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a cura di Eugenia Battisti

IL LIBRO NERO
DELLA 54ª BIENNALE DI VENEZIA

Lulu Press, New York 2011

testi di
Eugenia Battisti - Giorgia Calò - Valentina Fanfoni -
Maura Favero - Sara Milano - Valentina Ravaglia -
Eleonora Sermoneta - Alessandra Troncone
Il Libro Nero della 54a Biennale di Venezia
a cura di Eugenia Battisti

con testi di Eugenia Battisti, Giorgia Calò,


Valentina Fanfoni, Maura Favero, Sara Milano,
Valentina Ravaglia, Eleonora Sermoneta,
Alessandra Troncone

Progetto grafico di Francesco Russo e Valentina Ravaglia

1a edizione
Lulu, New York, dicembre 2011
www.lulu.com

ISBN 978-88-904291-0-1

Quest’opera è stata rilasciata con licenza Creative Commons


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Indice

RINGRAZIAMENTI 5

Eugenia Battisti
INTRODUZIONE 6

Valentina Fanfoni
DONNE ALLA BIENNALE 2011 15

Maura Favero
DISCORSI SU UN METODO MINORE. DORA GARCÍA:
L’INADEGUATO, LO INADECUADO, THE INADEQUATE 38

Alessandra Troncone
AVANGUARDIA E KITSCH NELLA 54a BIENNALE DI VENEZIA 65

Eleonora Sermoneta
SE L’INDIA ESPLODE A VENEZIA:
NUOVE GEOGRAFIE DELL’ARTE CONTEMPORANEA 85

Giorgia Calò
ISRAELE: UN NUOVO PALCOSCENICO PER L’ARTE
CONTEMPORANEA 111

Sara Milano
CREARE NUOVI SPAZI E COSTRUIRE NUOVI PONTI.
SIGALIT LANDAU AL PADIGLIONE ISRAELE 122

3
Eugenia Battisti
ILLUMINAZIONI E GLOBALIZZAZIONE 133

Valentina Ravaglia
APOLOGIA DEL PADIGLIONE:
SULL’IDEA DI NAZIONE ALLA 54a BIENNALE DI VENEZIA 151

INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI E CREDITI FOTOGRAFICI 174

BIOGRAFIE DELLE AUTRICI 180

4
Alessandra Troncone
Avanguardia e Kitsch
nella 54a Biennale di Venezia

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IL LIBRO NERO DELLA 54ª BIENNALE DI VENEZIA

Una stessa Biennale produce contemporaneamente due cose del tutto diverse, come
Stilleben di Katharina Fritsch e The Clock di Christian Marclay.
Al lettore più attento questo incipit potrebbe suonare familiare. Altro non è infatti che
una delle considerazioni espresse da Clement Greenberg nel suo celebre saggio “Avant-Garde
and Kitsch” (1939)1; qui però “società” è diventato “biennale” e agli esempi di Eliot e Braque
sono state sostituite due delle opere scelte da Bice Curiger per la sua mostra internazionale.
I due termini con cui il critico americano titola il suo contributo possono infatti essere
presi in prestito – con le dovute attenzioni – per provare a strutturare un percorso tematico
all’interno di questa 54a Biennale, che si presenta all’insegna della luce (o meglio, delle
illuminazioni) ma allo stesso tempo rivela le sue ombre.
Una prima nota è necessaria proprio a proposito del saggio greenberghiano; scritto nel
1939, questo si presenta fortemente contestualizzato e sarebbe pertanto più che azzardato
attribuire la definizione di “avanguardia” del critico alle molteplici espressione della rassegna
veneziana, così come – per certi aspetti – la stessa nozione di Kitsch. Greenberg guarda
all’avanguardia come a qualcosa in grado di preservare la propria aura sottraendosi così al
consumo di massa mentre oggi un possibile, ipotetico, retaggio avanguardista si rintraccia
proprio in quelle ricerche che fanno propri i mezzi di comunicazione per dire qualcosa sulla
società attuale. La barriera tra ricerche d’avanguardia e cultura consumistica (avanguardia e
retroguardia, direbbe Greenberg) è caduta ormai da un pezzo, abbattuta a cominciare dalla
Pop Art. Greenberg pensa inoltre all’avanguardia guardando al Modernismo, mentre la 54a
Biennale si inserisce in clima post/post-moderno o meglio altermoderno, per riprendere la
definizione di Nicholas Bourriaud2, che spiega:

Altermodern è una parola che intende definire la specifica modernità secondo lo specifico
contesto in cui viviamo - globalizzazione e le sue condizioni economiche, politiche e culturali.
L’uso del prefisso “alter” significa che il periodo storico definito dal postmodernismo sta per

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Avanguardia e Kitsch nella 54a Biennale di Venezia

giungere alla fine ed allude alla locale lotta contro la standardizzazione. Il cuore di questa nuova
modernità è, secondo me, l’esperienza del vagare - nel tempo, nello spazio e nei media.3

Queste parole acuiscono il distacco tra il Modernismo – la cui essenza è per Greenberg
nella specificità del proprio mezzo espressivo4 – e l’Altermoderno, che invece fa della
contaminazione, del “vagare nei media”, il proprio tratto distintivo.
È chiaro dunque che il riferimento ad “Avant-Garde and Kitsch” va ponderato rispetto
a quella che è la situazione attuale e di cui la Biennale intende farsi palcoscenico; tuttavia,
l’adozione di questi due concetti può rivelarsi utile per mettere in luce (con uno sguardo per
forza di cose parziale) due delle tante anime di questa edizione, conviventi e rintracciabili sia
nella mostra curata dalla Curiger, sia nei padiglioni nazionali.

Avanguardia

Difficile, se non impossibile, individuare nel 2011 un vero slancio avanguardista nello
sfaccettato panorama delle attuali ricerche artistiche: estremismo, audacia, innovazione,
sperimentazione, rottura con il sistema e con la tradizione sono tutte caratteristiche che sono
andate perdute a favore di un sensazionalismo che, nel suo proporsi eversivo, la maggior
parte delle volte strizza l’occhio proprio alle dinamiche di mercato e sistema che dovrebbe
contestare.
La vera avanguardia, rapportata al suo contesto originario, potrebbe essere
rappresentata dalle tele di Tintoretto che la Curiger ha scelto di portare in mostra. Sebbene
queste dialoghino a fatica con il resto dell’esposizione, la curatrice ha voluto la loro
presenza in virtù «dell’energia pittorica assolutamente anticlassica» che sono in grado di
esprimere. «L’arte di Tintoretto è sotto molteplici aspetti eterodossa e sperimentale», scrive
la Curiger nel suo testo in catalogo5, tracciando così un parallelo con le ricerche artistiche
contemporanee.
Un discorso simile, laddove la ricerca dell’avanguardia si rivolga al passato, può
essere fatto a proposito di Gianni Colombo, di cui è esposto Spazio elastico del 1967, già

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IL LIBRO NERO DELLA 54ª BIENNALE DI VENEZIA

presentato peraltro alla Biennale del 1968. Qui lo spettatore entra in uno spazio attraversato
da corde elastiche fluorescenti illuminate da luce ultravioletta, la cui tensione è controllata
da motori elettrici. L’ambiente si configura dunque in continua trasformazione, provocando
un senso di spaesamento e un’apparente perdita di equilibrio.
Inutile dire che le ricerche di Colombo si inseriscono nel più ampio contesto delle
neo-avanguardie, ormai ampiamente storicizzate eppure ancora in grado di comunicare
l’innato sperimentalismo che le attraversava. La documentazione di un’avanguardia
storicizzata e istituzionalizzata – abbinamento di termini che tradisce un risvolto paradossale
e contradditorio – accomuna così Tintoretto e Colombo, artisti chiaramente molto distanti
ma chiamati ad occupare uno spazio contiguo in mostra, legati anche da un’attenzione alla
luce che fa da tema unificante in questa Biennale. Lasciando dunque il passato, un altro
possibile percorso può strutturarsi guardando a chi riprende alcune strategie che furono delle
prime Avanguardie, ora calate in un nuovo contesto.
Come i movimenti d’avanguardia hanno fatto dell’appropriazione della realtà il proprio
modus operandi, gli artisti che qui cito si impadroniscono dello stesso tipo di strategia,
facendo proprie novità e strumenti dell’avanguardia storica.
Punto di partenza può essere proprio il Leone d’Oro Christian Marclay, in mostra
all’Arsenale con The Clock, nel quale migliaia di frammenti di film si succedono in un’unica
narrazione di 24 ore. A riunire le sequenze è la comparsa di orologi che scandiscono il

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Avanguardia e Kitsch nella 54a Biennale di Venezia

trascorrere del tempo, in accordo con quello di fruizione (l’artista sincronizza l’opera con
l’orario locale del posto in cui questa viene presentata). Il risultato è un mosaico di storie
apparentemente slegate che entrano però nella vita reale grazie alla coincidenza del tempo
della fiction con quello dello spettatore. Scrive Tom Morton per il catalogo di British Art
Show 7, dove l’opera è stata precedentemente esposta: «Watching Marclay’s video, we inhabit
two worlds, that the fiction and that the fact, experiencing the persuasive illusion of the
passage of time, while being constantly reminded that very real seconds, minutes and hours
are flying inexorably by, never to be reclaimed»6.
Marclay porta dunque al suo culmine le pratiche del collage e dell’assemblaggio,
insistendo su un uso potremmo dire “materico” del montaggio, dove i film sono
“modellati” come fossero ritagli di giornale o oggetti trovati. A differenza però dello spirito
dadaista, dove le associazioni possibili erano dettate spesso da intuitività e casualità, qui la
programmazione è precisa, studiata in ogni suo passaggio per permettere la totale sincronia.
Se dunque il montaggio permette la creazione di uno spazio-tempo ideale del film, Marclay
lo utilizza solo per la componente spaziale, mentre quella temporale rimane ben ancorata
alla realtà. La rinuncia ad una narrazione descrittiva, unitaria e compiuta è così solo parziale,
in quanto il tempo che scorre suggerisce inevitabilmente una linearità intrinseca all’opera.
Come anche nel suo precedente lavoro Telephones (1995), realizzato sempre con estratti
di film, stavolta accomunati dallo squillo di un telefono (vedi pubblicità dell’i-Phone!),

Christian Marclay, The Clock, 2010; stills dal video.

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IL LIBRO NERO DELLA 54ª BIENNALE DI VENEZIA

anche The Clock incarna l’esempio eclatante di un intenso lavoro di postproduzione che ci
riporta dritti dritti a Bourriaud e ai suoi esempi di «arte che riprogramma il mondo»7.
Qui però la postproduzione (che si fa concetto metalinguistico nel momento in cui
non si tratta di oggetti già informati ma di film belli e fatti) non sembra rispondere a nessun
intento socio-politico, come invece suggeriva Godard («Il montaggio come concetto politico
fondamentale»8) e come succede nella maggior parte degli esperimenti dei primi decenni del
Novecento e in alcuni degli esempi citati da Bourriaud.
Il lavoro di Marclay appare dunque perfetto nella sua autoreferenzialità e ciclicità (non
c’è inizio né fine), eccezionale nel tenerci incollati ad uno schermo senza darci nessuna storia
da seguire.

Restando nel Regno Unito e in mostra all’Arsenale, un altro artista che si fa notare
è Nick Relph, il quale presenta Thre Stryppis Quhite Upon ane Blak Field, video che gioca
sulla sovrapposizione di tre documentari: il primo dedicato all’artista Ellsworth Kelly, il
secondo al tartan (particolare disegno dei tessuti in lana delle Highland scozzesi) e il terzo
allo stilista Rei Kawakubo. Le immagini si sovrappongono così in un caleidoscopio di
colori psichedelici rievocanti un’atmosfera anni Sessanta. La capacità di evocare assonanze
visive pur nella diversità dei contenuti trattati si fa indagine sulle possibili strategie di
comunicazione, riprendendo motivi che possono essere assimilabili alla stessa pratica del
montaggio richiamata in precedenza.

Alle radici del montaggio c’è il collage, che si ritrova nell’opera esposta da Cyprien
Gaillard, Floods of the Old and New World: qui cartoline turistiche vengono coperte con
etichette di birra, rivelando un approccio ironico al multiculturalismo e alle contaminazioni
culturali (in pieno stile altermodern). Gli esempi di Marclay, Relph e Gaillard insistono
dunque sull’utilizzo dei mezzi di comunicazione (il film, il documentario, l’etichetta
pubblicitaria) per una riflessione sul medium che affonda le radici nelle Avanguardie ma
che si fa estremamente attuale e risulta di immediata comprensione, con buona pace però
dell’originalità dell’opera tanto difesa da Greenberg.

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Avanguardia e Kitsch nella 54a Biennale di Venezia

Cyprien Gaillard,
Floods of the Old and New World, 2011;
dettaglio dalla serie di 12 collage.

Un fenomeno interno alla Biennale, che presenta caratteri di novità e spunti interessanti
rispetto ad un possibile legame con il concetto di avanguardia, è quello dei Para-padiglioni.
Tali strutture, realizzate dagli artisti Monika Sosnowska, Franz West, Song Dong e Oscar
Tuazon, “mirano a dinamizzare la presentazione rinunciando alla consueta narrazione
additiva”9, facendosi insieme contenuto e contenitore.
La riuscita del Para-padiglione va letta innanzitutto in relazione alla fortunata sintesi
arte-architettura, che trova riscontro anche in molti padiglioni nazionali: quello austriaco
di Markus Schinwald, quello greco di Diohandi, quello inglese di Mike Nelson, fino
al progetto visionario del prematuramente scomparso Christoph Schlingensief, che ha
trasformato il padiglione tedesco in una enorme chiesa laica. In tutti questi casi ci troviamo
di fronte alla reinterpretazione di uno spazio dato, una riprogrammazione, per citare ancora
una volta Bourriaud. Rispetto alle opere di Marclay o di Relph, qui lo spettatore è coinvolto
in misura maggiore, perché entra in campo la relazione con lo spazio, la percezione che ne
abbiamo.
Nel caso dei Para-padiglioni, altro elemento interessante è il rapporto che si viene a
creare tra i diversi artisti, coinquilini in uno spazio ideato a sua volta da un artista. Viene

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IL LIBRO NERO DELLA 54ª BIENNALE DI VENEZIA

così – almeno apparentemente – a cadere l’individualismo postmoderno, a favore di una


cooperazione e integrazione che dà come risultato un’opera corale. Emblematico in tal senso
il Para-padiglione di Franz West, che ha ricreato la sua cucina-studio viennese con le opere
dei suoi amici artisti, esposte stavolta all’esterno (da cui il titolo Extroversion): lo spazio
privato, l’ambiente in cui lavoro e vita quotidiana si intrecciano, viene riproposto in un
contesto pubblico.
La convivenza di artisti praticanti linguaggi diversi, chiamati a coabitare uno spazio
ristretto e ben definito all’interno del percorso biennalesco, riporta ad una sorta di
“laboratorio”, di compenetrazione e di scambio che ha fatto da base alla nascita di ogni
movimento d’avanguardia. Non sarà questo il caso, ma l’esperimento del para-padiglione
è significativo nel riportare l’attenzione su una condivisione possibile in ambito artistico e
curatoriale, contro il modello ormai affermato dell’artista-isola.

Seppur estremamente frammentato e parziale, questo possibile percorso all’insegna


della (polisemica) parola “avanguardia” mostra come spesso andare avanti vuol dire in realtà
tornare indietro. Ciò che sembra convincerci di più, ciò a cui riconosciamo la capacità
di dirci o comunicarci qualcosa, si lega indissolubilmente ad una sperimentazione già
“sperimentata”, che perde in termini di provocazione o rottura ma ancora una volta riporta
l’attenzione sulla necessità di riflettere sul medium e sul senso della pratica artistica. Se,
come scrive Greenberg, «l’avanguardia imita i procedimenti dell’arte»10, la alter-avanguardia
imita i procedimenti dell’avanguardia, rivelando così un debito mai saldato nei confronti dei
pionieri.

Kitsch

Aiutandoci ancora con le parole di Greenberg, il critico definisce il Kitsch: «un


prodotto della rivoluzione industriale, che nell’Europa occidentale e in America ha
urbanizzato le masse e ha instaurato quello che si chiama l’alfabetismo universale»11.
Di origine tedesca, il termine è comunemente attribuito ad oggetti di cattivo gusto,

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Avanguardia e Kitsch nella 54a Biennale di Venezia

che si presentano come imitazione della “vera” arte e che per questo motivo mancano di
creatività ed originalità12.
Il Kitsch si sposa dunque con il processo di standardizzazione reso possibile dalla
produzione in serie che caratterizza ormai anche l’industria culturale; il suo essere “fasullo”
incentiva un feticismo dell’opera riprodotta, aumentandone la voglia di possesso.
Scrive ancora Greenberg: «Se l’avanguardia imita i procedimenti dell’arte, il kitsch
ne imita gli effetti»13. Sull’importanza dell’effetto per il Kitsch torna Hermann Broch,
affermando: «L’essenza del Kitsch consiste nello scambio della categoria etica con la categoria
estetica; esso impone all’artista non un “buon” lavoro ma un “bel” lavoro; ciò che gli
importa è il bell’effetto»14.
Questa breve introduzione lascia intendere come il concetto di Kitsch si leghi
indissolubilmente a quello di simulacro, facendosi specchio dell’epoca postmoderna (vedi
Baudrillard15) e, perché no, possibile strumento per attraversare le contaminazioni in atto
anche nell’Altermoderno.

Katharina Fritsch,
Stilleben, 2011;
Giardino delle Vergini, Arsenale.

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IL LIBRO NERO DELLA 54ª BIENNALE DI VENEZIA

Torniamo quindi alla nostra Biennale alla ricerca del Kitsch, cercando innanzitutto
di riconoscere quali tra le molteplici presenze alla manifestazione veneziana possano essere
rapportate a questo termine. Ci torna utile a questo scopo la definizione di Greenberg, il
quale identifica il Kitsch con i tre aggettivi: riconoscibile, miracoloso, congeniale.
Un primo esempio può essere l’opera di Katharina Frisch Stilleben (2011), installata
nella parte esterna dell’Arsenale. Qui una selezione di soggetti religiosi o dal forte significato
simbolico (una Madonna, un vescovo, un teschio, un serpente, un uovo) sono raccolti a
costituire un’improbabile sacra conversazione, virata nei toni della fosforescenza.
In quest’opera la Fritsch non gioca solo con l’enigmaticità delle figure e con i
colori accesi, ma fa leva su una serie di suggestioni ben radicate, che ci permettono di
riconoscere un latente senso di religiosità pur nell’ironia e nello stravolgimento dei soggetti
rappresentati. L’immediatezza e la riconoscibilità, l’accento sull’effetto, sono elementi che ci
permettono di inserire quest’opera nel percorso del Kitsch. A questo si aggiunge la scelta
di colori fluorescenti abbinati ad icone religiose, trionfo del cattivo gusto che riporta ai

Allora&Calzadilla, Armed
Freedom Lying on a Sunbed,
2011; Padiglione degli
Stati Uniti d’America

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Avanguardia e Kitsch nella 54a Biennale di Venezia

souvenir turistici, qui notevolmente ingranditi.

Spostiamoci al Padiglione americano per ritrovare un altro esempio eclatante di Kitsch:


Armed Freedom Lying on a Sunbed, una delle opere presentate dal duo Allora & Calzadilla.
Si tratta della riproduzione della Statue of Freedom, scultura in bronzo alta sei metri che
si trova in cima alla cupola del Campidoglio dal 1863. Una figura idealizzata di donna è
rappresentata con i simboli degli Stati Uniti d’America (un medaglione con le lettere US,
le stelle della bandiera tra i capelli, una ghirlanda di alloro, uno scudo con tredici stelle e
strisce), facendosi emblema della libertà del popolo americano.
Allora & Calzadilla hanno realizzato una copia di quasi tre metri della statua originale
e l’hanno sistemata stesa su un lettino abbronzante, come in una bara invasa da raggi
ultravioletti. A rinforzare il legame con l’opera originale, la scelta di installare nell’opera nella
rotonda del Padiglione, che richiama la forma architettonica della cupola e della rotonda del
Campidoglio, dove è collocata la vera Statue of Freedom.
L’opera si caratterizza così per una serie di rimandi – ancor più espliciti per il popolo
americano –, mettendo in campo non solo la componente fasulla (la statua come imitazione
dichiarata) e l’immediata riconoscibilità proprie del Kitsch, ma anche la sua connotazione
sentimentale, cui accenna Milan Kundera ne L’insostenibile leggerezza dell’essere:

Nel regno del Kitsch impera la dittatura del cuore. I sentimenti suscitati dal Kitsch devono
essere, ovviamente, tali da poter essere condivisi da una grande quantità di persone. Per questo
il Kitsch non può dipendere da una situazione insolita, ma è collegato invece alle immagini
fondamentali che le persone hanno inculcate nella memoria.16

Pur nella sua ironia, Armed Freedom Lying on a Sunbed richiama le salme dei presidenti
defunti, chiusi in bare avvolte dalla bandiera americana; un’immagine fortemente radicata e
in grado di attivare la memoria individuale come quella collettiva.

Riferimenti all’apparenza più “spiccioli” sono invece quelli attivati da Thomas

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IL LIBRO NERO DELLA 54ª BIENNALE DI VENEZIA

Hirschhorn nel Padiglione Svizzero, nel complesso lavoro che prende il nome di Crystal of
Resistance. Oggetti d’uso comune in gran quantità, simboli del feticcio-merce (dai cellulari ai
televisori, dalle bottiglie di birra alle riviste) invadono il padiglione, legati l’uno all’altro da
nastri di scotch e fogli di carta alluminio che ne evidenziano la condizione precaria.
Se il legame fisico è il tipico nastro da imballaggio, quello concettuale è il cristallo, in
grado secondo l’artista di rappresentare «l’universale, il definitivo, l’assoluto, la bellezza in
sé»17. La cristallizzazione di uno spaccato della nostra vita quotidiana, con la ripetizione –
quasi nauseante – degli oggetti più comuni, sfrutta l’eccesso, l’imitazione e la reiterazione
del Kitsch ma al tempo stesso lo fa in modo consapevole, con l’intento di portare avanti un
discorso sulla resistenza dell’arte nel territorio del precario.
I riferimenti dell’artista sono propriamente Kitsch, come dimostrano le metafore usate
per descrivere il padiglione:

Voglio realizzare un lavoro che ricordi l’estetica del set di un film di “fantascienza” di serie B, un
lavoro che prenda a modello l’estetica di un museo di cristalli di rocca creatosi da sé, l’estetica di
un laboratorio in cui si fabbricano “crystal-meth”, o un lavoro dall’estetica simile all’ambiente
dozzinale di una discoteca di provincia.18

Il richiamo al popolare, al commerciale, al basso, si sposa con una ricerca dell’effetto


di cui parlava Hermann Broch, come confermano le stesse parole di Hirschhorn: «A me
interessa la “bellezza” e non cerco la qualità: questo è l’elemento amore. La qualità non mi
ha mai interessato, per me non è che una parola esclusiva e vuota»19.

L’estetizzazione del banale ricorre nell’opera di Klara Lidén Untitled (Trashcan), che
dal Kitsch vira nel trash, in senso “letterale” data la scelta degli oggetti. Il lavoro presentato
all’Arsenale consiste infatti in bidoni dell’immondizia di vario genere disseminati all’esterno
delle Corderie, lungo il percorso espositivo. Rispetto all’installazione della stessa opera alla
galleria NEU di Berlino, dove i bidoni campeggiano nell’asettico white cube dello spazio
espositivo come fossero quadri o sculture, qui è facile scambiarli per veri cestini della

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Avanguardia e Kitsch nella 54a Biennale di Venezia

spazzatura; la ricontestualizzazione nel luogo deputato dell’arte avviene dunque in modo


parziale, ma non per questo in maniera meno efficace. Sebbene dunque l’estetizzazione del
basso ci riporti al Kitsch, la strategia riattualizzata del ready-made dice “avanguardia”, dando
prova di come sia difficile operare una separazione chirurgica tra i due concetti.

Altri possibili esempi di Kitsch possono essere rintracciati nella copia del Ratto
delle Sabine di Giambologna ad opera di Urs Fischer, che trasforma la celebre scultura
cinquecentesca in una candela destinata a diventare un ammasso informe alla fine
dell’esposizione, oppure nell’intervento dell’intramontabile Cindy Sherman, che in Murals si
autoritrae su uno sfondo bucolico reso alla maniera della stoffa settecentesca chiamata Toile
de Jouy, richiamando, nei suoi costumi bizzarri, «il genuino kitsch delle figurine religiose»20.

Se fin qui il percorso non è stato pensato per esprimere un giudizio di valore sulle opere

Klara Lidén,
Untitled (Trashcan), 2011;
dettaglio dell’installazione,
Arsenale.

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IL LIBRO NERO DELLA 54ª BIENNALE DI VENEZIA

ma solo per estrapolare alcuni concetti utili a mostrare le possibili declinazioni del Kitsch in
Biennale, due parole in dissonanza con tale principio possono essere spese in riferimento al
Padiglione Italia.
Qui il trionfo del Kitsch non è più riportabile ad una riflessione su strumenti e
dinamiche dell’arte, ma al preciso intento di affossare la qualità a favore di un bazar
sconclusionato dove se qualcosa di buono c’è, purtroppo non si vede. Non è solo la selezione
(ammesso ci sia stata) delle opere a suggerire la sensazione di un Kitsch imperante ma
l’affastellamento, il “troppo”, la scelta di utilizzare al posto dei cartellini ingombranti scatole
che aumentano il caos visivo, le pornostar sedute come-mamma-le-ha-fatte sulle sedie di
Gaetano Pesce, non ultima la mortadella servita a fette in occasione del vernissage.
C’è chi come Politi ha espresso un commento in fin dei conti positivo sul nostro
Padiglione nazionale, giudicandolo «divertente, esagerato, kitsch [corsivo mio], ma vivo e
chiassoso»21 a differenza di quello “spento” di Bice Curiger.
Sebbene sia innegabile che la mostra della curatrice svizzera abbia per molti versi
disatteso le (troppo alte?) aspettative, e d’accordo sulla necessità di una nota di colore
all’interno di una Biennale troppo “scura” (a dispetto del titolo), il Kitsch sovrabbondante
nel Padiglione Italia inquieta per il suo essere specchio del nostro Paese, come tra l’altro
rilevato dai commentatori stranieri: «The exhibition would be a national scandal, if Italy
weren’t already plagued by so many»22, sentenzia Roberta Smith sul blog “Arts Beat” del New
York Times.

Viene allora da pensare a quell’aspetto del Kitsch che fino ad ora abbiamo tenuto ai
margini, ovvero il suo essere «uno dei modi indolori mediante i quali i regimi totalitari
cercano di ingraziarsi il popolo asservito»23. Le parole sono – nemmeno a dirlo – di
Greenberg e l’anno è sempre il 1939, quando lo spettro del regime totalitario è pura realtà.
Lo stesso si può dire di Kundera, che nella Praga degli anni Ottanta scrive:

Il Kitsch è l’ideale estetico di tutti gli uomini politici, di tutti i partiti e di tutti i movimenti
politici. In una società dove coesistono orientamenti politici diversi e dove quindi la loro

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Avanguardia e Kitsch nella 54a Biennale di Venezia

influenza si annulla o si limita reciprocamente, possiamo ancora in qualche modo sfuggire


all’inquisizione del Kitsch; l’individuo può conservare la sua individualità e l’artista può creare
opere inattese. Ma là dove un unico movimento politico ha tutto il potere, ci troviamo di colpo
nel regno del Kitsch totalitario.24

Sebbene le considerazioni di Greenberg e Kundera siano correlate ad una specifica


situazione storico-politica, sembra terribilmente attuale associare gli esiti del Padiglione Italia
all’assenza di «orientamenti politici diversi”, come spiega lo scrittore ceco, e dunque legare
la presenza italiana in Biennale ad un’altra “disgrazia” del nostro Paese, come rilevato da
Roberta Smith.

Detto questo, uno spiraglio si intravede nel Padiglione delle Accademie, l’avanguardia
che risponde alla retroguardia, per semplificare in modo estremo (e non senza un pizzico di
azzardo).
Alle Tese di San Cristoforo è esposta una selezione dei migliori diplomati delle venti
Accademie di Belle Arti italiane degli ultimi 10 anni (2000-2010); una mostra con all’incirca
150 opere che, al contrario del padiglione “ufficiale”, appare molto meglio strutturata;
l’allestimento con pannelli centrali rende possibile e leggibile un percorso, la compresenza
di tutti i media artistici si presta ad offrire una panoramica completa ed equilibrata delle
direzioni verso le quali si muovono le ricerche dei più giovani, al punto che non pochi
hanno suggerito una strategica inversione di padiglioni.
È chiaro come trattandosi di una super-mostra collettiva sia impossibile generalizzare
e come avanguardia e kitsch siano chiamati nuovamente a convivere; è altrettanto evidente
però come qui audacia, sperimentazione e motivazione si facciano traccia di fondo
all’interno dello spazio espositivo, facendo il verso ai toni reazionari del Padiglione Italia.
Ci piace quindi smentire l’aforisma greenberghiano per cui “tutto il kitsch è accademico
e, per converso, tutto ciò che è accademico è kitsch”, identificando proprio nel Padiglione
dedicato alle ricerche dei più giovani un possibile slancio verso il futuro.

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IL LIBRO NERO DELLA 54ª BIENNALE DI VENEZIA

Chiudiamo quindi questo possibile percorso – riconoscendone l’assoluta parzialità – tra


Avanguardia e Kitsch rilevando quanto i due concetti siano ormai complementari, più che
contrapposti; non avanguardia e retroguardia, non il diavolo e l’acqua santa, ma le facce di
una stessa medaglia, che in molti casi comunicano allo stesso modo.
Basterà rivedere alcuni degli esempi qui citati, a proposito dell’uno o dell’altro, per
scoprire come il modus operandi sia in certi casi estremamente simile: in epoca attuale,
sia l’avanguardia che il kitsch lavorano ad esempio sulla decontestualizzazione e sulla
frammentazione, sulla ripresa di motivi già dati, sulla messa in discussione del concetto di
originalità.
La Biennale, nel suo essere eclettica e nel suo non offrire mai un punto di vista univoco,
si offre come perfetto palcoscenico per mostrare la compresenza di due poli che altrimenti
– o in altri contesti – apparirebbero inconciliabili. Ecco perché anche il Kitsch formalmente
più esplicito viene accettato come contraltare necessario, laddove una vera avanguardia non è
più identificabile e il rischio da affrontare diviene l’appiattimento generale e lo svuotamento
di contenuti. Come ha scritto Gillo Dorfles a proposito di questa edizione della Biennale:
«Forse, dopotutto, anche un pò di pop, e perché no, di kitsch potranno immettere un pò di
linfa nelle vene sclerotizzate dell’arte contemporanea»25.

Scegliendo di trattare il possibile confronto-scontro tra Avanguardia e Kitsch sono


rimasti fuori tanti altri possibili temi, che attraversano trasversalmente la Biennale: la
luce annunciata dal titolo, la memoria, l’identità, il rapporto con la politica. Temi che si
intrecciano offrendo un colpo d’occhio sempre diverso, aprendo altri spaccati sul panorama
artistico contemporaneo.
Questa però è un’altra storia. O forse, un’altra Biennale.

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Avanguardia e Kitsch nella 54a Biennale di Venezia

NOTE

1. C. Greenberg, “Avant-Garde and Kitsch”, in Partisan Review, vol. 6, n. 5, 1939; trad. it.: “Avanguardia e
Kitsch”, in Arte e Cultura. Saggi critici, Torino: Allemandi, 1991; cons. in G. Di Giacomo, C. Zambianchi (a
cura di), Alle origini dell’opera d’arte contemporanea, Roma-Bari: Laterza, 2008, p.67.
2. Altermodern è il titolo dato dal curatore Nicholas Bourriaud alla quarta edizione della Tate Triennial che si è
svolta nella sede londinese della Tate Britain, tra febbraio e aprile 2009.
3. N. Bourriaud cit. nell’intervista con Bartholomew Ryan in Art in America, 17 marzo 2009,
<www.artinamericamagazine.com>.
4. C. Greenberg, “Modernist painting”, 1961; trad. it.: “Pittura modernista”, in G. Di Giacomo, C.
Zambianchi (a cura di), Alle origini dell’opera d’arte contemporanea, op. cit., pp.84-92.
5. B. Curiger (a cura di), La Biennale di Venezia: 54ª Esposizione Internazionale d’Arte, ILLUMInazioni, cat.,
Venezia: Marsilio, 2011, p.49.
6. T. Morton, In the Days of Comet. British Art Show 7, cat., Hayward Gallery, Londra, 2011, p.102.
7. N. Bourriaud, Postproduction. La culture comme scenario: comment l’art reprogramme le monde contemporain
(2002); trad. it.: Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo, Milano: Postmedia, 2004.
8. J-L. Godard, Godard pour Godard. Des années Mao aux années 80, Paris: Flammarion, 1991; cit. in ibid.,
p.50.
9. B. Curiger, ILLUMInazioni, op. cit., p.46.
10. C. Greenberg, “Avant-Garde and Kitsch”, op. cit., p.78.
11. Ibid., p.73.
12. Sul Kitsch vedi i saggi raccolti in G. Dorfles (a cura di), Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto, Mazzotta,
Milano, 1968, definito dallo stesso autore come “catalogo ragionato del cattivo gusto imperante”, p.11.
13. C. Greenberg, “Avant-Garde and Kitsch”, op. cit., p.78.
14. H. Broch, “Notes on Problem of Kitsch” (1950), in G. Dorfles (a cura di), Il Kitsch. Antologia del cattivo
gusto, Milano: Mazzotta, 1968, p.70.
15. Cfr. J. Baudrillard, L’échange symbolique et la mort (1976), trad. it. Lo scambio simbolico e la morte, Milano:
Feltrinelli, 1984.
16. M. Kundera, Nesnesitelná lehkost bytí (1984); trad. it.: L’insostenibile leggerezza dell’essere, Milano: Adelphi,
1985 (ed. cons. 1988), p.256.

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IL LIBRO NERO DELLA 54ª BIENNALE DI VENEZIA

17. T. Hirschhorn, Crystal of Resistance, <www.crystalofresistance.com>.


18. Ibid.
19. Ibid.
20. E. Stokes in B. Curiger (a cura di), ILLUMInazioni, op. cit., p.265.
21. G. Politi, “Chi non ha apprezzato il Padiglione di Sgarbi manca di senso dell’umorismo”, in newsletter Flash
Art, giugno 2011.
22. R. Smith, “Venice Biennale: The Enormity of the Beast”, in <www.artsbeat.blogs.nytimes.com>, 2 giugno
2011.
23. C. Greenberg, “Avant-Garde and Kitsch”, op. cit., p.81.
24. M. Kundera, op. cit., p.257.
25. G. Dorfles, “Pop, kitsch e lampi di colore. La Biennale illumina un pò tutto”, in Il Corriere della Sera,
Milano, 12 giugno 2011. Vedi: <www.corriere.it/cultura/>

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