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Sintesi Silloge Italiano

700- 800
Lingua Italiana
Università degli Studi di Bari Aldo Moro
11 pag.

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ANDREA BATTISTINI, LA SENSIBILITA' PITTORESCA DELLA LINEA SERPENTINA
viaggio sul Reno di Aurelio Bertola, enuncia alcnuni principi della sua estetica da conservare come bussola per la
navigazione da poco cominciata.
"si vuole che le figure tondeggianti e le linee curve procaccino maggior bellezza che non le angolose e le terminate da
linee rette" perchè l'aspetto di ondeggiamento anche negli oggetti immobili sveglia un'idea di moto, con cui vengono
a ravvivarsi i piaceri dell'immaginazione.(paternità di William Hogarth, pittore inglese "Analisi della bellezza" 1753 in
cui si sostiene che la linea ondeggiante produce più bellezza che qualunque altra, perchè più aggraziata).
Bertola menziona tra i vaghi e aggraziati prodotti della natura che "tondeggiano" le conchiglie, i fiori e le foglie.
Hogart aveva individuato nella serpentina la linea capace di vincere la monotonia, la noia e il tedio, i nemici più
incombenti nella civiltà settecentesca estenuata dalla raffinatezza. Le volute sinuose delle curve ubbidiscono alla
regola costante di composizione in pittura, ossia schivare la regolarità. Questo principio è seguito con talmente tanta
coerenza da Hogarth tanto da preferire i numeri dispari a quelli pari, l'ovale al cerchio, il triangolo al quadrato,
esclusivamente per essere la varietà più gradevole dell'uniformità.

VITTORIO ALFIERI, DELLA TIRANNIDE Del principe e delle lettere, La virtù sconosciuta

INTRODUZIONE DI CERRUTI.
La scrisse nel 1777, ispirato da Machiavelli. Nell'opera Alfieri effondeva le tensioni dell'io e i risultati di un'esperienza
di riflessione, avviata dal 69 con la lettura di Plutardco e di altri filosofi contemporanei (Rousseau, Voltaire,
Montesquieu), proseguita nel 1773 a contatto con gli intellettuali torinesi e arricchita nello stesso 77 con la
frequentazione di amici tra cui rientra Francesco Gori Gandellini, e l'assimilazione, suggerita da questi ultimi,
dell'opera di Machievelli come impulso all'azione in prospettiva repubblicana. Si era venuta definendo così una visione
delle cose in linea con l'Illuminismo del tempo, costituita da una parte di un universo negativo al cui centro si trova la
tirannide (corruzione, decadimento e degradazione) e dall'altra dall'esigenza/urgenza di rovesciare quella realtà
negativa, riaffermando contro di essa i diritti della natura e dell'uomo.
Alfieri ideava il secondo trattato, "Del principe e delle lettere" a Firenze nel 78. Fra i due saggi vi sono due tragedie:
"Agamennone" e "Virginia", con caratteri fortemente politico-civili.
La tirannide dunque, o monarchia assoluta, è per ogni riguardo un male, in quanto contraria alla natura e ai naturali
diritti dell'uomo e come tale va contrastata e combattuta.
In che modo e per virtù di chi mai potrà di fatto avvenire l'esperienza liberatoria? L'homme de lettres. Di qui l'esame
di come l'intellettuale-scrittore possa assolvere a questa fondamentale funzione di illuminazione e di stimolo.
Così come la "Tirannide" anche "Del principe e delle lettere" ebbe un'elaborazione prolungata e complessa: fu lasciato
in sospeso nel 78, fu poi concluso fra l'85 e l'86, e fu stampato nell'89.
Altre opere di Alfieri sono "L'Etruria vendicata" (in cui si discute sull'assassinio di Alessandro dei Medici per mano di
Lorenzo e quindi strettamente legato alla problematica dei due trattati, di cui un titolo pensato fu "Il tirannicidio") e il
"Panegirico di Plinio a Traiano" del 1785 (in cui Alfieri afferma di aver trovato e tradotto il panegirico di Plinio il
Giovane a Traiano, in cui si chiedeva di rendere al popolo di Roma l'antica "libertà").
Al Panegirico poi Alfieri aggiunse l'ode "Parigi sbastigliato" (fatta perchè si trovò testimone oculare di quei momenti) e
la favoletta "Le mosche e l'api" (in cui vi è la riflessione sulla possibilità di riuscita di una rivoluzione in cui le deboli
mosche, i francesi, riescano ad affermarsi più forti e privilegiate rispetto alle api, gli inglesi).
Fra l'85 e l'86 lo scrittore si trovava in Alsazia e fu questo un momento di intenso lavoro poetico-letterario,
accompagnato da forti disturbi psicosomatici (crescente stato depressivo). Appartengono a questo periodo la tragedia
"Mirra" e la conclusione "Del principe e delle lettere" e la stesura de "La virtù sconosciuta".
Nel mentre di quegli anni difficili (rivoluzione americana e francese) e forse aiutato dalla depressione che spesso fa
veder meglio le cose, Alfieri si ritrovava dinnanzi a due scelte: da una parte l'ipotesi utopico-libertaria affidata ad un
futuro su cui scommettere, dall'altra una seria esperienza di riflessioe e autoanalisi, uno stacco da un presente meno
decifrabile e frastornante.
Alfieri stesso dichiara che il motore di questi libri fu l'impeto di gioventù, l'odio dell'oppressione e l'amor del vero.

LA VIRTU' SCONOSCIUTA
(La virtù sconosciuta è un'operetta in forma di dialogo composta da Alfieri durante il soggiorno in Alsazia nel 1786, e
stampata la prima volta nel 1788 (ma con data 1786). L'autore immagina che compaia dinanzi a lui l'ombra di
Francesco Gori, suo amico carissimo da poco scomparso. Nel dialogo sono messi a confronto due scelte di vita: quella
del poeta che si fa carico di una missione pubblica di verità e quella di chi invece spende la propria grandezza
nell'intimo dell'animo e dei pochi rapporti privati. Il confronto dà occasione all'Alfieri di ritornare sui temi
fondamentali del suo pensiero: la libertà dell'individuo di fronte al tiranno, l'ignavia della grandissima maggioranza
degli uomini ("la folla dei nati-morti"), il disinganno della gloria. Lo stile, sostenutissimo, dà alla prosa cadenze ritmiche
prossime a quelle della poesia.)

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Nel dibattito, dopo i saluti si assiste alla dichiarazione di Gori riguardo la sua inconcludente vita ("per morire io nacqui,
e non vissi; e nella immensissima folla dei nati-morti non mai vissuti, già mi ha sepolto l'oblio). Nella risposta di Alfieri
è espressa la sua concezione di compito dell'intellettuale e cioè tentare di render migliori le vite altrui almeno
tramandando verità scritte in stile sublime. A questo risponde Gori con la sua idea di compito dell'intellettuale
(iniziando a parlare dicendo di "rimembrare", nonostante la morte, Gori serba ancora le qualità umane e intellettuali):
"ufficio e dovere d'uomo altamente pensante egli era ben altrimenti il fare che il dire". Francesco Gori motiva il suo
mancato percorso letterario dicendo che "fama non ottiene, e non merita, chi per acquistarla instancabilmente non
spese il sudore, il sangue e la vita."
Riguardo l'uso del bello Gori afferma che il vero senso del bello si può assai più facilmente provare che esprimere. il
forte sentire è una "liquida sottile infiammabile qualità".
Inoltre Gori inserisce anche una dichiarazione della sua poetica affermando che "io posso aver amato le arti...per
deviare...la mia troppa bile; nè scritto di esse per altro che per mio mero piacere, senza intenzion nessuna di
riportarne la più minima lode pur mai".
Gori sul genere biografico: "lo scriver la vita di uno che nulla ha fatto, e che nessuno sa che sia stato, sarebbe
giustamente reputato espressa follia....Tu vedi dunque che le vite vogliono essere scritte di coloro soltato che o gran
bene o gran male agli uomini han fatto".
Vittorio e la metafora della gemma: per Alfieri Gori è come una gemma nascosta nel fango; "la virtù benchè occulta,
gli animi dunque tutti ed i men virtuosi, pienamente, e mal grado loro, soggioga".

IL PENSIERO POLITICO-LETTERARIO: I TRATTATI: "DELLA TIRANNIDE", "DEL PRINCIPE E DELLE LETTERE" E ALTRE
OPERETTE
La narrazione della "Vita" è significativa per cogliere il suo atteggiamento nei confronti di uomini e istituzioni del
proprio tempo. atteggiamento di sdegno e di repulsione verso le contemporanee monarchie, illuminate o no.
In sostanza la polemica di Alfieri è interna alla stessa classe nobiliare e investe l'istituto monarchico in quanto causa
prima della sua decadenza. L'Alfieri fuoriesce dalla sua classe perchè non accetta il ruolo decorativo della nobiltà.
Eppure la sua cultura politica è prevalentemente illuministica: Montesquieu, Voltaire, Rousseau sono gli scrittori sui
quali si è formato. Al primo strato culturale poi se ne aggiunge un secondo di origne classicista che indirizza Alfieri
verso la costruzione del suo sogno di gloria e di libertà. Principalmente Plutarco, a lui risalgono l'ardore di gloria,
l'ammirazione per la virtù e l'eroismo, l'entusiasmo per la libertà e l'odio tirannico.
DELLA TIRANNIDE,
l'opera è dedicata alla libertà. Nel primo libro Alfieri definisce il tiranno come un re posto al di sopra delle leggi e di
ogni potere. Definisce così "cosa sia la tirannide": ogni governo in cui chi è preposto all'esecuzione delle leggi, può
farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, inpedirle, sospendere o anche soltanto deluderle con sicurezza
d'impunità. Il tiranno è un "infrangi-legge"ed ogni società che lo ammette è tirannide, ogni popolo che lo sopporta è
schiavo. Aggiunge poi che tutta l'Europa è sotto il torchio della tirannide monarchica (esclusa l'Inghilterra) che si fonda
sulla reciproca paura dell'oppresso e dell'oppressore.
DELLA PAURA:
distingue la paura in paura dell'oppresso e paura dell'oppressore. L'oppresso teme l'assoluta volontà dell'oppressore.
Dovrebbe però nascere, se l'uomo ragionasse, una disperata risoluzione a non voler più soffrire eppure al contrario
nell'uomo schiavo e oppresso dal continuo temere nasce sempre di più la cieca obbedienza e la sottomissione al
tiranno. Anche l'oppressore teme, e teme la coscienza dell apropria debolezza effettiva. La conseguenza del timore del
tiranno è simile in un senso contrario a quella del suddito in quanto nè egli nè i popoli non correggono questo loro
timore come per natura e ragione dovrebbero fare.
Aggiunge poi che il timore ed il sospetto siano indivisibili compagni di forze illegittime.
Non esistono monarchi buoni (buon principe)
Altri puntelli della tirannide sono la religione, il falso senso dell'onore e la nobiltà ereditaria, la quale è invece sempre
la più corrotta. Ulteriore sostegno della tirannide è il lusso: non può esserci vera libertà dove c'è eccessiva disparità di
ricchezze.
Nel secondo libro l'autore discute il modo come si possa sopportare la tirannide o si possa scuoterla. L'unica soluzione
per un uomo libero è quella di restare lontano dai tiranni e dalle sue cariche, oltre che dai suoi vizi, e dedicarsi al
pensare, al dire e allo scrivere.
C'è poi un mezzo per rovesciare la tirannide, ed è il tirannicidio.
DEL PRINCIPE E DELLE LETTERE:
Iniziato nel 1778, portato a termine nel 1789. Dopo la dedica ai principi che non proteggono le lettere, si discute se il
principe (sinonimo di tiranno) debba proteggerle. L'autore consiglia di si; infatti i letterati protetti arrecano al principe
gloria, i negletti gli portano discredito. Bisogna però distinguere tra letterati liberi e non liberi: i primi vogliono
arrecare agli uomini "luce, verità e diletto" all'altro interessa solo la propria potenza.

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Conviene al principe non perseguitare le lettere, bensì addomesticarle ai propri fini; questo è ciò che hanno fatto i
principi illuminati.
Il secondo libro è dedicato ai pochi letterati che non si lasciano proteggere.
III. SE I LETTERATI DEBBANO LASCIARSI PROTEGGER DAI PRINCIPI
"Lo scrivere è una necessità di bisogno in molti; lo scrivere è una necessità di sfogo in alcuni". L'autore consiglia agli
scrittori che non hanno grandi fortune economiche di riuscire, prima di scrivere, a ricavarsi dei sostentamenti
economici, con i quali poi mantenersi l'attività di scrittore; chi invece non ha soldi per poterlo fare è meglio che non
intraprenda la carriera di scrittore e si cerchi altri mezzi con cui vivere. aggiunge poi che "Tutti, in ogni tempo e
governo, riescono a ciò più atti che non il mestiere delle lettere. In una parola in somma, all'ingegno deve la ricchezza
servire, ma non mai alla ricchezza l'ingegno".
La protezione principesca, se giova agli ingegni mediocri, è nociva ai sommi ingegni e può essere semmai utile per
raggiungere l'eleganza e la perfezione formale.
Ciò che vale per i letterati non vale per gli artisti che hanno bisogno di mezzi materiali per esprimersi: i libri invece si
possono scrivere senza bisogno di venderli, anzi si debbono scrivere più per le generazioni future che per la propria.
Aggiunge poi che lo scrittore deve essere vivamente partecipe di ciò che scrive e non può esprimere il sentire altrui.
Gli uomini per lo più tutti peccano nel poco sentire.

PETRARCA, DE VITA SOLITARIA


Delinea due stili di vita differenti e tra loro contrapposti: quello dell'uomo indaffarato e quello dell'uomo tranquillo.
L'uomo indaffarato non riesce a dormire e si sveglia nel mezzo della notte, sedendosi su un triste sgabello. Allora si
interessa agli inganni, a come corrompere, si fa trascinare dall'ira, dal desiderio e dalla disperazione, ordisce poi
occupazioni diurne.
L'uomo solitario, tranquillo e sereno, non interrompe il suo breve sonno e appena si sveglia comincia a cantare. Invoca
il Signore non fidandosi affatto delle sue forze (umiltà). Inizia operoso la giornata, con dedizione, timore e speranza,
memore del passato e presago del futuro è invaso da un lieto dolore e da lacrime di gioia. Sospirando quindi si dedica
alla lettura.
Così la solitudine è felice e tranquilla, è una rocca fortificata, un porto per tutte le tempeste. Nessuna libertà inoltre è
più grande della libertà di pensiero, e come Petrarca la rivendica per sè stesso, non la nega agli altri, senza mai essere
giudice della coscienza umana. Conclude dicendo che "sfuggire quanto è disonesto è un dovere, tendere in alto è una
virtù, arrivarvi è una felicità".

GIUSEPPE PARINI, "ODI"


LA VITA RUSTICA
è l'ode che più risente della formazione arcadica di Parini, fu composta intorno al 1757 e fu pubblicata nel 1780, essa è
un inno alla bellezza della campagna e alla operosità della vita campestre contrapposta alla falsa bellezza del lusso e
della vanità della poesia cortigiana. L'ode parte da una penosa considerazione dell'esistenza umana, su cui incombe la
morte, che rende inutile la brama di ricchezza. Di quì passa a contrapporre la illusioria felicità del ricco al suo fiero
proposito di rifiutare la logica mercantile che domina nell'attuale società (strofe 3-4). Nelle strofe 5-6, il
vagheggiamento del mondo bucolico si collega ai luoghi d'infanzia del poeta, dove aspira a tornare e dove sono assenti
le angosce della vita mondana. Ai vincoli della vita sociale dominata dal potere politico viene contrapposta nelle strofe
7-8 la libertà della vita campestre. Le due strofe successive contengono il proposito del poeta di convertire la poesia in
un inno eternatore del progresso rurale. Concludendo l'ode Parini torna al tema della morte, ma per trapassare a
quello della fama che attende chi, dopo aver vissuto rettamente, muore lasciando brama di sè, ossia il ricordo ed il
rimpiato affettuoso degli uomini.
Il tema è quello arcadico della bellezza naturale e il tema bucolico tradizionale che contrappone la campagna alla città.

CLASSICISMO E MODERNITA' DI FRANCESCO CASSOLI


Cassoli affinò il suo classicismo traducendo i primi sei libri dell'Eneide e le Odi di Orazio, ma i suoi "Versi" (1802) lo
collocano chiaramente al vertice della scuola emiliana o lombarda o estense che riproponeva nella seconda metà del
settecento il culto di Orazio.
I. ALLA LUCERNA
vv.1-18: contrapposizione sole-lucerna (solennità-raccoglimento piacevole). Sole: maestosità, fiammella: minutezza
("esil fiammella, che lingueggiando".
vv. 19-42: contrapposizione raccogliemento e piacer di pensare fra le mura taciturne - schiamazzi della folle turba,
simile alla "Compagnia Anarchica" di Pietro Verri.
Riflette inoltre sul passato e sul futuro e contrappone il moto degli uomini indaffarati alla stasi solitaria.

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vv. 43-72: apostrofe alla Lucerna e colloquio, in cui esprime dedizione e vicinanza dimostratole per una vita (dalle
esperienza d'amore alle riflessioni) e asupica un futuro di amicizia nella meditazione e una morte che facciainnocente
la stessa lucerna, da non contaminare con l'orrore dell'oscurità tombale.

PROSE E POESIE CAMPESTRI, IPPOLITO PINDEMONTE.

1795: prima edizione delle Prose Campestri. Le Prose e le Poesie furono composte nell’estate del 1785 ad Avesa, sui
colli veronesi. In una lettere ad Amaduzzi Pindemonte chiede l’invio di un catalogo di scritti di argomento campestre,
in vista di una stesura di un’operetta sul tema.
Nonostante le Prose videro la luce nel 1788, delle Prose si ha notizia solo a partire dal 94.
La grande fioritura della letteratura descrittiva del secondo 700 è riconducibile al rinnovamento dell’Idillio e si ispirò
alla tematica campestre, venata di accenti elegiaci, offerta dalle opere di T. Gray, dagli idilli di Gessner e dalla poesia
stagionale di Thomson. Di questa temperie culturale si rese interprete e mediatore in Italia il Bertola, il quale
introdusse il tema del superamento della tradizione arcadica nell’ottica del ritorno alle pure sorgenti (teocrite e
virgiliane della poesia campestre) interpretate alla luce della lezione poetica ed estetica del Gessner, come vie
d’accesso alla Natura.
Le Prose e le Poesie campestri sono fiorite nella prima metà degli anni 80 in un’area culturale (Verona) caratterizzata
dalla presenza di un ceto nobiliare attivo ed illuminato. La formazione intellettuale del Pindemonte avvenne dunque in
un ambiente impegnato in una complessa mediazione tra la grande tradizione filologico-erudita e le nuove prospettive
aperte dalla cultura europea, di cui si discuteva nei centri dell’intellettualità aristocratica.
I viaggi giovanili arricchirono la formazione intellettuale di Pindemonte, rispecchiando l’esigenza di una sintesi
equilibrata tra l’approfondimento della cultura classica e l’attenta assimilazione degli innovatori dell’illuminismo.
Il viaggio del 1788 nell’Italia settentrionale consentì a Pindemonte di entrare in contatto con i circoli illuministi della
Lombardia, offrendogli l’opportunità di conoscere Parini, Biffi, l’Accademia dei Pugni e “Il Caffè”. La frequentazione
degli ambienti riformatori lombardi e parmensi contribuì a rafforzare in lui le tendenze moderatamente illuministiche,
inducendolo a privilegiare quell’ideale agrario di ascendenza fisiocratica  ritorno all’innocenza virtuosa della vita
rustica di cui la poesia campestre rappresenta l’espressione letteraria. Su questa prospettiva influì la riflessione critica
del Bertola.
Il luogo d’elevazione per una pratica letteraria intesa a sottrarre dalle aporie della storia la sfera della soggettività
interna, restituendola nell’esercizio libero e gratificante dell’invenzione, è dunque costituito dal ritiro campestre.
Di questa immagine “euforica” della natura, propizia all’immaginazione, Pindemonte tende a dare un’interpretazione
in chiave neoclassicheggiante, proponendone la rilettura sulla falsa riga dei classici latini e greci. Di qui la portata
emblematica della citazione teocridea posta ad apertura delle campestri, configurate alla luce dell’antichissimo topos
letterario del locus amoenus, rivissuto neo classicamente come spazio propizio al contatto vitale con la natura
ricondotta alla sua essenza originaria, alla semplicità.
L’itinerario pindemontiano in direzione di questa utopia di virtù e felicità muove dalla delineazione di un ideale di vita
solitaria inteso a ricomporre l’unità del mondo interiore compromessa dai condizionamenti sociali. La solitudine
esercita dunque un’azione terapeutica, nella misura in cui egli gli consente di riconquistare la propria identità perduta.
Con la solitudine si può raggiungere la “enkrateia”, un autodominio etico-intellettuale che gli consente di guardare al
proprio “in sé” con un atteggiamento di sereno distacco.
Analogamente, nella stesura tematica delle poesie campestri motivi oraziani e stoico-epicurei convergono a comporre
l’immagine della “beata solitudo” del saggio a contatto con la natura.
Il ritiro campestre tende dunque a configurarsi come spazio propizio alla sperimentazione di un'ipotesi di esistenza
che si costruisce interamente in base ai precetti della Sapienza antica, e quindi si dispone in un arco di tempo che dal
passato si estende al futuro, sfuggendo alla stretta del presente.
La vita solitaria del Saggio ha valenza utopica ed essa risiede nella denegazione del presente, utopia volta
all'instaurazione di una felicità "negativa", mirante ad estinguere ogni fonte di piacere e di desiderio al fine di porre la
coscienza in una condizione di atarassia che renda impercettibile ai sensi il confine tra la vita e la morte.
Le Poesie campestri si configurano come metafora letteraria del viaggio dell'"io immaginario" pindemontiano alla
ricerca di una Saggezza che, nel definirsi in opposizione allo stile di vita "innaturale" della nobiltà cittaina, già
satireggiata dal Parini nel "Giorno", rivela un'ambiguità insidiata dall'inquieta consapevolezza dell'instabilità della
psiche.
Sottratto all'inafferrabile mutevolezza del tempo storico, il mondo del Saggio tende così ad uniformarsi al ritmo dei
cicli stagionali; lo sguardo del Saggio si posa sugli spettacoli offerti dalla natura nelle diverse parti del giorno e col
variare delle stagioni.
Come la malinconia thomsoniana, propizia alla penetrazione dell'essenza segreta della natura, anche la melanconia
pindemontiana tende a configurarsi come stato d'animo atto a conferire allo sguardo del Saggio una sorta di

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trasparenza che gli consente di cogliere le ripercussioni dell'ordine armonioso del cosmo sulla sua ricerca di un
rinnovato equilibrio interiore.
Esempio è il chiarore lunare che diventa metafora della luce della memoria. Tra il mondo della natura e quello della
soggettività interna si crea così un rapporto di intima consonanza, che sul piano descrittivo si traduce nelle descrizioni
dei paesaggi pindemontiani.
Tema della salute: uno degli aspetti essenziali del mito della rigenerazione fisica e morale promossa dalla frugalità dei
costumi agresti. Tema svolto da Pindemonte, come fece Cassoli con l'ode "Alla sanità". Nell'interpretazione
pindemontiana il tema della salute viene declinato in termini polemici nei confronti dei costumi di vita della nobiltà
cittadina, le cui consuetudini mondane recano in sè il germe della malattia. (descrizione festa aristocratica de "La
Notte"). Il rito della festa aristocratica si consula così all'insegna del macabro "disinganno" di un mondo ormai in
dissoluzione.

Nel 1788, a pubblicazione avvenuta delle Poesie campestri, Ippolito iniziò il grand tour europeo che nel corso del
triennio successivo gli consentì di verificare le prospettive dischiuse alla virtù da una congiuntura storico-culturale che
sembrava propizia all'inveramento delle attese ideali suscitate dall'illuminismo. La lezione di vita scaturita dalle
molteplici esperienze politiche e culturali compiute da Pindemonte nel corso del viaggio, è affidata alle annotazioni
contenute nelle "Memorie sopra alcuni viaggi" e trova espressione narrativa nel romanzo satirico di ispirazione
autobiografica "Abaritte. Storia verissima", composto nel 1790.
Le "Memorie" e "Abaritte" consentono di ricomporre nei suoi tratti essenziali il complesso itinerario etico-intellettuale
destinato a sfociare dopo l'esperienza decisiva della Rivoluzione francese, nella stesura delle Prose campestri.
Nelle "Memorie" egli diede prova di una acuta intelligenza storica, individuando le cause principali della Rivoluzione
nell'atteggiamento del dissesto finanziario e nella diffusione delle idee illuministiche presso i ceti colti, politicamente
favorevoli al costituzionalismo britannico ed animati dalle grandi speranze suscitate dalla guerra d'indipendenza
americana.
Il tema sul quale maggiormente si focalizzò fu quello dell'effettiva praticabilità storica dei principi illuministici. Il
problema dell'attuazione storica dell'utopia illuministica veniva dunque affrontato da Pindemonte sotto l'angolatura
prospettica dell'antico concetto nobiliare di virtù, il cui requisito essenziale consisteva nella sintesi armoniosa tra la
coscienza e la pratica della virtù stessa. La rivelazione della resistenza opposta dall'opacità della storia alla
penetrazione dei "lumi" segnava pertanto la crisi della concezione nobiliare della virtù, mettendo a nudo la frattura
insanabile creatasi nel mondo moderno tra la sfera dei principi e quella della prassi, tra il conoscere e il praticare l'idea
del bene. La virtù, che già ad Alfieri era sembrata "sconosciuta", appariva così a Pindemonte aliena anche dal
movimento rivoluzionario, di qui il pessimismo crescente con cui Ippolito riconobbe che l'unico spiraglio di luce
sembrava provenire dal costituzionalismo britannico, immune da scosse eversive. Dalla frequentazione dei circoli
intellettuali e diplomatici di Londra Ippolito derivò l'immagine di una società capace di fondere progresso e tradizione,
e di offrire l'esempio di una nobiltà terriera imborghesita (gentleman), che nella configurazione del parco all'inglese
come natura-paesaggio aveva saputo esprmere il proprio raggiunto equilibrio tra le istanze della contemplazione
estetica e quelle di un razionale sviluppo agricolo.
Nel clima di tramonto di un'epoca, l'ideale epicureo delineato nelle Prose Campestri, si ripropose a Pindemonte in una
prospettiva di fuga dalla stretta del "rio tempo" strico, in direzione di una literata solitudo allietata dalle Muse, e
vissuta all'insegna della pratica dell'antico. Intesa, quest'ultima, come una forma d'intima adesione all'immagine
elegiaca dell'antichità greco-latina.
Premessa al "Saggio di prose e poesie campestri" è l' "Avvertimento", in cui Ippolito riassume tutti i tratti essenziali
della propria condizione umana all'epoca della stesura delle Prose: ne scaturisce un ritratto inteso a lumeggiare
l'esperienza intellettuale ed etico esistenziale sottesa alla genesi compositiva dell'opera il cui nucleo ispiratore appare
chiaramente individuato nel "disinganno". La scrittura delle Prose campestri si configura quindi come luogo di
riflessione e d'ipotesi sulle possibilità residue di salvaguardare dalle offese della storia la propria autonomia interiore.
L'immagine del ritiro campestre si riproponeva dunque quale spazio d'elezione per l'esercizio di una struttura intesa a
sottrarre la sfera della soggettività interna al contatto degradante con la realtà, proiettandola nella dimensione altra
(salvifica) della natura letta alla luce della poesia "ingenua" degli antichi.
Di qui la portata sottilmente emblematica delle citazioni latine, che, poste ad epigrafe delle singole Prose
compongono una sorta di discorso secondo, il cui nucleo ispiratore è costituito dall'illustrazione del topos letterario
del locus amoenus, con l'intento dell'autore di filtrare letterariamente la propria esperienza della natura alla luce della
lezione poetica dei classici.
Ippolito attribuisce alla poesia degli antichi la facoltà di esprimere l'essenza segreta della natura. In questo senso le
Prose campestri adempiono l'auspicio espresso dal Bertola nel 1779, ossia che esistesse un libretto poetico Italiano, il
quale servisse come di un codice per gli amici della campagna, senza il vecchio cerimoniale d'Arcadia.

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L'affiorare del tema della meditazione serale, propizia all'allentamento della tensione esistenziale, è indicativo nel
confluire, nella struttura delle Prose, di due grandi linee tematiche: quella paesistico-descrittiva (cui non fu estranea la
lezione del Bertola) e quella d'argomento morale e filosofico.
Il profilo ideale dell'intellettuale delineato da Ippolito appare ricalcato su quello di Johnson, facendo propria l'istanza
dell'antica massima del conosci te stesso. Pindemonte pone infatti al centro della riflessione filosofica "lo studio
dell'uomo, dell'origine sua, del suo fine"; tutto questo in aperta polemica con la tendenza alla specializzazione che
caratterizza la fioritura delle scienze nel secolo dei lumi, e che Ippolito satireggia.
Nella prospettiva pindemontiana il viaggio alla riconquista del proprio "in sè", della propria identità psichica ed etico-
esistenziale compromessa dalle aporie della storia, può avvenire solo nello spazio d'elezione costituito dalla solitudine
virtuosa del ritiro campestre, capace di rigenerare profondamente la soggettività interna mediante il contatto vitale
con la natura. Solitudine del ritiro campestre = dieta dell'anima.via d'accesso ad una condizione di serenità interiore
ispirata all'ideale epicureo del "riposo" della coscienza.
Importante è anche lo sguardo volto al passato: che non significa solo recuperare l'innocenza perduta, ma anche
istituire un dialogo ideale con gli spiriti magni dell'antichità classica, allargando così i confini spazio-temporali di
un'esistenza che si vuole libera dai condizionamenti negativi del presente.Passato= tempo propizio per l'evasione
mentale dalle strettoie del presente. Natura = sintesi armoniosa esistente tra ordine fisico ed etico-spiriturale.
L'approdo ultimo dell'itinerario etico-intellettuale di Ippolito è costituito da un'immagine gratificante della morte, di
cui la contemplazione della natura svela il valore salvifico.

HOC ERAT IN VOTIS


- la campagna rinforzi le facoltà nostre di intellettuali e ci renda più grande e necessario il piacer di pensare
- rimembranza: tante cose sembravan dimenticate e ora ricordo
- ma per ben godere della campagna bisogna esserci liberi e soli. Non conviene portar la città nella villa.
- L'amore per la solitudine nasce da indole triste e rinchiusa, dalla noia del Mondo o dal disinganno. Nasce da quel
senso fino dei difetti umani, unito ad una passione per le doti della mente e del cuore. Nasce da una passione per lo
studio e la libertà del vivere, l'amore del riposo, il piacere della meditazione, la cura della propria salute (MOTIVI DEL
RITIRO)
- quella dell'uomo di città è una felicità infelice, perchè dipende dagli altri.
- in campagna si impara a conoscer meglio gli altri, e se stesso.

OPTIMA QUIEQUE DIES MISERIS MORTALIBUS AVI PRIMA FUGIT


- contrapposizione campagna/città
- rimembranza
- tema del disinganno dell'avvenire (diverso dalla felicissima quiete dell'età della giovinezza)
- metafora vita=monte: in cima risplende la bellezza, ma man mano che si sale quella bellezza sembra sempre più
finta, fino a quando giunti in cima non si trova nulla. Allora si comincia a scendere, volgendo lo sguardo al monte e
rivediamo la strada opposta che da noi fu salita nella giovinezza; allora si vive "di memoria assai più che di speranza".
- tra le cose che più ci dilettano ci sono le prime impressioni (studio delle belle arti o la contemplazione della natura
produce sul nostro spirito)
- amicizia: "lasci correre l'anima tua verso un'anica conforme e sorella".
- ricordanza: piena di una "dolce melanconia", di "leucolia", che è come dire una bianca tristezza
- "viene un tempo nel quale più che il sentir nuovi affetti, giova contentarsi della rimembranza di quelli che abbiam
sentito". (memoria)
- ragioni per coltivar gli studi in tutta la vita: desiderio di migliorare noi stessi, curiosità discreta e tranquilla, piacere
che risulta sempre o dalla contemplazione d'un vero, o dal sentimento del bello.

QUOD LATET ARCANA NON ENARRABILE FIBRA


- piaceri dell'immaginazione: il diletto non consiste solo nella vista di oggetti ma anche ai piaceri morali che si
uniscono a quelli fisici.
- esempi:
1 odore del fieno
2 sentieri (lo seguo fin dove mi guida)
3 elementi naturali: ruscello (vedo un ruscello e nessuno mi dice da dove inizia e dove finisce) (la verità non sarebbe
mai così bella, come la produzione dell'immaginazion mia") e piante
- "il diletto, che lo spettacolo della natura produce in noi, viene indebolito non poco dalla cognizione scientifica della
stessa natura"
4. cielo
5. tramonto

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LA SOLITUDINE
Dialogo emblematico e rivelatore del poeta con la Solitudine, che lamenta lo scarso favore di cui gode tra gli uomini e
l'opportunismo e la viltà la loro mostrata. Il poeta, nonostante la passeggiata fosse stata mossa dal "caro pensier"
d'amore, si rivela dedito al culto della ossequiabil donna (semplicità della Solitudine), la quale si mostra ben disposta
verso di lui, nonostante un'iniziale rimostranza, e a cui Ippolito domanda l'esito della propria ricerca d'amore,
ottenendo una risposta sibillina.
- motivo neoclassico o preromantico delle rovine = caducità della vita e delle azioni umane
- la solitudine è una "persona"
- tema del disinganno
- "fedel solitario"
- Luna strumento di riflessione (fantasia)

LA MELANCONIA
- contentezza e pienezza del ritiro
- disprezzo della mondanità e amore per il vero e bello
- perpetua dedizione e sicurezza di felicità
- devozione alla melanconia, cantata notte e giorno
- descrizione melanconia, più bella di Venere
II: nullità dei beni materiali, piacere naturale puro ("Che val ricchezza?")
III: felicità perpetua in campagna (sempre-ritorneranno-ritornerà: ripetizione, riferito al ciclo e al poeta: natura =
Poeta)
IV: invocazione e dedizione alla Melanconia
V: mattino
VI: Sera. Amoreggiare con la luna = piacere e serenità serale
VII: poeta compagno e amico della natura. "manto viola": descrizione cromatica della Melanconia
VIII: Iliade, giudizio di Paride
IX: invocazione epica: il poeta canta alla ninfa gentil con nuovo stile grave

IL CAFFE' - LO SPIRITO DI SOCIETA'


Fra le tante cose utili alla società degli uomini che ha prodotto l'universal cultura del secolo presente deve annoverarsi
la fratellanza.
Espressione del signor "De la Bruyere": gli uomini sono come i marmi ben tagliati, lisci lisci ma duri. Ciò vuol dire che
non è sempre vera e reale la cultura, ma apparente.
Il vero spirito di società non consiste in un continuo dissipamento di noi stessi, ma quello che mira a quella onesta
comunicazione fra gli uomini per cui tendono a rendersi vicendevolmente la vita più dolce, più gradevole e più felice.
Se gli antichi erano troppo selvaggi, forse i moderni son troppo socievoli, perchè il cuore umano è capace di una data
quantità di benevolenza: se questa è troppo espansiva, allora si divide in minime porzioni.
Spirito d'amicizia: "uno dei pochi innocenti beni di quaggiù".
Riflessioni di un selvaggio del Canadà andato a Pekino.[A. Verri] Uomini che fingono sentimenti che non
hanno, nemici che si abbracciano.
Gli uomini socievoli hanno una si fatta convulsione di nervi risori che ridono sempre, anche quando son
divorati nel profondo dell'anima da più tristi rancori.
In conclusione: vi sono due estremi egualmente viziosi, la "selvatichezza" e il "dissipamento". La prima
produce rozzezza e ferocia, il secondo fa gli uomini indifferenti e poco capaci di vera amicizia. Bisogna
scegliere tra chi ci sta intorno e non abbandonarci tra le braccia di chiunque si incontri, bisogna riservare i
sentimenti a chi li merita. Bisogna compiere i doveri della società, ma non bisogna "spendere in inutili offici"
tutto il proprio tempo. Questo è il vero spirito di società

LA BUONA COMPAGNIA

- Contro il bisogno della gente che porta al malessere


- Buona e cattiva compagnia
- Contro compagnie anarchiche o dispotiche, che non danno alcun piacere
- Importanza cerimoniale e civiltà (civiltà = virtù da praticare quali uomini amabili)
- Celia e ingiurie
- Essenza della buona società, dolcezza e ritorno che permette un gradevole ritorno alle proprie occupazioni
- Senso divino dell’amicizia

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Gli uomini hanno bisogno di passare il loro tempo nella compagnia di altri uomini, quando non accade sono abbattuti
e tristi.  Artefatto bisogno, che va crescendo a misura che i popoli vivono sotto un più pacifico governo ed abitano
una porzione meno ingrata del globo.
L’uomo è tanto più indipendente quanto sono minori i bisogni di lui.
Ognuno chiama buona compagnia quella dove passa bene il suo tempo, cattiva quella dove lo passa male, e ognuno
passa bene il suo tempo dove non resti offeso il suo amor proprio e lo passa male dove al contrario l’amor proprio
venga offeso.
Essenza della buona società: la buona compagnia è quella dove il maggior numero di uomini partono contenti. La
buona compagnia deve rassomigliarsi più al governo democratico che a qualunque altro; si può trovare anche in una
moderata monarchia o in un’aristocrazia clemente, ma se il dispotismo o l’anarchia vi si introducono, a buona
compagnia non è più sperabile.
Anarchia e dispotismo: la prima non può chiamarsi buona compagnia da nessuno; l’altra può chiamarsi tale da uno
solo.
Il crocchio che merita il nome di buona compagnia deve essere composto innanzitutto da uomini onesti e virtuosi. Si
richiede che ognuno sia gentile e non offenda nessuno. Due leggi reggono gli uomini mentre vivono insieme: la prima
è il cerimoniale, la seconda è la civiltà. Più gli uomini sono resi socievoli e più è diminuito il cerimoniale (il quale
produceva solo un perenne commercio di falsità e un ridicolo imbarazzo da entrambe le parti). La civiltà è una quasi
virtù, ed un’attenzione costante a non lasciare che nelle parole o negli atti traspaia cosa offenda o dispiaccia gli altri.
Ci vuole un punto di mezzo fra la sciapita dolcezza e la rusticità; una certa aria di libertà e di bontà d’animo, insomma
una vera voglia di passar bene il tempo e di lasciare la compagnia contenta di noi. “quando un uomo parte dalla tua
compagnia contento di se stesso, parte contento di te”.
“uomo amabile”: colui che parlando crede di far buona comparsa, colui dal quale crediamo di esser tenuti in conto,
colui che sa dare risalto allo spirito nostro piuttosto che far pompa del suo.
La maldicenza sugli assenti un momento dopo viene la riflessone in soccorso e fa nascere l’aborrimento verso il
maledico, da cui ciascuno teme quel trattamento.
L’arte di scherzare: per far si che il suo effetto sia sempre grato, ci vuole una delicatezza piena di spirito e un
accorgimento del cuore umano. Lo scherzo non deve mai cadere su un difetto vero di qualcuno.
Se così vivono gli uomini insieme, allora davvero la società è un ristoro della vita, in essa si fomenta l’adorabile
amicizia che è forse il più gran dono umano.

I PIACERI DELL’IMMAGINAZIONE
“Chiama dal tempo predatore i passati diletti” Essi sono meno vivi ma più variati dei fisici.
Gli uomini si sterminano tra loro per rubarsi i propri piaceri fisici, ma nel deserto dell’umana vita, i piaceri
d’immaginazione si acquistano senza pericolo.
Ambizioso fortunato: dolore, inquietudine
“Deliranti”: aria tranquilla, indolente. È felice senza sembrare di esserlo. Ha necessità dei piaceri fisici per disprezzarli e
stimolare l’immaginazione.
La massima politica “dividi e comanda” può essere adattata al caso: dividi la sensibilità e la forza delle tue passioni in
tanti piccoli desideri.
Necessità di disporre di oggetti per combinare pazzamente e stimolare l’immaginazione
Necessità di letture versatili e fantastiche senza troppo peso alla fredda ragione che porta a scavare quando hai
bisogno di scorrere.
Moderazione con immaginazione, necessariamente amica e di vita moderata senza troppa fretta di vivere
Necessità di tregua dagli uomini
Dedizione alla contemplazione della vita e della natura
Animato il pazzo da indifferenza illuminata delle cose umane
Necessità di rettitudine morale per non essere colto dagli affanni
Allontanamento dalle chiuse città
Consapevolezza della propria imperfezione.

L ’INFINITO, GIACOMO LEOPARDI


Questo idillio fu collocato da Leopardi all’inizio della serie dei cinque piccoli idilli. Era già composto nel 1821. Leopardi
aveva annotato nello Zibaldone che dove l’anima non discerne confini, di tempo o di spazio, essa si perde e ciò suscita
in essa sensazioni sublimi. L’anima si immagina quello che non vede (ciò che l’albero e la siepe gli nasconde, ed erra in
uno spazio immaginario)
L’idillio riflette la particolare sensibilità del poeta, il quale confessa di aver sempre tratto piacere dalle viste in parte
limitate, che gli sollecitavano l’immaginazione e la riflessione. Ma il breve componimento rappresenta uno dei più

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densi momenti espressivi della poesia leopardiana, perché riesce a comunicare attraverso una serie di immagini
indefinite la sublime sensazione del “perdersi”. Il poeta attribuisce all’infinito un valore, dal momento che esso lo
appaga con una dolcezza che nessun altro piacere concreto riesce a dargli. L’infinito non è Dio, né la morte (il nulla), è
invece la negazione del vero, del definito, del reale, che nel tempo e nello spazio è presente, e induce perciò la
sofferenza. L’infinito è l’immaginario.
Nell’idillio la scoperta dell’infinito avviene attraverso la negazione del reale e del presente, esso tuttavia nasce dalla
vista e dall’udito, perché proprio dalla vista della siepe e dallo stormire delle fronde il poeta si apre all’idea dello
sconfinato, dell’immobile, del silenzio. Si potrebbe dire che l’idea dell’infinito sia il riflesso del finito, che l’uno non
possa essere senza l’altro, sicchè il dolce naufragio del poeta nel mare della sua immaginazione non è che il rifiuto dei
ristretti confini della vita presente.

UGO FOSCOLO, DEI SEPOLCRI


carme di Ugo Foscolo Dei Sepolcri, il quale è stato composto negli ultimi mesi del 1806 e pubblicato a Brescia nel 1807.
Gli spunti della composizione che avviene nel giro di pochi mesi sono due. Il primo è l’editto di Saint Cloud, editto
francese emesso nel giugno del 1804 e poi esteso all’Italia nel settembre del 1806. L’editto riguardava la sepoltura dei
morti: i morti dovevano essere sepolti lontano dai centri abitati e in modo anonimo, ossia le tombe non potevano
presentare effigi, stemmi di sorta che rendessero riconoscibili o facessero risaltare il defunto; inoltre la lapide non
poteva essere messa dove c’era la tomba perché il luogo di sepoltura poteva così essere riutilizzato a distanza di
tempo. Era un editto che risentiva di una visione ugualitaria figlia della rivoluzione: in questo modo si diceva, infatti,
che tutti erano uguali dopo la morte perché soprattutto i nobili e le classi più abbienti potevano fregiarsi di tombe
molto più ricche, sontuose rispetto al resto della popolazione. Sempre in riferimento alla sepoltura lontana dai centri
abitati, era un editto anche dai risvolti di carattere igienico-sanitario; ciò nonostante Foscolo - questo è il secondo e
più importante spunto del carme - ebbe modo di parlare dell’editto e della questione nel salotto di Isabella Teotochi
Albrizzi, con l’amico e letterato Ippolito Pindemonte. Per un letterato come Foscolo, queste disposizioni andavano a
toccare un tema molto importante cioè il rapporto tra i vivi e i morti nonché il rapporto tra il presente e il passato,
quindi con tutto un aprirsi di patrimoni di tradizione: il patrimonio di grandi uomini, di un popolo, il senso di continuità
in rapporto con la gloria del passato e quindi con tutto ciò che è di ispirazione e infiamma gli uomini nobili d’animo.
Costruito con endecasillabi sciolti, il carme presenta un tratto stilistico già visto nei sonetti, nelle poesie di Foscolo,
cioè un certo modo di dipingere quelle parole, cioè di trattare gli argomenti attraverso la successione e la variazione
di immagini. Non avendo un rigido metro del sonetto e quindi la misura stretta delle quartine e delle terzine, è libero
di debordare, usare periodi di varia lunghezza e dare massima elasticità ai versi e al ritmo. Foscolo applica così il
principio dell’ut pictura poesis, sancita nell’Ars poetica, ossia il principio secondo cui la pittura e la poesia si
equivalgono, cioè attraverso le parole il poeta deve portare all’attenzione gli elementi, ora mostrando ora
nascondendo, grazie alla capacità, alla sapienza stilistica dell’occultare e del mostrare. Foscolo infatti nel carme tende
a transitare da immagini molto elaborate, molto ricche ad altre immagini, senza rivelare l’aspetto argomentativo e
ideologico; in sostanza, mostra, fa immaginare, ma non descrive e non analizza. È talmente bravo in questo che presso
i contemporanei il carme risultò abbastanza oscuro, come si evince da una lettera che Foscolo scrisse a Monsieur
Guillon, un francese che, complice anche la scarsa padronanza della lingua, scrisse una stroncatura del carme. In
questa lettera spiega che il punto che lui deve far vedere è la tessitura completa e non tanto il singolo ordito e i vari
ricami e fa vedere anche che è la capacità combinatoria degli elementi e quindi il disegno complessivo a denotare la
capacità poetica. Lontano dalla pratica poetica, ma in sede di esposizione teorica, ribadirà questo concetto nelle
lezioni che terrà a Pavia nel 1809 per la cattedra di Eloquenza e stile; cito dalla lezione Della morale letteraria:
L'eloquenza insomma, qualunque argomento maneggi, e sotto qualunque forma, in prosa od in versi, deve ottenere
che il cuore senta, che l'immaginazione s'infiammi, che le idee si dipingano vive, calde e presenti dinanzi la mente, e
che queste fortissime sensazioni ed idee risveglino ed invigoriscano l'attività della nostra ragione, e ci facciano non
tanto calcolare la verità quanto sentirla e vederla.
Questa pratica per Foscolo prescinde dalla divisione in versi o in prosa perché dice “sotto qualunque forma, in prosa
od in versi; è la capacità che ha quasi innata e che si concretizza nella parola che deve avere il poeta e soprattutto
l’idea che debba trasmettere facendo immaginare le sensazioni, quindi deve calare l’idea e l’emozione nella forma.
Oltre dell’idea classica, risente anche delle teorie settecentesche sul genio e in particolare, visto che è un intellettuale
che Foscolo conosceva, dell’opera Dei Geni di Bettinelli che parla del genio trasfuso, cioè del genio che riesce a
infondere nella propria opera la sua capacità di sentire e di vedere attraverso le sensazioni.
L’idea è visibile in ciò che il poeta mostra nonché per accumulo e varietà di immagini. In sintesi, qual è questa idea
ne Dei Sepolcri? L’idea che il rapporto con la morte non sia tanto una questione filosofica o emotiva, ma abbia - e il
Foscolo lo espliciterà nella già citata lettera a Guillon - un valore politico, cioè a quanto in termini di valore del passato
l’uomo della civiltà presente riesce a far vivere per spirito di emulazione e perché attraverso l’ispirazione e la forza
d’animo mossi da questi grandi esempi, è spinto anche lui a fare grandi cose e quindi anche l’amore per la gloria e la
bellezza. Molto forte è la capacità di far visualizzare; come vedremo meglio nelle prossime lezioni, in retorica questo

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corrisponde a una figura retorica che descrive questo principio: l’ipotiposi. Deriva dal greco e significa “abbozzo”; è un
disegno incompleto perché è l’idea che il disegno tracciato con le parole debba essere completato dall’immaginazione
di chi legge o ascolta. Quintiliano nella Institutio oratoria la definisce come una rappresentazione delle cose
attraverso le parole, tali che sembra di vederle. L’ipotiposi ha una sua teatralità: il poeta non ci descrive
indirettamente, ma ci fa comparire attraverso le deissi, cioè le collocazioni spazio-temporali, le cose nel momento in
cui accadono o attraverso le parole cerca di evocarle in maniera immediata e repentina. Tenete presente che è
sempre qualcosa legato all’immaginazione e alla capacità dell’autore di far immaginare; non è una figura retorica
facilmente individuabile perché non ha dei connotati linguistici propri. È qualcosa che si riesce a capire attraverso la
lettura e l’analisi perché c’è una maggiore densità di verbi, per esempio legati alle sensazioni, o di altre parole e forme
linguistiche che esprimono sensazioni.
Già nell’incipit c’è questa idea anche se non molto forte:
All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro? [...]
Per introdurci il fatto che i morti quando riposano non sentono, Foscolo non si limita a utilizzare l’interrogativa
drammatizzando, puntando l’attenzione sul destinatario della poesia perché l’interrogativa si rivolge a qualcuno. Usa
al contempo l’immagine del cipresso di giorno e quindi dell’ombra che il cipresso proietta; ci fa capire che c’è
qualcuno che sta piangendo questi morti quindi abbiamo sensazioni visive e uditive. Qui non abbiamo un’ipotiposi
vera, bensì un addensarsi di stimoli sensoriali perché non sappiamo come sia fatta la tomba, che tipo di tomba sia e
non sappiamo chi stia piangendo, ma siamo subito calati in una dimensione attraverso il linguaggio; in esso
prestiamo attenzione non tanto a quello che il poeta dice, ma agli stimoli, alle impressioni visive e sensoriali che ci
trasmette attraverso la parola.

Friedrich Schiller, SULLA POESIA INGENUA E SENTIMENTALE (1759-1805)


“Dell’ingenuo”. Vi sono dei momenti nella nostra vita in cui noi guardiamo con una sorta di amore e di rispetto
commovente alla natura nelle piante, nei minerali, negli animali, nei paesaggi, così come alla natura umana dei
bambini, nei costumi del popolo di campagna e del mondo primitivo, non perché essa appaghi il nostro intelletto, ma
perché essa è natura. È un interesse che non di rado si trasforma in esigenza, e si verifica solo in due condizioni: 1 è
assolutamente necessario che l’oggetto che ci ispira sia natura; 2 esso sia ingenuo. Da questo punto di vista la natura
non è per noi altro se non la vita spontanea, l’esistenza secondo leggi proprie e immutabili. Se si potesse spingere
l’imitazione dell’ingenuo nei costumi fino all’illusione massima, la scoperta che si tratta di imitazione distruggerebbe
completamente il sentimento di cui si sta parlando. Da ciò appare che questo genere di compiacimento della natura
non è estetico, ma morale, perché viene procurato mediante un’idea. Non sono gli oggetti in quanto tali, ma l’idea da
essi rappresentata ciò che noi amiamo in loro. Essi sono ciò che noi fummo e ciò che torneremo ad essere. Noi
eravamo natura come loro, e la nostra cultura ci deve ricondurre per la via della ragione e della libertà alla natura.
Sono al tempo stesso immagini della nostra infanzia perduta, che è per noi il bene più prezioso, per questo essi
destano in noi una certa malinconia. Sono allo stesso tempo rappresentazioni della nostra perfezione suprema
nell’ideale, per questo ci procurano una commozione sublime. Ma la loro perfezione non è merito loro, perché non è
opera di una loro scelta.
Noi siamo liberi ed essi sono necessari, noi mutiamo, essi rimangono identici. Ma solo quando entrambi i caratteri si
uniscono tra loro, (volontà + necessità) si ha il divino o l’ideale.
Poiché questo interesse per la natura si fonda su un’idea, può mostrarsi solo in animi, che sono suscettibili ad idee,
cioè in animi morali.
Noi ci commoviamo non perché dall’alto della nostra forza e perfezione guardiamo in basso verso il bambino, ma
perché dalla limitazione del nostro stato, la quale è inseparabile dalla determinazione, guardiamo in su, alla sconfinata
determinabilità del bambino e alla sua pura innocenza. Nel bambino è rappresentata la disposizione e determinabilità,
in noi il compimento.

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