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VITTORIO ALFIERI

La solitudine pervade tutta la vita di Vittorio Alfieri e nelle sue opere prende forma letteraria,
autobiografica o tragica, traducendosi in poesia.

Le ragioni di questa solitudine assoluta sono molteplici e dipendono in parte dal carattere di Alfieri
(brama di libertà assoluta e di affermazione della propria individualità) e dalla sua avversione
per il suo secolo, in parte dalla sua concezione della politica e del ruolo dello scrittore.
Dalla sua autobiografia emerge un carattere orgoglioso e appassionato, caratterizzato da uno
spiccato amore di sé e da una profonda malinconia sempre incombente, aspetti acuiti da
un’esistenza solitaria fin dall’età più tenera. Tutti questi tratti emergono prepotentemente nelle
Rime: nel suo autoritratto Alfieri si descrive giocando su dolorose dicotomie e contrasti intimi,
definendosi pallido in volto, più che un re sul trono (pallore che nei tiranni alfieriani è simbolo di
malvagità, insicurezza, sospetto, ma soprattutto della profonda solitudine di chi si vede umanamente
circondato dal deserto); un altro sonetto si apre sottolineando aspramente inquietudine e solitudine:
solo, fra i mesti miei pensieri [...] mi empiva il cuor [...] d’alta malinconia, mentre Le pene mie
lunghissime son tante registra l’affannosa fuga del poeta da ogni luogo (misera vita strascino ed
errante), nel tentativo di scampare all’ostilità che percepisce ovunque, ma incapace di guarire dal
contrasto interiore che lo lacera (d’atri pensieri irrequieti pieno).

L’isolamento non è solo relativo ai legami umani, ma anche intellettuali: Alfieri coltiva infatti un
fiero disprezzo per i suoi contemporanei, philosophes illuministi, e per tutto il suo secolo. Esprime
il suo anti-illuminismo con forza: ha scarsi legami con la storia e la cultura contemporanea, propone
solitudine e isolamento dello scrittore contrastando la civiltà illuministica attiva nel mondo; cerca
conferme al suo modo di sentire nel passato (Plutarco, Machiavelli, Dante, Petrarca, Ariosto,
Tasso).
Oppone all’umanitarismo illuministico il sogno di individualità eroiche, al cosmopolitismo la
constatazione che in nessun luogo c’è patria: è un aristocratico estraneo alla propria classe ormai
asservita al potere del monarca assoluto, ma alieno anche alle ambizioni della borghesia,
un’individualità solitaria, sintomo di crisi sociale: il distacco dal proprio ceto, lo sradicamento,
l’esilio (spiemontizzazione) sono una lotta per spezzare i legami con un paese arretrato e chiuso, per
poi ricostruirsi una vita grazie alle lettere e alla donna che ama (Luisa Stolberg, contessa d’Albany).

L’individualità di Alfieri cerca nella libertà da ogni vincolo la possibilità di indipendenza,


“distacco liberatore”. Il suo continuo viaggiare per spezzare ogni legame lo porta a essere ovunque
straniero. Il poeta non è più interprete di una fede o di un sentire comune, ma ricerca in se stesso,
nella propria solitudine la misura: l’affermazione individuale e l’esaltazione orgogliosa della
propria singolarità sono un tentativo di andare oltre la solitudine, ma nondimeno la confermano
tragicamente.
Oppone allo spirito sociale una solitudine tragica; si oppone a filantropi e a oppositori di schiavitù,
tortura, pena capitale, privilegi feudali, rifiuta l’idea egualitaria e difende diritto a ricchezza di pochi
e privilegio di nascita: la filosofia poi è privilegio di pochi spiriti grandi, non dev’essere estesa a
tutto il popolo.

Nel sonetto Tacito orror di solitaria selva esprime uno stato di sofferenza storica, dichiarando che
si può raggiungere una dolce tristezza solo nella solitudine della natura selvaggia: Non ch’io gli
uomini aborra, e che in me stesso/mende non vegga, e più che in altri assai;/né ch’io mi creda al
buon sentier più appresso:/ma, non mi piacque il vil mio secol mai/e dal pesante regal giogo
oppresso,/sol nei deserti tacciono i miei guai. La solitudine è l’unico sedativo per i tormenti di
Alfieri.
Ciò nonostante, pur essendo una figura atipica, appartiene a Settecento (non a quello moderato e
riformista, ma a quello più radicaleggiante). I miti illuministici della ribellione, dell’anelito a un
avvenire migliore, della liberazione dai ceppi trovano in Alfieri una formulazione estremista, che lo
porta a un sentimento preromantico (affine a contemporanei tedeschi dello Sturm und Drang) che
emerge nel distacco dalla vita reale, nella solitudine, nell’intellettualismo e che fa prevalere
sentimento appassionato sulla cauta riflessione e sulla Ragione illuminista, un pessimismo
eroico sull’ottimismo attivo, esaltazione di un’individualistica assoluta libertà che non può
trovar posto nella storia. Gli aspetti di tensione alla libertà che voleva ricreare, pur ispirandosi a
un passato mitizzato, nel presente e nel futuro, insieme alle istanze titaniche, individualistiche,
liriche, collocano Alfieri tra Illuminismo e Romanticismo.

Alfieri lotta per difendere, contro ogni oppressione interna ed esterna, la propria libertà
spirituale, che è indipendenza, affermazione di sé, presupposto e ragione dell’esistenza,
energia di ostare al destino e trasformare la storia.

 Nel trattato Della tirannide Alfieri sostiene che tirannicidio, suicidio o un isolamento assoluto
simile alla morte sono i soli modi per conquistare la libertà in un regime tirannico. Ma ogni
società statale è per Alfieri tiranna e nemica della libertà: la libertà non può riconoscersi in
nessun ordine politico perché ogni potere, ogni governo è facoltà illimitata di nuocere, la
paura è alla base di ogni società statale, nemica della libertà.
Il radicalismo del nobile e sdegnoso poeta astigiano, la sua incapacità di inserirsi in un
qualsiasi contesto sociale, lo rendono un uomo irrimediabilmente solitario.
Il desiderio di libertà che muove l’impulso riformatore e sociale illuministico si trasforma in
esaltazione di un prepotente individualismo. La libertà è “divina fiamma” che arde nel cuore
dell’eroe, che sa ergersi solo e ribelle sulla massa e anela a infrangere i limiti che gravano sulla
sua individualità. Ma questa passione è impossibile a realizzarsi e porta a una tesa pena interiore
che spinge i personaggi alfieriani a un “sublime appetito di morte”, unica possibile risposta al
loro anelito.

 Nel trattato Del principe e delle lettere si ha l’affermazione del valore morale delle lettere,
indipendenti da qualunque potere e avverse a qualunque mecenatismo. Esse consentono la
realizzazione di una libertà metastorica e intraducibile in termini politici, irrealizzabile tra
gli uomini. Alfieri sostiene che le lettere sono l’unica azione libera concessa, il solo modo per
esprimere la propria volontà di indipendenza e il letterato è libero uomo, guida e pungolo
dei popoli, maestro dell’indipendenza, che conquista posizione di avanguardia e di
preminenza nella storia. L’idea del libero scrittore coniuga la tradizione umanistica
secondo cui le lettere danno vita immortale e glorificano; la fiducia illuministica nella
missione rischiaratrice delle lettere; la romantica affermazione dell’individualità del poeta
che è libertà assoluta da ogni legame. Il letterato è responsabile solo davanti alla propria
coscienza e ha una missione da svolgere tra gli uomini: incentivo alla verità e alla virtù,
strumento che consenta agli uomini di riconoscere i loro diritti, di ripigliarseli e di
difenderli. I veri scrittori, alimentando il culto del vero, del grande, dell’utile, del retto e della
libertà che da questi tutti deriva, sanno rappresentarlo e scolpirlo nel cuore dei popoli.
Il libero scrittore e poeta maestro di libertà sfoga nelle lettere il suo profondo sentire, sa
altamente immaginare ed esprimere, ritrova in sé l’eroe che vuol dipingere: è l’antagonista di
colui che riassume tutti gli ostacoli alla libertà: il tiranno. La lotta rivoluzionaria contro la
tirannide emerge come esigenza inevitabile e dovere irrinunciabile, come l’affermazione della
libertà.

Ma questo potere di esprimere se stessi e la propria più libera e profonda immaginazione, riuscendo
a toccare le vette più alte dell’essere uomini, questo potere di generare un’immagine compiuta e
perfetta di umanità, da trasmettere, vibrante di energia, ai posteri… conduce a un orrido deserto
paragonabile a quello in cui si ritrovano gli eroi tragici. Perché per essere veramente eroi, per
essere veri uomini, per essere davvero liberi, è necessario essere soli. Il prepotente
individualismo alfieriano, assetato di una libertà che è impossibile conseguire nel mondo reale, lo
porta a racchiudersi in se stesso e a proporre la solitudine e l’isolamento dello scrittore, che non è
più interprete di una fede o di un sentire comune (come l’intellettuale medioevale, rinascimentale o
illuminista), ma è un uomo solo che ricerca in se stesso, nella propria solitudine la misura:
l’affermazione individuale e l’esaltazione orgogliosa della propria singolarità sono per Alfieri un
tentativo di andare oltre la solitudine, ma nondimeno la confermano tragicamente.

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