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Simone Weil

Manifesto per la soppressione dei partiti politici

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Dettagli essenziali
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Descrizione

Autore: Simone Weil

Titolo: Manifesto per la soppressione dei partiti politici

Titolo Originale: Note sur la suppression générale des parties politiques

Genere: Saggistica/Filosofia/Religione

Edizione: Castelvecchi

Data di pubblicazione: maggio 2012

Lingua: Italiana

Formato: Pdf Odt Epub Mobi AZW3

Dimensione: 1,3 MB

Scansione et edit: satorarepotenet

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Foto dell'Autore
Simone Adolphine Weil (Parigi, 3 febbraio 1909 – Ashford, 24 agosto 1943) è stata
una filosofa, mistica e scrittrice francese, la cui fama è legata, oltre che alla
vasta produzione saggistico-letteraria, alle drammatiche vicende esistenziali che
ella attraversò. Fu studentessa all'École Normale e insegnante di filosofia in vari
licei. Militante dell'estrema sinistra rivoluzionaria, nel 1934, spinta
dall'inderogabile esigenza interiore di conoscere direttamente le peggiori
condizioni di vita dei lavoratori, troncò la professione e gli studi puramente
teorici per lavorare come operaia alla Renault di Parigi: fu un duro ma per lei
entusiasmante inserimento nella vita. Ammalatasi di pleurite, fu costretta a
lasciare l'officina, iniziando un periodo cruciale di intimo ripensamento. Nel 1936
partecipò come volontaria repubblicana alla guerra civile spagnola arruolandosi
nelle file anarchiche della famosa Colonna Durruti, accettando anche i servizi
della cucina; ma in seguito ad una grave ustione a un piede dovette rientrare in
Francia. Al 1937 risale la svolta mistica, che si traduce in una fede vissuta con
grandissima intensità. Esclusa dall'insegnamento in seguito alle leggi razziali
durante il regime di Vichy, fece la contadina fino al 1942, quando si rifugiò con
la famiglia negli Stati Uniti dove fu molto vicina ai poveri di Harlem. Poco dopo,
però, richiamata dall'impegno contro il totalitarismo, tornò in Europa ma nel 1943
morì a soli 34 anni nel sanatorio di Ashford in Inghilterra. La vicenda umana e
intellettuale di Simone Weil appare profondamente segnata dalla vicende dei
totalitarismi della seconda guerra mondiale. Il suo pensiero è caratterizzato da un
forte principio di realtà, nonché dall' esigenza di ancorarlo al contesto sociale e
politico di appartenenza (del quale sperimentava, spesso in prima persona, le
condizioni). Weil prende parte in più occasioni alla vita politica degli anni tra
le due guerre, intrattenendo vari contatti: ora con i gruppi della resistenza
repubblicana, durante la breve e sfortunata partecipazione alla guerra civile
spagnola, ora ospitando per un breve periodo il leader antistalinista Trotzkij,
nonché organizzando manifestazioni antifasciste di vario genere che le costeranno
la segnalazione alle autorità scolastiche e relativi trasferimenti. L' analisi
filosofica di Simone Weil, asistematica e originale, difficilmente collocabile all'
interno di correnti tradizionali, ha finito per passare in secondo piano rispetto
al vissuto dell' autrice. Tutte le sue opere sono state pubblicate postume. Fra gli
ultimi libri pubblicati in Italia ricordiamo: Oppressione e libertà 1956;
Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale 1997; La prima
radice 1996; Primi scritti filosofici 1999; Piccola cara, lettere alle allieve
1996; Lezioni di filosofia 1999; Attesa di Dio 1998; L'ombra e la grazia 1996;
Pensieri disordinati sull'amore di Dio 1984; Quaderni I, II, III, IV . In
Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale , un saggio del
1934 ma pubblicato in Italia solo nel 1997, Weil descrive la condizione operaia e
fa una critica radicale del capitalismo industriale. All'autrice non sembra
possibile cancellare l'oppressione e l'ingiustizia nella società umana. Anche le
stesse rivoluzioni tendono a tradire le promesse. Alla base dell'ingiustizia, prima
ancora della proprietà privata e dei mezzi di produzione, vi è la separazione fra
lavoro manuale e lavoro intellettuale, fra funzioni direttive e funzioni
esecutive . Con lo sviluppo dell'economia e conseguentemente della divisione del
lavoro, aumenta la dipendenza dell'individuo. Tale dipendenza diviene soggezione al
potere. Dopo l'esperienza storica dell'oppressione attuata con la forza delle armi
e di quella prodotta dalla ricchezza concentrata nel capitale privato, l'umanità
comincia a sperimentare una forma nuova di oppressione determinata dalla divisione
del lavoro che costringe l'uomo a forme estreme di specializzazione. Viviamo in un
mondo dove nulla è a misura dell'uomo, dove tutto è squilibrio e la società è
collettività cieca, trasformata in una macchina per comprimere cuore e spirito e
per fabbricare l'incoscienza. Separando il lavoro dalla conoscenza, la società
moderna e soprattutto la società industriale, che ha aumentato enormemente la
complessità della sua organizzazione, hanno posto le condizioni per un potere
sempre più forte che tende a riprodursi anche là dove è stata fatta la rivoluzione.
Da qui derivano alcune indicazioni: la società deve essere centrata sul
riconoscimento del lavoro, ma di un lavoro nel quale sempre più si compenetrino
l'ideazione e la progettualità da un lato e l'esecuzione e la realizzazione,
dall'altro. Per Simone Weil la libertà perfetta è un ideale irraggiungibile, noi
possiamo tendere solo ad una libertà imperfetta e bisogna tener conto che
l'individuo è condizionato dalla necessità. Lo sforzo di affermare la libertà di
pensiero si compie all'interno di una macchina sociale in cui sembra perdersi il
senso del vivere. La libertà viene concepita come un ideale regolativo , cioè un
obiettivo a cui aspiriamo senza poterlo mai raggiungere: proprio come le "idee"
kantiane. Ciò non vuol dire che sia inefficace, perché, a differenza dei sogni, gli
ideali orientano e muovono uomini e donne, li impegnano a cambiare lo stato delle
cose, rendendo meno imperfetta la società. Dopo la bellezza, il tema principale che
la Weil sviluppa nelle sue opere è l' oppressione , vista come schiavitù dell'uomo.
In Opposizione e libertà Weil scrive che mai come in questo momento l'individuo è
stato così completamente abbandonato ad una collettività cieca, mai gli uomini sono
stati più incapaci non solo di sottomettere le loro azioni ai propri pensieri, ma
persino di pensare. Alla Weil, in pratica, sembra che l'uomo abbia perso la sua
umanità e la causa di questo " doloroso stato " è per lei molto evidente. Noi
viviamo in mondo dove nulla è a misura dell'uomo, dove vi è una sproporzione
mostruosa tra il corpo dell'uomo, il suo spirito e le cose che costituiscono
attualmente gli elementi della vita umanitaria, dove, in una parola, tutto è
disequilibrio. E all'interno di questa società, l'uomo sperimenta l'impotenza e
l'angoscia. La Weil, così, vede la storia umana come asservimento degli uomini . "
La società è diventata una macchina per comprimere il cuore " e per fabbricare
l'incoscienza, la stupidità, la corruzione, la disonestà e soprattutto la vertigine
del caos. Nella storia umana due sono state e sono le principali forme di
oppressione:
a) la schiavitù esercitata in nome della forza
b) l'asservimento in nome della ricchezza trasformata in capitale.
Sta per cadere sugli uomini un'altra e nuova forma di oppressione: l'oppressione
esercitata in nome della funzione , frutto maturo del lavoro frantumato tipico del
Capitalismo. " La rivoluzione è un ideale, un giudizio di valore, una volontà ". Di
fronte a tutte le forme di oppressione, di fronte a questo stato doloroso, Simone
Weil fa appello ad un obbligo eterno: quello verso l'essere umano in quanto tale.
L'uomo non può essere oggetto. L'individuo è il valore supremo, un valore
calpestato anche dai movimenti che si richiamano a Marx. Ed è proprio perché vuole
raggiungere queste alte finalità che non basta Marx con la sua " idea di materia
sociale "concepita come " una macchina atta a fabbricare del Bene ". Simone Weil
aggiunge, inoltre, che la materia sociale lasciata a se stessa produce altre
schiavitù. I movimenti sociali ispirati da Marx sono tutti falliti, soprattutto
perché hanno ignorato la sola idea preziosa che si trovi nella sua opera, vale a
dire il metodo materialista , lo strumento d'analisi dei fatti sociali tramite il
ricorso alle cause economiche. La Weil non critica solo il marxismo, ma anche quei
movimenti che assumono una sorta di fatalismo e di disinteresse nei confronti di
chi al momento soffre, aspettando che una felice catastrofe porti un capovolgimento
della società in cui " gli ultimi saranno i primi ". Da questo si capisce perché
per la Weil essere rivoluzionari significa invocare coi propri desideri e aiutare
con le proprie azioni tutto ciò che può, direttamente o indirettamente, alleggerire
o sollevare il peso che schiaccia la massa degli uomini. Intesa così, " la
rivoluzione viene ad essere un ideale, un giudizio di valore, una volontà e non
un'interpretazione della storia e del meccanismo sociale ". Nel saggio L'Iliade o
il poema della forza (1939), Weil esalta il modo in cui l'uomo greco viveva la
guerra e il suo terribile gioco accordando eguale rispetto al vinto e al vincitore,
provando sgomento per la distruzione di una città. Quando gli uomini entravano nel
gioco della guerra, diventavano pietre nelle mani degli dèi, ossia cose sotto il "
giogo della Forza ". Alla fine vince solo la Guerra . La Guerra è una prova della
miseria umana, dei limiti dell'essere umano, è l'emergere di una Forza che domina
l'anima dell'uomo e la incatena al suo destino immodificabile. Omero è un
protagonista senza volto degli avvenimenti narrati ed è obiettivo nei confronti dei
vincitori e dei vinti. Ma alla fine tra chi è in grado di infliggere la morte
credendosi con ciò libero, e chi invece subisce la morte non vi è differenza.
Achille che sgozza dodici adolescenti troiani sulla pira di Patroclo, tanto
naturalmente come si recidono i fiori per una tomba, non sfuggirà al destino comune
della morte, unica e inesorabile vincitrice. " Anche se ci illudiamo di
maneggiarla, la forza si può soltanto subire. Il destino di chi uccide è di essere
ucciso a sua volta ". La visione greca dell'uomo si prolunga, per la Weil, fino al
Vangelo. Ciò che unisce Omero agli Evangelisti è il senso del valore della miseria
umana, una miseria vissuta dallo stesso Cristo sulla croce. Una miseria a cui i
Greci opponevano la virtù e i Vangeli la Grazia. La liberazione dall'oppressione
sociale, pur equivalendo ad una rivoluzione che fa dell'uomo il valore supremo, non
è la salvezza o la redenzione dell'uomo. L'infelice è chi prova l'assenza di Dio e
che cammina sul crinale di un baratro, motivo per cui o cade o imbocca la via della
salvezza. Per la Weil, l'infelicità è un ingegnoso dispositivo della tecnica divina
escogitata per far entrare nell'anima dell'uomo " l'immensità della forza cieca,
brutale e fredda ". Inoltre, l'infelice è chi non vede alcuna luce nella sua vita,
nessun senso della sofferenza, nessuno scopo nell'affaccendarsi dell'umanità.
L'infelice è distante da Dio, il quale già al momento della creazione si è
distanziato dal creato affinché questo potesse esistere. Perciò, per sconfiggere
l'infelicità l'uomo deve eliminare questa distanza da Dio, compiendo il cammino
opposto a quella della creazione: deve attuare una decreazione, deve annullare il
sue essere, deve distruggere il proprio io. L'annullamento dell'io si ha nella
sofferenza, nell'umiliazione, nella sopraffazione subita, nell'abbrutimento dei
campi di concentramento. La visione della Weil è pessimistica. Viviamo in un mondo
dove nulla è a misura dell'uomo, in una società che è stata trasformata in una
macchina possente, nella quale l'individuo avverte di essere solo un ingranaggio e
che arriva a comprimere il cuore e a fabbricare l'incoscienza. Complessità sociale,
gerarchie sociali sempre più chiuse, macchine di potere sempre più sofisticate e
oppressive: il crescente pessimismo delle Weil, da lei vissuto come una ferita
sempre più dolorosa, non si tradurrà mai in senso di impotenza. Da un lato glielo
impedisce la prospettiva religiosa, a cui si aprirà con la conversione al
Cristianesimo; dall'altro, l'ansia e la febbre di agire a favore dei ceti
subalterni la porteranno, fino all'ultimo, a impegnarsi e a lottare ovunque, con i
repubblicani in Spagna o nei quartieri di Harlem a New York, o nella Londra
bombardata della Seconda Guerra Mondiale. Simone Weil è pessimista. Vede la società
andare nella direzione in cui aumenta lo sfruttamento del lavoro operaio e gli
individui vengono sradicati dal loro passato, gettati in una condizione di
solitudine e di assenza di valori, mentre si rafforzano le gerarchie e i poteri
burocratici, le strutture di comando e le pratiche violente e ci si avvia verso la
guerra. Da questa profonda tensione interiore nasce la svolta della fede, che non
è, in lei, mai rinuncia alle sue posizioni sociali, ma convinzione che di fronte
alla miseria umana occorre intravedere anche una prospettiva ultraterrena di
salvezza. La ricostruzione sociale e politica della società deve, quindi, poggiare
su basi etico-religiose, su una rigenerazione spirituale di individui e
collettività, in cui a una nuova democrazia si accompagni un nuovo radicamento nel
proprio passato, nella tradizione, in una società giusta e rispettosa delle
persone. Fede, tensione morale e impegno politico non l'abbandoneranno mai, fino
alla morte. " La croce è la nostra patria ", diceva più volte. Anche la riflessione
politica , le varie esperienze di militanza sindacale e politica e l'adesione a
posizioni sindacaliste rivoluzionarie, trotzskiste più che marxiste, esprimono una
fortissima tensione spirituale, uno slancio ed una ispirazione etico-religiosa,
l'intenzione di una scelta esistenziale, quella di stare sempre dalla parte degli
oppressi. E' proprio la centralità della scelta etica, nel determinare gli
orientamenti dell'esistenza degli individui, la porta a rifiutare, del marxismo, il
materialismo e il determinismo economicistico. Simone Weil subisce dapprima il
fascino del marxismo di cui tuttavia rifiuta la configurazione teorica dello Stato
per il suo autoritarismo. Si occupa di politica fin dagli anni del liceo ma non si
iscrive mai ad alcun partito. La sua stessa militanza sindacale e politica
iniziale, più anarchica che marxista, trova le sue ragioni in un'ispirazione etica
che la porterà a mettersi sempre dalla parte degli oppressi. Diceva spesso che
occorreva essere sempre disposti a cambiare per seguire la giustizia, questa eterna
fuggiasca. Filosoficamente aderisce inizialmente al pensiero dei suoi docenti e
nella sua esperienza di insegnamento ne proseguirà il metodo invitando gli allievi
a leggere direttamente i testi dei filosofi anziché i manuali. Successivamente
Simone Weil andrà sviluppando il suo pensiero che sarà sempre più caratterizzato
dalle esperienze interiori. Gli anni di lavoro in fabbrica danno l'avvio ad una
profonda e sofferta riflessione sul senso della propria esistenza, mentre vive
l'esperienza operaia come occasione di esperienza interiore. Sono anche gli anni in
cui si intensificano quei dolori di testa che la indurranno ad esperire che cosa
significa assaporare la morte da viva. L' idea della morte , così presente in
Simone Weil, è qualcosa di più del frutto di momentanei scoramenti: attraverserà
tutta la sua vita costituendone il vettore di ricerca della verità. Abbandona
gradualmente l'interesse più propriamente politico e sospinge sempre più la sua
riflessione in direzione del senso dell'esistere, colto nei suoi risvolti religiosi
e mistici, senza con ciò rinunciare al tentativo di tradurre il tutto in Pensiero,
compito che non delegò mai ad alcuna istituzione politica né ecclesiastica: questo
fu uno dei punti fermi che le garantì la coerenza con se stessa. La Weil è un
personaggio estremamente significativo per la pregnanza e la radicalità con cui ha
vissuto e concretizzato la sua weltanschauung , la sua visione del mondo. Come
filosofa certamente non fu capita. Ci fu sempre un maggior interesse per il suo
carattere, da molti ritenuto eccentrico ed esemplare e per le sue esperienze
personali, piuttosto che per il suo pensiero.La sua complessa figura, accostata in
seguito a quelle dei santi, è divenuta celebre anche grazie allo zelo editoriale di
Albert Camus, che dopo la morte di lei, a soli 34 anni, ne ha divulgato e promosso
le opere, i cui argomenti spaziano dall'etica alla filosofia politica, dalla
metafisica all'estetica, comprendendo alcuni testi poetici.

di Antonio Magnanimo

Descrizione
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I saggi come il "Manifesto per la soppressione dei partiti politici" appartengono


all'ultimo periodo della vita dell'autrice e ci rivelano l'animo della scrittrice,
le sue preoccupazioni, le sua meditazioni mistiche. I temi centrali del suo
pensiero più maturo sono trattati compiutamente: cioè la critica del progressismo e
della desacralizzazione del mondo contemporaneo, la ricerca ecumenica, la
riflessione acuta e profonda sull'amore di Dio, su Cristo, sulla Croce e
sull'infelicità umana. Testi di estremo interesse, ricchi di intuizioni feconde.
E’ stato recentemente tradotto in italiano e pubblicato dalla casa editrice
Castelvecchi il Manifesto per la soppressione dei partiti politici di Simone Weil.
Il titolo italiano per la verità non è felice e non è fedele all’originale
francese, che suona Note sur la suppression générale des parties politiques: è noto
infatti come Weil fosse poco incline a redigere e a firmare manifesti, proclami e
simili. Tuttavia, questa traduzione è sicuramente meritoria, in quanto rende
accessibile al pubblico italiano un saggio che, pubblicato per la prima volta in
Francia nel 1950, fu salutato da Breton e da Alain, dei quali opportunamente si
riportano nell’edizione italiana i commenti entusiastici, come un testo di
scottante attualità. Sia in Breton sia in Alain era ancora viva, nel 1950, la
memoria dello stalinismo e della sua influenza sul partito comunista francese e,
più in generale, l’asservimento delle coscienze, all’interno dei partiti, in nome
di parole d’ordine più o meno altisonanti.
Nel tempo che ci separa dalla prima pubblicazione di questo testo, avvenuta a sette
anni di distanza dalla morte dell’autrice, la sua attualità non ha fatto che
crescere. Potremmo dire che le tesi qui sostenute diventino tanto più condivisibili
quanto più cresce il discredito nei confronti della politica dei partiti; un
discredito che oggi, in Italia, non è certo minore di quello che Breton ed Alain
denunciavano nel 1950 in Francia; verrebbe da dire: “il peggio non è mai morto”,
come recita un noto proverbio popolare.
Le argomentazioni che Simone Weil sviluppa in questo saggio sono di una semplicità
disarmante e al tempo stesso di un’estrema radicalità: come sottolinea Alain, il
testo dimostra che non i partiti, ma tutti i cittadini, ciascuno in prima persona,
dovrebbero fare politica; esso esprime “l’opinione femminile”, che consiste in “un
radicalismo dominato da molto in alto dalla Giustizia”. (p. 65) In effetti, il
radicalismo di Simone Weil è guidato esclusivamente dal senso della giustizia, non
da considerazioni di convenienza, di opportunità o di fattibilità.
L’autrice esordisce constatando il carattere totalitario dei partiti europei, fin
dalla loro nascita nella Francia nel periodo del Terrore; il loro ideale, allora
come in seguito, fino all’epoca buia dei totalitarismi, era: “Un partito al potere
e tutti gli altri in prigione”. L’autrice si chiede poi se vi sia nei partiti
qualcosa di bene, che renda sensata la loro conservazione, o se essi non siano
piuttosto “un male allo stato puro, o quasi”. (p. 24) Il criterio di valutazione
viene definito a partire dalla verità, dalla giustizia e dall’utilità pubblica: la
democrazia non è un bene in sé, è solo un mezzo in vista del bene, un mezzo più o
meno efficace. Lo si comprende facilmente se si pensa che i crimini commessi da
Hitler non sarebbero stati meno terribili se fossero stati autorizzati da una
maggioranza parlamentare democraticamente eletta.
Weil si sofferma in seguito sulla nozione di “volontà generale” di Rousseau, che è
alla base dell’ideale democratico: Rousseau era convinto che la ragione tenda a
scegliere la giustizia, mentre le passioni sono per lo più fonti di errori e di
crimini; e, poiché la ragione è uguale in tutti gli uomini mentre le loro passioni
differiscono, riteneva che il consenso generale, frutto della convergenza razionale
dei più e dell’elisione delle loro passioni contrastanti, potesse avvicinarsi alla
verità e alla giustizia. Solo se permette di raggiungere tale risultato, la
democrazia è buona. Tuttavia, l’efficacia della democrazia come mezzo per
realizzare la giustizia è seriamente compromessa quando sono in gioco delle
passioni collettive, ed è chiaro che i partiti sono delle potenti casse di
risonanza di passioni collettive. Inoltre, la democrazia è altrettanto inefficace
come strumento per raggiungere la verità quando il popolo non è chiamato ad
esprimere il proprio volere riguardo ai problemi della vita pubblica, ma solo ad
operare una scelta di persone, o addirittura di “collettività irresponsabili”, come
sono i partiti. Ad eccezione del periodo che precedette la rivoluzione francese,
quando un movimento di popolo fece sentire le proprie aspirazioni attraverso i
cahiers de doléance e controllò che i propri rappresentanti esprimessero
esattamente le rivendicazioni popolari, la Francia non ha mai conosciuto nulla che
somigli a una vera democrazia.
Secondo l’autrice, non è facile trovare una soluzione al problema di come far sì
che un popolo possa davvero esprimere un giudizio sulle questioni pubbliche, senza
essere intralciato da passioni collettive. Tuttavia, così prosegue Weil, “qualunque
soluzione implicherebbe innanzitutto la soppressione dei partiti politici”. (p. 31)
Questi ultimi infatti sono macchine “per fabbricare passione collettiva”; (p. 31)
essi inoltre esercitano una pressione sui propri membri, ostacolandone la libertà
di opinione e di giudizio e, infine, hanno come scopo principale la propria stessa
crescita. Mentre un partito dovrebbe essere solo un mezzo per realizzare il bene
pubblico, esso diventa il proprio stesso fine: oggetto di idolatria, esso rivela
così la sua vocazione totalitaria e la sua inclinazione alla menzogna; perdendo di
vista il bene e la giustizia, si considera l’unico bene l’incremento del partito
stesso e, a tale fine, si esercita una pressione collettiva sul pensiero degli
uomini attraverso la propaganda.
Qualunque uomo politico che abbia a cuore il bene pubblico e la giustizia, dovrebbe
sempre anteporli alla fedeltà al proprio partito: ma, poiché questo palesemente non
accade quasi mai, l’unica soluzione è quella di sopprimere i partiti, esonerando
così chi voglia partecipare attivamente agli affari pubblici dall’obbligo di
entrare in un partito.
In questo breve saggio, vi sono echi della concezione della politica come arte di
composizione su piani multipli, di cui l’autrice parla ne La prima radice: per una
politica degna di questo nome, occorrono attenzione alla giustizia, cura del bene
pubblico, capacità di leggere i segni dei tempi e di ispirare un popolo. Una
qualità così elevata e complessa di attenzione è impossibile se la preoccupazione
principale di un politico è invece quella di essere in sintonia con la linea del
proprio partito.
Per l’autrice, dunque, l’istituzione dei partiti politici è un male in tutti i
sensi e la loro abolizione non potrebbe essere che “un bene quasi allo stato puro”.
(p. 50) Potrebbero continuare ad esistere sì dei movimenti di opinione, ma allo
stato fluido, senza etichette e senza separazioni nette fra interno ed esterno. Non
sembra dunque esserci, secondo l’autrice, “nessun inconveniente di nessun tipo
legato alla soppressione dei partiti”. (p. 53) Tutta la vita pubblica se ne
avvantaggerebbe, liberando i singoli dall’obbligo di pronunciarsi sempre pro o
contro qualcosa – segno che lo spirito di partito ha contaminato ogni cosa e che il
fatto di prendere posizione ha sostituito lo sforzo di pensare.
La proposta weiliana di abolizione dei partiti politici ha la radicalità delle cose
grandi, che spesso sono anche semplici. Eppure, come l’autrice stessa osserva quasi
di sfuggita, “per un singolare paradosso, le misure di questo genere, che non
presentano inconvenienti, sono in realtà quelle che hanno la minore possibilità di
essere attuate”. (p. 53) Il perché, Weil stessa lo suggerisce, non in questo
saggio, ma in un altro, intitolato Non ricominciamo la guerra di Troia, quando
osserva che le parole altisonanti ma in realtà vuote del nostro lessico politico –
nazione, sicurezza, fascismo, democrazia, ecc. – non rimangono inoperanti, ma
diventano anzi estremamente distruttive, perché dietro di loro vi sono apparati di
stato, armamenti, polizie, eserciti. Dietro di loro vi è, in definitiva, il potere.
Lo stesso vale per i partiti: pur svuotati di senso e screditati, oggi ancor più
che all’epoca di Weil, essi continuano ad esistere perché gestiscono denaro e
consensi: in breve, potere. Per una politica identificata con il potere e giocata
tutta nella lotta per la sua spartizione, i partiti sono una necessità.
Weil aveva in mente tutt’altra cosa: non solo la politica come arte di composizione
su piani multipli, dall’attenzione alla giustizia fino al discernimento delle più
minute circostanze, ma anche la possibilità per operai e contadini di dire la
propria esperienza senza prendere le parole in prestito da altri, la capacità di
formarsi un’opinione nello scambio con i propri pari, la circolazione di idee allo
stato fluido nei movimenti. In breve, una politica sganciata dalla lotta per il
potere. Quest’ultima, a causa dell’identificazione fra potere e politica, quasi non
si percepisce più nemmeno come politica.
Eppure, come il movimento delle donne ha giustamente rivendicato, si tratta in
realtà della politica prima. Questa nota di Simone Weil sulla soppressione dei
partiti politici rilancia il senso alto della politica prima e invita a prendere le
distanze da quella competizione per il potere a cui si è ridotta la politica a
causa della sua occupazione ad opera dei partiti.

di Wanda Tomasi

Opere dell'autore
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1930-1942, Sur la science, Parigi, Gallimard, 1966.


1932, L'Allemagne en attente, in La Révolution prolétarienne n. 138, ottobre 1932.
1933, Le rôle de l'U.R.S.S. dans la politique mondiale, in École émancipée n. 42,
luglio 1933.
1933, Allons-nous vers la révolution prolétarienne?, in La Révolution prolétarienne
n. 158, agosto 1933.
1933, Réflexions sur la guerre, in La Critique sociale n. 10, novembre 1933.
1933-1934, Leçons de philosophie de Simone Weil (Roanne 1933-1934), Parigi, Plon,
1959.
1933-1943, Oppression et liberté, Parigi, Gallimard, 1955.
1934, Réflexions sur les causes de la liberté et de l'oppression sociale, Parigi,
Gallimard, 1955.
1934-1942, La condition ouvrière, introduzione di Albertine Thévenon, Parigi,
Gallimard, 1951.
1936, La vie et la grève des ouvrières métallos, in La Révolution prolétarienne n.
224, giugno 1936.
1936-1942, La source grecque, Parigi, Gallimard, 1953.
1937-1938, Sur les contradictions du marxisme, in Oppression et liberté
1939-1940, L'Iliade ou le poème de la force, in Les Cahiers du Sud nn. 230-231,
dicembre 1940 e gennaio 1941.
1940-1941, L'agonie d'une civilisation vue à travers un poème épique, in Le génie
d'Oc et l'homme méditerranéen: numero speciale de Les Cahiers du Sud, 1943.
1940-1942, Cahiers, Parigi, Plon, 1951 (vol. 1); 1953 (vol. 2); 1956 (vol. 3).
1940-1942, La pesanteur et la grâce, introduzione di Gustave Thibon, Parigi, Plon,
1947.
1940-1943, Poèmes, suivis de Venise sauvée, Parigi, Gallimard, 1968.
1941-1942, Attente de Dieu, Parigi, La Colombe, 1950.
1941-1942, Intuitions pré-chrétiennes, Parigi, La Colombe, 1951.
1941-1942, Morale et littérature, in Les Cahiers du Sud n. 263, gennaio 1944
1941-1942, Pensées sans ordre concernant l'amour de Dieu, Parigi, Gallimard, 1962
1942, En quoi consiste l'inspiration occitanienne, in Les Cahiers du Sud n. 249,
agosto - ottobre 1942.
1942, Lettre à un religieux, Parigi, Gallimard, 1951.
1942-1943, La connaissance surnaturelle, Parigi, Gallimard, 1950[.
1942-1943, La personnalité humaine, le juste et l'injuste, in La Table ronde n. 36,
dicembre 1950.
1943, Écrits de Londres et dernières lettres, Parigi, Gallimard, 1957.
1943, L'enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l'être humain,
Parigi, Gallimard, 1949.
1943, Note sur la suppression générale des partis politiques, in La Table ronde n.
26, febbraio 1950.

Recensioni
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..: Una testimonianza di...Vita :..

Morte di Simone Weil: articolo di Jean Guitton apparso nel 1974 sull’Osservatore
Romano

Simone Weil, ebrea, drammaticamente vicina alla fede cristiana, nel maggio 1942 è
costretta a lasciare la Francia con la famiglia che cerca scampo in America alla
persecuzione razzista. Nel novembre 1942 torna a Londra, con l’intento di
aggregarsi ai reparti paracadusti del gen. De Gaulle per rientrare nella sua
patria, la Francia, ed ivi immolarsi per la sua liberazione. Ripetutamente chiede a
Maurice Schumann, suo amico , un intervento che l’autorizzi a questo passo; ma
Schumann glielo nega. Amareggiata per questo rifiuto e gravemente ammalata, si
lascia morire nel sanatorio di Ashford presso Londra il 24 agosto 1943. Di qui le
considerazioni svolte da Guitton.

Maurice Schumann, che un tempo fu ministro francese degli affari esteri, ha da poco
pubblicato un piccolo libro (“La mort née de leur propre vie: Péguy, Simone Weil,
Gandhi”. Fayard, 1974). Si tratta di meditazioni sulla morte, considerata nella sua
somiglianza a quella che sarà la morte per ciascuno di noi: il momento di
consumazione della vita, (la vita: questa dispersione!).
L’interesse di quest’opera, ove l’autore invidia “tre morti nate dalla vita” -
Péguy, Simone Weil e Gandhi - , deriva dal fatto che egli ha conosciuto
personalmente Gandhi, Péguy e Simone Weil; ma Simone l’ha conosciuta molto più che
gli altri due (compagni di scuola al liceo Henri IV, rimasero amici per
corrispondenza n.d.r.), essendo stato per così dire l’artefice indiretto della di
lei morte a Londra nel 1943.
Avevo letto il manoscritto di questo libro e avevo scritto una lettera discreta,
segreta, a Maurice Schumann nella quale gli esponevo i miei sentimenti sul suo
libro, ove si trova collocato marginalmente il mistero insondabile dell’Eucarestia,
che preoccupava Simone Weil.
Il ministro mi ha chiesto di pubblicare la mia lettera in calce al suo libro.
Eccola, dunque, poiché essa è stat ormai rivelata:
“È uno dei testi più belli su Simone Weil. È forse anche il più tragico? Si
potrebbe concludere di sì.
L’autore di questo testo è proprio colui che ha rifiutato a Simone Weil la sola
grazia che Simone Weil poteva augurarsi di ricevere da un altro uomo: quella di
morire in combattimento, faccia a faccia con Dio, “in una giusta guerra, grano
mietuto”. Questo uomo aveva nelle mani il destino di Simone Weil.
La situazione era analoga ed inversa alla famosa scena biblica del “sacrificio di
Isacco”; in questo caso è Isacco, cioè Simone, che domanda l’immolazione; ed è
Schumann, immagine contraria d’Abramo, che rifiuta l’olocausto.
E colui che ha rifiutato a Simone - figura dell’agnello - il fuoco e il coltello,
obbliga, senza volerlo e senza saperlo, il tenero e tenace agnello ad offrirsi lui
stesso in una sorta di morte volontaria.
È qui che interviene in una tragicità della quale né i Greci né gli Ebrei avevano
idea, poiché tanto Platone quanto Mosè condannavano la morte volontaria per
suicidio - ritenendo che Dio solo, Creatore della vita, deve decidere il tipo e
l’ora della morte. In effetti, Simone-agnello sceglie non di morire, ma di
lasciarsi morire attraverso una specie di sciopero della vita. Essa concepisce,
essa giustifica un atto che assomiglia al suicidio, ma che è simile anche al
martirio – un atto che è, come avrebbe potuto dire Simone Weil, un metaxu di
suicidio e di martirio: più prossimo al suicidio per gli occhi della società, più
vicino al martirio per gli occhi dei mistici. Non esiste illustrazione più
letterale della espressione paradossale di Teresa d’Avila: io muoio di non morire.
Ripeto: c’è veramente nella storia dei sacrifici un esempio così tragico ? E che il
ministro si interroghi su questo punto, e che si chieda se ha fatto bene a seguire
il consiglio di altri dopo trent’anni di silenzio, ciò conferisce alla sua
confessione una risonanza metafisica.
Signor Schumann, se voi aveste compreso il suo desiderio di martirio, avreste voi
forse permesso che essa soccombesse sulla terra di Francia, che essa fosse, come
Edith Stein, nel forno crematorio, una vera martire, una martire senza equivoco? Io
altro non aggiungo su questo mistero(...).
(…)Vorrei aggiungere un’ultima considerazione che riguarda la differenza tra Simone
Weil e Teresa del Bambino Gesù. Simone, nella sua così commovente immolazione, era
essa santa? Era essa totalmente purificata del suo amor proprio?
In lei, più che la santità stessa considerata nella sua essenza e nella sua
pienezza, io vedo un eroismo assoluto che va fino a toccare la santità, così come
il poligono disegnato nel cerchio tocca il cerchio.
È per questo che io terminavo la mia lettera a Maurice Schumann:
«E siete forse voi, caro ministro, voi che le avete impedito di venire in Francia a
morire martire, a rivelare meglio di ogni altro il lato “orgoglioso” della sua
natura. Essa sembra, talvolta, aver amato il sacrificio per se stesso, mentre è Dio
che è il padrone del sacrificio. Naturalmente io non parlo della sua intenzione,
tanto pura: io parlo del carattere esemplare della sua condotta.
La conclusione della vostra opera… è profonda. Essa rischiarerà di fuochi antichi e
nuovi questo problema insondabile del sacrificio assoluto e del ruolo della nostra
libertà nella nostra morte».
di Jean Guitton -1974

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