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IL ROMANTICISMO

Gli intellettuali e il pubblico


Le mutazioni che contrassegnano il quadro economico, sociale e politico europeo tra
Settecento e Ottocento ridefiniscono profondamente anche per la figura dell’intellettuale: è
in via di scomparsa la figura dello scrittore tipica dell’Ancien Régime, legato al sostegno
dall’aristocrazia. Ora, da un lato, l’intellettuale può esercitare liberamente il proprio pensiero,
ma dall’altro si ritrova in una posizione di declassamento, se non di marginalizzazione
sociale. Immerso nella realtà, egli può rivendicare un ruolo privilegiato soltanto in virtù della
sua intelligenza e della spiccata sensibilità. Egli inizia ad acquistare maggiore autonomia e
a rivolgersi a un pubblico più ampio, inizia a trasformarsi, di fatto, in un moderno
professionista della cultura, costretto a misurare il successo della propria opera sulla base
delle risposte del mercato.

Anche la produzione di opere artistiche e letterarie ha ormai assunto il profilo di un’attività


imprenditoriale, in cui ottiene particolare importanza la figura dell’editore, primo vero
esempio di imprenditore della cultura.

L’ampliamento del pubblico a cui l’intellettuale romantico può rivolgersi è determinato dal
progresso in numerosi campi sociali ed economici. Fondamentale, in tal senso, era stata
l’istituzione di scuole pubbliche nelle Repubbliche sorelle: esportando in Italia un sistema
scolastico a più livelli, già sperimentato in Francia, la politica culturale napoleonica aveva
favorito un significativo aumento dell’alfabetizzazione. Il diffondersi dell’istruzione pubblica
consente la formazione di un’intera classe di funzionari impiegati nell’amministrazione
pubblica, vera spina dorsale della borghesia cittadina e degli Stati nazionali. L’aumento del
pubblico dei lettori è favorito anche dalla diminuzione dei prezzi di libri e giornali. Alla
diffusione della cultura tramite giornali e riviste si affianca la presenza di circoli culturali che
favoriscono l’interazione tra intellettuali e pubblico borghese, mentre i circoli di lettura
contribuiscono alla diffusione delle idee e delle notizie.

Le nuove dinamiche di produzione e fruizione della cultura comportano inevitabilmente la


trasformazione dei generi letterari tradizionali, ma anche la nascita di nuove forme di
letteratura. Il romanzo si impone come genere prediletto dal nuovo pubblico, che può
gestirne il linguaggio, i temi e la struttura con maggior facilità rispetto a quanto avviene per
altri generi letterari. Una trasformazione significativa coinvolge anche un luogo simbolo della
cultura tradizionale come il teatro.

Il multiforme universo romantico

Ciò che più da vicino ci interessa è il Romanticismo nella letteratura italiana, ma esso può
essere compreso solo in rapporto con il Romanticismo letterario europeo. Anch’esso,
tuttavia, non si può cogliere se non come emanazione in letteratura di una stagione
culturale che influenza tutte le arti e si riverbera anche in ogni altra disciplina
intellettuale, dalla filosofia, alla storia, all’economia, alla psicologia ecc.
Varie sono le forme in cui lo spirito romantico si incarna nei vari Paesi europei. Inizia a
definirsi più precocemente in Germania e in Inghilterra, con una propensione al fantastico,
all’irrazionale e al misticheggiante; più tardi coinvolge anche la Francia e l’Italia, dove
prevale un approccio più realista, sospettoso delle derive irrazionalistiche germaniche e
anglosassoni. Ma sono solo linee di tendenza, perché la costellazione del Romanticismo
europeo comprende, senza conciliarle, le anime più varie: convivono spiritualismo e
realismo, spontaneismo e speculazione razionale, malinconica e irruenza, valorizzazione del
primitivo e del moderno, dell’individuale e del collettivo e così via.

A differenza di altri fenomeni culturali il Romanticismo si percepisce sin da subito come una
svolta nella storia. Più precisamente, lo spirito romantico sente di esprimere una
modernità, un “dopo”conseguente a eventi che hanno irrevocabilmente mutato assetti
politici, socio-economici e ideologici: la Rivoluzione francese e le campagne napoleoniche,
ma anche il pensiero kantiano.

Si può affermare che il Romanticismo è l’effetto di maggiore portata prodotto sulla cultura da
quei profondi sconvolgimenti che avvengono a cavallo del XVIII e XIX secolo, ma è anche
l’occasione in cui vengono complessivamente riprese e reimpostate in chiave del tutto
nuova questioni che già in precedenza si erano poste come centrali in letteratura e nelle
arti: la natura e le fonti della creazione artistica, il concetto di imitazione, il rapporto con i
modelli antichi. In parallelo, acquistano peso nuovi nodi destinati a diventare cruciali nei
decenni e nei secoli a venire: la dialettica fra individuale e collettivo. In questo senso dunque
si può cogliere la peculiarità del movimento romantico rispetto ai fenomeni culturali che
l’hanno preceduto: rispetto ad alcuni (l’Illuminismo e il Neoclassicismo) si ha
un’opposizione, mentre rispetto ad altri (la sensibilità preromantica) si è in continuità, e si
struttura una risposta più ampia, più matura e composita.

L’antitesi ideologica fra Romanticismo e Illuminismo è ,almeno in apparenza, netta: se il


Secolo dei Lumi era animato da un’ottimistica fede nella Ragione, il Romanticismo ha
ormai maturato una completa disillusione rispetto a tutto ciò. L’intelletto illuminista si è
rivelato non solo illusorio, ma anche limitante: infatti aveva marginalizzato o escluso la
metafisica, il discorso sull’infinito, la divinità e il nocciolo dell’anima umana. Come via
alternativa per accedere a realtà più profonde, il Romanticismo scopre il sentimento,
inteso proprio come strumento conoscitivo. Più che la ragione, dunque, suscita ora
interesse ciò che si colloca sul versante non razionale dell’esperienza umana: la
dimensione spirituale, l’inconscio, il fantastico, l’onirico. L’idea stessa di società muta: al
modello meccanicista si sostituiscono visioni organiciste e provvidenzialistiche, i principi
egualitari dell’Illuminismo perdono smalto, mentre si profilano atteggiamenti individualistici di
tipo eroico-titanico, oppure esaltazioni di un’idea di popolo ben diversa, come vedremo,
dall’universalismo illuminista.

Sul piano estetico, altrettanto evidente è il rovesciamento delle coordinate neoclassiche, che
si gioca su aspetti fondamentali in letteratura, come la rinuncia al principio di imitazione,
alla componente mitologica, all’applicazione di norme che si pretende siano desunte dai
classici e così via.
“Romantico”: la parola per dire il moderno

Per definire lo spirito dell’epoca, i contemporanei ricorrono sempre più di frequente a un


termine non nuovo, usato prima di allora non senza fluttuazioni e vaghezze. È nell’inglese
della metà del XVII secolo che si inizia a qualificare come romantic ciò che è irrealistico,
irrazionale, incredibile, chimerico: tali, nella prospettiva razionalistica che andava
affermandosi all’epoca, apparivano le narrazioni fantastiche dei romance (racconti e
poemi cavallereschi, distinti dai novel, che avevano invece contenuti realistici).

Il gusto cambia però nel secolo successivo, quando iniziano a essere percepiti come
piacevoli suggestioni alcuni aspetti dell’immaginario del romance, soprattutto certi sfondi
paesaggistici selvaggi, desolati, impervi (montagne, selve, castelli diroccati ecc.) che
affascinano e stimolano la fantasia. Ma la specificità del paesaggio romantic consiste nella
particolare tonalità emotiva che suscita (a differenza, per esempio, della semplice
gradevolezza o ammirazione che caratterizza il picturesque, «pittoresco»), cosicché
romantic diventa sempre più precisamente indicatore di una condizione sentimentale,
soggettiva, intima. La vicinanza con le atmosfere di certa nascente letteratura anti-classica,
anti-normativa, magica, malinconica, nostalgica ecc. fa sì che “romantico” si offra come
termine sufficientemente evocativo, suggestivo e vago per significare questa nuova
sensibilità, protesa all’inafferrabile, all’ineffabile.

Gli esordi del pensiero romantico in Germania

Parlare di centralità del sentimento, di scoperta dell’irrazionale e di tensione verso quanto


non si lascia esprimere, definire dalla ragione né contenere nella lucida linearità neoclassica
potrebbe indurre a un fraintendimento: precisiamo dunque che il movimento romantico non è
un’accolita di sognatori, di emotivi che depongono le armi dell’intelletto. Al contrario,
l’atteggiamento speculativo li caratterizza e la pratica stessa della letteratura, come
diremo più avanti, ha per loro un valore intrinsecamente conoscitivo. In anticipo su
Heidegger (1889-1976), che avrebbe parlato di «pensiero poetante», i romantici per primi
concepiscono una letteratura che è essenzialmente riflessione. La cultura romantica inoltre
favorirà per la prima volta in Europa lo sviluppo di «una cultura rivolta all’indagine critica e
scientifica». Non pochi letterati romantici sono anche figure rilevanti sul piano della
filosofia.

Idee, valori e miti del mondo romantico


Parlando del Romanticismo si ricorre spesso a immagini che ne evocano la complessità
multiforme e spesso contraddittoria: l’universo, la costellazione, il pulviscolo. Ma alcuni
nuclei essenziali di un pensiero e di un sentire romantico possono essere colti: oltre
all’identificazione della modernità come frattura, di cui abbiamo detto, sono fondamentali
l’assoluta centralità attribuita all’io e il convincimento che la creazione artistica abbia un
essenziale valore conoscitivo.

L’io, il mondo, l’eroe, la libertà

È nell’età romantica che si compie uno di quei profondi mutamenti ideali che, agli occhi dei
posteri, risultano rivoluzionari: così come, a partire dall’Umanesimo, era stato l’uomo a porsi
in un’inedita centralità nel pensiero e nelle arti, così ora è l’io, nella sua individualità, ad
assumere la massima importanza. L’io romantico contempera il particolare e l’universale: è
insieme la specificità del singolo e l’essenza comune a ogni essere. Si tratta in una certa
misura di una reazione a quanto, nel pensiero delle epoche precedenti, tendeva ad attribuire
prioritaria importanza a ciò che è generale, collettivo, sovra-individuale.

Lo scontro alimenta una percezione dell’esistenza come inevitabilmente dolorosa per


l’uomo dalla forte individualità, il poeta, il genio, che manifesta di volta in volta i tipici
atteggiamenti dell’eroe romantico: la malinconia, come sofferta esperienza del proprio
limite, l’egotismo, come ripiegamento sul culto di sé, il titanismo, come esaltazione della
propria coraggiosa, generosa e impossibile lotta contro il mondo (o contro il destino, la
tirannide ecc.), consapevolmente votata alla sconfitta. Al titanismo corrisponde
l’atteggiamento complementare del vittimismo, che si traduce in un compiacimento della
sventura o del dolore, nel ritiro solitario di chi rifiuta la mediocrità della sua società e del
suo tempo. Talvolta si fa strada nell'eroe romantico la tentazione della fuga, che spesso si
indirizza verso una natura incontaminata in cui il soggetto può vivere, almeno per un istante,
il proprio ideale di pienezza o pace assoluta.

Affermare le ragioni dell’io significa essenzialmente rivendicare un principio di libertà, idea


altrettanto fondamentale per l’identità romantica: l’individuo non può concepirsi se non come
libero, autonomo in senso kantiano, ossia emancipato da uno stato di minorità intellettuale,
responsabile di fronte alla propria coscienza.

L’infinito, l’arte, il genio

La scoperta dell’io non si esaurisce però nella semplice esaltazione dell’individuo nella sua
singolarità: l’io si identifica di fatto con l’assoluto. La fibra più intima dell’individuo è un
principio che trascende il singolo e ne costituisce l’essenza più viva e vitale: nell’io insomma
risiede l’infinito, e anzi si può sostenere che, in questa prospettiva, io e assoluto si
identificano (l’io è l’assoluto). L’esperienza di sé come infinito necessita però di una
mediazione: è solo attraverso alcune forme privilegiate di esperienza che la coscienza
individuale percepisce di appartenere a questo nucleo essenziale, e queste esperienze sono
da un lato il sublime, dall’altro l’arte.

Tale esperienza dell’illimitato, per i romantici, è il momento in cui l’io entra in una
relazione più profonda con sé stesso, perché sente, riconosce e intuisce la propria stessa
natura illimitata. C’è, in molti autori, un fondo di pensiero panteistico, che coglie l’infinito
nella natura, con la sua eterna ciclicità: il finito è lo Spirito assoluto che realizza sé stesso
nel mondo, che permea l’umanità e che può essere colto per via intuitiva.

L’uomo romantico sentendosi distante dall’infinito percepisce dunque la sofferenza,


l’aspirazione costante a una pienezza che non è possibile raggiungere: questo anelito
inappagabile è lo Streben, la «tensione» indefinita, un protendersi senza meta, che genera
malinconia e frustrazione. Il sentimento che connota lo spirito romantico è appunto la
Sehnsucht, paradossale «desiderio del desiderio», struggimento per una mancanza
indefinibile, nostalgia non già di una perdita, ma di qualcosa a cui si tende pur senza averne
mai avuto piena esperienza.
È poi attraverso la creazione artistica che l’individuo d’eccezione - l'artista, il poeta - riesce a
fissare e a tradurre a beneficio degli altri uomini gli squarci d’illuminazione che egli è in
grado di cogliere. L’atto creativo autentico non è dunque una tecnica, una prassi fatta di
norme, né il prodotto di una condizione psicologica particolare, ma è essenzialmente
l’espressione del genio, ossia quella scintilla di divino che l’artista possiede e che gli
permette di intuire l’unità che lega il finito all’infinito.

Il pensiero romantico sull’essenza e la funzione dell’arte è dunque straordinariamente


innovativo: l’arte non consiste in una rappresentazione, in un principio imitativo, ma in
un’epifania, una manifestazione dell’infinito, in età romantica inizia a essere pensata come
la luce di una lampada, che si irraggia da una fonte interna.L’arte cessa dunque di essere
riflesso, per divenire luce interiore.

La nascita del Romanticismo in Italia


In Italia si cominciò a parlare di Romanticismo in senso proprio quando si diffusero opere
caratteristiche di Madame de Staël (1810). Madame de Staël figlia del banchiere Jacques
Necker, nacque a Parigi nel 1766. Qui, sul finire del secolo, diede vita a un vivace cenacolo
intellettuale e letterario, però, a causa delle sue idee antinapoleoniche, dovette lasciare
la Francia e si stabilì nei pressi di Ginevra, dove proseguì la sua attività creativa e la sua
instancabile opera di animatrice del dibattito culturale europeo. Morì a Parigi nel 1817.

L’opera di Madame de Staël era costruita sulla contrapposizione tra civiltà tedesca e
civiltà francese: se alla prima erano attribuite libertà di immaginazione e sensibilità, la
seconda avrebbe trovato un freno nel razionalismo e nel rigido classicismo della sua
tradizione. Grazie al critico tedesco, infatti, entrarono nella cultura italiana alcuni concetti
fondamentali: anzitutto, l’antitesi tra letteratura classica e letteratura romantica, che
erano espressione di due diverse civiltà (pagana e cristiana); la contrapposizione tra forma
meccanica (risultato di una causa esterna, senza correlazione con l’essenza dell’opera) e
forma organica (interiore e addirittura innata nel soggetto).

La nascita ufficiale del Romanticismo italiano è databile al 1816, quando sulla Biblioteca
italiana comparse l’articolo di Madame de Staël Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni,
in cui la scrittrice francese esortava gli Italiani ad aprirsi nei confronti delle nuove correnti
europee, soprattutto quelle inglese e tedesca traducendone gli scritti più significativi, e a
liberarsi del classicismo. L’articolo provocò un acceso dibattito con reazioni contrastanti:
negative dal fronte classicistico, positive e più aperte al cambiamento da alcuni intellettuali di
Milano.

Nello stesso 1816, quindi, tre di questi intellettuali milanesi pubblicarono altrettanti articoli
che riassumevano i principali punti del programma culturale romantico e che, perciò,
possono essere considerati come i “manifesti” del movimento italiano: Giovanni Berchet.

In particolare, l’intervento di Berchet affrontava alcuni temi che sarebbero divenuti centrali
nella riflessione dei romantici italiani: il carattere “popolare” della vera poesia; la sua
capacità di dar voce a sentimenti universali rimasti finora inespressi; la necessità di
sperimentare forme poetiche più immediate, comprensibili e interessanti per tutti e non
soltanto per un ristretto pubblico colto.

Per contrapporsi all’egemonia culturale della «Biblioteca italiana» (che comunque rimaneva
di orientamenti filoaustriaci), nel 1818 gli stessi Berchet e Borsieri fondarono a Milano la
rivista «Il Conciliatore», che si presentava come «Foglio scientifico e letterario». La rivista
ebbe vita breve, ma rappresentò un’esperienza molto importante nella storia della cultura
italiana e segnò profondamente i caratteri del Romanticismo locale: quasi tutti gli intellettuali
che facevano capo alla rivista, infatti, si definivano «romantici», ma nel contempo erano tutti
impegnati sul fronte politico. «Il Conciliatore» aveva un indirizzo multidisciplinare e
pubblicava non solo articoli di letteratura, ma anche di scienze morali, economia, statistica e
scienze. La rivista milanese si fece quindi portavoce di un ideale di cultura che fosse capace
di affrontare i problemi del presente, prestando attenzione alla realtà sociale e alle novità
letterarie.

Nell’ottobre del 1820, Alessandro Manzoni inviò all’amico Claude Fauriel La notizia sul
Romanticismo in Italia. Nella lettera di accompagnamento, Manzoni precisava che a suo
avviso era stato distrutto molto.

Il romanticismo italiano rifiuta le posizioni estremiste e più irrazionali del romanticismo


europeo dove si riprende le idee dell'epoca medievale, le situazioni esotiche e di fuga
dalla realtà, mentre preferisce le tematiche basate sul vero, che avevano una loro utilità,
civili e morali, soprattutto in questo periodo dove l'Italia stava sviluppando il movimento
risorgimentale. In Italia non c'è una grande rottura tra Illuminismo e Romanticismo,
perché i movimenti italiani non erano estremisti, è come se fosse un unico progresso della
società italiana tutta da costruire; in questo progresso molta importanza hanno le riviste,
che rappresentano un luogo d'incontro per gli intellettuali e di diffusione delle nuove
culture. Si ha anche una nuova idea riguardo la storia, in Italia si ha un ritorno alle origini del
popolo italiano, legato al vero, un'idea di nazione, l'idea del progresso del popolo, delle
comuni radici, e mentre in Europa si sviluppa un senso di cosmopolitismo e di varietà, in
italiano la visione è del popolo che progredisce dalle comuni radici, il popolo italiano assume
delle caratteristiche borghesi, e la storia non si riferisce alle dell'élite aristocratica, ma alle
classi medie e umili.

La polemica tra classicisti e romantici


A seguito della pubblicazione dell’intervento di Madame de Staël si accese il dibattito tra i
fautori della nuova poetica romantica e i sostenitori del classicismo. In effetti, su molti
punti rilevanti i due atteggiamenti presentavano soluzioni contrapposte: all’idea di una
eternità della bellezza dei classicisti i romantici opponevano il loro fondamentale storicismo,
al concetto di imitazione quello di originalità, al modello degli autori antichi il modello dei
moderni, al repertorio figurativo e narrativo della mitologia classica quello del cristianesimo,
a una lingua aulica e letteraria un nuova lingua vicina al parlato vivo e reale del popolo.

Dopo la chiusura de «Il Conciliatore», anche il dibattito tra romantici e classicisti trovò
dimora in altre città e su altri periodici d’Italia. A Roma la rivista più importante fu il
trimestrale «Giornale arcadico», il suo programma era infatti quello di sostenere gli studi
classici e di opporsi alle mode europee.
L’avvio dei moti risorgimentali, infine, sembrò segnare la completa affermazione del
movimento romantico anche in Italia, dove si affermò una teoria della letteratura ispirata a
idee di progresso sociale e a una filosofia storica quale si era andata delineando negli studi
dei romantici europei. In base ad essa, quindi, anche i romantici italiani finirono per
sottolineare che la poesia classica non era un modello assoluto, ma un prodotto storico che
aveva risposto al bisogno di poesia di individui diversi.

I moderni, piuttosto, non potevano fare a meno di un concetto, quello di “patetico”, che
dipendeva da una capacità di introspezione psicologica sconosciuta agli antichi: il patetico
non era una semplice tonalità emotiva.

Analisi del Testo

Madame de Staël Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni


L’articolo Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni, da cui è tratto il brano seguente, apparve
nella traduzione di Pietro Giordani sul primo numero della «Biblioteca italiana», nel gennaio
del 1816.

Struttura

Un velato rimprovero agli Italiani L’articolo di Madame de Staël esorta i letterati d’Italia a
una sorta di “conversione” e di “emulazione”, affinché abbandonando le forme ormai vuote
ed erudite della tradizione si volgano alla cultura moderna che sta dilagando nel resto
d’Europa. L’autrice cerca di tenersi in difficile equilibrio tra un rimprovero che non divenga
ironico e offensivo per le suscettibili orecchie degli italiani, e una riflessione sulle grandi
potenzialità della cultura italiana che non si limiti a lusingare l’orgoglio ma indichi alcuni
obiettivi da raggiungere in una «emulazione operosa».

Lingua e stile

La traduzione di Pietro Giordani È curioso che l’invito di Madame de Staël a tradurre in


italiano le moderne opere europee e a rinnovare la cultura italiana

Temi

Una critica costruttiva Madame de Staël era animata più che altro dal vivo amore per le
lettere e dal desiderio che anche la letteratura italiana, attraverso l’imitazione di nuovi
modelli, potesse riscattarsi dalla sua inerzia, e quindi risorgere. Senza dubbio, le sue
osservazioni ebbero il merito di scuotere le coscienze e far uscire allo scoperto nuove idee
ed energie.
Il romanzo italiano
Il romanzo ha origini molto antiche risalenti all’epoca dell’antica Grecia e Roma, poi
successivamente si affermò sotto forma di romanzo epico cavalleresco in versi, e aveva una
sua struttura narrativa. Col passare del tempo esso però venne sempre più disprezzato e
considerato un genere di serie b rispetto agli altri generi letterari come la poesia.

L’Ottocento è stato il secolo del romanzo: il nuovo genere letterario era certamente
espressione di una società in rapida trasformazione e in particolare della borghesia, il ceto
sociale trainante della nuova società. Perché il romanzo potesse diffondersi, era infatti
necessario un grande allargamento del pubblico di lettori, e l’adozione di un linguaggio
medio, lontano dal modello della lingua letteraria e sensibile invece al racconto del
quotidiano. Nella sua rapida diffusione, quindi, il romanzo tese ad assimilare o a distruggere
i generi letterari della tradizione (epica, poema, tragedia) o a subordinare gli altri nuovi
generi della produzione romantica (dramma storico, ballata, novella in versi).

In Italia il peso della tradizione classica, la fragilità dei nuovi ceti borghesi e la censura
ostacolarono l’affermazione del nuovo genere. Più che al romanzo di materia
contemporanea, gli scrittori italiani guardavano al romanzo di argomento storico, che
aveva trovato un modello di grande suggestione e di grande successo nella narrativa di
Walter Scott (Ivanhoe, per esempio, venne pubblicato nel 1820). Il romanzo storico
divenne, quindi, la formula più caratteristica della nuova narrativa romantica italiana, perché
rispondeva alle sue esigenze di “verità” storica, ma anche perché permetteva di
valorizzare il Medioevo come epoca di origine della nazione: usare una ambientazione
storica, inoltre, forniva la possibilità di scrivere contro l’oppressione austriaca, ma in modo
indiretto, e dunque limitando il rischio di esporsi alla censura.

Il capolavoro letterario dell’Ottocento italiano è proprio un romanzo storico: I promessi


sposi di Manzoni. Ma la ricchezza e la profondità della riflessione storica, l’ambientazione
inconsueta nel Seicento, la mirabile qualità della sua lingua e del suo stile, rendono I
promessi sposi un caso del tutto eccezionale, irriducibile alle categorie di un genere o alle
contingenze di un’epoca.

Alessandro Manzoni capì che attraverso il romanzo si potevano diffondere i valori che si
stavano affermando nel romanticismo e potevano essere diffusi anche ad un pubblico più
vasto. Dunque è un romanzo moderno, che ha vari generi che si svilupperanno nel corso del
tempo e rappresentava la vita reale, proprio per questo nascono i vari generi. Grazie a
Manzoni il romanzo diventa un genere alla pari o addirittura migliore degli altri generi letterari
Con Manzoni si afferma il romanzo storico, che cerca di dare del reale alla storia, ed è un
romanzo in cui la storia non funge da semplice fondale ma diventa uno degli elementi più
importante è influenza la vita dei personaggi. Manzoni fa anche un discorso sulla lingua,
inizialmente scrive il suo romanzo in volgare, poi asserisce al volgare fiorentino, lo scopo era
di comporre una prosa comprensibile alla maggior parte del pubblico borghese che non
aveva una formazione nobiliare. Le caratteristiche del romanzo storico sono: l'avvicinamento
al vero e quindi il pubblico doveva essere coinvolto
Alessandro Manzoni
I primi anni: fuga dal cattolicesimo, e ritorno

Manzoni nasce a Milano il 7 marzo 1785. Sua madre è Giulia Beccaria, figlia di Cesare,
l’autore del celebre trattato Dei delitti e delle pene. Giulia, donna colta, sensuale e irrequieta,
date le ristrettezze economiche della famiglia, ha sposato il conte Pietro Manzoni, che i
contemporanei descrivono come particolarmente gretto, garantendosi una certa agiatezza. Il
loro non è certo un matrimonio d’amore, e pare sicuro che non il conte Manzoni, ma il più
giovane dei tre fratelli Verri, Giovanni, sia il padre naturale di Alessandro. Questi viene
affidato, subito dopo la nascita, a una balia di provincia, rimanendo privo di qualsiasi
legame con la famiglia. Se il rapporto con la madre verrà recuperato anni dopo, del padre
Alessandro non parlerà quasi mai, nei suoi documenti privati, e anche le sue opere appaiono
vistosamente prive di figure paterne positive.

Nel 1792 Giulia e Pietro Manzoni si separano e lei lascia Milano per stabilirsi a Parigi con
il conte Carlo Imbonati, suo nuovo compagno. L’educazione del ragazzo si svolge in gran
parte fuori casa, presso diversi collegi religiosi lombardi (prima quello dei padri
Somaschi, poi quello dei Barnabiti), prima di tornare a vivere con il padre nel 1801. In quei
collegi, di cui conserverà un orribile ricordo, il giovane Manzoni rivela un ingegno brillante e
si appassiona agli autori classici, soprattutto Virgilio e Orazio, che si esercita a tradurre in
versi. Ma si accosta anche al pensiero di intellettuali di formazione illuminista come il
napoletano Vincenzo Cuoco, apprezza Parini e Alfieri, frequenta Foscolo e soprattutto
Monti, a cui fa leggere le sue prime composizioni. Più in generale, la sua formazione
culturale appare fortemente contaminata: da un lato la rigida educazione cattolica,
dall’altro la cultura progressista e lo spirito rivoluzionario dell’epoca, che in quegli anni,
gli anni del dominio napoleonico, contagia anche Alessandro. In lui davvero due secoli, il
Settecento e l’Ottocento, si scontrano «l’un contro l’altro armati», come dirà in una delle sue
odi più celebri, il Cinque maggio. Per questo le opere giovanili presentano l’immagine di un
autore camaleontico, disponibile alle più differenti prove letterarie, ma ancora bisognoso di
trovare la sua vera personalità

Il 1805 è un anno importante nella biografia manzoniana: la madre lo invita a raggiungerla a


Parigi e Alessandro vi arriva quando Imbonati è da poco scomparso. In suo onore scrive il
carme In morte di Carlo Imbonati, in cui lo spirito del defunto esorta l’autore a seguire certi
princìpi morali – tenacia, generosità, indipendenza dai potenti, amore del Vero – che
dovranno guidarlo nella vita. Durante il soggiorno parigino Manzoni riallaccia con la madre
un legame profondo. A Parigi entra in contatto con l’ambiente degli eredi
dell’Illuminismo, i cosiddetti idéologues, e con l’intellettuale Claude Fauriel, che diventa
un suo grande amico e con cui avrà per anni un ricco scambio epistolare. Attraverso Fauriel,
Manzoni conosce importanti filosofi parigini e si avvia alla lettura dei testi di altri che avevano
rielaborato in chiave sensistica le teorie illuministe. Questi confronti sono determinanti
perché forniscono al giovane Manzoni un modello metodologico, basato sull’esame rigoroso
dei dati di fatto, e un esempio di indagine razionale su ambiti immateriali dell’esperienza
umana come la psicologia e la spiritualità.
Intanto Giulia pianifica il matrimonio di Alessandro; una delle prescelte è la figlia sedicenne
di un banchiere ginevrino, Enrichetta Blondel. L’incontro avviene nel 1807 durante un
viaggio in Italia ed è un incontro fortunato: tra i due giovani nasce un sentimento profondo
destinato a durare tutta la vita e nel 1808 si sposano con rito civile, dato che Enrichetta è
calvinista. Nel 1808 nasce Giulietta, la prima dei dieci figli di Manzoni. L’anno precedente
il conte Pietro era morto e Alessandro, avvisato delle sue gravi condizioni, non arriva in
tempo per dare al padre l’ultimo saluto: epilogo simbolico di una distanza divenuta oramai
incolmabile. Ne eredita tutti i beni, tra cui una proprietà nei dintorni di Lecco (luoghi in cui si
sarebbero ambientati I promessi sposi), e si trasferisce con la famiglia a Milano (1810).

Dopo il matrimonio, Enrichetta ha cominciato ad avvicinarsi al cattolicesimo, con la guida


spirituale dell’abate Dègola, vicino al giansenismo, e anche Alessandro recupera la
religione in cui è stato educato. Con l’abiura di Enrichetta al calvinismo, il matrimonio sarà
ricelebrato secondo il rito cattolico. Questo percorso di conversione viene rappresentato
emblematicamente in un episodio, verosimilmente leggendario, che circolava tra gli amici di
Manzoni: il 2 aprile del 1810, giorno delle nozze tra Napoleone e Maria Luisa d’Austria, per
le strade di Parigi scoppiano dei mortaretti; si pensa a un attentato e, nella confusione,
Manzoni perde di vista la moglie. In preda al panico, è colto da convulsioni: rifugiatosi nella
chiesa di San Rocco, avrebbe pregato per ritrovare Enrichetta e ne sarebbe uscito
convertito. È il primo accesso di una forma cronica di nevrosi, che, per sua stessa
ammissione, lo colpirà frequentemente dal 1815 in poi, affliggendolo con svenimenti, episodi
di agorafobia (il terrore di trovarsi in spazi aperti e affollati) e impedendogli di parlare in
pubblico; a dargli sollievo saranno le lunghe passeggiate in luoghi tranquilli, accompagnato
da persone fidate.

La grande fase inventiva (1812-25)

La conversione segna una vera cesura nella carriera artistica di Manzoni, che rifiuta tutti
gli scritti precedenti e dà avvio alla stagione decisiva della sua vita, quella che va dal 1812
al 1825. In questo periodo egli concepisce tutte le sue opere maggiori e contribuisce a
rifondare i principali generi letterari: la tragedia, la poesia civile e religiosa, il romanzo.
Nella sua “officina”, è stato scritto, la letteratura italiana cambia volto e assume i caratteri
della modernità: il tutto nella più stretta riservatezza.

Tra 1814 e 1815 compone due canzoni patriottiche, Aprile 1814, in cui auspica che l’Italia
torni libera dopo la sconfitta di Napoleone, e Il proclama di Rimini, che plaude all’iniziativa di
Gioacchino Murat, re di Napoli, di creare un regno d’Italia indipendente. Ma già in
precedenza, tra il 1812 e il 1813, avvia la composizione degli Inni sacri, che avrebbero
dovuto celebrare tutte le dodici principali festività religiose cattoliche. Ne scrisse solo cinque:
La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione e (più tardi, tra il 1817 e il 1822)
La Pentecoste. Si tratta di una poesia che si pone in fortissima discontinuità rispetto alla
tradizione lirica italiana, per i temi, per le scelte formali e per il genere stesso: l’innografia
infatti non rimanda all’io lirico, bensì a una dimensione corale che permette una sguardo
panoramico sulla storia.

Il 1821 è un anno di straordinario fervore creativo. Manzoni si mostra particolarmente


attento, in questa fase, agli avvenimenti politici. Tra il 1820 e il 1821 in diversi Stati italiani si
sviluppano moti antiaustriaci e in Piemonte gli insorti si accingono a marciare verso la
Lombardia. Questi fatti ispirano in Manzoni il patriottismo dell’ode Marzo 1821. In quello
stesso anno, la notizia della morte di Napoleone suscita in lui la fulminea stesura di una
delle sue poesie più famose, Il cinque maggio.

Lavora inoltre alla tragedia Adelchi, avviata l’anno precedente e compiuta nel 1822. Il tema
della tragedia è ancora una volta storico, ma l’attenzione si rivolge al Medioevo e in
particolare al periodo delle lotte tra Franchi e Longobardi in Italia. Soprattutto notevole, nelle
sue tragedie, è quest’esigenza di consolidare attraverso minuziose ricerche il contesto
storico delle vicende narrate: tali ricerche non rimangono ad uso esclusivo dell’autore, ma
vengono presentate come un complemento necessario dei testi creativi, ed anzi come il loro
fondamento: proprio quello che avverrà con la Storia della colonna infame nell’edizione
definitiva dei Promessi sposi.

Sempre nel 1821, tra primavera ed estate, ritroviamo un autore improvvisamente ed


entusiasticamente assorbito da un progetto del tutto nuovo, di cui non si trova traccia negli
scritti precedenti: l’idea di un romanzo. Il momento è difficile: gli amici del «Conciliatore»,
dopo i moti falliti, sono in esilio o in carcere; la salute di Enrichetta non è buona, ma il
dialogo quotidiano con i personaggi del nuovo progetto creativo conquista tutte le sue
energie. Manzoni si ritira a Brusuglio, inizialmente munito soltanto di due testi: la cronaca
della peste del 1630 del Ripamonti e gli scritti dell’economista Melchiorre Gioia. Furono
questi scritti (non letterari) a fornire lo stimolo decisivo per dare l’avvio alla prima stesura del
romanzo, il Fermo e Lucia, che poi fu accompagnata dalla lettura di molti altri libri e dalla
riflessione su romanzi storici come quelli di Walter Scott. La stesura dei quattro tomi del
Fermo e Lucia, rimasti inediti, lo impegnerà fino al 1823.

Nello stesso 1823 scrive la Lettera al marchese Cesare D’Azeglio sul Romanticismo,
che pubblica solo molto più tardi e in versione assai rimaneggiata. In questo testo,
indirizzato al futuro consuocero (Cesare era padre di Massimo, che avrebbe sposato
Giulietta), Manzoni espone la sua sostanziale adesione alla poetica del Romanticismo per
quanto riguarda la necessità della letteratura di riferirsi al vero e all’utile. L’anno successivo
intraprende la profonda revisione del Fermo e Lucia che porterà, nel 1827, alla prima
edizione dei Promessi sposi (la “Ventisettana”) pubblicata nello stesso anno e dallo
stesso editore Stella delle leopardiane Operette morali. Il successo è immediato e
clamoroso.

L’abbandono dell’attività creativa

Nella seconda metà del 1827 tutta la famiglia Manzoni soggiorna in Toscana, per
quell’operazione che l’autore stesso chiama «risciacquatura in Arno» dei suoi «lenzuoli»,
ossia la revisione linguistica del romanzo, che l’autore vuole depurato da ogni
dialettalismo lombardo, e conforme al toscano parlato dalle persone colte. Questa
operazione dura oltre un decennio e i Promessi sposi verranno ripubblicati in versione
definitiva a partire dal 1840 (sarà l’edizione “Quarantana”).

Nonostante i lutti, prendono forma nuovi progetti: il trattato rimasto incompiuto Della lingua
italiana e la Storia della colonna infame, pubblicata nel 1842 insieme alle ultime dispense
della Quarantana. La nuova edizione del romanzo ha una veste editoriale lussuosa,
arricchita in particolare da numerose xilografie, concepite su indicazioni precise di Manzoni:
tuttavia il prezzo di vendita del volume, dieci volte superiore a quello delle copie – abusive –
della Ventisettana, fa sì che l’impresa si riveli, almeno economicamente, disastrosa.

Ma la produzione creativa di Manzoni va esaurendosi: sempre più, egli preferisce dedicare


la sua attenzione agli studi filosofici, storici e linguistici.

I moti del ’48, a cui prende parte il figlio Filippo, lo vedono spettatore partecipe: viene eletto
deputato alla Camera subalpina, ma rinuncerà all’incarico. Quando gli Austriaci tornano a
Milano, si allontana per un periodo dalla città e si ritira con la moglie a Lesa, sul lago
Maggiore. Qui si rafforza il legame con il sacerdote e filosofo Antonio Rosmini, e l’amicizia
tra i due ha una parte non indifferente nel determinare l’ultima fase artistica: nel ’49 Manzoni
inizia il dialogo Dell’invenzione e il saggio Del romanzo storico, in cui ripensa i rapporti tra
etica ed estetica e tra storia e invenzione, a tutto vantaggio delle prime.

Gli ultimi anni: la consacrazione

Nel 1861 Manzoni resta nuovamente vedovo. Gli inizi del decennio, con il compimento
dell’unità nazionale che egli aveva da sempre auspicato e sostenuto, accrescono la fama
di Manzoni, stimato concordemente tanto dagli ambienti laici quanto dal mondo cattolico:

Il 29 febbraio 1860 è nominato senatore e partecipa alla prima seduta del senato italiano,
che proclama Vittorio Emanuele re d’Italia e riceve anche un vitalizio (all’epoca, i senatori
non ottenevano alcun compenso per la loro attività). Il re stesso gli fa visita nel 1860,
insieme a Cavour, e così fa Giuseppe Garibaldi nel 1862; nel 1868 incontra Verdi, che
comporrà, l’anno dopo la morte del romanziere, una Messa da requiem in suo onore. Nel
1870 Manzoni, che pure è senza tentennamenti cattolico, accetta la presa di Roma da
parte delle truppe italiane e la fine del potere temporale dei papi: una scelta che gli procura
una forte ostilità da parte degli ambienti religiosi più intransigenti. Benché molto anziano,
accetta la presidenza della Commissione per l’unificazione linguistica nazionale, nel
1868, dai cui lavori emerge la relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla.
Nel gennaio 1873, mentre esce dalla chiesa di San Fedele a Milano, cade e riporta un
trauma al capo, che lo condurrà a morte il 22 maggio di quello stesso anno.

Analisi del testo

CINQUE MAGGIO

Manzoni ci presenta una persona significativa, un personaggio storico famoso: Napoleone,


che, nella sua carriera, aveva avuto una rapida ascesa, e un’altrettanto rapida discesa. Ci
descrive Napoleone attraverso alcune delle sue gesta, dei paragoni e delle metafore, ma
Manzoni mira di più alla figura dell’uomo rispetto a quella del generale, una figura di
uomo che era in solitudine e di cui Manzoni immagina i pensieri prima di morire, che erano
legati alla sua fama. Troviamo numerose figure retoriche, e anche dal punto di vista
formale, la poesia è fatta da strofe di 6 versi, sono settenari, le strofe terminano con un
verso tronco. I versi dispari sono sdruccioli, i due versi pari sono piani mentre l'ultimo verso è
sdrucciolo.
La fedeltà al «vero»
La letteratura come «riflessione sentita»
La caratteristica più evidente della figura intellettuale di Manzoni è senz’altro il suo estremo
rigore, l’intransigenza e la coerenza delle sue posizioni, sostenuti da una mente
straordinariamente lucida e penetrante. Si deve a questa intransigenza la radicalità delle sue
scelte in ambito letterario, in particolare il precoce rifiuto di una tradizione retorica che in
Italia risultava dominante e dei suoi temi prediletti. Propria di Manzoni è una profonda
diffidenza nei confronti della parola, delle sue capacità potenzialmente seduttive e
ingannatrici. La dichiarazione perentoria che si ritroverà nel suo discorso Del romanzo
storico, «il vero solo è bello», ribadisce in modo inequivocabile questa priorità della
dimensione conoscitiva (sul piano soprattutto morale) su quella puramente estetica.
Meno che mai, dunque, Manzoni pensa che la letteratura possa avere una funzione
legata allo svago o all’evasione. Avverso a una poetica dell’empatia, cioè del
coinvolgimento emotivo, che stordisce il lettore e gli impedisce un’autonomia di giudizio,
Manzoni si schiera sempre a favore di una letteratura che parli allo stesso tempo, e con la
stessa efficacia, al cuore e alla ragione umana.

Manzoni e il Romanticismo
Sarà questo il terreno che consentirà a Manzoni di accogliere, in una sintesi del tutto
originale, da un lato le esigenze propugnate dalla cultura illuminista (vero e giustizia),
dall’altro quelle del movimento romantico. In particolare condivide con il Romanticismo,
oltre naturalmente al rifiuto della mitologia come argomento letterario e dell’approccio
rigidamente normativo del classicismo, la battaglia per una cultura veramente popolare e
condivisa. Per “popolo” occorrerà intendere la moderna borghesia, classe che in Italia,
nonostante Milano fosse senza dubbio il laboratorio sociale e politico più avanzato del
tempo, rimaneva ancora un auspicio più che una concreta realtà.

Il convinto razionalismo di Manzoni e la sua diffidenza per ogni forma di acritica esaltazione
gli impediscono, d’altra parte, di accettare il mito romantico dell’intrinseca bontà del “genio
del popolo”: il male, infatti, si manifesta indifferentemente in tutte le classi sociali,
anche in quelle più umili. Analogamente, lo spettacolo delle grandi masse e dei grandi eventi
a suo giudizio mostra, più che la rivelazione dell’assoluto romantico attraverso il divenire
della storia, l’invincibile tendenza dell’uomo a esercitare violenza sui propri simili. E
naturalmente Manzoni non può che nutrire un profondo fastidio per quegli aspetti
irrazionali e “gotici” del Romanticismo nordeuropeo. Le sue idee sono ispirate, al
contrario, da un’estrema concretezza, che egli riassume con la celebre formula che assegna
alla letteratura «l’utile per iscopo [“scopo”], il vero per soggetto e l’interessante per
mezzo». Manzoni delimita, dunque, l’assolutezza romantica ancorandola a un’idea di
letteratura che possa assumere un valore esemplare a livello collettivo, ovvero che rivesta
una funzione civile nella società italiana di quegli anni. Queste opere avranno lo scopo di
infondere la giusta morale del lettore e i poeti dovranno farsi carico di trasmettere la morale
attraverso le loro opere.
LA QUESTIONE DELLA POETICA
Il discorso sul linguaggio è importante, perché Manzoni negli anni che precedono la
costituzione dell'Italia, si dedica a capire quale dovesse essere la lingua da utilizzare nelle
opere letterarie che non dovevano più essere indirizzate ad un pubblico ristretto.
Dunque la lingua doveva essere comprensibile al popolo. Inizialmente adotta una lingua
mista, un volgare lombardo, però successivamente aderisce al volgare fiorentino.
Per quanto riguarda il discorso dell'identità del popolo, vede al centro l'adesione alla storia, e
quindi al vero storico.

Nella prima tragedia di Manzoni, egli osserva che le unità aristoteliche di tempo luogo e
spazio, sono regole antiche, e si basano su regole molto rigide, una rappresentazione
doveva rispettare queste regole, e questo è l'antitesi del vero. Dopo i promessi sposi si
dedica alla critica letteraria dei suoi poemi, e pensa che anche il romanzo come il suo che
mischia personaggi inventati, e personaggi storici, e quindi è da criticare perché il romanzo
deve essere tutto vero.

I promessi sposi
La genesi del romanzo
Già le riflessioni manzoniane sul teatro, e in particolare la Lettera a Monsieur Chauvet,
coinvolgono continuamente il problema del rapporto tra storia e invenzione e il tema
dell’inverosimiglianza del genere romanzesco. Potremmo dire che il primo interesse di
Manzoni per il romanzo sia di segno negativo, perché lo considera come una strada
scivolosa che è meglio non intraprendere: quella della seduzione del lettore attraverso le
peripezie più inverosimili. È assai significativo, dunque, che a fornire a Manzoni lo spunto
iniziale del romanzo non siano opere letterarie, ma storiche

Il Fermo e Lucia
Questo primo impegno narrativo, rappresentato dal Fermo e Lucia e caratterizzato da un
eccezionale fervore di ispirazione. Manzoni lavora su un manoscritto (la cosiddetta «prima
minuta») i cui fogli sono piegati verticalmente a metà: l’autore scrive sulla parte destra e
lascia bianca la sinistra, per le correzioni. Il Fermo e Lucia è un vero e proprio laboratorio
aperto, a cui collaborano, con postille di commento e suggerimenti all’autore, due amici
che questi consulta per una prima lettura, Claude Fauriel ed Ermes Visconti. In questo
primo romanzo, articolato in quattro tomi, i capitoli esplicitano nei titoli i personaggi che
giocano in ciascuno un ruolo di protagonista: Il Curato di... (don Abbondio), Fermo (che
diventerà poi Renzo), La Signora (la monaca di Monza). Per questo aspetto e per altri, come
il ricorso continuo a digressioni e a riflessioni dell’autore sulla storia narrata,
l’ambientazione cupamente drammatica tipica del romanzo noir (evidente nella vicenda
della monaca di Monza, molto più estesa in questo primo romanzo), il Fermo e Lucia si
mostra fortemente condizionato dalla tradizione romanzesca del Settecento. Sarà
anche per questo motivo, come per la scelta di una lingua che tenta una difficile sintesi tra
lombardismi, francesismi, latinismi e un tasso molto alto di neologismi, che Manzoni
dichiarerà tutta la sua insoddisfazione per l’esito della sua prima prova narrativa,
I promessi sposi del 1827
L’autore dunque, convinto della necessità di un radicale cambiamento, affronta una
completa riscrittura dell’opera, che approda alla pubblicazione dei Promessi sposi. Storia
milanese del secolo XVII scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni: è la cosiddetta
“Ventisettana”, uscita in tre tomi.
In questa nuova stesura, l’autore riesce a rendere più continua la narrazione, sciogliendo
quella struttura a episodi con un personaggio prevalente che era caratteristica del Fermo e
Lucia, e comincia a rendersi più indipendente rispetto ai grandi modelli del romanzo
europeo. È a quest’altezza che si verificano i cambiamenti più vistosi nella struttura della
vicenda, per esempio con un drastico taglio che coinvolge le vicende della monaca di
Monza: la storia degli amori illeciti di Gertrude con Egidio e dell’omicidio di una monaca che
li aveva scoperti, ampiamente narrata nel Fermo e Lucia, è ora sostituita da un’ellissi che
tutto lascia intendere: «la sventurata rispose». Anche sul piano linguistico Manzoni
intraprende una profonda revisione, consultando e annotando fittamente l’edizione veronese
del Vocabolario della Crusca, per arrivare a una lingua meno ibrida, che trova nel fiorentino il
suo baricentro.
Ma è l’idea stessa di romanzo a mutare: il Fermo e Lucia era un vero e proprio esperimento
saggistico-pedagogico, con ampio spazio dedicato a digressioni non narrative su aspetti di
lingua, di storia, di civiltà e di costume. Invece nella nuova stesura le digressioni, che pure
sono presenti, vengono al possibile contenute, per non gravare troppo sulla trama. Nel
Fermo e Lucia, inoltre, anche la costruzione dell’intreccio appariva più schematica, poiché
prima si narravano tutte le vicende di Lucia dopo la fuga dal paese, poi quelle di Renzo,
mentre ora la vicenda si sviluppa attraverso un montaggio incrociato.

I promessi sposi del 1840-42


Il viaggio a Firenze nel 1827 dà all’autore la possibilità di entrare in contatto con la viva
realtà della lingua parlata. Di qui inizia quel lento e minuto processo di revisione linguistica,
la cosiddetta «risciacquatura in Arno», che perdura fino al 1840, quando l’edizione
definitiva del romanzo inizia a uscire in fascicoli. Rispetto alla “Ventisettana” l’ultima edizione
presenta, oltre al rinnovamento linguistico, due novità: un’appendice caratterizzata da un
testo di carattere storico-saggistico e non letterario, la Storia della colonna infame, in cui si
riportano i casi dell’ingiusto processo e dell’esecuzione di due presunti “untori” (ritenuti
responsabili della propagazione della peste attraverso malefici), e le illustrazioni di
Francesco Gonin, che consentono una più ricca modalità di lettura del testo.
Siamo dunque di fronte a tre opere, ognuna dotata di una propria fisionomia. Per questo,
seguendo una tendenza affermatasi negli ultimi anni nella critica, si è qui voluto considerare
Fermo e Lucia, Ventisettana e Quarantana non come fasi evolutive dello stesso romanzo,
ma come tre testi distinti.

Personaggi nella storia e nella Storia


I promessi sposi presentano un’evidente novità: la scomparsa dell’eroe. Nel romanzo, infatti,
nessun personaggio può essere identificato come il protagonista, con cui il lettore possa
identificarsi pienamente. Allo stesso tempo nessun personaggio negativo lo è
completamente: anche il colpevole don Rodrigo nel momento dell’agonia appare meritevole
di perdono. In ognuno si coglie una profonda umanità, che da un lato rivela la fragile
natura dell’essere umano, dall’altro impedisce che i personaggi diventino pure macchiette.
Questa mescolanza e ambiguità di aspetti si rivela anche nelle funzioni dei personaggi:
Renzo dovrebbe essere l’eroe e don Rodrigo l’antagonista, però Manzoni confonde i ruoli,
facendo diventare Renzo l’antagonista di sé stesso.

L’integrazione di invenzione e storia consente a Manzoni di portare in primo piano


quell’immensa folla che, pur non avendo parte attiva negli avvenimenti storici, ne subisce
però gli effetti. Lucia Mondella e Renzo Tramaglino sono figure ignorate dalla storiografia
sono allo stesso tempo finti (cioè creati dalla fantasia dell’autore) e veri (cioè del tutto simili
a persone vere).

Manzoni, come mostrano bene i capitoli sul tumulto del pane a Milano o quelli sulla peste,
nutre una profonda repulsione per la folla, imprevedibile e mossa da istinti incontrollabili e
irrazionali. La folla va considerata una sorta di personaggio plurale che si caratterizza per
una molteplicità di voci in cui prevalgono sempre la discordanza, il contrasto, la
sproporzione, l’esagerazione.

Vengono poi i personaggi, tutti di estrazione popolare, coinvolti in situazioni comiche, come
don Abbondio in preda alla paura dopo l’incontro coi bravi, Renzo ubriaco all’osteria della
Luna Piena, Perpetua e la sua invincibile propensione alla chiacchiera, Agnese (la madre di
Lucia) con la sua faciloneria campagnola. Manzoni si guarda bene, tuttavia, dal
rappresentare queste figure come caricature: esse non perdono mai la loro umanità, che
anzi viene corroborata dalla fragilità che dimostrano.

Renzo e Lucia, in quanto protagonisti, rivestono naturalmente un ruolo del tutto particolare.
Renzo, la sua natura impulsiva e i suoi propositi violentemente vendicativi ne fanno l’eroe
ideale di una vicenda che ha i tratti apparenti sia del romanzo di formazione (in cui il
protagonista compie una serie di errori da cui poi trae un insegnamento) sia del romanzo
picaresco (che presenta spesso situazioni macabre e grottesche). Renzo è personaggio
che attraversa l’intera tipologia dei generi all’interno del romanzo, perché non è coinvolto
soltanto in situazioni comiche, ma anche in episodi drammatici.

Lucia ha caratteri del tutto opposti a Renzo, definiti sempre in negativo: non intende sulle
prime partecipare al matrimonio a sorpresa escogitato da Agnese (cap. VI), non risponde
alle domande insistenti della Monaca di Monza sul suo legame con Renzo (cap. X), resiste
ai goffi tentativi di donna Prassede di farle dimenticare Renzo (cap. XXVII), allontana Renzo
dopo il loro incontro nel lazzaretto, facendo prevalere il suo voto sulla promessa di
matrimonio (cap. XXXVI), dichiara di non aver appreso nulla dalle sventure che le sono
accadute (cap. XXXVIII). Tutti questi atti (e parole) mancanti hanno un valore altamente
positivo dal punto di vista della morale cristiana, perché, nel rifiuto dell’erronea logica
mondana, esprimono la scelta di una strada alternativa, quella dell’amore cristiano.

A un livello sociale decisamente superiore rispetto a Renzo e Lucia, quello dell’aristocrazia,


stanno invece quei personaggi su cui l’autore esercita la sua ironia, spesso impietosa: qui
non più di comicità occorre parlare, bensì di umorismo.

L’ultima tipologia è quella dei personaggi tragici che richiedono il ricorso a uno stile
sublime, e di essi fa sicuramente parte l’innominato
IL TEMPO E LO SPAZIO DELLA STORIA
Le prime vicende hanno un ritmo più veloce, e poi man mano il tempo si dilata, anche lo
spazio si dilata piano piano, e si complica la geografia. Da una visione più generale si passa
ad una visione più particolare, e man mano si vanno ad inserire vari luoghi, ad esempio una
parte del fiume di Lecco, Lucia va a Monza, mentre Renzo va a Milano. Manzoni mischia la
realtà con l'immaginazione sia nei personaggi che nei luoghi. La vicenda principale
racconta la storia di Renzo e Lucia, però sembra che la loro storia è come se fosse solo un
filo conduttore perché si intrecciano tanti personaggi interessanti.

Don Abbondio inizialmente aiuta gli antagonisti, poi successivamente recupera Lucia a
Milano. Così come Gertrude che prima aiuta Lucia che è stata mandata da fra Cristoforo, e
poi funge da oppositore perché aiuta l'innominato tramite Egidio, l'antagonista principale è
don Rodrigo.
Alcuni personaggi sono dinamici, e altri statici.
Come personaggi statici ricordiamo Lucia, perché lei non ha tante sfaccettature, non si
evolve nell'ambito del racconto. La mamma di Lucia è statica, anche un po' don Rodrigo
anche se sul punto di morte si pente. Renzo è dinamico perché cambia durante la storia.
Troviamo la metafora della selva oscura, Renzo quando deve incontrare se stesso s'incontra
nella selva oscura, perché è sera e deve superare una notte molto agitata dove finalmente
cresce e diventa uomo. Nella conversione dell'Innominato, egli viene rappresentato come un
personaggio in crisi che pensa alla morte e quella che è stata la sua vita, quando arriva
Lucia, durante la notte non dormono, dunque si trovano in delle tenebre durante la notte, si
spoglia delle sue armi e si reca da Borromeo che lo accoglie come un figlio. Un altro
personaggio dinamico è fra Cristoforo era il figlio di un ricco, il quale però lo educa come un
nobile, e si trova a riscontrarsi con un signorotto, arrivano al duello, dunque lui uccide il
nobile però poi uccidono il servo che si chiamava Cristoforo, dopo questa cosa scappa si
rifugia in un convento e si chiama come il servo che è stato ucciso.

Quale lingua per il romanzo?


Una delle sfide più ardue che la scelta del romanzo comporta per Manzoni ha luogo sul
terreno linguistico. La difficoltà è determinata, certo, dalla mancanza di una tradizione
romanzesca in Italia, che comporta dunque l’assenza di un codice linguistico già
codificato per questo genere. Ma il problema risiede più a monte, nella stessa situazione
linguistica della Penisola, non solo frammentata in numerose varietà regionali e afflitta
anche da una considerevole distanza tra lingua parlata e lingua scritta. L’italiano scritto
infatti ha ancora un carattere eccessivamente libresco, arcaizzante, buono solo per le opere
erudite: manca, di fatto, una lingua comune adatta alla conversazione colta e agli scambi
quotidiani fra persone di diversa provenienza geografica. A questo problema gli illuministi
lombardi avevano provato a fornire una risposta aprendosi all’Europa: la loro lingua
accoglieva influssi di varie lingue straniere, in particolare il francese.

Inizialmente, ossia all’altezza del Fermo e Lucia, Manzoni si avvia per una strada simile, e
tenta una soluzione ibrida, ovvero una sintesi tra molteplici modelli e influenze: il toscano
della tradizione letteraria rinnovato da usi contemporanei, elementi lombardi e apporti
stranieri, prevalentemente francesi. Ma il risultato lascia l’autore fortemente insoddisfatto.
In vista di quella che sarebbe diventata la prima edizione del Promessi sposi Manzoni
sottopone quindi il Fermo e Lucia a una profonda revisione linguistica, oltre che strutturale,
puntando a ottenere un dettato più uniforme, una lingua media, funzionale ai dialoghi,
costituita principalmente di parole ed espressioni comuni al milanese e al toscano,
individuate mediante accurati spogli di fonti lessicografiche. È la cosiddetta fase
toscano-milanese, ancora deludente per l’autore, ormai persuaso della necessità di far
riferimento a un modello unico, concreto, di lingua parlata.

Questo modello può essere offerto dal fiorentino parlato dalla borghesia colta, da
privilegiare rispetto alle altre parlate locali perché tra queste è, secondo Manzoni, l’unica già
dotata agli occhi di tutti gli Italiani di un indiscusso prestigio storico-culturale. Trasferitosi a
Firenze per alcuni mesi nell’estate del 1827, l’autore si dedica quindi alla cosiddetta
«risciacquatura in Arno» del romanzo, un’ennesima revisione linguistica in vista dell’edizione
successiva (1840-42). Come esempi del capillare lavoro correttorio, ecco alcuni interventi
operati nel passaggio dalla Ventisettana alla Quarantana:
• eliminazione dei lombardismi
• abbassamento delle forme auliche

Oltre il romanzo: la Storia della colonna infame


In coda al romanzo e strettamente correlata ad esso compare, nella Quarantana,
un’appendice, la Storia della colonna infame. È un saggio storico che dà conto di un
processo intentato a Milano, durante la peste del 1630, contro due innocenti, il
Commissario di sanità Guglielmo Piazza e il barbiere Gian Giacomo Mora, accusati di avere
propagato il contagio tramite un fluido oleoso dalle proprietà malefiche. La denuncia era
partita dalla testimonianza di due donne, lasciatesi suggestionare dalle dicerie che
circolavano su presunti «untori», che avrebbero diffuso il morbo spalmando la sostanza
contagiosa sugli edifici della città. Il processo terminò con la condanna capitale dei due, che
furono dapprima torturati per estorcere la loro confessione e poi giustiziati tramite il supplizio
della ruota. A ricordo e ammonimento della condanna esemplare venne eretta sulle macerie
dell’abitazione del Mora, nel frattempo distrutta, la «colonna infame», una lapide con
un’iscrizione che riassume l’esito del processo. In seguito divenne evidente la completa
innocenza del Piazza e del Mora, e nel 1778 la colonna infame fu abbattuta.
Con l'inserimento della colonna d'infamia, aderisce al vero storico.
Il romanzo ebbe già fortuna quando uscì, e venne utilizzato come libro di lettura nelle scuole,
l'importanza del romanzo risiede nella lingua che viene considerato già dall'800 un modello
da seguire.

Giacomo Leopardi
Recanati, alla fine del Settecento, è un remoto borgo dello Stato della Chiesa. É in quel
borgo che il 29 giugno del 1798, nasce Giacomo Leopardi. La cittadina all'epoca faceva
parte dello stato della chiesa, il clima culturale era estremamente oppressivo

Dunque, a dispetto della sua totale avversione al nuovo, Recanati dà i natali a un


intellettuale tra i più acuti e innovativi della storia italiana, che non solo rivoluzionerà la
poesia moderna, ma inaugurerà una nuova figura di intellettuale, slegata dal potere politico
e dalle prebende ecclesiastiche. Leopardi sarà infatti il primo scrittore italiano a scegliere di
dipendere economicamente dai frutti del proprio lavoro. Leopardi farà tutto il possibile per
rendersi indipendente dalle finanze famigliari, e di fatto riuscirà, pur con grandissima fatica,
a vivere della sua attività letteraria.

Primo di cinque fratelli, Giacomo appartiene alla nobiltà di provincia. La casa natale, più
che luogo degli affetti, diventa presto terreno
di scontri e incomprensioni. Il padre Monaldo è un uomo di solida cultura e vivaci interessi
storico-antiquari, ma di vedute rigidamente conservatrici e temperamento autoritario; a suo
modo, il conte ama quel suo primogenito dall’intelligenza così prodigiosa, ne è orgoglioso,
ma non potrà mai capire, né assecondare, la portata innovativa del suo genio. Quanto alla
madre, Adelaide, non trapela quasi nulla dagli scritti del figlio, se non una raggelante
assenza, una sconcertante incapacità di empatia e aridità affettiva. Quantomeno, non
mancano al poeta la solidarietà e il calore fraterno, almeno da parte dei due fratelli più cari,
Carlo (1799-1878) e Paolina (1800-69).

Sin da bambino Giacomo mostra un’intelligenza precoce e portentosa: determinanti


risultano gli studi da autodidatta a cui si dedica instancabilmente. Chiuso nella biblioteca
paterna, fa letture enciclopediche e studia le lingue antiche: oltre al latino, impara da solo
il greco e l’ebraico, sottoponendosi però a un regime di vita inadatto alla sua giovane età.
Da quegli anni il suo fisico uscirà irrimediabilmente compromesso, riportandone una
deformazione alla colonna vertebrale, un indebolimento della vista: problemi che
incideranno, inevitabilmente, sulla sua vita sociale e sentimentale, senza mai condurlo, però,
al lamento e all’acredine. La malattia, piuttosto, diventerà per lui una
particolare prospettiva da cui osservare e interpretare il mondo e la condizione umana.

I primi lavori del giovane Leopardi sono di tipo erudito e filologico. Alla scrittura affianca
l’esercizio della traduzione dei classici, importantissimo per la sua esperienza poetica
successiva: traduce per esempio Mosco, poeta siracusano del II secolo a.C., autore di epilli
(componimenti che all’epoca sono indicati come Idilli, un termine che sarà importante
nell’officina poetica di Leopardi).

Dall’apertura al bello al disincanto del «vero»


Ma, nel frattempo, matura nel giovane studioso una sorta di conversione letteraria: come
più tardi ricorderà, attorno al 1816 agli interessi filologico-eruditi, fino ad allora prevalenti,
subentra una vera e propria scoperta della poesia, nel suo valore intimo e vitale. Ad
appassionarlo profondamente è ora la poesia in sé, capace di una bellezza che, confessa
Giacomo, fa «ingigantire l’anima». Non si tratta, com’è ovvio, di una svolta improvvisa, ma
piuttosto di una ridefinizione dei valori e degli obiettivi, parallela a una maturazione
personale e preparata dalla lunga frequentazione dei classici.

Il mutamento di prospettiva porta con sé altre rilevanti aperture: al mondo intellettuale


contemporaneo e, ancor più, alla scrittura poetica.

Nel 1816, dunque, affianca alle traduzioni la stesura di testi originali. Inoltre, nell’estate del
’17, inizia a redigere lo Zibaldone, una raccolta di pensieri, appunti morali, filosofici e
letterari che registra puntualmente lo sviluppo delle sue riflessioni: la stesura, che diverrà
particolarmente assidua tra il 1820 e il ’21, arriverà a coprire oltre duemila pagine.

L’ampliamento di orizzonti in atto nell’animo di Leopardi esige un corrispettivo nei fatti: il


desiderio di lasciare Recanati è sempre più vivo, ma si scontra con l’opposizione inflessibile
di Monaldo. Nel 1819 la tensione raggiunge il culmine, con un tentativo di fuga da parte di
Giacomo scoperto e sventato dal padre; per di più, le sue condizioni fisiche
peggiorano (i problemi agli occhi si erano inaspriti in primavera), e, anche sul piano
intellettuale, la visione si incupisce.

Subentra, in questa fase, la cosiddetta conversione filosofica, una «mutazione totale» che
trasforma il suo modo di intendere la vita e la letteratura. Quel respiro ampio che pochi anni
prima gli aveva ispirato la scoperta del «bello» viene ora ridimensionato da un’altra
componente essenziale della personalità del poeta: una disincantata e lucidissima
attitudine speculativa. I riferimenti ideologici cambiano radicalmente: in tema di religione,
Leopardi non può che riconoscersi lontanissimo ormai dall’ortodossia reazionaria paterna,
che da adolescente aveva seguito, e accoglie il materialismo della tradizione sensistica.
Caduta qualsiasi prospettiva di fede, l’unico orientamento affidabile è quello che può dare la
ragione: non si tratta però della Ragione ottimistica degli illuministi, ma di uno sguardo
intellettuale lucido e impietoso, che mostra un amaro «vero», ossia la constatazione che il
mondo è caratterizzato essenzialmente dalla violenza, dalla sopraffazione reciproca e da
una assoluta «vanità di tutte le cose». Leopardi vive, sul piano biografico, quella frattura
della modernità che è l’essenza dell’epoca romantica, e ne è consapevole: sente infatti di
essere passato da quello stato di armonica identificazione con il bello propria degli antichi
all’irrevocabile distanza dei moderni.

Questo sentimento filosofico dell’infelicità umana non inaridisce la poesia leopardiana, che
anzi esprime in questi anni, cioè tra il 1818 e il ’21, i primi capolavori: le canzoni (in
particolare Ultimo canto di Saffo), che meditano sulla frattura fra antico e moderno, ma
anche sull’inevitabilità della sofferenza umana, e gli idilli, che oppongono all’aridità del vero
filosofico una sorta di spiraglio lirico, in cui il poeta concede ancora spazio all’illusione.

Via dalla «detestata dimora», senza mai trovare


casa
Nel 1822 Monaldo concede finalmente al figlio di lasciare Recanati per soggiornare alcuni
mesi a Roma. L’opportunità, a lungo agognata, giunge però tardiva, e si tramuta in una
completa delusione: l’ipocrisia della vita mondana e la mediocrità della gran parte degli
incontri lasciano Leopardi disgustato, e a sorprenderlo è anche la sensazione di provare,
nella grande città, una solitudine ancor più nera che in provincia. Roma tuttavia consente a
Leopardi di conoscere qualche figura di intellettuale degno della sua stima (come Barthold
Georg Niebuhr, storico e diplomatico, che è a Roma come ambasciatore della Prussia), di
leggere testi irreperibili a Recanati e di avviare collaborazioni editoriali, come quella che
avrebbe dovuto portare al contratto per la traduzione di Platone, e che poi non avrà esito
positivo. Cerca anche di ottenere un incarico amministrativo in qualche capoluogo dello
Stato pontificio, per emanciparsi dal padre, ma il rifiuto di farsi prelato e la sua ideologia
materialista rendono impossibile la cosa.

Il rientro a casa nel 1823 è quindi all’insegna dello sconforto, ma il lavoro ferve e l’anno
successivo esce una prima edizione di dieci Canzoni. Nello stesso 1824 Leopardi compone
anche il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani e si dedica alla prosa
filosofica: prende così forma il progetto delle Operette morali.

Il 1825 e il 1826 sono anni di viaggi e di intense collaborazioni editoriali. A Milano


Leopardi si accorda con Antonio Fortunato Stella per curare un’edizione commentata delle
Rime di Petrarca e per allestire un’antologia della letteratura italiana. Nel medesimo 1826
stabilisce il primo contatto con gli ambienti intellettuali fiorentini, in particolare con Gian
Pietro Vieusseux, fondatore dell’omonimo Gabinetto scientifico letterario e della rivista
«Antologia», dove Leopardi pubblica tre Operette: il Dialogo di Timandro e di Eleandro, il
Dialogo di Cristoforo Colombo e il Dialogo di Torquato Tasso. Tuttavia il poeta rifiuta la
proposta di una collaborazione fissa e retribuita con la rivista, sentendosi lontano
dall’ottimismo progressista del gruppo fiorentino.

A Bologna Leopardi vive un nuovo amore platonico per Teresa Carniani, la colta moglie del
conte Francesco Malvezzi, ma i rapporti si incrinano presto; sempre a Bologna uscirono, nel
1826, presso la Stamperia delle Muse, anche i Versi. Dal giugno del 1827 è a Firenze, dove
mantiene i contatti con il gruppo dell'«Antologia» e ha modo di conoscere Antonio Ranieri
(1806-88), giovane scrittore napoletano, lontano dalla sua città perché inviso al regime
borbonico: con lui Leopardi stringerà un sodalizio che sarà importante negli ultimi anni della
sua vita.

Tra la fine del 1827 e il giugno del 1828 Leopardi è a Pisa e vive il periodo probabilmente
più sereno e fecondo della sua esistenza. Si apre una nuova rilevante stagione poetica, che
coincide con la stesura di alcuni capolavori: Il risorgimento e A Silvia. Questa fase poetica,
centrale nel suo percorso, si prolunga con il ritorno a Recanati e porta alla composizione di
un altro gruppo di canti notevolissimi: Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il
sabato del villaggio e il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.

Il riconoscimento pubblico è però del tutto assente: le Operette morali, in lizza per il
premio dell’Accademia della Crusca del 1830, ottengono un solo voto. In quello stesso anno
Leopardi abbandona di nuovo il suo borgo, stavolta per non farvi più ritorno: ancora una
volta il suo spirito indipendente non accetta di piegarsi a nessun tipo di accomodamento o
situazione di convenienza.

È una decisione non priva di gravi ripercussioni, anche economiche: il poeta è più che
mai costretto a fronteggiare con urgenza il problema di trovare il denaro sufficiente per
vivere, tanto più in una fase in cui i suoi occhi, ormai incapaci di sostenere fatiche anche
modeste, gli precludono nuovi ingaggi editoriali.
L’ultimo deserto
Tornato a Firenze, conosce Fanny Targioni Tozzetti, donna giovane e affascinante, che nel
suo salotto accoglie letterati e intellettuali: Leopardi se ne innamora intensamente, ma lei
non lo ricambia e anzi le si attribuiscono, riferite a lui, parole di fastidio e di irrisione. Da
questa infelice vicenda traggono ispirazione i testi del cosiddetto “ciclo di Aspasia”,
incentrato sulla delusione delle ultime speranze, sul disincanto e sull’approdo all’ironia
come unica risposta all’insensatezza del vivere. Durante questo soggiorno fiorentino
Leopardi pubblica nel 1831 la nuova edizione delle sue poesie, che assumono ora il titolo
definitivo: Canti.

Nel ’33 Leopardi e Ranieri si stabiliscono a Napoli, anche nella speranza che il clima mite
giovi alla salute del poeta. Qui prendono avvio gli ultimi progetti letterari: la seconda edizione
delle Operette morali, dei Paralipomeni alla Batracomiomachia. L’estraneità di
Leopardi all’ambiente intellettuale partenopeo è, se possibile, più netta di quella sentita a
Firenze: anche a Napoli attecchisce il pensiero progressista, ma venato di una fiducia
provvidenzialistica e spiritualistica ancora più aliene dal pensiero del poeta. Agli occhi di
questi «nuovi credenti», come Leopardi li definisce, il suo ateismo materialista suona
blasfemo, e persino socialmente pericoloso. Per di più, pur riuscendo a stipulare un contratto
con l’editore Saverio Starita per la pubblicazione di tutte le sue opere in sei volumi, solo i
primi due vedranno la luce: i successivi saranno sequestrati dall’ufficio della censura del
governo borbonico.

Nemmeno a Napoli, dunque, Leopardi sfugge alla solitudine e all’incomprensione. Il


desiderio di trasferirsi oltralpe, a Parigi, non può prendere corpo a causa delle scarse
possibilità economiche. Nel 1837, per sfuggire a un’epidemia di colera scoppiata in città, i
due amici si trasferiscono a Torre del Greco, sulle pendici del Vesuvio: qui, nella villa
Ferrigni dove è ospite del cognato di Antonio, Leopardi compone Il tramonto della luna e
La ginestra. Muore il 14 giugno per l’aggravarsi di una condizione fisica ormai logorata da
asma, oftalmia, idropisia e pleurite.

Utilizza la canzone il sonetto in maniera molto più libero, e utilizza tra i versi classici
l'endecasillabo, che però non lo utilizza all'interno di uno schema rigido, ma lo utilizza
sciolto, cioè utilizza uno schema metrico molto più libero. Versi liberi (sono versi dove non si
ha la stessa lunghezza dei versi) versi sciolti (dove non si segue uno schema metrico
rigido).

Leopardi a differenza dei classicisti però non usa la mitologia, egli riprende i contenuti e i
messaggi dei classici come punto di riferimento, prende la freschezza della poesia, la
spontaneità, la fantasia, tutti elementi che nel classicismo non erano stati contaminati dalla
ragione. Egli evita la fuga dalla realtà, infatti parte sempre dalla realtà.

Dunque Leopardi riprende dal romanticismo europeo il sentimento, la centralità dell'io, e


rifiuta l'irrazionalismo, le situazioni più cupe. Riprende anche il rapporto tra illusione e
realtà.
Leopardi dice che elabora un sistema filosofico attraverso le sue opere, e si parla di
sistema filosofico, perché nel pensiero di Leopardi si nota un'evoluzione rispetto alle
tematiche trattate all'inizio. Il sistema era filosofico perché si interroga su quelle che sono le
problematiche e i dubbi sull'esistenza.

Il pensiero Leopardiano
Il pensiero leopardiano insiste su alcuni nuclei concettuali: la ricerca del piacere, la
possibilità della felicità e le cause dell’infelicità, il rapporto che lega gli esseri viventi (non
solo gli uomini) alla natura.

L’interrogativo primo della filosofia leopardiana riguarda le condizioni di felicità per l’uomo: è
possibile, e a che condizioni, essere felici? Qualsiasi risposta va cercata all’interno di un
quadro essenzialmente materialista: tutto si gioca entro i limiti della materia. Anche il
piacere, dunque, ha una natura materiale: consiste in una sensazione di vitalità delle
passioni che non ha a che fare né con l’anima, né con alcuna dimensione religiosa. Infatti
Leopardi è un materialista e un ateo a differenza da Manzoni che invece era cattolico.

In questa prospettiva, si è felici quando si prova piacere, infelici se si sente dolore; inoltre
si tende, per natura, a sfuggire il dolore e a cercare il piacere. Il ‘motore’ di questa ricerca è il
desiderio il quale è per sua natura illimitato.

Quando il dolore manca, ma il piacere non è raggiunto, l’uomo prova un sentimento di


infelicità che Leopardi chiama «noia». Ma, data la natura illimitata del desiderio, il piacere
completo e duraturo non è raggiungibile, mentre la noia pervade l’esistenza. Nel corso della
riflessione leopardiana la teoria del piacere si rovescia dunque in una teoria della
sofferenza come stato ineliminabile nella condizione umana; diventa cioè una riflessione
sull’infelicità e sui limiti materiali che sono imposti all’uomo e che gli impediscono di
soddisfare il desiderio di piacere.

Non essendo possibile colmare il piacere assoluto, non rimane che trasferire sul piano
dell’immaginazione ciò che la realtà non concede. Entra così in gioco la poesia, che
diventa la fonte privilegiata di piacere, perché è in grado di creare «illusioni», quelle
speranze, quelle immagini che suscitano piacere, quelle visioni interiori, quelle intuizioni,
quei generosi moti dell’animo.

Nelle illusioni si esplica quell’insopprimibile impulso di vitalità che, agli occhi di Leopardi, è
tutt’altro che condannabile, ma anzi è commovente e generoso; è inoltre prezioso perché
riattiva l’umana capacità di immaginare piaceri infiniti, la capacità di immaginare una realtà
diversa da quella che esiste.

Il tema centrale che ostacola il conseguimento del piacere è il rapporto tra uomo e natura.
Dapprima Leopardi tende a rappresentare la Natura come entità positiva, la Natura è madre
benigna perché ha offerto agli uomini la capacità di immaginare e di provare forti passioni e
gioie. Ma in realtà esse non sono altro che forme ingannevoli, di breve durata e temporanee.
Questo pessimismo si formerà nel corso della sua vita soprattutto in età adolescenziale,
quando le sue condizioni fisiche non erano delle migliori, pensando che poi in un furia la
situazione sarebbe migliorata, cosa non vera poiché il destino dell'uomo e ricco di dolori,
quindi la natura non fa altro che mettergli degli ostacoli e inganni molto forti. (In una delle
operette morali, “Il dialogo della natura e di un islandese”, la natura più che matrigna e
rappresentata più che altro indifferente nei confronti di questo islandese che viveva in questa
terra vulcanica).

Il pessimismo leopardiano può essere considerato come un evoluzione del pensiero


(anche se alcuni lo ritengono un vero e proprio filone filosofico) , poiché Leopardi non ha mai
scritto testi filosofici.
Il suo pessimismo si articola in 3 fasi, che si riferiscono ai tre momenti più importanti della
sua vita.

1. La prima fase riguarda la fase adolescenziale, egli prende coscienza della realtà, della
sua malattia e pensa quindi che questa sorte così negativa l'abbia avuta solo lui, e l'unica
cosa positiva è la contemplazione della natura ed è per questo viene considerata benigna,
questa fase può essere definita come pessimismo individuale.

2. Successivamente quando lui si rende conto che la sua sorte è toccata anche agli altri,
piano piano passa dell’individualità all’università, iniziando a pensare che la natura è
matrigna, la quale ha creato una serie di illusioni nei confronti dell’uomo.Infatti il poeta
ritiene che gli antichi “più vicini alla natura”, fossero perciò più felici rispetto ai moderni, che
vivevano in un mondo civilizzato ricco di progressi. Ed è proprio questo che il pensiero di
Leopardi cadrà nel pessimismo storico, in quanto c’è la percezione di una catastrofe
storica dove il divenire storico ha assunto le fattezze di un incubo, e il progresso
medesimo, estirpando le illusioni e l’antica immaginazione, non ha fatto altro che svelare il
nulla.

3. L’ultima fase, è caratterizzata dal pessimo consimco, la sintetizza bene nella poesia “Il
canto notturno del Pastore dell’Asia” dove lui si rende conto che la natura non è né cattiva
né buona ma è disinteressata, indifferente.Questo pessimismo culmina nella Ginestra la
fase finale, dove lui e tutti gli uomini sentiti distaccati dalla natura, credono di opporre la
social catena, cioè la solidarietà umana. Gli uomini per sopravvivere devono opporre rimedio
ai danni che la natura anche inconsapevolmente arreca. Nella ginestra, si ha l'osservazione
di un cespuglio che cresce sopra la lava, molto forte e duro, e osservando questa ginestra
che sorge sulle radici del Vesuvio, la ginestra è paragonabile alla resistenza che gli uomini
oppongono alla natura.

ANALISI DEL TESTO

INFINITO
si riferisce al monte Tabor, che si riferisce allo scenario di Recanati, una 20 ina di anni, e
parte da questo colle, e su questo colle c'è un oggetto che gli impedisce di vedere, cioè la
siepe, e dunque l'orizzonte che non riesce a vedere, lo immagina tramite delle sensazioni
visive che legate a dei suoni, infinito (che si trova nel pessimismo individuale)
{Leopardi pessimista perché materialista ed ateo}
Lui parte da questa presenza geografica il colle è da una situazione oggetto che gli
impedisce di vedere la siepE e diventa ostacolo, un ostacolo alla sua realizzazione, gli
esclude l’orizzonte più lontano, mentre lui siede e cerca di guardare lontano, allora lui inizia
ad immaginare delle sensazioni sia visive che anche legate a dei suoni, spazi sconfinati ed
infiniti silenzi, lui così immagina. Abbiamo un capovolgimento, soggetto e predicato dopo i
complementi oggetti, per motivi formali, questa immaginazione gli provoca una situazione di
smarrimento, e quando smette di immaginare le sensazioni lo riportano alla realtà, vento tra
le piante che gli sembra un infinito silenzio e quindi lui è come se paragonasse queste
sensazioni che telante prova alla voce dell'infinito che gli provoca il pensiero parte dell
immaginazione, lui ricorda ed il pensiero va all eternità le stagioni morte la stagione presente
viva ed il suo suono e sensazioni e questo ragionamento con questo suo pensiero ad un
certo punto è come se affogasse all'interno di questa immensità spazio temporale, qui
comincia una metafora di un naufrago come se lui annegasse all'interno di questa sua
immaginazione, però questo naufragare non gli crea una situazione di smarrimento come
all'inizio ma di dolcezza.

A SILVIA
È una canzone, nel 1828, dopo il silenzio poetico, compone a Silvia, è un ritorno doloroso,
perché rispetto all'infinito dove non parlava del dolore, ma dell'immaginazione, in questa
poesia, il suo pensiero è maturato, e lo portò ad approfondire questo pessimismo che
riguardava tutti a Silvia diventa l'emblema di questa sorte che toccava a tutti. Sono stati
trovati anche appunti di Leopardi, dove nella prima strofa.
Da un punto di vista formale sono endecasillabi settenari sciolti. Troviamo anche molti
enjambement. Ci sono figure di posizione che riguardano l'aspetto formale di una poesia, ad
esempio alcuni vocaboli sono collocati in posizione particolare nel testo, primo verso al
centro troviamo la parola rimembri per avere un risalto particolare. La musicalità che crea
leopardi è dovuta anche alla scelta dei vocaboli, Rimembri ad esempio ha un suono più
dolce di ricordo. Il tema principale di questa poesia è il ricordo, e questa parola iniziale
riprende proprio la tematica della poesia. Troviamo anche inversioni per dare particolari
effetti sonori alla poesia.

PRODUZIONE DI LEOPARDI
I Canti sono una raccolta poetica e si riferiscono a modelli classici, anche al modello
dantesco e petrarchesco. Le canzoni: ad esempio all'Italia, e queste hanno una struttura
sintattica complessa, un lessico ricercato e molte figure retoriche, le tematiche sono
civili a cui si affianca la tematica dell infelicità

Gli idilli: l'infinito e il passero solitario, questi sono in endecasillabi sciolti, la sintassi è
semplice rispetto alle canzoni, e ci sono figure retoriche meno complesse rispetto a
quelle delle canzoni, e sono tematiche esistenziali, l'infinito il tempo e il ricordo.

I canti pisano-recanatesi: il sabato del villaggio, e questi canti recanatesi, sono il ritorno
alla poesia dopo l'assenza d'ispirazione poetica, questi idilli erano detto grandi idilli.
Il ciclo di Aspasia: amore e morte, qui la tematica è una grande disperazione per l'amore
non ricambiato e il linguaggio qui si fa più aspro rispetto agli idilli.

I canti napoletani: la ginestra, le tematiche la precarietà della vita umana, la dignità della
sofferenza e la solidarietà tra gli uomini di fronte al comune destino di sofferenza che la
natura gli impartisce .

LE OPERETTE MORALI
Sono dei componimenti a contenuto filosofico, che si basano sullo studio dei
comportamenti umani, sono con uno stile apparentemente leggero. Ci sono varie tipologie,
dialoghi o brevi trattati, e hanno anche una grande componente inventiva-fantastica.

LO ZIBALDONE
Un'altra opera importante di Leopardi è lo Zibaldone, lo scrive dal 1817 al 1832 e si tratta di
materiale raccolto alla rinfusa, senza una particolare pianificazione, sono pensieri e
riflessioni filosofiche su quello che lo circonda, e con questa opera voleva chiarire sulla
situazione di sé stesso. All'interno dello Zibaldone si trovano delle cose interessanti, come la
teoria del piacere, nel 1820-21, infatti l'uomo per natura cerca la felicità attraverso il
piacere, ma questo desiderio è incolmato e incolmabile, perché quando un piacere viene
raggiunto, subito si passa a voler raggiungere un'altra tappa, e porta ad un'impossibilità ad
essere Felici. Ci sono anche delle riflessioni sulla questione della felicità, che non è una
cosa che appartiene agli uomini antichi, durante l'età dell'oro, e scopre che l'infelicità non è
qualcosa moderna, ma è connaturata all'uomo di tutti i tempi. Approfondisce il suo
sensismo e materialismo che causa una sfiducia nella scienza e nel progresso e tutto
questo sfocia nell'ateismo.

Paralipomeni della batracomiomachia


È un poemetto dove si riprende un mito della lotta tra le rane e topi che è antico, e
satiricamente fa vedere lo scontro tra i liberali(topi) e i razionali(rane), anche con i granchi
che sarebbero gli Austriaci.

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