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L’OPERA D’ARTE NELL’EPOCA DELLA SUA

RIPRODUCIBILITÀ TECNICA
Walter Benjamin
Premessa
Quando Marx intraprese l’analisi del modo capitalistico di produzione, risalì ai rapporti fondamentali
della produzione capitalistica e li espose in modo che da essi si delineasse che cosa ci si potesse aspettare
in futuro dal capitalismo, ovvero non soltanto uno sfruttamento progressivamente esasperato del
proletariato, ma anche il prodursi di condizioni che avrebbero reso possibile la stessa soppressione del
capitalismo. Il sovvertimento della sovrastruttura ci ha messo più di mezzo secolo per mettere in risalto
in tutti i campi della cultura questo cambiamento nelle condizioni di produzione. A queste istanze
corrispondono tesi circa lo sviluppo dell’arte nelle attuali condizioni di produzione. Sarebbe errato
sottovalutare il valore di tali tesi per la lotta di classe.
I.
In linea di principio, l’opera d’arte è sempre stata riproducibile; ad esempio, simili produzioni venivano
realizzate dagli allievi per esercitarsi nell’arte. Rispetto a ciò, la riproduzione tecnica dell’opera d’arte
è qualcosa di nuovo, che si afferma nella storia a intermittenza. I Greci conoscevano soltanto due
procedimenti di riproduzione: la fusione e il conio. Con la silografia diventò per la prima volta
tecnicamente riproducibile la grafica; così fu a lungo, prima che, tramite la stampa, diventasse
riproducibile anche la scrittura. Sono noti gli enormi cambiamenti che la stampa, ovvero la
riproducibilità tecnica della scrittura, ha suscitato nella letteratura. Nel corso del Medioevo alla
silografia si aggiungono l’acquaforte e la puntasecca, così come, all’inizio del diciannovesimo secolo, la
litografia. Con quest’ultima, la tecnica riproduttiva raggiunge un livello sostanzialmente nuovo. Questo
procedimento diede per la prima volta alla grafica la possibilità di introdurre nel mercato i propri
prodotti non solo in grande quantità, come già faceva, ma anche in configurazioni ogni giorno nuove. La
grafica divenne così capace di accompagnare in forma illustrativa la dimensione quotidiana, tenendo il
passo della stampa. Già pochi decenni dopo, tuttavia, la litografia venne superata dalla fotografia. Con
la fotografia, nel processo della riproduzione figurativa, per la prima volta la mano fu dispensata delle
più importanti incombenze artistiche, passando il ruolo all’occhio. Siccome l’occhio coglie più
rapidamente di quanto la mano disegni, il processo di riproduzione figurativa venne accelerato così
enormemente da poter tenere il passo dell’eloquio. L’operatore cinematografico, girando la scena,
fissa le immagini alla stessa velocità con cui l’interprete parla. Per lo studio della riproduzione tecnica,
nulla è più istruttivo di come entrambe le sue diverse manifestazioni – la riproduzione dell’opera d’arte
e l’arte cinematografica – hanno retroagito sull’arte nella sua forma tradizionale.
II.
Anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata, manca l’hic et nunc dell’opera d’arte, la sua
esistenza irripetibile nel luogo in cui si trova. Proprio in questa esistenza irripetibile si è compiuta la
storia a cui l’opera d’arte è stata sottoposta nel corso del suo perdurare: in quest’ambito rientrano sia le
modificazioni fisiche patite nel corso del tempo, sia i mutevoli rapporti di proprietà in cui può essere
capitata. Le tracce delle modificazioni nella struttura fisica possono essere recepite tramite analisi di
tipo chimico o fisico che non si possono compiere sulla riproduzione, mentre la questione circa i rapporti
di proprietà è oggetto di una traduzione la cui ricostruzione deve procedere a partire dalla sede
dell’originale. L’hic et nunc dell’originale costruisce il concetto della sua autenticità: analisi di tipo
chimico, ad esempio, sulla patina di un bronzo possono essere necessarie alla constatazione della sua
autenticità. L’intero ambito dell’autenticità si sottrae alla riproducibilità tecnica. Mentre, però,
l’autentico mantiene la sua piena autorità di fronte alla riproduzione manuale, di regola bollata come un
falso, questo non è il caso della riproduzione tecnica, per una duplice ragione:
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1. In primo luogo, la riproduzione tecnica si dimostra più autosufficiente di quella manuale:
può, per esempio nella fotografia, rilevare aspetti dell’originale che sono accessibili soltanto
all’obiettivo, ma non all’occhio umano;
2. In secondo luogo, può introdurre la riproduzione dell’originale in situazioni che sono
inaccessibili all’originale stesso, consentendogli di andare incontro al fruitore, nella
fotografia o nel disco (ad esempio la fotografia di una cattedrale, per cui la cattedrale ha
abbandonato la sua ubicazione originale).
Le circostanze in cui il prodotto della riproduzione tecnica può essere utilizzato possono mantenere
intatta la consistenza dell’opera d’arte, ma in tutti i casi determinano la svalutazione del suo hic et nunc.
L’autenticità di una cosa è la quintessenza di tutto ciò che di esso può venir tramandato, dalla sua durata
materiale alla sua testimonianza storica. In questo caso, ciò che viene meno può essere riassunto nel
concetto di aura: ciò che viene meno nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte è la sua
aura. Il processo è sintomatico ed il suo significato rimanda al di là dell’abito artistico. La tecnica della
riproduzione sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione. Moltiplicando la riproduzione, la tecnica
di riproduzione pone al posto di un evento unico una sua grande quantità. Consentendo alla
riproduzione di venire incontro a colui che ne fruisce, attualizza quindi il riprodotto. Questi processi
conducono a un violento sconvolgimento di ciò che viene tramandato, ad uno sconvolgimento della
tradizione, e stanno in stretta connessione con i movimenti di massa dei giorni nostri, il cui agente più
potente è il cinema. Il suo significato sociale, anche nella sua forma più positiva, non è pensabile senza
questo aspetto di liquidazione del valore della tradizione nell’eredità culturale.
III.
Nel giro di lunghi periodi storici, insieme alle forme di esistenza delle collettività umane, si modificano
anche i modi e i generi della loro percezione sensoriale. Il modo e il genere secondo cui si organizza la
percezione sensoriale umana, ovvero il medium in cui essa ha luogo, è condizionato sia in senso
naturale, sia in senso storico. L’epoca delle invasioni barbariche, durante la quale sorsero l’industria
artistica tardo-romana e la Genesi di Vienna (manoscritto miniato), possedeva non solo un’arte diversa
da quella antica, ma anche una diversa percezione. Gli studiosi della scuola viennese, Riegl e Wickhoff,
oppositori del peso dato alla tradizione classica, sono giunti per primi all’idea di trarre da essa
conclusioni a proposito della percezione nell’epoca in cui essa godeva di considerazione. Le loro
cognizioni avevano un limite nel fatto che questi studiosi si accontentavano di rilevare il contrassegno
formale proprio della percezione nell’epoca tardo-romana. Non hanno mai tentato di mostrare i
rivolgimenti sociali che trovavano un’espressione in questi cambiamenti della percezione. Per il
presente, le condizioni per una comprensione corrispondente sono più favorevoli. Se le modificazioni
nel medium della percezione di cui siamo contemporanei possono intendersi come una decadenza
dell’aura, si può indicarne le condizioni sociali. Si può illustrare il concetto di aura mediante quello di
un’aura degli oggetti naturali. Noi definiamo questi ultimi come apparizioni uniche di una lontananza.
Seguire una catena di monti all’orizzonte significa respirare la loro aura. È facile comprendere il
condizionamento sociale dell’attuale decadenza dell’aura, che si basa peraltro su due circostanze,
entrambe connesse alla crescente importanza delle masse nella vita attuale. Questo perché le masse
sentono la fortissima esigenza di avvicinare spazialmente e umanamente le cose, così come fortissima
è la loro tendenza al superamento dell’unicità tramite la ricezione delle riproduzioni. Ogni giorno
emerge di più il bisogno delle masse di impossessarsi dell’oggetto da una distanza il più possibile
ravvicinata nell’immagine, o, meglio, nella riproduzione. Riproduzione che, inequivocabilmente, si
differenzia dall'immagine. Unicità e durata sono strettamente connesse nell’immagine quanto lo sono
la labilità e la ripetibilità nella riproduzione. La liberazione dell’oggetto dal suo involucro, e quindi la
distruzione dell’aura, sono il segno di una percezione la cui sensibilità per ciò che nel mondo è dello
stesso genere è cresciuta al punto che attinge l’uguaglianza di genere anche in ciò che è unico.

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IV.
L’unicità dell’opera d’arte si identifica con la sua integrazione nel contesto della tradizione, la quale è
straordinariamente mutevole. Un’antica statua di Venere, per esempio, presso i Greci, che la rendevano
oggetto di culto, stava in un contesto di tradizione diverso da quello presso i monaci medievali, che
ravvisavano in essa un idolo maledetto. Ciò che era evidente in ugual modo ad entrambi era però la sua
unicità, ovvero la sua aura. Il modo originario di integrazione dell’opera d’arte nel contesto della
tradizione trovò la propria espressione nel culto. Le opere d’arte più antiche sorsero al servizio di un
rituale, prima magico e poi religioso. Ha quindi un significato decisivo il fatto che questo modo di
esistenza auratico dell’opera d’arte non possa staccarsi dalla propria funzione rituale; in altre parole, il
valore di unicità dell’opera d’arte autentica ha una sua fondazione nel rituale, nell’ambito del quale ha
avuto il suo primo e originario valore d’uso. Per quanto possa essere mediata, la fondazione è ancora
riconoscibile come un rituale secolarizzato, anche in forme profane come il culto della bellezza. Il culto
profano della bellezza, che si sviluppa nel Rinascimento, consente di riconoscere chiaramente quei
fondamenti al momento del primo serio sconvolgimento da cui sia stato colpito. Ovvero quando, con la
nascita della fotografia, l’arte avvertì la prossimità della crisi ormai innegabile e ad essa reagì con la
dottrina dell’arte per l’arte, che costituisce una teologia dell’arte. Queste connessioni sono essenziali
per un’analisi dell’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica, poiché per la prima volta nella
storia del mondo la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte emancipa l’opera d’arte dalla sua esistenza
parassitaria nell’ambito del rituale. L’opera d’arte riprodotta diventa la riproduzione di un’opera d’arte
legata alla riproducibilità. È possibile, ad esempio, stampare una grande quantità di stampe di una
medesima pellicola fotografica: la questione dell’autenticità della stampa non ha senso. Nel momento in
cui però all’arte manca il criterio di autenticità, anche l’intera funzione sociale della stessa arte si
trasforma. Al posto di una sua fondazione nel rituale si manifesta un suo fondarsi sulla politica.
V.
La ricezione di opere d’arte avviene secondo due criteri opposti, che riguardano o il valore cultuale, o
il valore espositivo. La produzione artistica comincia con figurazioni che sono al servizio del culto. Di
queste figurazioni, è più importante il fatto che esistano rispetto al fatto che vengano viste: la
raffigurazione dell’uomo dell’età della pietra è uno strumento magico, dedicato primariamente agli
spiriti. Oggi il valore cultuale come tale sembrerebbe indurre a mantenere nascosta l’opera d’arte: certe
statue degli dei, ad esempi, sono accessibili soltanto al sacerdote nella sua cella. Con l’emancipazione dei
singoli esercizi artistici dall’ambito del rituale, aumentano le occasioni di esposizione dei prodotti.
L’esponibilità di un ritratto a mezzo busto è maggiore di quella di una statua di un dio che possiede una
propria dimora permanente all’interno di un tempio. Con i vari metodi di riproduzione tecnica
dell’opera d’arte, la sua esponibilità è cresciuta in una misura così poderosa che la discrepanza
quantitativa tra i suoi due poli si è trasformata, analogamente a quanto è avvenuto nella preistoria, in
un cambiamento qualitativo della sua natura. Come nella preistoria l’opera d’arte era principalmente
uno strumento della magia, oggi, attraverso il suo valore di esponibilità, l’opera d’arte si trasforma in
un’opera con funzioni completamente nuove, delle quali quella artistica si profila come quella che
più avanti si può riconoscere come quella marginale. Attualmente, la fotografia e il cinema forniscono
i pretesti più sfruttabili sotto quest’ottica.
VI.
Nella fotografia il valore di esponibilità comincia a sostituire su tutta la linea il valore cultuale.
Quest’ultimo, però, oppone un’ultima resistenza tramite il volto dell’uomo. Nel culto del ricordo dei
cari lontani o defunti il valore cultuale dell’immagine trova il suo ultimo rifugio. Nell’espressione
fuggevole di un volto umano l’immagine emana per l’ultima volta l’aura. Dove però l’uomo scompare
dalla fotografia, lì per la prima volta il valore espositivo prevale sul valore cultuale. È per questo che
risulta così importante Atget, che intorno al 1900 immortalò delle vedute deserte delle vie parigine. Di
lui si è detto che fotografava le vie come un luogo del delitto; con Atget, le riprese fotografiche
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cominciano a diventare elementi di prova nel processo storco, andando a costituire il nascosto
significato politico, al punto da inquietare l’osservatore. Al contempo, i giornali illustrati introducono
l’obbligo della didascalia, che ha un carattere del tutto diverso dal titolo di un dipinto. Le direttive che
colui che osserva le immagini in un giornale riceve attraverso la didascalia diventeranno ancor più
precise e impellenti nel film, con la successione delle scene.
VII.
La disputa tra pittura e fotografia attorno al valore artistico dei loro prodotti appare oggi fuori luogo.
Si trattava di una disputa che era espressione di un rivolgimento di portata storica mondiale, del quale
nessuno dei due contendenti era consapevole. Quando l’epoca della riproducibilità tecnica svincolò
l’arte dal suo fondamento cultuale, stinse per sempre l’apparenza della sua autonomia. Le difficoltà che
la fotografia aveva procurato all’estetica tradizionale erano minime rispetto a quello che sarebbe
capitato con il cinema. Da qui la cieca violenza che caratterizza gli inizi della teoria cinematografica.
Lo sforzo di far rientrare il cinema nell’arte costringe alcuni teorici che trattano questo tema, come Abel
Gance o Séverin-Mars, ad attribuire proprio al cinema un valore cultuale. Tuttavia, all’epoca di queste
elucubrazioni esistevano già opere come Una donna di Parigi o La febbre dell’oro. Ciò non impedisce
ad Abel Gance di ricorrere alla comparazione con i geroglifici, e Séverin-Mars parla del cinema come si
potrebbe parlare delle pitture del Beato Angelico. È caratteristico che, anche oggi, alcuni autori
reazionari cerchino il significato del film nella stessa direzione, se non nel sacrale, perlomeno nel
sovrannaturale. In occasione della riduzione cinematografica di Sogno di una notte d’estate, Werfel
stabilisce che la sterile copia del mondo esterno, con le sue strade, i suoi interni, le sue stazioni, sinora
ha sbarrato la strada del cinema nel regno dell’arte, e che il cinema dovrebbe invece portare
all’espressione ciò che è magico, meraviglioso, sovrannaturale.
VIII.
La prestazione artistica di un attore teatrale viene presentata al pubblico da lui stesso; la prestazione
artistica dell’attore cinematografico viene invece presentata al pubblico attraverso un’apparecchiatura.
Quest’ultimo elemento ha due conseguenze diverse. L’apparecchiatura che porta la prestazione
dinnanzi al pubblico non è tenuta a rispettare la prestazione nella sua totalità: la serie di prese di
posizione riguardanti il montaggio costituiscono il film montato definitivamente, che abbraccia un
certo numero di movimenti della cinepresa. Così, la prestazione dell’attore viene sottoposta a una serie
di test ottici. È questa la prima conseguenza. La seconda conseguenza dipende dal fatto che
l’interprete cinematografico perde la possibilità, riservata all’attore di teatro, di adeguare la sua
interpretazione al pubblico nel corso dello spettacolo. Il pubblico assume l’atteggiamento di un perito
che non viene turbato da alcun contatto personale con l’interprete. Il pubblico s’immedesima negli
interpreti soltanto immedesimandosi negli apparecchi, e, assumendone l’atteggiamento, fa un test.
Questo non è un atteggiamento a cui si possono sottoporre dei valori cultuali.
IX.
Uno dei primi ad avvertire questa trasformazione dell’interprete è stato Pirandello. Per Pirandello,
l’attore cinematografico si sente in esilio, non soltanto dal palcoscenico, ma anche dalla propria persona.
Questo perché l’azione viva del proprio corpo vivo cessa di esistere: resta la loro immagine, colta in un
momento, in un gesto, in un’espressione. L’attore cinematografico avverte confusamente che il suo
corpo è quasi privato della sua realtà, del suo respiro, per diventare soltanto un’immagine muta, che
tremola per un momento sullo schermo e scompare in silenzio. Per la prima volta, l’uomo si trova nella
situazione di dover agire con la sua intera persona vivente ma rinunciando all’aura, dal momento che la
sua aura è legata al suo hic et nunc. La peculiarità delle riprese negli studi cinematografici consiste nel
fatto che esse pongono l’apparecchiatura al posto del pubblico. L’aura che circonda l’interprete deve così
venir meno, venendo meno anche al personaggio interpretato. Da tempo gli studiosi hanno riconosciuto
che nel cinema si ottengono quasi sempre i maggiori risultati quando si recita il meno possibile; lo
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sviluppo più recente, intuisce Arnheim nel 1932, consiste nel fatto che si deve trattare l’attore alla
stregua di un attrezzo, che viene scelto in base a determinate caratteristiche. A ciò si connette nel modo
più serrato il fatto che, molto spesso, all’attore cinematografico sia negata l’identificazione in una parte,
poiché la sua prestazione non è mai unitaria, bensì composta di numerose prestazioni singole. Sono le
necessità elementari dell’apparecchiatura, come l’illuminazione o il montaggio, a scomporre la
recitazione dell’interprete in una serie di episodi montabili. Nulla mostra in modo più drastico come
l’arte sia sfuggita al regno della bella apparenza, quel regno che per tanto tempo è stato considerato
l’unico in cui potesse fiorire.
X.
Il senso di disagio dell’interprete di fronte all’apparecchiatura è in sé della stessa specie del senso di
disagio dell’uomo di fronte al suo riflesso. Con il cinema l’immagine nello specchio diventa
trasportabile, e viene trasportata davanti al pubblico. La consapevolezza di ciò non abbandona mai
l’interprete. Mentre sta davanti all’apparecchiatura, l’interprete cinematografico sa che in ultima istanza
ha a che fare col pubblico, che è il pubblico degli acquirenti, che costituisce il mercato. Questo mercato
nel quale egli viene immesso, nell’istante della sua prestazione, gli diviene inaccessibile quanto un
articolo qualunque prodotto in una fabbrica. Il cinema risponde al declino dell’aura con la costruzione
artificiosa della personality al di fuori degli studi cinematografici, ovvero con il culto della star, che
conserva quella magia della personalità che consiste nella magia fasulla del suo carattere di merce,
poiché al cinema odierno non si può ascrivere un merito rivoluzionario se non quello di promuovere
una critica della nozione tradizionale di arte. Il cinema odierno può promuovere una critica
rivoluzionaria dei rapporti sociali, ma il centro di gravità di questa ricerca risiede in scarsa misura in
questo elemento. Dipende dalla tecnica del film il fatto che chiunque assista alle prestazioni di esso
diventi un semispecialista. Il cinegiornale, per esempio, fornisce a ciascuno una possibilità di
trasformarsi da passante a comparsa cinematografica. In certi casi può addirittura vedersi immesso
nell’opera d’arte. Ogni uomo contemporaneo, insomma, può avanzare la pretesa di essere filmato. Per
secoli, nell’ambito dello scrivere, la situazione era tale che un numero limitato di persone dedite allo
scrivere stava di fronte a parecchie migliaia di lettori. Verso la fine del secolo scorso qualcosa è cambiato:
con l’espansione della stampa, gruppi sempre più cospicui di lettori finirono tra coloro che scrivevano.
La cosa cominciò quando la stampa quotidiana aprì la rubrica delle lettere al direttore. Con questo la
distinzione tra autore e pubblico perde il proprio carattere sostanziale e diventa semplicemente
funzionale e funziona in maniera diversa a seconda dei casi. Il lettore, ad esempio, è sempre pronto a
diventare uno scrittore. Questo discorso può essere traslato nell’ambito del cinema. Una parte degli
interpreti del cinema russo, ad esempio, sono interpreti non nel nostro senso, bensì persone che
interpretano se stesse. Nell’Europa occidentale lo sfruttamento capitalistico del cinema impedisce di
prendere in considerazione la pretesa legittima che l’uomo odierno ha di essere riprodotto. In questa
situazione, l’industria cinematografica ha l’interesse a imbrigliare, tramite rappresentazioni
illusionistiche, la partecipazione delle masse.
XI.
Una ripresa cinematografica offre uno spettacolo che in passato non sarebbe mai stato immaginabile.
Per vari motivi, tra cui l’attrezzatura necessaria alle riprese, l’analogia tra una scena cinematografica e
una scena teatrale per ciò che concerne il punto di vista risulterebbe troppo superficiale e irrilevante.
Per principio, il teatro conosce il punto dal quale ciò che avviene in scena dev’essere visto. Di fronte alla
scena ripresa nel film questo luogo non esiste. La sua natura illusionistica è una natura di secondo
grado: è il risultato del montaggio. In tal modo, l’aspetto della realtà libero dall’apparecchiatura è
diventato il suo aspetto più artificioso e la vista sulla realtà immediata è diventata una chimera nel
paese della tecnica. La stessa situazione può essere confrontata ancor più utilmente con quella che si dà
nella pittura. Nel suo lavoro, il pittore osserva una distanza naturale da ciò che gli è dato; l’operatore
invece penetra profondamente nel tessuto della situazione. Le immagini che producono sono

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enormemente diverse. Quella del pittore è un’immagine totale, quella dell’operatore è variamente
frammentata, le cui parti si compongono secondo una legge nuova.
XII.
La riproducibilità tecnica dell’opera d’arte modifica il rapporto delle masse con l’arte, rovesciandolo
in un rapporto progressivo, dove l’atteggiamento progressivo è caratterizzato dal fatto che il gusto nel
vedere e nel rivivere contrae una connessione immediata e intima con l’atteggiamento del giudice
competente. Tale connessione è un importante indizio sociale. Quanto più il significato sociale di
un’arte diminuisce, tanto più il contengo critico e quello della mera fruizione da parte del pubblico
divergono. Il convenzionale viene goduto senza nessuna critica, ciò che è veramente nuovo viene
criticato con ripugnanza. Al cinema l’atteggiamento critico e quello del piacere del pubblico coincidono,
in una circostanza decisiva: in nessun luogo più del cinema le reazioni dei singoli, che compongono la
reazione di massa del pubblico, si dimostra condizionata fin dal principio tramite una loro
massificazione immediatamente successiva. Il dipinto aveva la pretesa peculiare di venir osservato da
uno o da pochi. L’osservazione simultanea da parte di un vasto pubblico è un sintomo precoce della
crisi della pittura. Il fatto è che la pittura non è in grado di proporre l’oggetto alla ricezione collettiva
simultanea, e per quanto da questa circostanza non debbano essere tratte conclusioni sul ruolo sociale
della pittura, è tuttavia una grave limitazione laddove la pittura viene posta immediatamente a
confronto con le masse. È proprio per questa inabilità della pittura che lo stesso pubblico che di fronte
a un film grottesco reagisce in modo progressivo, di fronte al surrealismo diventa un pubblico retrivo.
XIII.
Il cinema si caratterizza per il modo in cui l’uomo si rappresenta di fronte all’apparecchiatura
necessaria alla ripresa e per il modo in cui rappresenta il mondo circostante. Il cinema ha in effetti
arricchito il nostro mondo dei segni con metodi che possono venir illustrati mediante la teoria
freudiana. Prima della teoria freudiana, un lapsus nel corso di una conversazione passava perlopiù
inosservato; dopo la Psicopatologia della vita quotidiana questo è cambiato. Quest’opera ha isolato e
reso analizzabili cose che in precedenza fluivano inavvertitamente dentro l’ampia corrente del
percepito. Il cinema ha avuto come conseguenza un analogo approfondimento dell’appercezione
(accorgersi di percepire) sull’intera ampiezza del mondo della sensibilità ottica ed acustica. Il fatto che
le prestazioni proposte dal cinema siano analizzabili in modo molto più esatto e da punti di vista molto
più numerosi rispetto alle prestazioni di un dipinto o di uno spettacolo teatrale costituisce soltanto il
risvolto di questa situazione. Rispetto alla pittura è l’indicazione incomparabilmente più precisa della
situazione a costituire la maggiore analizzabilità della prestazione cinematografica; rispetto al
palcoscenico la maggiora analizzabilità cinematografica è data da una maggiore isolabilità. Questa
circostanza ha la tendenza a promuovere la compenetrazione tra arte e scienza. Una delle funzioni
rivoluzionarie del cinema sarà quella di rendere riconoscibile come identici l’utilizzo artistico e
l’utilizzo scientifico della fotografia, che prima in genere divergevano. Mentre il cinema da un lato
aumenta la comprensione degli elementi costrittivi da cui è governata la nostra esistenza, dall’altro
riesce anche a garantirsi un enorme spazio di manovra. Mediante il primo piano si dilata lo spazio,
mediante la ripresa al rallentatore si dilata il movimento. In tal modo diventa tangibile che la natura che
parla alla cinepresa sia diversa da quella che parla all’occhio. Diversa innanzitutto per il fatto che al
posto di uno spazio elaborato dalla coscienza dell’uomo subentra uno spazio elaborato inconsciamente.
Se per noi è comune il gesto di afferrare il cucchiaio, non sappiamo in realtà pressocché nulla di ciò che
avviene tra la mano e il metallo; qui interviene la cinepresa con i suoi mezzi ausiliari. Dell’inconscio
ottico sappiamo qualche cosa soltanto tramite essa, come dell’inconscio istintivo tramite la psicanalisi.

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XIV.
Uno dei compiti principali dell’arte è quello di generare un’esigenza per la cui piena soddisfazione
non è ancora giunto il momento. La storia di ogni forma d’arte conosce periodi critici in cui questa
determinata forma mira a risultati che potranno risultare senza forzature soltanto a un livello tecnico
diverso, ovvero attraverso una nuova forma d’arte. Le stravaganze dell’arte che da ciò conseguono, per
di più nelle epoche di decadenza, emergono alla realtà dal loro centro di forza storicamente più ricco,
come nel caso del Dadaismo, che cercava di ottenere con i mezzi della pittura quegli effetti che oggi il
pubblico cerca nel cinema. Ogni formulazione nuova di determinate esigenze colpirà al di là del proprio
bersaglio. Il Dadaismo lo fa nella misura in cui sacrifica i valori di mercato a favore di intenzioni di
maggior significato. I dadaisti attribuivano al valore mercantile delle opere un peso molto minore
rispetto alla loro inutilizzabilità in quanto oggetti di una concentrazione contemplativa. Si tratta di
un’inutilizzabilità che cercavano di ottenere tramite la degradazione del loro materiale. Le loro poesie
sono insalate di parole, contengono locuzioni oscene, e non diversi sono i loro dipinti. Ciò che ottengono
con questi mezzi è un annientamento dell’aura dei loro prodotti, ai quali imponevano il marchio di una
riproduzione. Di fronte alle opere dadaiste, è impossibile concedersi tempo per il raccoglimento e il
giudizio. Alla concentrazione, diventata scuola di comportamento asociale nella generazione della
borghesia, si contrappone la distrazione quale variante di comportamento sociale. Le manifestazioni
dadaiste concedevano una distrazione violenta nella misura in cui rendevano l’opera d’arte il fulcro di
uno scandalo. L’opera d’arte doveva produrre un’esigenza, ovvero quella di suscitare pubblica
indignazione. Con i dadaisti, l’opera d’arte diventa un proiettile che, dotato di qualità tattile, viene
sparato contro l’osservatore. Ha così favorito l’esigenza del cinema, il cui elemento distraente,
fondandosi sul mutamento delle inquadrature che investono di colpo gli spettatori, è in primo luogo
anch’esso tattile. Il dipinto invita l’osservatore alla contemplazione e di fronte ad esso l’osservatore si
può abbandonare al proprio flusso di associazioni. Di fronte all’immagine cinematografica non può farlo,
poiché appena a coglie visivamente essa si è già modificata. Il flusso associativo di colui che osserva
queste immagini viene subito interrotto per mezzo del loro cambiamento. Su ciò si basa l’effetto di
shock del cinema, quello shock fisico che il Dadaismo manteneva ancora impacchettato nell’effetto di
shock orale.
XV.
La massa è una matrice dalla quale esce rinato ogni comportamento abituale nei confronti delle opere
d’arte. La quantità si è ribaltata in qualità: le masse sempre più vaste hanno determinato un modo
diverso di partecipazione. L’osservatore non deve lasciarsi sviare dal fatto che questa partecipazione si
manifesti dapprima in forme screditate, eppure molti autori si sono attenuti a questo aspetto
superficiale della cosa. Duhamel è colui che si è espresso con la massima radicalità. Ciò che egli
disapprova del cinema è il modo di partecipazione che risveglia presso le masse: definisce il cinema un
passatempo per creature incolte, una distrazione. Si tratta di un luogo comune, della vecchia accusa
secondo cui le masse cercano soltanto la distrazione. Distrazione e raccoglimento stanno in una
contrapposizione che consente la seguente formulazione: colui che si raccoglie davanti all’opera d’arte
vi si immerge, penetrando nella stessa; inversamente, la massa distratta fa sprofondare l’opera d’arte in
sé. L’architettura, ad esempio, ha sempre fornito il prototipo di un’opera d’arte la cui ricezione avviene
nella distrazione e tramite la collettività. Le leggi della sua ricezione sono le più istruttive. Molte forme
d’arte sono sorte e poi sono passate; il bisogno dell’uomo di una dimora, tuttavia, è permanente:
attraverso l’uso e attraverso la percezione, quindi in modo tattile e in modo ottico. Dal lato tattile
non c’è alcuna controparte rispetto a ciò che è la contemplazione del lato ottico; la fruizione tattile non
avviene tanto sul pianto dell’attenzione quanto su quello dell’abitudine. Nell’ambito dell’architettura,
quest’ultima determina molto anche la ricezione ottica, che a luogo molto meno in un’attenta
osservazione che non in sguardi occasionali. Questa fruizione dell’architettura ha un valore canonico,

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poiché i compiti che in epoche di trapasso storico vengono posti all’apparato percettivo umano non
devono essere assolti per via della mera ottica, ovvero della contemplazione, ma se ne deve venie a capo
in base all’addestramento della fruizione tattile, ovvero tramite l’abitudine. Anche colui che è distratto
può abituarsi; anzi, assolvere certi compiti anche nella distrazione dimostra innanzitutto che per
l’individuo in questione è diventata un’abitudine assolverli. Attraverso la distrazione si può tenere sotto
controllo in quale misura i compiti dell’appercezione siano diventati risolvibili. Questo è quello che fa il
cinema. La fruizione della distrazione trova nel cinema il proprio autentico strumento di esercizio. Nel
suo effetto di shock, il cinema viene incontro a questa forma di fruizione: il cinema respinge il valore
cultuale per il fatto che al cinema l’atteggiamento valutativo non implica attenzione, poiché il pubblico
è un esaminatore distratto.
Postilla
La progressiva proletarizzazione degli uomini e la formazione sempre crescente di masse sono due
aspetti di un unico e medesimo accadere. Il fascismo cerca di organizzare le masse proletarizzate senza
intaccare i rapporti di proprietà la cui eliminazione queste masse perseguono. Il fascismo vede la propria
salvezza nel consentire alle masse di esprimersi. Le masse hanno un diritto a un cambiamento dei
rapporti di proprietà, ed il fascismo tende conseguentemente a un’estetizzazione della vita politica.
All’oppressione delle masse corrisponde l’oppressione da parte d un’apparecchiatura di cui esso si
serve per la produzione di valore cultuali. Tutti gli sforzi in vista di un’estetizzazione della politica
convergono verso la guerra, la sola a rendere possibile fornire uno scopo ai movimenti di massa di
grandi proporzioni. Da parte della tecnica, essa si formula secondo quanto segue: soltanto la guerra
permette di mobilitare tutti i mezzi tecnici del presente. Nel manifesto di Marinetti per la guerra
coloniale d’Etiopia si parla di una vera e propria estetica della guerra, esaltandola come un qualcosa
di bello. Questo manifesto ha il vantaggio della chiarezza. Per Marinetti l’estetica della guerra si presenta
secondo quanto segue: se l’utilizzo naturale delle forze produttive viene frenato tramite l’ordinamento
dei rapporti di proprietà, l’espansione dei mezzi tecnici spinge verso un utilizzo innaturale, utilizzo
che avviene nella guerra, la quale fornisce la dimostrazione che la società non era sufficientemente
matura per rendere la tecnica un proprio organo. La guerra imperialistica è una ribellione della tecnica.
L’umanità, che un tempo in Omero era uno spettacolo per gli dei dell’Olimpo, ora lo è diventata per se
stessa. La sua auto estraniazione ha raggiunto un livello che le permette di vivere il proprio
annientamento come un godimento estetico di prim’ordine. Così stanno le cose riguardo
all’estetizzazione della politica che il fascismo persegue. Il comunismo gli risponde con la
politicizzazione dell’arte.

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