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700- 800
Lingua Italiana
Università degli Studi di Bari Aldo Moro
11 pag.
VITTORIO ALFIERI, DELLA TIRANNIDE Del principe e delle lettere, La virtù sconosciuta
INTRODUZIONE DI CERRUTI.
La scrisse nel 1777, ispirato da Machiavelli. Nell'opera Alfieri effondeva le tensioni dell'io e i risultati di un'esperienza
di riflessione, avviata dal 69 con la lettura di Plutardco e di altri filosofi contemporanei (Rousseau, Voltaire,
Montesquieu), proseguita nel 1773 a contatto con gli intellettuali torinesi e arricchita nello stesso 77 con la
frequentazione di amici tra cui rientra Francesco Gori Gandellini, e l'assimilazione, suggerita da questi ultimi,
dell'opera di Machievelli come impulso all'azione in prospettiva repubblicana. Si era venuta definendo così una visione
delle cose in linea con l'Illuminismo del tempo, costituita da una parte di un universo negativo al cui centro si trova la
tirannide (corruzione, decadimento e degradazione) e dall'altra dall'esigenza/urgenza di rovesciare quella realtà
negativa, riaffermando contro di essa i diritti della natura e dell'uomo.
Alfieri ideava il secondo trattato, "Del principe e delle lettere" a Firenze nel 78. Fra i due saggi vi sono due tragedie:
"Agamennone" e "Virginia", con caratteri fortemente politico-civili.
La tirannide dunque, o monarchia assoluta, è per ogni riguardo un male, in quanto contraria alla natura e ai naturali
diritti dell'uomo e come tale va contrastata e combattuta.
In che modo e per virtù di chi mai potrà di fatto avvenire l'esperienza liberatoria? L'homme de lettres. Di qui l'esame
di come l'intellettuale-scrittore possa assolvere a questa fondamentale funzione di illuminazione e di stimolo.
Così come la "Tirannide" anche "Del principe e delle lettere" ebbe un'elaborazione prolungata e complessa: fu lasciato
in sospeso nel 78, fu poi concluso fra l'85 e l'86, e fu stampato nell'89.
Altre opere di Alfieri sono "L'Etruria vendicata" (in cui si discute sull'assassinio di Alessandro dei Medici per mano di
Lorenzo e quindi strettamente legato alla problematica dei due trattati, di cui un titolo pensato fu "Il tirannicidio") e il
"Panegirico di Plinio a Traiano" del 1785 (in cui Alfieri afferma di aver trovato e tradotto il panegirico di Plinio il
Giovane a Traiano, in cui si chiedeva di rendere al popolo di Roma l'antica "libertà").
Al Panegirico poi Alfieri aggiunse l'ode "Parigi sbastigliato" (fatta perchè si trovò testimone oculare di quei momenti) e
la favoletta "Le mosche e l'api" (in cui vi è la riflessione sulla possibilità di riuscita di una rivoluzione in cui le deboli
mosche, i francesi, riescano ad affermarsi più forti e privilegiate rispetto alle api, gli inglesi).
Fra l'85 e l'86 lo scrittore si trovava in Alsazia e fu questo un momento di intenso lavoro poetico-letterario,
accompagnato da forti disturbi psicosomatici (crescente stato depressivo). Appartengono a questo periodo la tragedia
"Mirra" e la conclusione "Del principe e delle lettere" e la stesura de "La virtù sconosciuta".
Nel mentre di quegli anni difficili (rivoluzione americana e francese) e forse aiutato dalla depressione che spesso fa
veder meglio le cose, Alfieri si ritrovava dinnanzi a due scelte: da una parte l'ipotesi utopico-libertaria affidata ad un
futuro su cui scommettere, dall'altra una seria esperienza di riflessioe e autoanalisi, uno stacco da un presente meno
decifrabile e frastornante.
Alfieri stesso dichiara che il motore di questi libri fu l'impeto di gioventù, l'odio dell'oppressione e l'amor del vero.
LA VIRTU' SCONOSCIUTA
(La virtù sconosciuta è un'operetta in forma di dialogo composta da Alfieri durante il soggiorno in Alsazia nel 1786, e
stampata la prima volta nel 1788 (ma con data 1786). L'autore immagina che compaia dinanzi a lui l'ombra di
Francesco Gori, suo amico carissimo da poco scomparso. Nel dialogo sono messi a confronto due scelte di vita: quella
del poeta che si fa carico di una missione pubblica di verità e quella di chi invece spende la propria grandezza
nell'intimo dell'animo e dei pochi rapporti privati. Il confronto dà occasione all'Alfieri di ritornare sui temi
fondamentali del suo pensiero: la libertà dell'individuo di fronte al tiranno, l'ignavia della grandissima maggioranza
degli uomini ("la folla dei nati-morti"), il disinganno della gloria. Lo stile, sostenutissimo, dà alla prosa cadenze ritmiche
prossime a quelle della poesia.)
IL PENSIERO POLITICO-LETTERARIO: I TRATTATI: "DELLA TIRANNIDE", "DEL PRINCIPE E DELLE LETTERE" E ALTRE
OPERETTE
La narrazione della "Vita" è significativa per cogliere il suo atteggiamento nei confronti di uomini e istituzioni del
proprio tempo. atteggiamento di sdegno e di repulsione verso le contemporanee monarchie, illuminate o no.
In sostanza la polemica di Alfieri è interna alla stessa classe nobiliare e investe l'istituto monarchico in quanto causa
prima della sua decadenza. L'Alfieri fuoriesce dalla sua classe perchè non accetta il ruolo decorativo della nobiltà.
Eppure la sua cultura politica è prevalentemente illuministica: Montesquieu, Voltaire, Rousseau sono gli scrittori sui
quali si è formato. Al primo strato culturale poi se ne aggiunge un secondo di origne classicista che indirizza Alfieri
verso la costruzione del suo sogno di gloria e di libertà. Principalmente Plutarco, a lui risalgono l'ardore di gloria,
l'ammirazione per la virtù e l'eroismo, l'entusiasmo per la libertà e l'odio tirannico.
DELLA TIRANNIDE,
l'opera è dedicata alla libertà. Nel primo libro Alfieri definisce il tiranno come un re posto al di sopra delle leggi e di
ogni potere. Definisce così "cosa sia la tirannide": ogni governo in cui chi è preposto all'esecuzione delle leggi, può
farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, inpedirle, sospendere o anche soltanto deluderle con sicurezza
d'impunità. Il tiranno è un "infrangi-legge"ed ogni società che lo ammette è tirannide, ogni popolo che lo sopporta è
schiavo. Aggiunge poi che tutta l'Europa è sotto il torchio della tirannide monarchica (esclusa l'Inghilterra) che si fonda
sulla reciproca paura dell'oppresso e dell'oppressore.
DELLA PAURA:
distingue la paura in paura dell'oppresso e paura dell'oppressore. L'oppresso teme l'assoluta volontà dell'oppressore.
Dovrebbe però nascere, se l'uomo ragionasse, una disperata risoluzione a non voler più soffrire eppure al contrario
nell'uomo schiavo e oppresso dal continuo temere nasce sempre di più la cieca obbedienza e la sottomissione al
tiranno. Anche l'oppressore teme, e teme la coscienza dell apropria debolezza effettiva. La conseguenza del timore del
tiranno è simile in un senso contrario a quella del suddito in quanto nè egli nè i popoli non correggono questo loro
timore come per natura e ragione dovrebbero fare.
Aggiunge poi che il timore ed il sospetto siano indivisibili compagni di forze illegittime.
Non esistono monarchi buoni (buon principe)
Altri puntelli della tirannide sono la religione, il falso senso dell'onore e la nobiltà ereditaria, la quale è invece sempre
la più corrotta. Ulteriore sostegno della tirannide è il lusso: non può esserci vera libertà dove c'è eccessiva disparità di
ricchezze.
Nel secondo libro l'autore discute il modo come si possa sopportare la tirannide o si possa scuoterla. L'unica soluzione
per un uomo libero è quella di restare lontano dai tiranni e dalle sue cariche, oltre che dai suoi vizi, e dedicarsi al
pensare, al dire e allo scrivere.
C'è poi un mezzo per rovesciare la tirannide, ed è il tirannicidio.
DEL PRINCIPE E DELLE LETTERE:
Iniziato nel 1778, portato a termine nel 1789. Dopo la dedica ai principi che non proteggono le lettere, si discute se il
principe (sinonimo di tiranno) debba proteggerle. L'autore consiglia di si; infatti i letterati protetti arrecano al principe
gloria, i negletti gli portano discredito. Bisogna però distinguere tra letterati liberi e non liberi: i primi vogliono
arrecare agli uomini "luce, verità e diletto" all'altro interessa solo la propria potenza.
1795: prima edizione delle Prose Campestri. Le Prose e le Poesie furono composte nell’estate del 1785 ad Avesa, sui
colli veronesi. In una lettere ad Amaduzzi Pindemonte chiede l’invio di un catalogo di scritti di argomento campestre,
in vista di una stesura di un’operetta sul tema.
Nonostante le Prose videro la luce nel 1788, delle Prose si ha notizia solo a partire dal 94.
La grande fioritura della letteratura descrittiva del secondo 700 è riconducibile al rinnovamento dell’Idillio e si ispirò
alla tematica campestre, venata di accenti elegiaci, offerta dalle opere di T. Gray, dagli idilli di Gessner e dalla poesia
stagionale di Thomson. Di questa temperie culturale si rese interprete e mediatore in Italia il Bertola, il quale
introdusse il tema del superamento della tradizione arcadica nell’ottica del ritorno alle pure sorgenti (teocrite e
virgiliane della poesia campestre) interpretate alla luce della lezione poetica ed estetica del Gessner, come vie
d’accesso alla Natura.
Le Prose e le Poesie campestri sono fiorite nella prima metà degli anni 80 in un’area culturale (Verona) caratterizzata
dalla presenza di un ceto nobiliare attivo ed illuminato. La formazione intellettuale del Pindemonte avvenne dunque in
un ambiente impegnato in una complessa mediazione tra la grande tradizione filologico-erudita e le nuove prospettive
aperte dalla cultura europea, di cui si discuteva nei centri dell’intellettualità aristocratica.
I viaggi giovanili arricchirono la formazione intellettuale di Pindemonte, rispecchiando l’esigenza di una sintesi
equilibrata tra l’approfondimento della cultura classica e l’attenta assimilazione degli innovatori dell’illuminismo.
Il viaggio del 1788 nell’Italia settentrionale consentì a Pindemonte di entrare in contatto con i circoli illuministi della
Lombardia, offrendogli l’opportunità di conoscere Parini, Biffi, l’Accademia dei Pugni e “Il Caffè”. La frequentazione
degli ambienti riformatori lombardi e parmensi contribuì a rafforzare in lui le tendenze moderatamente illuministiche,
inducendolo a privilegiare quell’ideale agrario di ascendenza fisiocratica ritorno all’innocenza virtuosa della vita
rustica di cui la poesia campestre rappresenta l’espressione letteraria. Su questa prospettiva influì la riflessione critica
del Bertola.
Il luogo d’elevazione per una pratica letteraria intesa a sottrarre dalle aporie della storia la sfera della soggettività
interna, restituendola nell’esercizio libero e gratificante dell’invenzione, è dunque costituito dal ritiro campestre.
Di questa immagine “euforica” della natura, propizia all’immaginazione, Pindemonte tende a dare un’interpretazione
in chiave neoclassicheggiante, proponendone la rilettura sulla falsa riga dei classici latini e greci. Di qui la portata
emblematica della citazione teocridea posta ad apertura delle campestri, configurate alla luce dell’antichissimo topos
letterario del locus amoenus, rivissuto neo classicamente come spazio propizio al contatto vitale con la natura
ricondotta alla sua essenza originaria, alla semplicità.
L’itinerario pindemontiano in direzione di questa utopia di virtù e felicità muove dalla delineazione di un ideale di vita
solitaria inteso a ricomporre l’unità del mondo interiore compromessa dai condizionamenti sociali. La solitudine
esercita dunque un’azione terapeutica, nella misura in cui egli gli consente di riconquistare la propria identità perduta.
Con la solitudine si può raggiungere la “enkrateia”, un autodominio etico-intellettuale che gli consente di guardare al
proprio “in sé” con un atteggiamento di sereno distacco.
Analogamente, nella stesura tematica delle poesie campestri motivi oraziani e stoico-epicurei convergono a comporre
l’immagine della “beata solitudo” del saggio a contatto con la natura.
Il ritiro campestre tende dunque a configurarsi come spazio propizio alla sperimentazione di un'ipotesi di esistenza
che si costruisce interamente in base ai precetti della Sapienza antica, e quindi si dispone in un arco di tempo che dal
passato si estende al futuro, sfuggendo alla stretta del presente.
La vita solitaria del Saggio ha valenza utopica ed essa risiede nella denegazione del presente, utopia volta
all'instaurazione di una felicità "negativa", mirante ad estinguere ogni fonte di piacere e di desiderio al fine di porre la
coscienza in una condizione di atarassia che renda impercettibile ai sensi il confine tra la vita e la morte.
Le Poesie campestri si configurano come metafora letteraria del viaggio dell'"io immaginario" pindemontiano alla
ricerca di una Saggezza che, nel definirsi in opposizione allo stile di vita "innaturale" della nobiltà cittaina, già
satireggiata dal Parini nel "Giorno", rivela un'ambiguità insidiata dall'inquieta consapevolezza dell'instabilità della
psiche.
Sottratto all'inafferrabile mutevolezza del tempo storico, il mondo del Saggio tende così ad uniformarsi al ritmo dei
cicli stagionali; lo sguardo del Saggio si posa sugli spettacoli offerti dalla natura nelle diverse parti del giorno e col
variare delle stagioni.
Come la malinconia thomsoniana, propizia alla penetrazione dell'essenza segreta della natura, anche la melanconia
pindemontiana tende a configurarsi come stato d'animo atto a conferire allo sguardo del Saggio una sorta di
Nel 1788, a pubblicazione avvenuta delle Poesie campestri, Ippolito iniziò il grand tour europeo che nel corso del
triennio successivo gli consentì di verificare le prospettive dischiuse alla virtù da una congiuntura storico-culturale che
sembrava propizia all'inveramento delle attese ideali suscitate dall'illuminismo. La lezione di vita scaturita dalle
molteplici esperienze politiche e culturali compiute da Pindemonte nel corso del viaggio, è affidata alle annotazioni
contenute nelle "Memorie sopra alcuni viaggi" e trova espressione narrativa nel romanzo satirico di ispirazione
autobiografica "Abaritte. Storia verissima", composto nel 1790.
Le "Memorie" e "Abaritte" consentono di ricomporre nei suoi tratti essenziali il complesso itinerario etico-intellettuale
destinato a sfociare dopo l'esperienza decisiva della Rivoluzione francese, nella stesura delle Prose campestri.
Nelle "Memorie" egli diede prova di una acuta intelligenza storica, individuando le cause principali della Rivoluzione
nell'atteggiamento del dissesto finanziario e nella diffusione delle idee illuministiche presso i ceti colti, politicamente
favorevoli al costituzionalismo britannico ed animati dalle grandi speranze suscitate dalla guerra d'indipendenza
americana.
Il tema sul quale maggiormente si focalizzò fu quello dell'effettiva praticabilità storica dei principi illuministici. Il
problema dell'attuazione storica dell'utopia illuministica veniva dunque affrontato da Pindemonte sotto l'angolatura
prospettica dell'antico concetto nobiliare di virtù, il cui requisito essenziale consisteva nella sintesi armoniosa tra la
coscienza e la pratica della virtù stessa. La rivelazione della resistenza opposta dall'opacità della storia alla
penetrazione dei "lumi" segnava pertanto la crisi della concezione nobiliare della virtù, mettendo a nudo la frattura
insanabile creatasi nel mondo moderno tra la sfera dei principi e quella della prassi, tra il conoscere e il praticare l'idea
del bene. La virtù, che già ad Alfieri era sembrata "sconosciuta", appariva così a Pindemonte aliena anche dal
movimento rivoluzionario, di qui il pessimismo crescente con cui Ippolito riconobbe che l'unico spiraglio di luce
sembrava provenire dal costituzionalismo britannico, immune da scosse eversive. Dalla frequentazione dei circoli
intellettuali e diplomatici di Londra Ippolito derivò l'immagine di una società capace di fondere progresso e tradizione,
e di offrire l'esempio di una nobiltà terriera imborghesita (gentleman), che nella configurazione del parco all'inglese
come natura-paesaggio aveva saputo esprmere il proprio raggiunto equilibrio tra le istanze della contemplazione
estetica e quelle di un razionale sviluppo agricolo.
Nel clima di tramonto di un'epoca, l'ideale epicureo delineato nelle Prose Campestri, si ripropose a Pindemonte in una
prospettiva di fuga dalla stretta del "rio tempo" strico, in direzione di una literata solitudo allietata dalle Muse, e
vissuta all'insegna della pratica dell'antico. Intesa, quest'ultima, come una forma d'intima adesione all'immagine
elegiaca dell'antichità greco-latina.
Premessa al "Saggio di prose e poesie campestri" è l' "Avvertimento", in cui Ippolito riassume tutti i tratti essenziali
della propria condizione umana all'epoca della stesura delle Prose: ne scaturisce un ritratto inteso a lumeggiare
l'esperienza intellettuale ed etico esistenziale sottesa alla genesi compositiva dell'opera il cui nucleo ispiratore appare
chiaramente individuato nel "disinganno". La scrittura delle Prose campestri si configura quindi come luogo di
riflessione e d'ipotesi sulle possibilità residue di salvaguardare dalle offese della storia la propria autonomia interiore.
L'immagine del ritiro campestre si riproponeva dunque quale spazio d'elezione per l'esercizio di una struttura intesa a
sottrarre la sfera della soggettività interna al contatto degradante con la realtà, proiettandola nella dimensione altra
(salvifica) della natura letta alla luce della poesia "ingenua" degli antichi.
Di qui la portata sottilmente emblematica delle citazioni latine, che, poste ad epigrafe delle singole Prose
compongono una sorta di discorso secondo, il cui nucleo ispiratore è costituito dall'illustrazione del topos letterario
del locus amoenus, con l'intento dell'autore di filtrare letterariamente la propria esperienza della natura alla luce della
lezione poetica dei classici.
Ippolito attribuisce alla poesia degli antichi la facoltà di esprimere l'essenza segreta della natura. In questo senso le
Prose campestri adempiono l'auspicio espresso dal Bertola nel 1779, ossia che esistesse un libretto poetico Italiano, il
quale servisse come di un codice per gli amici della campagna, senza il vecchio cerimoniale d'Arcadia.
LA MELANCONIA
- contentezza e pienezza del ritiro
- disprezzo della mondanità e amore per il vero e bello
- perpetua dedizione e sicurezza di felicità
- devozione alla melanconia, cantata notte e giorno
- descrizione melanconia, più bella di Venere
II: nullità dei beni materiali, piacere naturale puro ("Che val ricchezza?")
III: felicità perpetua in campagna (sempre-ritorneranno-ritornerà: ripetizione, riferito al ciclo e al poeta: natura =
Poeta)
IV: invocazione e dedizione alla Melanconia
V: mattino
VI: Sera. Amoreggiare con la luna = piacere e serenità serale
VII: poeta compagno e amico della natura. "manto viola": descrizione cromatica della Melanconia
VIII: Iliade, giudizio di Paride
IX: invocazione epica: il poeta canta alla ninfa gentil con nuovo stile grave
LA BUONA COMPAGNIA
I PIACERI DELL’IMMAGINAZIONE
“Chiama dal tempo predatore i passati diletti” Essi sono meno vivi ma più variati dei fisici.
Gli uomini si sterminano tra loro per rubarsi i propri piaceri fisici, ma nel deserto dell’umana vita, i piaceri
d’immaginazione si acquistano senza pericolo.
Ambizioso fortunato: dolore, inquietudine
“Deliranti”: aria tranquilla, indolente. È felice senza sembrare di esserlo. Ha necessità dei piaceri fisici per disprezzarli e
stimolare l’immaginazione.
La massima politica “dividi e comanda” può essere adattata al caso: dividi la sensibilità e la forza delle tue passioni in
tanti piccoli desideri.
Necessità di disporre di oggetti per combinare pazzamente e stimolare l’immaginazione
Necessità di letture versatili e fantastiche senza troppo peso alla fredda ragione che porta a scavare quando hai
bisogno di scorrere.
Moderazione con immaginazione, necessariamente amica e di vita moderata senza troppa fretta di vivere
Necessità di tregua dagli uomini
Dedizione alla contemplazione della vita e della natura
Animato il pazzo da indifferenza illuminata delle cose umane
Necessità di rettitudine morale per non essere colto dagli affanni
Allontanamento dalle chiuse città
Consapevolezza della propria imperfezione.