ora siamo in pace?"
Forse mi sbagliavo, perché il ragazzo disse a questo punto, con un accento rapido e duro, che smentiva
quella supplica: - Ti sembreremo dei provinciali, immagino. - Affatto, - stavo per rispondere, ma ero
turbata. (pag. 161)

Qui si vede come nella mente della Ortese prendano corpo alcune domande che poi non corrispondono
alla realtà dei fatti. Il “ti sembreremo dei provinciali” è un’affermazione che la turba. Questo gruppo esce
dal bar, inizia a camminare per le vie della città e la Ortese mette in evidenza come questo camminare
attraverso Napoli senza alcuna meta è un modo di camminare che appartiene a questa città. La Ortese
attribuisce a Napoli questa spinta verso una forma di movimento irrazionale.

“Di solito, giunti a Napoli, la terra perde per voi buona parte della sua forza di gravità, non avete più peso
né direzione. Si cammina senza scopo, si parla senza ragione, si tace senza motivo, ecc. Si viene, si va. Si
è qui o lì, non importa dove. È come se tutti avessero perduto la possibilità di una logica, e navigassero
nell'astratto profondo, completo, della pura immaginazione.” (pag. 162 – 163)

Questa caratteristica della città di Napoli si riverbera in tutti coloro che si recano a Napoli dove si ha
l’impressione che ci sia una forza di gravità differente, dove il peso della realtà non è più così
schiacciante, ma l’immaginazione porta a staccarsi da terra. In questo andare senza meta la Ortese
continua a riflettere sugli amici che ha incontrato e immagina che Prunas la odi per il fatto di ricordargli
quei sogni di giovinezza ormai svanita. Prunas viene caratterizzato attraverso una forma di morte in vita
(life in death).

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“Ed era ancora strano come, sotto quella specie di morte, quella vaga decadenza di pelle, sguardi, parole,
io sentissi battere ancora, a colpi secchi, la vita. Il ragazzo di un tempo, vivo sotto quella morte, pensava.”
(pag. 163)

La caratterizzazione del personaggio è quella di un morto che cammina, è vivo ma è morto dentro.
Prunas rivolge alla Ortese delle parole e la esorta a dirgli la verità su ciò che pensa di lui e di loro, e questa
domanda riporta alla mente della Ortese la stessa domanda che tante volte le ha rivolto Rea ed è colpita
che Prunas usi gli stessi termini e parole di Rea, vede anche in lui questo atteggiamento ossessivo.
Ritornano anche più avanti i riferimenti a questa forma di morte che sembra attanagliare questo
personaggio. All’inizio di pag. 167 dice “E mi venne di domandarmi se fosse estremamente vivo, o solo
estremamente morto.” La linea di divisione fra questi due stati è estremamente sottile, vita e morte sono
contigue. E poi più giù nella stessa pagina, dopo avergli chiesto che facesse a Napoli e se spera in
qualcosa, si accorge che quelle parole non lo attraversano, che non ha una reazione emotiva.

“Allora fui certa ch'egli era veramente morto, finito. […] La convinzione di poco prima, che l'energia del
nostro compagno fosse inesauribile e la sua speranza indomabile, era svanita.” (pag. 167 – 168)

Dal non rispondere alle sue interrogazioni la Ortese ha la percezione di un individuo che si lascia vivere
ma non è animato da una forza vitale, è un fuoco che sta per spegnersi.

“La città lo aveva distrutto. E perché non avrebbe dovuto distruggerlo? Tutti erano caduti, qui, quelli che
avevano desiderato pensare o agire, tutte le lingue si erano confuse ed erano andate a incrementare la
dolorosa vegetazione umana. Questa natura non poteva tollerare la ragione umana, e di fronte all'uomo
muoveva i suoi eserciti di nuvole, d'incanti, perché egli ne fosse stordito e sommerso. Anche questo
ragazzo era caduto.” (pag. 168)

Prunas viene visto come una delle vittime di questa città. Napoli viene presentata come una città che
annichilisce la ragione, la possibilità di ragionare. È il luogo dove domina incontrastata la potenza della
natura e la forza della ragione non trova luogo in questo posto. Napoli è una terra fragile, che
continuamente cambia forma, e tutto genera inganno e spavento in questa città. Prunas, come tutti gli
altri intellettuali, ha subito questo scacco della ragione, si è arreso, i sogni di gioventù si sono adeguati
a questa grigia realtà e adesso è caratterizzato da questo stato di inerzia paralizzante. La Ortese incalza
e gli chiede cosa abbia intenzione di fare, ma Prunas le risponde seccamente “Nulla.” La Ortese non si
rassegna a questo tipo di atteggiamento e gli chiede “Come nulla?” perché per lei è impossibile
rassegnarsi e non avere progetti e aspirazioni, ha sempre tenuto accesa la prospettiva del sogno di
riscatto da questa realtà. Prunas invece è prostrato dalla situazione in cui vive, non ha denaro, ma se lo
avesse gli piacerebbe investire in una tipografia e la Ortese lo invita a inseguire questo sogno, poiché
con un investimento le macchine si possono noleggiare. Ma Prunas non accetta questa convinzione e
risponde che non sarebbero le stesse macchine, non sarebbero libere, ma condizionate da chi le
sovvenziona. Egli, quindi, persegue in quest’atteggiamento di rassegnazione, questo non voler far nulla.

Prunas suscita nella Ortese un misto di pietà e anche di ammirazione per il fatto che questo personaggio
non è disposto ad accettare nessuna forma di compromesso con la realtà. È un personaggio ostinato nei
suoi sogni e nei suoi ideali, nonostante questi siano stati spazzati via. Anche qui ritorna la suggestione di
Leopardi, Prunas viene rappresentato come una formica rossa sul versante del Vesuvio, destinato ad
essere sopraffatto dalla furia del vulcano, dalla forza della Natura, ma è un personaggio che non vede e
non si accorge di questa realtà.
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“Era come una formica rossa sul versante della Montagna: non vedeva o non tollerava la terribile maestà
di questa; correva leggera e insensibile pensando di costruire qui le sue difese, le sue fortezze.” (pag. 172)

Non ha la consapevolezza che non ci sono difese o fortezze che possano resistere alla furia della Natura.
Di fronte alla realtà dello strapotere della Natura, la Ortese ne è consapevole mentre Prunas non se ne
rende conto, i due si salutano e la Ortese torna in albergo. Il pezzo giornalistico sugli scrittori napoletani
si chiude con l’immagine della Ortese che a notte fonda osserva Napoli dalla finestra dell’albergo e
percepisce i rumori della città. Guarda la luce delicata che viene dal mare, guarda le mura rosse di monte
di Dio, sente il rumore dell’acqua sugli scogli, intravede qualche luce che ancora nella notte è viva e si
agita, ma a mano a mano la notte cede il passo al giorno, è quasi alba e anche le ultimi luci della notte si
spengono.

Abbiamo visto una carrellata di questi scrittori napoletani e il giudizio critico della Ortese su di loro, un
giudizio che attirò le critiche della cultura napoletana e che fece sì che la Ortese non sentisse più di
appartenere a quella realtà. Non sceglierà più di tornare a Napoli se non per breve periodi, Napoli è
come se vomitasse fuori questo corpo, quello della Ortese, percepito come estraneo, perché in lei è
ancora viva questa forza dell’intelligenza e della ragione, la Ortese non si piega all’irrazionalità della
Natura, crede ancora che ci possa essere un filo di razionalità che orienta la vita degli uomini. Questa
fiducia in un progetto razionale la Ortese non la perde mai, rivendica sempre il valore della civiltà come
una conquista rispetto allo stato di natura, percepito come uno stato felino. In questo senso la Ortese
risente molto della lezione di Foscolo, il quale pensa che la civilizzazione abbia portato dei miglioramenti
nel processo di evoluzione dell’uomo (Le Grazie), mentre Rousseau negli stessi anni pensava che lo stato
di natura fosse felice e che la civiltà portasse gli uomini ad allontanarsi dalla felicità perché corrompeva
lo stato originario. Foscolo invece pensava che il processo di civilizzazione, pur non essendo lineare e
non procedendo in maniera uniforme, va nella direzione di un miglioramento dell’uomo.

Per concludere Il mare non bagna Napoli, questo reportage mette in evidenza come, ad un certo punto,
quelle spinte di rinnovamento verso un mondo più giusto, perseguite durante il primo Dopoguerra,
mostrano un segno di cedimento. Quelle illusioni si smorzano, molti intellettuali rivoluzionari si adagiano
nel loro status borghese e finiscono per rientrare nell’ordine e perdere quella carica rivoluzionaria che
invece avevano avuto nell’immediato Dopoguerra.

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