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“Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, i versi di

Montale delineano, in sintesi, la condizione dell’uomo (e nello specifico dell’intellettuale)


che, all’inizio del XX secolo, si trova in una condizione di smarrimento, di insicurezza, di
fragilità e che non può fare più alcuna affermazione sulla realtà se non “in negativo”. Il
tramonto dell’Ottocento porta con sé il tramonto delle certezze positiviste che, fino ad
allora, avevano “accompagnato” l’uomo e la società ora alla deriva, senza alcun punto di
riferimento. Ad inizio secolo un’ondata di cambiamenti senza precedenti investe,
trasformandoli irrimediabilmente, la società, la cultura, la storia, la scienza, l’arte, la
filosofia, la letteratura e soprattutto l’uomo. Origine di tale rivoluzione culturale è la crisi del
Positivismo, la filosofia che aveva dominato la seconda metà dell’Ottocento, figlia naturale
dell’ottimismo illuministico, le cui fondamenta avevano iniziato a sgretolarsi sotto
l’incalzare di trasformazioni culturali, storiche e sociali. Dal punto di vista storico, nella
prima metà del nuovo secolo l’uomo assiste impotente ad una serie di eventi “epocali”: il
primo conflitto mondiale, la creazione di nuovi equilibri europei, la crisi del 1929 e
l’emergere di conflitti sociali che porteranno all’ascesa dei regimi totalitari. Dal punto di
vista sociale l’emergere della classe borghese che, con la sua mentalità utilitaristica
imprime alla società una fisionomia in cui l’artista e lo scienziato non sanno più ove
collocarsi e che funzione svolgere. Ma è soprattutto dall’ambito scientifico che provengono
le novità maggiori e di maggior peso: anzitutto la teoria della relatività di Einstein che
mette in discussione le certezze scientifiche elaborate in precedenza dimostrando come la
ragione è lo strumento d’indagine che sottrae all’uomo sicurezze senza fornirgliene altre. A
destabilizzare ulteriormente l’uomo è poi Sigmund Freud con la scoperta dell’inconscio
che distrugge la fede nel libero arbitrio, sostituito da un mondo nuovo, “abissale”,
razionalmente inaccessibile all’individuo: l’uomo scopre di non essere libero e che ogni
suo gesto e/o scelta è pre-determinato da pulsioni che non può controllare. Infine Bergson
mette capo ad una visione-distinzione tra tempo interiore e soggettivamente misurabile e
tempo esteriore-spaziale oggettivamente misurabile, che tanta fortuna avrà poi nella
letteratura del Novecento.

 LETTERATURA ITALIANA
Questo vento di novità investe anche la produzione letteraria in cui i disagi, le difficoltà, lo
smarrimento dell’uomo novecentesco diventano le tematiche centrali delle opere di
maggior rilievo, in Italia e all’estero. Ne è un esempio evidente Italo Svevo che presenta
l’immagine di una nuova tipologia di uomo la cui caratteristica principale è l’inettitudine,
l’incapacità dell’individuo di relazionarsi con gli altri, con se stesso e con la società
borghese di cui fa parte ma che, al contempo, rifiuta. La galleria di inetti sveviani si snoda
attraverso tre romanzi Una vita (1892), Senilità (1898) e la Coscienza di Zeno (1923) .
Attraverso le personalità dei tre protagonisti: Alfonso Nitti, Emilio Brentani e Zeno Cosini,
Svevo delinea il ritratto, in fieri, dell’uomo a inizio Novecento approdando, con l’ultimo
lavoro, ad una conclusione che non conclude, lasciando aperta l’unica via di soluzione ad
una catastrofe cosmica figlia di Darwin e madre della “guerra sola igiene del mondo”.
Alfonso, Emilio e Zeno sono “idealmente” tre fratelli che, come tutti i fratelli, presentano
somiglianze e differenze tra loro. In Una vita (che nelle intenzioni di Svevo si sarebbe
dovuto intitolare non a caso Un inetto) Alfonso tenta, all’inizio, di migliorare la propria
condizione sociale ed economica abbandonando il suo paese per lavorare a Trieste
presso la Banca Maller. È un uomo semplice, di buona cultura, un esponente della piccola
borghesia impiegatizia che vede il proprio lavoro come arido ed inappagante e che si
attacca, come ad un’ancora di salvezza, alla propria cultura umanistica in urto però con i
valori borghesi di concretezza e solidità. Alfonso si limita a sognare il successo senza
muovere mai un dito per ottenerlo e quando gli si offre l’occasione per cambiare vita ed
entrare a pieno titolo nell’alta borghesia “forte e sicura” che ammira ma in cui non si
riconosce, si lascia irrimediabilmente sfuggire di mano questa occasione per poi porre fine
alla propria esistenza con il suicidio. Alfonso è il contemplatore schopenhaueriano per
eccellenza, l’eccesso di pensiero indebolisce-annulla la sua capacità di agire e quando si
rende conto che non potrà mai essere un “lottatore” decide di porsi fuori dalla lotta per la
sopravvivenza. Nel suo secondo romanzo la dimensione sociale passa in secondo piano
rispetto a quella individuale e psicologica; Emilio è “fratello carnale” di Alfonso, è inquieto,
debole, insicuro, ha un’ottima cultura di stampo umanistico, è un impiegato piccolo
borghese che vede nel proprio lavoro una limitazione e un’oppressione, così come vede
nelle vite degli altri uno strumento per far risaltare ulteriormente la propria inettitudine. Una
differenza fondamentale è nel fatto che Emilio questa volta non è solo nella propria
“incapacità di agire”, ha una sorella Amalia che condivide con lui questa caratteristica,
limitandosi a sognare un amore impossibile, senza mai verificarne, di fatto l’impossibilità,
fino ad uccidersi con l’etere. A questa coppia di inetti fa riscontro la coppia dei lottatori
Stefano Balli (amico di Emilio) e Angiolina (ex amore di Emilio) che sanno affrontare la vita
e buttarvicisi senza farsi bloccare da timori e paure. Emilio, preso atto della propria
incapacità a vivere, si ritira a vivere un’esistenza da vecchio, senza più progetti e
aspettative, già vecchio a soli 35 anni, da cui il titolo del romanzo. L’ultimo protagonista
sveviano, Zeno Cosini, è un inetto “cresciuto”, alto borghese, che, socialmente, avrebbe
tutte le carte in regola per essere un “vincente” ma è inesorabilmente vittima della sua
inettitudine, incapace di scegliere e di agire; Zeno lascia che sia la vita a scegliere al suo
posto e cerca, con la cura psicanalitica cui si sottopone, un capro espiatorio per le sue
mancanze, individuandolo nel vizio del fumo (“perché è bello sentirsi grandi di una
grandezza latente…”) mentre una serie di atti mancati (mancata partecipazione al funerale
di Guido, difficoltà nella scelta della moglie…) mostra quali siano le sue intenzioni reali.
L’elemento che però contraddistingue nettamente Zeno rispetto agli inetti che lo
precedono è l’uso dell’ironia, il punto di vista da cui il protagonista osserva se stesso e la
realtà che lo circonda, ciò gli è consentito dalla sua posizione sociale privilegiata che lo
pone al di fuori della lotta per la sopravvivenza. A differenza di Alfonso ed Emilio, Zeno
analizza se stesso più che la società borghese che lo circonda utilizzando la psicoanalisi;
l’esito di questa auto-analisi lo porta alla conclusione di essere malato e di non essere il
solo: tutta la società, tutta l’umanità sono malate perché la vita, in sé, è “una malattia
mortale, non sopporta cure e che qualunque sforzo di darci la salute è vano”. Il romanzo si
conclude in maniera completamente diversa rispetto ai precedenti, con una conclusione
non tragica o passiva ma quasi “futurista”: “Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta
dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo
[…] inventerà un esplosivo incomparabile. Ed un altro uomo […] ruberà tale esplosivo e
s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il
massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di
nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”.
In Italia, oltre a Svevo, anche Pirandello analizza, nelle sue opere, il rapporto tra l’uomo e
la società e propone la figura dell’inetto. Alla base della visione pirandelliana vi è la
concezione vitalistica della realtà (Cfr. Bergson ed Eraclito di Mileto): la vita è un eterno
divenire e noi stessi siamo parte di questo fluire incessante ma tendiamo a cristallizzarci in
una forma che noi stessi siamo costretti a darci in quanto inseriti in una società all’interno
della quale ciascuno ha un ruolo, una parte assegnatagli. Ognuna di queste forme è una
maschera, la vita, che è fluida, tende ad uscire dalla prigionia della maschera ma,
quand’anche trova una via di fuga, questa consiste nell’indossare un’altra maschera.
L’uomo è sempre prigioniero della sua forma sociale e ogni tentativo di uscirne si risolve
sempre e comunque in un’altra forma di prigionia: si fugge da un carcere per entrare in un
altro! Non siamo però solo noi a fissarci in una forma, anche gli altri ci vedono ciascuno
secondo una propria prospettiva, noi che crediamo di essere uno, siamo in realtà tanti
individui diversi a seconda del punto di vista di chi ci osserva (in “centomila” modi diversi
che spesso si annullano tra loro”). L’Io si smarrisce, si disgrega, si frantuma e non è più
possibile darne una definizione, l’individuo che prende coscienza di essere “nessuno”
avverte uno stato di smarrimento, dolore e solitudine. La crisi dell’identità individuale è il
tema centrale di “Uno, nessuno e centomila” (1926): il protagonista, Vitangelo Moscarda,
scopre, da una banale osservazione della moglie sul suo aspetto fisico, che esistono
“infiniti” Moscarda, diversi tra loro, a seconda della visione che ne hanno le persone che
lo conoscono, in primo luogo la moglie. Questa scoperta causa in lui l’orrore per le forme
in cui lo intrappola la società che finisce con l’annullarne l’identità, decide pertanto di
distruggere tutte le immagini che gli altri si sono create di lui, cerca la soluzione per far sì
che le diverse identità finiscano per coincidere con una sola su cui tutti siano concordi. Il
protagonista inizia così una serie di gesti sconsiderati, folli, imprevedibili fino ad essere
ritenuto pazzo. Soddisfatto di questa conclusione che non conclude, Gengè accetta di
rinascere ogni giorno “nuovo e senza ricordi: vivo, intero […] in ogni cosa fuori”, in una
fusione panica con la natura, in esilio volontario dalla società e dalla comune visione degli
uomini. Solo distruggendo il proprio passato e l’immagine che gli altri hanno di lui
Moscarda può recuperare la via della salute, rifiutando maschere e ruoli che non conosce
e che rifiuta. Quello che Mattia Pascal aveva solo tentato Vitangelo Moscarda realizza
nella sua pienezza. Quello che per Pascal è il punto d’arrivo per Moscarda è il punto di
partenza di una rivolta consapevole. In questo atteggiamento ribelle il personaggio
pirandelliano è molto diverso dai personaggi sveviani (cui pure è accomunato
dall’inettitudine) che tendono ad accettare passivamente la realtà. Anche Mattia Pascal,
che segna la nascita del “personaggio” pirandelliano privo di un’identità definita, dopo una
tentata rivolta si rassegna passivamente a vivere una vita da “morto vivente”. Il romanzo
del 1904 narra la vicenda di un uomo che oppresso dalla situazione famigliare, approfitta
di un’inattesa vincita al casinò e del ritrovamento di un suicida erroneamente identificato
come Mattia Pascal, per cercare di cambiare vita. Cambiati connotati e nome in Adriano
Meis, ben presto però si rende conto dell’impossibilità di vivere al di fuori di ogni norma o
legge sociale. Tornato a Miragno per riprendere la propria identità, il protagonista si rende
conto che la situazione è cambiata, per lui non vi è più posto, una volta usciti da una
maschera non è possibile rientrarvi. Per sopravvivere deve adattarsi ad essere il fu Mattia
Pascal sopravvissuto a se stesso. Nel romanzo troviamo già le linee di fondo della poetica
pirandelliana: la trappola delle istituzioni sociali che imprigionano il flusso vitale, la crisi
dell’identità individuale, l’uso dell’ironia (che lo accumuna a Zeno Cosini) come sentimento
del contrario con cui osservare la realtà. Mattia Pascal si limita a una definizione in
negativo di sé, si ferma alla pars destruens ma non va oltre, sa solo ciò che non è più non
ciò che vorrebbe essere, è un eroe provvisorio che si realizzerà pienamente solo con il
Gengè di “Uno, nessuno, centomila”. Altro eroe ribelle di Pirandello è Belluca della novella
“Il treno ha fischiato” (1914) in cui si racconta dell’inusitata ribellione di un impiegato
piccolo borghese, afflitto da insopportabili miserie, frustrazioni e sofferenze. La sua
condizione sociale è emblema di una condizione metafisica dell’uomo imprigionato nella
trappola della forma-maschera imposta dalla società. Il fluire libero e gioioso della vita è in
lui mortificato perché prigioniero di un meccanismo ripetitivo e alienante che lo soffoca e
che il fischio di un treno fa tornare prepotentemente alla luce. Belluca e la sua esistenza
sono “raccontate” con la tecnica dell’umorismo, il protagonista è presentato come un
personaggio buffo, grottesco, scomposto anche nella sua ribellione, la sua situazione
famigliare e lavorativa sono al limite del paradosso; in questa condizione in cui a vivere è
solo la maschera e non la vita “vera”, Belluca ha una rivelazione, un’epifania di una realtà
che era stata accantonata, dimenticata, un fatto banale come il fischio di un treno diviene il
deus ex machina perché l’eroe prenda coscienza della vita che fluisce al di fuori di lui. La
sua reazione, per certi versi naturale, è da tutti vista come una reazione, folle,
sconsiderata che ne fa il “progenitore” in tono minore di Vitangelo Moscarda. La presa di
coscienza di Belluca non si traduce in una accettazione passiva della realtà (Cfr. Emilio
Brentani, Mattia Pascal) e neppure in una rivolta totale alla società (Cfr. Uno, nessuno,
centomila), ma nella capacità di sopportare la meccanicità della forma grazie ad una
valvola di sfogo: la fantasia. L’evasione gli consentirà di sopportare meglio il peso delle
forme sociale che lo imprigionano. La sua presa di coscienza non lo porta ad
atteggiamenti eversivi, ciò ribadisce l’attaccamento alla maschera di cui non si può fare a
meno e il fatto che l’immaginazione abbia solo un valore consolatorio.
A prima vista potrebbe sembrare che gli inetti protagonisti dei romanzi primonovecenteschi
sopra analizzati siano eredi dei vinti di Verga anche tenendo conto del fatto che sia Svevo
che Pirandello all’inizio utilizzano moduli veristi per la descrizione degli ambienti borghesi.
Vinti e inetti sono accomunati dal fatto di essere sottoposti a un fato implacabile, che non
ammette libere iniziative, di essere sconfitti da avvenimenti esterni che non riescono ad
affrontare, sia per mancanza di forza che per mancanza di decisione, di scontrarsi con una
realtà immutabile. Tuttavia tra i vinti verghiani e gli inetti del Novecento vi è una
sostanziale differenza: nonostante le ripetute sconfitte i vinti restano legati a un patrimonio
di valori, miti e credenze che danno loro la forza per andare avanti, invece gli inetti non
hanno più miti o valori cui aggrapparsi perché “distrutti” dalla ragione positivista, pertanto
sono privi di qualunque punto di riferimento e, paradossalmente, la loro unica certezza è
proprio la loro inettitudine (Zeno) o la tanto odiata maschera (Pirandello). Resosi conto
dell’arido panorama umano che la letteratura (e non solo) aveva portato alla luce,
Pirandello, nell’ultima fase della sua produzione drammatica (Lazzaro, La nuova colonia, I
giganti della montagna) riafferma la necessità dei miti (leggi, religione, patria, famiglia,
amore, arte, maternità.) purchè vissuti con purezza d’intenti, senza ipocrisie e
strumentalizzazioni; dopo aver distrutto e sgomberato il campo dalle falsità, una
ricostruzione appare come necessaria, la pars destruens non può essere fine a se stessa
ma deve essere il punto di partenza per l’elaborazione di una nuova società che deve
nascere sulle macerie della precedente.

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