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PROSPETTIVE SULL’ERMENEUTICA DELL’IMMAGINE

Alberto Martinengo
Introduzione
Nel 1992 la rivista Artforum pubblica un articolo intitolato Pictorial Turn. L’autore, W.J.T. Mitchell,
insegna alla University of Chicago ed è noto al pubblico per le sue ricerche sul rapporto tra il testo e
l’immagine. In questo articolo, Mitchell propone di raccogliere alcuni fenomeni culturali recenti sotto
una categoria che susciterà discussioni molto accese, favorevoli e contrarie. Il pictorial turn, nell’ipotesi
di Mitchell, è il tentativo di dare nome a una trasformazione del dibattito filosofico; un cambiamento il
cui segnale principale sarebbe l’attenzione nei confronti delle immagini e del loro ruolo. La formula
utilizzata da Mitchell ha una funzione polemica rispetto alla nozione di linguistic turn. Come la svolta
linguistica individua nella costellazione concettuale della parola una sorta di terreno comune a problemi
e temi molteplici, così il pictorial turn sposta l’enfasi sui problemi di questo primato, denunciandone
l’insufficienza. L’ipotesi del pictorial turn non si presenta come il rovesciamento o la sostituzione della
svolta linguistica; la svolta verso l’immagine non è un trionfo o una rivalsa contro le teorie del linguistic
turn, ma il tentativo di complicarne gli esiti, di identificare le anomalie all’interno di quel paradigma.
Trent’anni dopo l’articolo, è bene guardare con la giusta distanza a queste affermazioni, ricordando
quanto la svolta sia una metafore influente della filosofia occidentale. La filosofia, infatti, si pensa, si
definisce e si esercita attraverso la metaforica della svolta. Questa scena della svolta si intensifica
ulteriormente nel Novecento, saldandosi a una metaforica molto più recente ma altrettanto potente,
quella della fine della filosofia, o, meglio, della fine in filosofia. La svolta e la fine, tuttavia, subiscono al
contempo un processo di gergalizzazione rischiando talvolta di perdere la loro forza teorica. Il loro
difetto comune è la struttura logica della retroiezione: indebolite sotto il profilo argomentativo,
contestate e smentite, le svolte e le fini della/nella filosofia rischiano di ridursi a espedienti retorici di
cui si smarrisce la posta in gioco. Il caso di Rorty e della svolta linguistica è esemplare di queste
difficoltà ma, al contempo, di risorse tuttora non esaurite dal discorso filosofico. Nel 1967 scrive che la
filosofia linguistica è la rivoluzione filosofica più recente e che chi la sostiene la considera come la
scoperta più importante di tutte le epoche. La storia della filosofia, spiega Rorty, è punteggiata da
rivoluzioni. Lo schema di cui parla è una specie di narrazione di base attraverso la quale le maggiori
filosofie si auto-giustificano lungo tutto il corso della storia della cultura occidentale. La vera questione,
tuttavia, è che in passato tutte queste rivoluzioni sono fallite perché «ogni ribelle della filosofia ha
cercato di essere “privo di presupposti”, ma nessuno vi è riuscito». Quanto questo schema sia destinato
a ripetersi anche in Rorty è chiaro nel paragonare il saggio del 1967 a quello con cui si chiude la
riedizione della stessa raccolta, nel 1992. Nel primo, il linguistic turn è considerato come una svolta che
è riuscita a mettere sulla difensiva l’intera tradizione filosofica; nel testo degli anni Novanta, invece,
queste affermazioni sono considerate come imbarazzanti e unprofitable, cioè inutili, inconcludenti. La
possibilità di identificare punti di rottura in filosofia è una parte importante del discorso di Rorty già nel
saggio del 1967, che si domanda se possa davvero esistere una svolta non condannata a subire lo stesso
destino delle precedenti. Che cosa significa allora progredire nella ricerca e nella discussione filosofica?
La risposta è nella differenza tra le filosofie che fanno scoperte e le filosofie che fanno proposte. Sotto
questo profilo, la specificità della filosofia sta nel modo in cui questa disciplina articola il proprio campo
di problemi, specificità che è il pretesto di molte critiche che confrontano i suoi risultati con quelli delle
scienze dure: secondo queste critiche, la filosofia è una disciplina senza progresso. Secondo Rorty, però,
nessuna rivoluzione filosofica è realmente inutile, anche qualora non realizzi i propri scopi iniziali.
Questo per due ragioni: innanzitutto, le battaglie combattute durante le rivoluzioni spingono tutti i
fronti a rivedere i propri argomenti in modo più approfondito; in secondo luogo, l’obiettivo della filosofia
non è terminare la guerra disarmando la controparte, ma trasferire l’onere della prova sull’avversario,
riaprendo il campo della discussione. La posizione di Rorty può essere riassunta così: si può sostenere
che l’idea di una svolta in filosofia sia unprofitable, perché non decide dei destini del dibattito filosofico
e non determina la fine delle ostilità; ma in nessun caso essa può essere considerata vain, perché il suo
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scopo non è sconfiggere l’avversario ma ributtare la palla nel suo campo. L’obiettivo di questo libro è
fedele all’impostazione di Rorty: il dibattito filosofico, che è sempre una discussione pubblica e perfino
politica, ha la capacità di progredire anche grazie alla scelta di identificare svolte e rivoluzioni, di
ascriversene la responsabilità, oppure di dichiararne il fallimento e il superamento.

• Capitoli 1-2: G.W.F. Hegel e l’ermeneutica italiana;


• Capitoli 3-6: ripropongono con modifiche e aggiornamenti quattro diversi saggi.

I.
Prima e dopo l’ermeneutica filosofica
Capitolo primo
Dall’esistenza all’interpretazione. Genealogie dell’ermeneutica filosofica italiana
1. Un parricidio all’origine dell’ermeneutica
Il decennio che va dal 1979 al 1989 è il più fortunato dell’ermeneutica filosofica contemporanea. Le
date sono simboliche, ma la prima coincide con la pubblicazione della Condizione postmoderna di J.F.
Lyotard e la seconda è quella della caduta del muro di Berlino. Almeno in Italia, è innegabile che
l’intensità raggiunta in quel decennio dalla discussione sull’ermeneutica filosofia non sarebbe più stata
superata. La condizione postmoderna di Lyotard è il testo che contribuisce più direttamente a definire
l’originalità del dibattito che si anima nel nostro paese, trattandosi del connubio che unisce i temi
ermeneutici heideggeriani/gadameriani e le questioni della tradizione post-strutturalista
francese. Il pensiero debole di Vattimo è il risultato più rilevante di questa confluenza. Alle spalle della
via italiana all’ermeneutica filosofica, comunque, c’è molto più di quanto non si intuisca. Si tratta di un
risultato che passa attraverso uno dei principali snodi della filosofia degli ultimi due secoli: il confronto
con Hegel. Se si volesse ridurre la questione a una formula, bisognerebbe richiamare quelle utilizzate,
negli stessi anni, da Paul Ricoeur. In Tempo e racconto, una trilogia di grande significato sui temi della
narratività, dell’identità narrativa e delle sue implicazioni etiche, Ricoeur affronta il confronto con la
vocazione totalizzante della filosofia. Parlare di narrativizzazione dell’esperienza significa
interrogarsi intorno a temi-cardine come la sua dimensione finita, la sua parzialità e la sua non-
totalizzabilità. Affrontare questi temi, per Ricoeur, significa proseguire la riflessione sulla natura
ermeneutica della filosofia, toccandone uno dei fulcri. Il terzo volume di Tempo e racconto dedica alcuni
capitoli alla totalizzabilità dell’esperienza temporale da parte del pensiero e da parte del racconto. La
questione di Ricoeur tocca la specifica figurazione del passato, del presente e del futuro che la
narrazione è in grado di produrre, di contro ai dilemmi insoluti in cui la filosofia incappa quando si
interroga sulla natura del tempo. Il punto cruciale dell’analisi è il confronto con Hegel. Ricoeur raccoglie
queste riflessioni sotto il titolo di «Rinunciare a Hegel». Il riferimento all’hegelismo è decisivo per
disegnare i confini che separano la razionalità ermeneutica dalla ragione filosofica moderna.
Ricoeur sostiene che l’onestà intellettuale richieda il riconoscimento del fatto che la perdita di credibilità
della filosofia hegeliana sia stato un avvenimento di pensiero, che non si sa se sia una catastrofe
oppure una liberazione, aggiungendo, inoltre, che l’uscita dall’hegelismo sembra una sorta di origine. La
formula di Hegel può essere riscritta anche in forma interrogativa, «Dovremmo rinunciare a Hegel?»,
poiché l’arco di posizione che va dalla forma programmatica a quella interrogativa descrive bene una
delle linee di sviluppo storicamente più importanti dell’ermeneutica, così come lo fanno i titoli dei due
paragrafi di ambito hegeliano di Tempo e racconto, ovvero La tentazione hegeliana e L’impossibile
mediazione totale. Il confronto con Hegel è una parte integrante dell’origine e della storia
dell’ermeneutica filosofica italiana, con una serie di ambiguità e di deviazioni il cui titolo più adeguato
potrebbe proprio essere la formula interrogativa: «Dovremmo rinunciare a Hegel?».

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2. Luigi Pareyson: contro la «censura crociana»
L’ermeneutica filosofica gioca un ruolo rilevante per la netta riapertura che rende possibile nei confronti
della filosofia tedesca. Questo contributo è accompagnato da un’ambiguità di fondo, che percorre
l’ermeneutica da parte a parte coinvolgendo anche l’hegelismo italiano primonovecentesco, il marxismo
e l’esistenzialismo. Luigi Pareyson è il maggior protagonista di questa vicenda; si tratta di un
protagonismo duplice, fuori e dentro ai confini nazionali. Non bisogna innanzitutto dimenticare il ruolo
anticipatore della sua riflessione rispetto agli sviluppi delle tradizioni ermeneutiche francesi e tedesche.
In secondo luogo, a questo ruolo si deve a radicale innovazione che Pareyson imprime alla filosofia
italiana, particolarmente nei confronti del crocianesimo. La prima fase del suo pensiero ha al centro
una ridefinizione del rapporto tra finito e infinito, che ha nell’hegelismo il proprio riferimento
polemico. In questa fase iniziale, i nodi centrali attorno a cui ruota la sua discussione sono da una parte
la rivendicazione del valore del finito, inteso come singolo o come persona, dall’altra una nuova
comprensione della trascendenza. A questo sguardo sulla finitezza si aggiunge un secondo elemento di
rottura: l’interpretazione, centrale in quegli anni, dell’esistenzialismo come risposta storica alla crisi
del razionalismo. Secondo Pareyson il problema contemporaneo è la crisi del filone razionalistico del
pensiero moderno, ovvero del percorso che da Cartesio arriva ad Hegel; è per questo motivo che il
pensiero di Hegel è al centro della crisi e del dibattito che mira a superarla. Il passo oltre la crisi è
rappresentato dal personalismo che Pareyson sistematizza in Esistenza e persona (1990). Il suo asse
portante è l’incommensurabilità tra i due poli della finitezza e dell’infinità. Contrariamente alle
versioni dell’esistenzialismo, per Pareyson finito ed infinito non sono legati da qualche forma di
implicanza, ovvero da un’implicazione reciproca, ma sono due figure irrelate, che, su questa base,
aprono lo spazio per una filosofia del finito che lo autonomizza dall’infinito. I lavori degli anni
Cinquanta, in particolare Estetica. Teoria della formatività (1954), sono centrali per una ridefinizione
dei rapporti con la filosofia classica tedesca. Il ruolo pionieristico dell’ermeneutica di Pareyson si
deve proprio a queste riflessioni, che anticipano di diversi anni Ricoeur in Francia e Gadamer in
Germania. La rilettura del rapporto tra Pareyson e la filosofia classica tedesca si comprende meglio però
partendo dalla quarta edizione di Estetica (1988), in cui Pareyson sceglie programmaticamente di non
trasformare la propria opposizione a Benedetto Croce in una polemica continua, dichiarando di sapere
che la filosofia non si supera restando avvinghiati ai problemi da essa proposti, ma il vero superamento,
secondo Pareyson, avviene quando sono diverse sia le soluzioni, sia le questioni che si ritengono più
rilevanti. Tuttavia, Pareyson parla anche di una censura crociana e di un vero e proprio danno
all’estetica italiana: espressioni insolitamente forti, ma chi legge Pareyson sa bene che il riferimento a
Croce va inteso come una specie di sineddoche. Non si tratta, infatti, soltanto di Croce, e ancor meno
della sua estetica, quanto piuttosto di Hegel e di oltre un secolo di hegelismo. L’originalità di Pareyson
sta nel modo specifico in cui l’abbandono della linea Hegel-Croce è pensato nel suo complesso. Si tratta
di un abbandono che prende le mosse dal cuore dell’estetica: l’attacco al teoreticismo di Croce e la
sostituzione del carattere conoscitivo dell’arte con il primato esecutivo della formatività. L’estetica
rimane per Pareyson il punto di partenza di un programma più ampio, che confermerà e massimizzerà
quella rottura, ed è grazie a questa discontinuità che la filosofia italiana incontrerà altre tradizioni
rilevanti della filosofia europea, in primis l’esistenzialismo. La teoria della formatività di Pareyson,
quindi, risponde all’esigenza di pensare l’esperienza artistica a partire dalla sua concretezza. Più nel
dettaglio, la formatività è uno studio dell’uomo che fa arte e nell’atto di far arte. Le poetiche
diventano per Pareyson lo strumento effettivo con cui la filosofia può entrare nel concreto della pratica
artistica rispettandone i principi, cioè senza sovrascriverle presupposti di natura extra-artistica. È una
concretezza che Pareyson mette in dialogo con la tradizione estetica lungo la linea che va da Kant a
Schiller e poi fino a Fichte e Schelling.

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3. Estetica ed ermeneutica filosofica
Il problema dei presupposti rappresenta il cuore della teoria della formatività. Quando Pareyson
presenta la definizione della formatività come «un tal fare che, mentre fa, inventa il modo di fare»
presenta un aspetto specifico dell’esperienza umana che la produzione di forme artistiche esemplifica,
ovvero l’attività formativa che, con il formare, produce anche le proprie stesse regole. Concepire
eseguendo è la chiave con cui Pareyson ritrova la connessione con la concretezza della produzione
artistica. Nel suo schema esiste un ambito delle attività umane in cui il poiein (fare) nel corso stesso
dell’operazione inventa il modus operandi. È un tema che oggi rientrerebbe nelle discussioni intorno
alla creatività artistica e all’improvvisazione, ma per Pareyson è lo strumento per individuare una
specifica via d’uscita dall’estetica crociana. Questa definizione di forma garantisce due obiettivi:
innanzitutto, abbandonare una serie di modelli estetici capaci di cogliere solo una versione idealizzata
dell’attività artistica, e in secondo luogo ricostruire una connessione tra il fare artistico e altri tipi di
attività umana. Il primo obiettivo si muove dentro un contesto che risale indietro lungo tutta la
tradizione occidentale. Il problema che Pareyson si pone è quello di determinare i giusti equilibri tra
una serie di fattori, come la libertà dell’artista, la necessità materiale, l’esistenza di canoni artistici, la
loro conservazione e il loro mutamento, l’unicità dell’opera, etc. Il concetto di forma formante deve
essere precisato, perché non ha nulla di essenzialistico né di vitalistico. Pareyson definisce la forma
formante in questi termini: «norma interna dell’operare teso alla riuscita, regola immanente d’un
singolo processo». La forma, quindi, non è tanto un insieme di tecniche volte alla riproduzione, né
un’idea che l’artista vuole infondere nella materia o l’aspetto sensibile della stessa; la forma formante
è il processo attraverso il quale l’artista è in grado di formare l’opera d’arte, è quel percorso con cui
l’artista vede nascere un’idea informe, la fa emergere e la segue fino a darle, appunto, una forma. Questo
è il punto d’intersezione in cui il problema estetico incontra la questione ermeneutica. Il processo
artistico è un fatto di interpretazione sia dal lato dell’artista, sia dal lato del fruitore; l’interpretazione
dell’artista, tuttavia, è particolarmente centrale, perché mette in luce il modo in cui l’idea è colta e
diventa rappresentabile, cioè l’arte mette sotto gli occhi il modo in cui l’interpretazione funziona in
generale. Il rapporto tra idea e interpretazione artistica si basa su una trascendenza, per la quale una
stessa idea è interpretata in modi differenti da artisti diversi ma, al tempo stesso, non si può dire che
qualsiasi interpretazione possibile sia valida. C’è una normatività che governa le molteplici
rappresentazioni di un’idea e che consente di discriminare ciò che non rappresenta nulla in quanto
interpretazioni non riuscite. Ciò che distingue le diverse interpretazioni è, secondo Pareyson, la loro
verità: un’interpretazione riuscita è tale se esprime la verità di ciò che sta rappresentando. Questi
caratteri veritativi caricano l’estetica di un significato filosofico che va al di là del suo perimetro
proprio, ed è il secondo obiettivo garantito dalla nozione di forma. Il rapporto tra l’interpretazione e la
verità ha le medesime caratteristiche anche fuori dal campo della produzione artistica: il lavoro
dell’artista è lo stesso che caratterizza la condizione ermeneutica, cioè il rapporto – la differenza
ontologica – tra l’esistenza e l’essere. Come nella produzione artistica, anche nell’esistenza l’essere non
è colto come un oggetto ma è definito interpretativamente; con ciò, l’essere non si moltiplica nelle sue
interpretazioni né queste sono equivalenti le une alle altre. La differenza ontologica garantisce tanto
l’unicità della verità, quanto l’impossibilità di collocare indifferentemente ogni interpretazione sullo
stesso piano: l’interpretazione esprime l’essere ma l’essere non si dà tutto nell’interpretazione, tanto
che una molteplicità di interpretazioni è possibile; allo stesso tempo, non tutte le interpretazioni
possono travestirsi da verità. L’ermeneutica di Pareyson si muove dunque tra due principi e considera
l’estetica come il campo nel quale questa compresenza emerge con più evidenza: dell’idea (del vero,
dell’essere) si dà solo un’esperienza interpretativa e storicamente determinata, di cui l’attività
formativa dell’artista è il modello; storicizzare l’idea, tuttavia, non significa polverizzarla in un’infinità
di interpretazioni prive di un criterio di valutazione.

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4. Una filosofia non-crociana
L’estetica di Pareyson si può definire non-crociana, poiché questa qualificazione è la più corretta e
identifica al meglio l’assenza di confronto; tuttavia, è importante capire come ciò avvenga nello specifico.
In Estetica. Teoria della formatività (1954) il discorso sulla formatività artistica è il caso esemplare
dell’incontro con la concretezza dell’esperienza, cioè il tema portante della sua adesione
all’esistenzialismo. Questa coincidenza dice molto del programma non-crociano di Pareyson. Si può dire
che la tradizione hegeliana rappresenta una sorta di vicolo cieco chiuso però su tutti e quattro i lati. Da
una parte, la nozione di spirito assoluto implica un rapporto tra la storia e la verità che a Pareyson
sembra annullare il ruolo della concretezza in favore dell’astrazione e della conciliazione; d’altra parte,
una filosofia hegeliana privata dello spirito assoluto non farebbe altro che legittimare esiti di tipo
storicistico e relativistico. La necessità di abbandonare la tradizione hegeliana è una decisione di
portata storica. Pareyson sostiene che il suo intento è la ricerca di percorsi teorici completamente
diversi, che cercherebbero una linea teoretica alternativa a quella di Hegel. Il punto centrale si focalizza
quindi su una rottura che cancelli qualsiasi complicità con il modello hegeliano. In questa prospettiva,
lo stesso esistenzialismo tedesco ottocentesco non è sufficientemente radicale: il suo presupposto
rischia di essere antihegeliano e hegeliano al temo stesso, perché considera Hegel come un momento
letteralmente insuperabile della filosofia moderna. Questa critica all’anti-hegelismo ottocentesco
accompagna Pareyson fin dall’inizio delle sue pubblicazioni. L’esistenzialismo ottocentesco rappresenta
l’idea di una svolta netta ma ancora interna alla filosofia moderna; oggi invece si apre la possibilità di
riconnettersi a un’altra linea di continuità interna alla filosofia occidentale, ma distinta da quella della
modernità. Hegel non è né ripensato né ripensabile, è semplicemente escluso dal percorso. La chiave
dell’interdetto di Pareyson nei confronti dell’hegelismo è quindi questa: occorre riaffermare il tema
della concretezza della verità, cioè la sua relazione con la singolarità dell’esistenza contro la tentazione
rappresentata dall’astrazione e contro la sua relativizzazione da parte delle filosofie che provano a
dissolvere l’hegelismo. Da qui, la ricerca di una via d’uscita attraverso autori come Fichte e Schelling,
che possono essere considerati al tempo stesso autori pre-hegeliani e post-hegeliani. Si tratta di
categorie apparentemente provocatorie, così come la qualifica dello stesso Schelling come pensatore
post-heideggeriano, ma in realtà sono definizioni che giocano un ruolo importante nella nascita
dell’ermeneutica italiana. Per Pareyson, Fichte dev’essere considerato pre-hegeliano perché la sua
filosofia pensa l’io inserendolo in un sistema che non è ancora condizionato da Hegel e post-hegeliano
perché il suo sistema appare più resistente di quello hegeliano. Anche Schelling, d’altra parte, mette al
centro elementi alternativi al sistema hegeliano, dando loro una collocazione funzionalmente diversa: è
il caso, su tutti, del negativo. È il negativo a proiettare Schelling non soltanto oltre Hegel ma anche oltre
Heidegger, il cui ricorso al nulla appare a Pareyson ingenuo e scarsamente consapevole di quei
precedenti. Sgombrato il campo dall’hegelismo e dalle filosofie anti-hegeliane ottocentesche, Pareyson
si propone di riconnettere i segmenti di un’altra storia filosofica. In Esistenza e persona questi segmenti
delineano il punto d’incontro tra l’esistenzialismo e l’ermeneutica: l’esistenzialismo personalistico
è il nome che viene dato a questa scomposizione e ricomposizione della tradizione moderna. Il suo
nucleo è dato dall’idea che la persona finita, incarnata e storicamente collocata, non sia soltanto
negatività ma una prospettiva aperta sulla verità. La persona è una dialettica concreta di opposti ed è
il luogo in cui l’universale incontra la storia. La tematica ermeneutica si innesta su questo incontro. Per
Pareyson, il vero centro dell’ermeneutica filosofica è la definizione di una filosofia
dell’interpretazione. Nella sistemazione successiva del problema se ne troverà una formula destinata
a fortune significative nell’ermeneutica italiana: «Della verità non c’è che interpretazione e non c’è
interpretazione che non della verità». L’interpretazione diventa il nome che Pareyson dà alla
relazione che tiene legate la persona e la verità. Questo rapporto appare a Pareyson la soluzione più
equilibrata per riconoscere la pluralità delle prospettive filosofiche e l’unicità della verità. Tutte le
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altre soluzioni sbilanciano il rapporto sul lato dell’unicità o sul lato della pluralità. La vicenda
dell’ermeneutica italiana, comunque, si dipana lungo un arco in cui i rapporti con Hegel si differenziano
anche in modo rilevante: è un arco che modifica e finisce per capovolgere la stessa posizione di Pareyson.
5. Valerio Verra: un altro Hegel
Negli stessi anni Cinquanta si apre anche un’altra strada. Il suo polo italiano è ancora Torino ed il suo
riferimento principale è Valerio Verra. Il contributo di Verra agli studi hegeliani in Italia è inseparabile
dalla prospettiva ermeneutica in cui quel contributo si forma, così come il suo ruolo nel dibattito
ermeneutico italiano consiste soprattutto nel fare filosofia an und mit Hegel, su e con Hegel. Se
l’operazione di Pareyson è quella di spezzare l’idea di una logica unitaria di sviluppo che vada dal post-
kantismo all’hegelismo, Verra restituisce un ruolo decisivo a Hegel, valorizzando la dimensione
dialogica della dialettica. In un articolo del 1959, Rinascita schellinghiana?, Verra evidenzia le
diffidenze che ostacolano una comprensione adeguata della filosofia hegeliana. Alla fine degli anni
Cinquanta, tuttavia, il percorso di Verra è ancora agli inizi, e da lì a poco la frattura si sarebbe resa più
netta. Hegel è per Verra il maestro della radicale storicità dello spirito che si fa valere contro ogni
pretesa di razionalismo metafisico, cioè contro quelle stesse pretese che l’ermeneutica di Pareyson
fronteggiava scegliendo l’esistenzialismo. Nella prospettiva di Vattimo, l’appello alla storicità è il tratto
unificante della nascente ermeneutica filosofica italiana. Un tratto che Verra e Pareyson declinano
tuttavia in modi opposti rispetto a Hegel: Pareyson lo fa abbandonando Croce e l’hegelismo, mentre
Verra sceglie una via che si propone di riscoprire Hegel liberandolo dalla ricezione primo-novecentesca.
Non si capirebbe tuttavia questa diversità senza chiamare in causa Hans-Georg Gadamer. Al di là di
Verra, sarà infatti l’impatto di Verità e metodo in Italia a spostare gli equilibri, e non è un caso che la
prima traduzione italiana, firmata da Vattimo, uscirà già nel 1972. Si tratta di una diffusione rapida e
notevole, il cui nucleo toccherà il tema della storicità della verità. Da una parte Verità e metodo
rafforzerà e sancirà la possibilità dell’altro Hegel, a cui Verra pensa già negli anni Cinquanta; dall’altra,
questa riscrittura si aggancerà alle fortune più complessive dell’ermeneutica in Italia e ne diventerà un
elemento non secondario, soprattutto nel pensiero di Vattimo.
Capitolo secondo
Dall’interpretazione all’immagine. L’ipotesi della svolta iconica
1. Hegel moderno, postmoderno
Per chiarire il ruolo di Hegel nel pensiero di Gianni Vattimo si possono scegliere strade diverse, di cui si
trovano ottimi esempi tanto in Italia quanto nei paesi in cui la fortuna di Vattimo è stata più consistente.
È particolarmente interessante proporre una lettura interna delle questioni che scelga gli anni Ottanta
come perno attorno a cui ricostruire un quadro complessivo. Si tratta di una prospettiva volutamente
parziale, utile a mettere a fuoco elementi decisivi e altrimenti poco visibili. In apertura del volume su La
fine della modernità (1985), Vattimo spiega che l’obiettivo di quelle pagine è leggere in modo
incrociato alcuni fenomeni culturali attuali con le lenti di filosofie che non sono riducibili a tali fenomeni,
anche solo per ragioni cronologiche. Lo schema di Vattimo colloca da una parte le espressioni culturali
che si raccolgono sotto le nozioni di postmodernità e fine della storia, dall’altra la linea del dibattito
contemporaneo che va da Nietzsche a Heidegger. Questa lettura porta con sé due vantaggi: da una
parte, permette di fornire rigore e dignità alle teorizzazioni del post-moderno; dall’altra consente di
riattivare aspetti del pensiero nietzschiano e heideggeriano mostrando che sono irriducibili alla pura
Kulturkritik che percorre tutta la filosofia e la cultura primonovecentesca. Sotto questo profilo, ciò che
la filosofia mette in opera è uno sforzo di collocazione che inserisca analisi provenienti da ambiti
differenti dentro una sintomatologia più complessa, cioè che interpreti queste analisi come tappe di una
stessa continuità affinché ne risultino illuminate a vicenda. Se incrociare i dibattiti culturali sul
postmoderni con alcuni aspetto nietzschiani e heideggeriani pone sotto una nuova luce entrambi i
versanti del tentativo, un incremento di leggibilità simile si può ottenere includendo nel discorso anche

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Hegel? Al pari di Nietzsche ed Heidegger, anche Hegel contribuisce a dare rigore e dignità ad analisi del
presente che resterebbero altrimenti incompiute?

2. Gianni Vattimo: il progetto di un’estetica ontologica


È possibile trovare in Vattimo le tracce di una considerazione di Hegel diversa da quella di Verra, seppur
simile nelle premesse. Sebbene Vattimo rivendichi la derivazione della sua riflessione dall’ermeneutica
pareysoniana, su questo punto le distanze sono via via più rilevanti. Il suo percorso di allontanamento è
progressivo ma inequivocabile. Nelle pagine di Poesia e ontologia (1967), Vattimo dà seguito a quel
corpo-a-corpo con la tradizione hegeliana su cui Pareyson non si attardava. L’obiettivo polemico di
Vattimo è una mentalità sostanzialmente hegeliana che risulta dominante nelle estetiche italiane
primonovecentesche. In tale prospettiva, l’estetica si presenta sempre come una dialettizzazione
dell’arte, si propone cioè di comprenderla e spiegarla mettendola in rapporto alla struttura generale
dello spirito, della storia, della società, etc. La domanda di fondo per Vattimo è questa: le estetiche di
derivazione hegeliana sono in grado di rispondere a determinate evoluzioni dell’esperienza artistica? In
prima istanza, la risposta è negativa e si estende anche alle filosofie dell’arte alternative a quella linea,
come quelle neokantiane o quelle fenomenologiche. Nella prospettiva di Vattimo, l’antidoto a queste
difficoltà è la proposta di una nuova estetica di natura ontologica. Le estetiche hegeliane, neokantiane
e fenomenologiche cercano di radicare l’esperienza artistica in una forma di sapere più fondamentale.
Al contrario, un’estetica di tipo ontologico si propone di interpretare il problema dell’arte a partire da
una specifica condizione dell’essere, che nel caso di Poesia e ontologia deriva dall’ontologia
heideggeriana della differenza tra l’ente e l’essere. Le premesse di Poesia e ontologia sono esplicitamente
legate ai temi che Heidegger discute nel saggio sull’Origine dell’opera d’arte (1935-1936), in particolar
modo per quel che riguarda il binomio di terra e mondo e l’idea che l’opera d’arte presupponga una
nozione non-sostanziale, ma evenemenziale, di essere. Per Vattimo si può considerare l’esperienza
artistica come un fenomeno che l’estetica si incarica di superare nel concetto, oppure, sulla scia di
Pareyson, si può leggerla come l’esempio, se non l’origine, di una diversa concezione filosofica generale,
come il sintomo di qualcosa che non funziona nelle ontologie tradizionali. La tradizione hegeliana resta
il più grande tentativo di integrare la storia dell’arte nell’estetica, ma sempre dal punto di vista
dell’assoluto; se si guarda invece ad Heidegger, si può riscontrare che l’arte offre un campo vastissimo e
sembra richiedere esplicitamente un’interpretazione ontologica. Le pagine di Poesia e ontologia,
comunque, sono attraversate da una sorta di doppia strategia che ha il suo centro nella nozione di
storicità dell’arte. Ciò che le critiche all’hegelismo consentono a Vattimo è un’articolazione più
complessa del problema della storia: l’assorbimento hegeliano della storia dell’arte nell’estetica non
permette una vera comprensione della sua stessa storicità, perché la sacrifica a vantaggio del sistema.
La tesi di Vattimo, invece, è che esistano tratti specifici dell’estetica hegeliana che non ostacolano tale
comprensione, ma che anzi la favoriscono.
3. Contro la coscienza estetica
La rottura di Vattimo rispetto a Pareyson consiste sul tema della fine dell’arte, o, meglio, nell’incrocio
di questa tematica e l’esperienza artistica dell’avanguardia storica. La posizione di Vattimo può essere
riassunta in due passaggi:
1. Le prime avanguardie e le loro eredità configurano il Novecento come il secolo delle
poetiche, cioè come un fenomeno complesso nel quale il lavoro artistico lascia sempre più
spazio agli esercizi di auto-comprensione e auto-rappresentazione dell’artista;
2. L’uso più approfondito di categorie hegeliane come la funzione presente dell’arte e la sua
fine non è inappropriato, anzi è capace di illuminare in modo originale un capitolo ambiguo
della storia dell’arte. questo punto merita particolare attenzione perché il cambio di
prospettiva su Hegel si gioca proprio qui. Vattimo si limita a sostenere che il fenomeno della
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fine dell’arte e il fenomeno delle avanguardie rispondono a simili condizioni storiche. In altri
termini, l’estetica hegeliana è inutilizzabile nella misura in cui si cerchi di considerarla
come una profezia che è stata realizzata o smentita. Al contrario può essere salvata come un
sintomo della medesima evoluzione storica che in ambito artistico è sfociata
nell’avanguardia. Si tratta di un’ipotesi che vale come uno dei possibili strumenti di
comprensione della situazione artistica dell’inizio del Novecento.
Su queste basi, Poesia e ontologia inizia un percorso complesso e articolato che misura in primis le
analogie tra le prime avanguardie e le poetiche romantiche, analogie basate sulla diffusione dei
manifesti, sull’interrogativo circa il ruolo nella società di chi fa arte, sulle relative pretese filosofiche
e sul modo in cui il pubblico le recepisce. Il risultato di queste analisi è la costruzione di un modello a
tre fuochi, che collega il romanticismo, Hegel e le avanguardie. Questi riferimenti hanno la loro chiave
nella riflessione e nell’autoriflessione dell’arte su se stessa, a cui tutti e tre questi fuochi
corrispondono in modo coerente. Il punto di svolta decisivo arriva nella seconda parte di Poesia e
ontologia, dove il riferimento a Gadamer diventa strategico. Nella prospettiva di Vattimo, a Verità e
metodo si deve il superamento della nozione di coscienza e, con essa, di tutte le estetiche debitrici
del kantismo. In altri termini, l’ontologia dell’arte a cui l’estetica ermeneutica vuole mettere mano non
è solo un ampliamento delle intuizioni di Heidegger, ma rappresenta il recupero sotterraneo di ciò che
la coscienza estetica kantiana ha interrotto, ovvero il valore conoscitivo dell’esperienza estetica e la
connessione tra l’arte e il suo mondo. Arte, mondo e conoscenza sono i tre poli del modelli di Poesia
e ontologia. Da una parte, l’arte può reclamare una pretesa di verità perché l’esperienza artistica non è
sottoposta ai vincoli categoriali della Critica del Giudizio, ma è anzi un’esperienza vera, cioè un luogo
nel quale l’artista e il pubblico ritrovano qualcosa che concerne il loro mondo; d’altra parte, recuperare
il valore autonomo dell’estetica consente di interpretare questo ritrovamento come una forma di
riconoscimento e di conoscenza. La critica alla coscienza estetica è anche il passaggio attraverso il quale
si riaprono i conti con Hegel. Se Gadamer è l’urbanizzatore di qualcosa, per Vattimo lo è di più della
provincia hegeliana che di quella heideggeriana. Nell’analisi di Vattimo, l’impostazione ermeneutica del
problema estetico diventa lo strumento che consente di operare un ripensamento degli interrogativi
sull’estetica hegeliana messi in luce nella prima parte di Poesia e ontologia. Secondo l’impostazione
ontologica gadameriana, l’esperienza estetica ha un rilievo ontologico perché produce un incremento
di essere che ha la sua origine nel dialogo tra l’opera, l’artista e il pubblico. Vattimo scrive che il fatto che
nell’arte ci sia un’esperienza di verità significa innanzitutto che l’incontro con l’opera sono eventi che
modificano realmente coloro che vi si trovano coinvolti, e l’arte diventa quindi esperienza di verità in
quanto vera esperienza, accadimento in cui avviene davvero qualcosa. Anche nel rapporto con l’opera
d’arte vi è qualcosa che trascende la produzione e la fruizione separatamente intese e che corrisponde
alla produzione di un mondo di significati nuovi. Il punto consiste però nel determinare in che modo
questa produzione di novità (questo incremento di essere) si concili con l’idea che nel dialogo con
l’opera l’artista e il pubblico riconoscano qualcosa che già possedevano su se stessi: cioè con un’idea
conservativa o confermativa dell’esperienza dell’arte. Questo è l’aspetto importante per definire il senso
di una ripresa dell’estetica hegeliana: il novum che nasce nel dialogo è anche sviluppo, conferma, ritorno
presso di sé di ciò che era già, e in tal modo l’esperienza estetica si pone sotto il segno della dialettica;
dall’altro lato, questo genere di esperienza non si riduce tuttavia alla semplice conferma
dell’autocomprensione che caratterizza l’artista e il suo pubblico. Ecco il punto-chiave
dell’interpretazione di Vattimo: la ricchezza dell’esperienza estetica dipende da una tensione che
coniuga la continuità del riconoscimento e l’esperienza di discontinuità che l’arte realmente offre a
chi la fruisce. Poesia e ontologia può quindi concludere che l’arte oggi si configura come luogo
privilegiato della negazione dell’identità, e dunque dell’accadere della verità. Vattimo, comunque,
prova ad “aprire” e riformare l’estetica hegeliana tramite il riferimento al fare artistico. L’enfasi sul fare
dell’artista è il segno più chiaro dell’eredità pareysoniana, che Vattimo accredita alle avanguardie
primonovecentesche e ritiene di ritrovare anche in Heidegger e Gadamer. L’arte è vettore di novità in
quella tensione indecidibile tra il ritorno a se stessi e lo sconvolgimento delle aspettative degli attori in
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campo (pubblico, artista). È una torsione delle aspettative tanto più dotata di valore estetico quanto più
gioca lungo il sottile crinale tra il compimento dialettico e la sua continua dilazione. Questo gioco tra
conservazione e innovazione non pare leggibile da nessun’altra delle estetiche disponibili sul tavolo.
Solo una lettura ermeneutica dell’estetica di Hegel sembra in grado di rendergli giustizia.
4. L’arte dopo la fine dell’arte
La scommessa di Vattimo a favore di un’ermeneutica filosofica non anti-hegeliana va oltre ed è alla base
del progetto del pensiero debole. Il rimando è ai testi che Vattimo pubblica all’inizio degli anni
Settanta, ma è sufficiente ricordare tre titoli: l’articolo su Ernst Blob interprete di Hegel (1970),
l’Introduzione all’estetica di Hegel (1970) e il breve intervento Sull’attualità del bello di natura
(1972). Nell’Introduzione all’estetica di Hegel è sempre il tema della fine dell’arte a costituire uno dei
nuclei teorici del discorso. In questo caso, l’enfasi è sul tema dell’arte come bisogno insuperabile. Il
riferimento è alla tesi secondo cui, posta la necessità per l’idea assoluta id manifestarsi nella forma
dell’apparire sensibile, il bello è il luogo in cui tale necessità si inscrive pienamente. L’arte è quindi una
necessità perché lo sforzo di realizzare lo Spirito assoluto come pieno riconoscersi nell’altro da sé è un
bisogno di libertà. Quest’esigenza dello spirito ha nell’arte qualcosa che nella filosofia non si dà: la forma
sensibile. La libertà chiede quindi di realizzarsi concretamente. Ciò che interessa a Vattimo sono
soprattutto due cose: da una parte, aprire uno spazio per il confronto con la filosofia post-hegeliana, in
primis con il marxismo e l’esistenzialismo; dall’altra, dichiarare con nettezza che questo è il luogo
hegeliano nel quale il superamento dell’arte da parte della filosofia mostra più problemi che soluzioni.
L’insuperabilità sta tutta qui e implica che la nozione di inattualità dell’arte sia rimessa in discussione.
Si può quindi dire che per Vattimo l’affermazione di Hegel sul destino dell’artistico vale certamente in
senso contestuale, cioè nel senso di definire l’esaurimento del ruolo che l’arte rivestiva in una condizione
dell’umanità, quella universale, che ora non si dà più. La fine dell’arte, comunque, non può essere l’ultima
parola di Hegel sulla questione.
5. La fine dell’arte come «Verwindung»
Nel saggio Morte o tramonto dell’arte (1980) l’avanguardia storica diventa la premessa di un fenomeno
più complesso, che Vattimo estende a tutto l’arco del Novecento: si tratta della capacità, da parte
dell’arte, di rendere problematici i propri stessi confini, secondo un movimento che le avanguardie
sperimentano per prime. Vattimo scrive che uno dei criteri di valutazione dell’opera d’arte sembra
essere la capacità dell’opera di mettere in discussione il proprio statuto. In altri termini, nell’epoca della
fine dell’arte – annunciata da Hegel e portata a manifestazione artistica dalle prime avanguardie – potrà
ancora dichiararsi arte soltanto ciò che problematizza a tal punto la sua stessa esistenza da rompere i
confini tra l’artistico e il non-artistico. Dopo Hegel e dopo le avanguardie, alla domanda «Che cos’è
arte?» si dovrà rispondere che qualcosa è arte solo se è in grado di far esplodere l’idea stessa di
un’estetica come filosofia dell’arte. Questa posizione ha due corollari sul piano degli autori coinvolti.
Sul versante di Hegel, la tesi sulla fine dell’arte si circoscrive e si precisa: se c’è qualcosa che muore
non è tanto l’artistico tout court, ma l’arte che pretende di vedere garantito a priori il proprio statuto, il
che implica la possibilità di aprire il dominio dell’arte a esperienze precedentemente non qualificabili in
termini artistici. Dal punto di vista dell’interpretazione di Heidegger, la rottura dei confini tra l’artistico
e il non-artistico l’opera manifesta caratteri analoghi all’essere heideggeriano: si dà solo come ciò che,
al tempo stesso, si sottrae. È un evento, nel senso che non può essere pensata come una sostanza
(«Questo è arte, questo non è arte») ma come un insieme di significati che riorganizzano in modo mobile
una regione dell’ente. Il senso dell’espressione tramonto dell’arte che dà il titolo al saggio è quello di
sostituire la definitività della nozione di morte con una fenomenologia differente. L’insistenza di Vattimo
sulla scelta della nozione di tramonto ha un obiettivo ambizioso: ricondurre integralmente quella
vicenda al tema heideggeriano della Verwindung, ovvero del superamento della tradizione metafisica
in cui la tradizione non è disattivata ma attivata contro se stessa. Nella proposta di Vattimo c’è un
significato che ha a che fare con la differenza tra il tramonto, la morte e la fine: si tratta di sostenere

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che per l’arte vale ciò che Heidegger dice della Verwindung della metafisica, nella sua differenza dalla
Überwindung e in una irriducibilità radicale rispetto alla Aufhebung (passato disattivato per sempre). La
Verwindung della metafisica di Heidegger deve essere intesa come un processo di distorsione in
direzione di un allontanamento dalla metafisica, allontanamento che significa anche convalescenza, in
una prospettiva in cui la “guarigione” sta nell’accettazione e nell’approfondimento dello stato di cose da
cui si esce. Per Vattimo, gli aspetti meno linearmente riconducibili ai canoni tramandati, che l’artista
dall’avanguardia in poi si sforza di violare, rappresentano un effetto di distorsione della tradizione,
e non la sua cancellazione.
6. Gottfried Boehm: la rinascita dell’immagine
La lettura incrociata di Hegel, Heidegger e delle prime avanguardie mostra certamente come si realizzi
l’incremento di leggibilità reciproco che Vattimo pone tra gli obiettivi principali della Fine della
modernità, ma il fenomeno dell’esplosione dell’estetica fuori dai suoi tradizionali confini non si
esaurisce nella soluzione ontologica di Vattimo. Quando La fine della modernità parla di un’estetica fuori
dai suoi confini, intende due cose: in primo luogo l’uscita dalla delimitazione che la filosofia impone
all’arte e il superamento dell’estetica come luogo di esperienza ateoretica e apratica; in secondo luogo,
qualcosa di simile a ciò che Benjamin definisce perdita dell’aura. Vattimo presenta diversi tratti di
questi due fenomeni, tra cui la crisi dell’istituzione museale, l’avvento di forme artistiche
tecnicamente non istituzionalizzabili come, ad esempio, la land art. La riproducibilità è anche per
Vattimo il mezzo tecnico attraverso cui l’esperienza estetica tradizionalmente intesa si dissolve, ovvero
si diffonde e va ad abitare potenzialmente tutte le sfere dell’esperienza in generale. Anche l’esplosione
dell’estetica fuori dai suoi confini è essenzialmente un fenomeno che avviene per mezzo di immagini:
sono le immagini, prima di altri media, a produrre la disseminazione dell’arte oltre i campi in cui la
tradizione l’ha coltivata. Vattimo parla di relazioni ironico-iconiche, che duplicano e al contempo
sfondano le immagini e le parole della cultura massificata. Le immagini sembrano quindi avere un ruolo
prioritario nel rendere possibile l’esplosione dell’estetica: è anzitutto l’immagine a produrre un effetto
di discontinuità rispetto all’esperienza tradizionale. Il tema dell’immagine in rapporto a un’evoluzione
specifica dell’esperienza estetica è destinato a una fortuna consistente anche per ciò che riguarda il
filone di pensiero che in Germania si raccoglie attorno alla nozione di ikonische Wende, il cui nome
principale è Gottfried Boehm. Quello di Boehm è un progetto di ermeneutica dell’immagine che si pone
in continuità con la riflessione di Gadamer, estendendone i confini. Boehm lavora sull’idea di una logica
dell’immagine radicalmente muta, cioè non linguistica, la cui capacità di significazione consiste nel
potere di mostrare. L’idea stessa di una svolta iconica rappresenta una sorta di chiamata a raccolta,
della quale è utile ricostruire il perimetro. Più che di una chiamata, bisogna fare riferimento a tre
chiamate. Accanto a quella ermeneutico-filosofica, per mano di Boehm, ve ne sono altre due: una
proveniente ancora dall’area tedesca, più orientata in senso storico-artistico, il cui nome di riferimento
è Horst Bredekamp, e una che si sviluppa sui presupposti dei cultural studies e dei media studies,
particolarmente d’area statunitense.
7. Horst Bredekamp: fare cose con le immagini
L’espressione svolta iconica designa l’idea che nella cultura contemporanea le immagini, i loro media e
i rispettivi supporti acquisiscano una centralità nuova in differenti campi del sapere. I dibattiti sulla
svolta iconica sostengono che l’immagine sia uno strumento fondamentale della razionalità. A seconda
degli orientamenti, alcune posizioni identificano nella svolta iconica un momento specifico della
tradizione occidentale, che coincide con il crescente impatto dell’immagine analogica nel secondo
Novecento e con il successivo passaggio all’immagine digitale. Altre posizioni, invece, sottolineano il
significato trans-storico dell’espressione e la usano per indicare il rilievo talvolta assunto dalle
immagini e la loro contrapposizione ai modelli logocentrici. Le discussioni a cavallo tra gli anni Ottanta
e Novanta segnano una cesura rispetto alla fase precedente, cesura che si propone di superarne gli
opposti estremismi, apocalittici o entusiastici. Ciò che caratterizza questa nuova generazione di studi è

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la rivendicazione di un’analisi che si occupi dell’immagine secondo i propri principi: la visione è un
insieme di dispositivi che si presentano come un codice irriducibile al linguaggio verbale e tale
autonomia rende possibile la costruzione di una serie di discipline che se ne occupino secondo metodi
e principi specifici. Questo programma teorico ha riferimenti importanti nella discussione
contemporanea, come, ad esempio, nel caso del contributo di Horst Bredekamp e della sua teoria
dell’atto iconico. Gli interessi di Bredekamp coinvolgono tematicamente riflessioni di tipo socio-
politico, come, ad esempio, il rapporto tra le immagini e i conflitti sociali. Immagini che ci guardano.
Teoria dell’atto iconico (2015) è un volume che tiene assieme una ricostruzione storica ed una
proposta teorica molto articolata. Dal punto di vista storico, Bredekamp attraversa momenti dell’arte
antica, della riflessione religiosa cristiana e islamica, del Rinascimento e della modernità lavorando
soprattutto sulle arti figurative. Sotto il profilo teorico, l’attenzione si concentra su alcuni temi classici,
come il rapporto tra l’originale e la copia o il binomio natura-arte. Il nucleo del volume, tuttavia, è chiaro
fin dal titolo: le immagini funzionano sulla base di un dispositivo specifico che si può qualificare come
atto iconico. Il dato rilevante della posizione di Bredekamp è l’analogia con la nozione di atto linguistico,
analogia che nasconde l’esigenza di un distanziamento critico: la teoria dell’atto iconico è una
dichiarazione di inadeguatezza delle tesi secondo cui le relazioni tra il soggetto e il mondo condividano
una linguisticità di base. Bredekamp sposa la linea comune alle discussioni sulla svolta iconica e vi
contribuisce argomentando che esiste una radicale sottovalutazione che investe l’immagine nella
modernità. Immagini che ci guardano ripercorre questa continuità individuando in Platone il punto di
riferimento obbligato e ambiguo. Da una parte, il percorso di tradizionalizzazione del platonismo, e
dunque la condanna delle immagini, grava su Platone, ma è sufficiente compiere un passo oltre la
tradizione per argomentare che in Platone la critica alle immagini vale come conferma della loro
efficacia. La condanna delle immagini, quindi, ha il proprio presupposto nel riconoscimento della loro
forza: l’immagine pone problemi perché minaccia lo statuto delle cose. Applicata a Platone, la nozione
di atto iconico espone la forza delle ombre sulla parete della caverna rispetto alla luce e agli oggetti
esterni alla caverna, una forza che richieste l’istituzione di uno stato di polizia iconica. Se si fa un salto
fino all’altro estremo dell’iconofobia occidentale, rappresentato da Heidegger, si comprende
definitivamente in che cosa consista l’atto di cui le immagini sono portatrici. Secondo Bredekamp,
quando Heidegger parla dell’arte come di una messa in opera della verità sta accendendo un faro sul
tema delle immagini che «fanno cose». Una cosa è chiara per Bredekamp: l’atto iconico è la capacità,
da parte delle immagini, di darsi un posto nel mondo, di compiere o subire azioni, di generare reti di
cause ed effetti. La teoria dell’atto iconico prende tre direzioni:
1. Quella dell’atto iconico schematico, che è la disposizione di un’immagine a essere un
esempio per scelte valoriali, ossia a fornire standard valutativi e strumenti orientativi e
imitativi;
2. Quella dell’atto iconico sostitutivo, che descrive la natura corporea dell’immagine, in
particolare la sua capacità di valere come un corpo;
3. Quella dell’atto iconico intrinseco, che è lo sguardo dell’immagine, il suo ruolo dentro lo
spazio che la ospita.
A Bredekamp interessa riaprire una vicenda culturale plurisecolare e di tradurla in un contesto che non
spartisce più nulla con il pensiero magico e con l’occultismo religioso. Il punto di Bredekamp è il
seguente: la modernità illuministica ha prodotto una sorta di secolarizzazione dell’immagine,
strappandola dal suo contesto sacrale ma privandola della forza che l’antichità e il Medioevo non le
negavano. La teoria dell’atto iconico si propone di riconoscere nuovamente all’immagine la sua
capacità di agire attraverso ciò che Bredekamp definisce illuminismo figurattivo. Con ciò, Bredekamp
restituisce bene uno degli aspetti filosofici più rilevanti della discussione d’area tedesca. È lo stesso
statuto dell’estetica come filosofia dell’arte a essere messo in discussione: sostenere che la modernità
sia coincisa con un impoverimento della nozione di immagine significa far coincidere questa vicenda
con la nascita dell’estetica, vicenda che può o deve essere superata. All’interno di queste discussioni, la

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fine dell’arte rappresenta la liberazione dell’immagine dai confini del bello artistico, nei quali la
modernità estetica l’aveva ridotta, depotenziandola. Si aprono così gli spazi per restituire all’immagine
funzioni nuove. Di qui, l’insistenza di Bredekamp sul principio secondo cu le immagini avrebbero una
sorta di vita propria, cioè non sono semplicemente rappresentazioni ma soggettività dotate di
energeia. Gli atti iconici fondano dunque la loro forza semantica sulla capacità di fare (mettere sotto gli
occhi) e far fare (produrre comportamenti).
8. W.J.T. Mitchell: un’ontologia per le immagini
Negli stessi anni di Boehm, W.J.T. Mitchell inizia a parlare di pictorial turn. I suoi primi due libri
(Blake’s Composite Art del 1978 e The Language of Images del 1980) identificano bene il tema della sua
riflessione principale, ovvero il rapporto tra la parola e l’immagine. Il punto centrale del discorso di
Mitchell si concentra sul crinale che divide momenti della comprensione tradizionale dell’immagine
(non soltanto artistica) e i valori diversi che oggi le si attribuiscono. Si tratta degli studi su quella che
Mitchell e gli studiosi statunitensi definiscono visual culture. Gli studi visuali americani enfatizzano la
loro portata transdisciplinare, con profili di ricerca spesso indistinguibili tra la storia dell’arte, i media
studies e talvolta anche le neuroscienze. Mitchell è uno dei riferimenti principali di questo contesto,
soprattutto per la portata sistematica a cui punta la sua trilogia fondamentale, composta da Iconology
(1986), Picture Theory (1994) e What Do Pictures Want? (2005). È bene ricapitolare il significato che
Mitchell attribuisce alla nozione di pictorial turn: abbiamo da una parte il significato polemico
dell’espressione, che contesta il funzionamento del linguaggio come paradigma unificante di sistemi
simbolici disparati, e dall’altra il progetto di indagare codici iconici elementari, che sono sottesi ai
sistemi non-linguistici e che non paiono riconducibili ad essi. Nella discussione aperta da Mitchell si
riconosce la tendenza a una lettura epocale di alcuni fenomeni, come, ad esempio, la storia della cultura
occidentale, che è pensata come il campo di una battaglia combattuta tra parola e immagine, in cui sono
per lo più le tendenze iconofobe ad avere la meglio. Lo stesso linguistic turn diventa il punto di arrivo di
un percorso che porta all’esclusione dell’immagine dall’ambito logico, o quantomeno il tentativo di
assorbire dentro il logos tutte le dimensioni del significato che fanno capo al visuale. Sarebbe però
sbagliato intendere il pictorial turn come l’opposto simmetrico della svolta linguistica. L’obiettivo di
Mitchell esclude categoricamente che il pictorial turn sia un fenomeno che segue cronologicamente e
capovolge il linguistic turn. Si tratta semmai di individuare nella visione un dispositivo sotterraneo che
attraversa l’esperienza storica dell’umanità e che talvolta emerge con forza, producendo un
ripensamento complessivo dei termini in gioco. Mitchell scrive che qualsiasi cosa sia il pictorial turn,
non è un ritorno alle teorie della rappresentazione basate sulla mimesi o sulla corrispondenza, ma è
piuttosto una riscoperta post-linguistica e post-semiotica dell’immagine come interazione
complessa tra visualità, apparato, istituzioni, discorso, corpi e figuratività. L’idea di base è quella che la
picture sia una struttura di significazione complessa, che mescola la materialità del medium e la sua
capacità di contenere qualcosa che sopravvive alla distruzione del supporto materiale, cioè l’image. In
quanto è un’entità immateriale, l’image nasce su un supporto materiale. Si tratta di considerare le
immagini come un archivio di modelli in grado di strutturare le relazioni. È una prospettiva che permette
di enfatizzare la capacità performativa dell’immagine, la sua disposizione a farci fare cos. È un tema
molto chiaro al dibattito contemporaneo sul pictorial turn. Nel caso di What Do Pictures Want? (2005),
il tema è quello della quasi-personalità delle immagini. Mitchell scrive che le immagini sono come
organismi viventi, come delle cose che hanno desideri. Ciò che le immagini vogliono da noi è un’idea
del visuale adeguata alla loro ontologia. Elaborare una teoria delle immagini adeguata a ciò che le
immagini sono significa costruire un modello paritetico a quello del linguaggio. Il pictorial turn propone
un lavoro sull’immagine che sia al contempo storico-critico e capace di una comprensione del
significato potenziale che il visuale esplica a tutti i livelli. Mitchell inserisce l’egemonia logocentrica nello
stesso percorso dell’iconofobia occidentale. Il trattamento prevalente che l’immagine subisce è quello di
un’esposizione critica e demolizione del potere nefasto delle immagini. Per Mitchell, l’iconofobia incorre
in un doppio fallimento: è una censura facile, perché attribuisce all’immagine i caratteri di un vero e

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proprio antagonista politico, ed è una censura inefficace, perché lascia il tempo che trova, non accede a
quell’idea del visuale che sarebbe in grado di smontare la fobia, non fa alcun passo per comprendere
l’immagine.

9. Salvare le immagini dall’iconofobia


Superare l’iconofobia implica esporre in via diretta la potenza dell’immagine, la sua capacità di produrre
quegli effetti da cui il rifiuto iconofobo vorrebbe proteggerci. In tal senso, Mitchell tratteggia i confini di
una teoria del visuale che ha il proprio fulcro nel problema della performatività. Il suo presupposto
più evidente è lo sganciamento dell’atto del rappresentare da qualsiasi supporto materiale: prima di
essere una statua (esempio), la rappresentazione è una specie di attività, un insieme di relazioni, un
processo a cui l’oggetto materiale partecipa come una pedina. Nella prospettiva del pictorial turn, la
relazione assume una connotazione esplicitamente dialettica: la posta in gioco di una teoria
dell’immagine è un conflitto di poteri/valori che circolano e che coinvolgono sia il rappresentato sia il
pubblico. Se si dà una rappresentazione, ciò avviene perché qualcosa del rappresentato è
temporaneamente alienato, trasferito altrove, tipicamente nell’immagine, e può essere sempre riportato
indietro, cioè revocato dal rappresentato. Nell’atto di rappresentare è inclusa una dimensione che ha a
che fare con la responsabilità, a livello di questa cessione di valori/poteri che l’immagine riceve. Il
primo versante è quello epistemologico e riguarda l’accuratezza di un’immagine rispetto a ciò che
rappresenta; il secondo ha invece a che fare con la dimensione etica, una sorta di contratto etico in virtù
del quale il rappresentante è responsabile della verità della rappresentazione. In tal senso, la
rappresentazione è performativa nei due sensi: fa qualcosa perché si fa portatrice di poteri/valori, e a
sua volta invoca la responsabilità di chi la produce e di chi la usa. Si tratta di una dimensione etica
dell’immagine che può essere sempre disattesa, ma ciò che si dà per natura è l’appello a corrispondere
a quella rete di poteri/valori, appello che può comunque cadere nel vuoto, provocando uno
sganciamento dell’immagine dalle relazioni in cui è naturalmente collocata. Nelle categorie di Picture
Theory, sterilizzate il campo dell’immagine significa proprio rifiutare di corrispondere alla
responsabilità della rappresentazione, preferendo la rinuncia della carica di potere/valore. Dal punto di
vista dell’iconofobia, ricondurre le immagini a un ambito inoffensivo è più semplice che fare i conti con
la carica di significati che il visuale continuamente produce, con l’impatto di cui è responsabile. Ciò che
Mitchell suggerisce non è il semplice rifiuto dell’iconofobia, ma il suo capovolgimento, un
capovolgimento che coinvolge l’intero ventaglio di prospettive che la modernità ha conosciuto sotto la
categoria dell’immagine artistica. Nella prima prospettiva, l’immagine è considerata irresponsabile
perché non può rendere ragione di sé; nel secondo caso, l’immagine è semplicemente priva di
responsabilità, in quanto inefficace fuori dai confini della fruizione dell’opera d’arte. Capovolgere queste
prospettive significa reinserire l’immagine nella rete di poteri/valori, significa ricondurla alla sua
responsabilità.
10. Una politica delle immagini
L’interesse di Mitchell per gli aspetti pubblici e politici dell’immagine è destinato a crescere nei primi
anni Duemila, come si vede con What Do Pictures Want?, Cloning Terror e Scienza dell’immagine.
Quest’ultimo riferimento è il più utile, visto che raccoglie saggi scritti tra il 2004 e il 2015. Questi saggi
attraversano gli anni cruciali della cosiddetta guerra al terrore e seguono uno schema specifico,
intrecciando casi di studi specifici ad analisi che ridefiniscono aspetti teorici rilevanti degli studi visuali.
Mitchell consolida una definizione piuttosto articolata della sua image science, che parte da una
considerazione analogica: Mitchell scrive che, come la linguistica studia gli elementi di cui si servono la

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poesia e la letteratura, così bisogna dare una linguistica della visione che studi lo specifico canale
sensoriale tramite cui le arti e la comunicazione visiva operano. L’idea che si debba costruire una
linguistica della visione è d’altronde molto diffusa. Come la linguistica, anche la scienza delle immagini
si presenta secondo Mitchell con un profilo doppio, come scienza dura e come scienza storica: da una
parte è lo studio empirico delle condizioni della percezione umana, dall’altra si presenza come una
scienza storica che si occupa della circolazione spaziale e temporale delle immagini, con le loro
migrazioni da un luogo all’altro o da un’epoca all’altra. Questo chiarisce bene il tratto di
transdisciplinarità della prospettiva di Mitchell. Ciò che accomuna le diverse figure disciplinari
coinvolte nella scienza delle immagini è il riferimento a un oggetto specifico: è dall’oggetto, più che dai
metodi e dalle competenze, che dipende l’unità della scienza dell’immagine nella versione proposta da
Mitchell. Il visuale non è un medium puro, cioè non fa riferimento a un campo fenomenologico a cui si
accede per il solo tramite dell’ocularità. La visione è anzi un insieme polisensoriale e multimediale
che si articola conseguentemente in numerosi supporti. Una delle formule più note di Mitchell dichiara
che tutti i media sono mixed media, e si può allora dire che lo stesso rapporto tra il linguistico e il visuale
sia più complesso di una semplice divisione di campi. Mitchell ricorre dunque alla nozione di imagetext,
che implica una connessione e una continuità radicale tra questi due media. Ciò che gli studi visuali
propongono è una comprensione dell’immagine specifica e irriducibile, una comprensione complessa
che va dalla fisiologia dell’occhio e dalla neurologia fino alla storia culturale degli stili. Ne deriva una
scienza composita che affronta l’immagine come oggetto di ricerca che permea la vita quotidiana.
Mitchell sostiene l’assoluta specificità delle immagini, riconoscendo tuttavia la continuità tra la
dimensione linguistica e quella visiva: la nozione di imagetext indica appunto un medium complesso, in
cui le due funzioni si trovano sullo stesso piano. Il caso esemplare di quest’articolazione è il discorso
politico, o il continuum di immagini e parole al servizio della propaganda bellica. Le guerre combattute
recentemente dall’occidente hanno subito un processo di anestetizzazione che le ha rese meno
scandalose per il pubblico, ma al tempo stesso hanno richiesto nuovi strumenti di costruzione del
consenso democratico. In particolare, la guerra al terrore diviene un conflitto di cui non ci si limita a
produrre qualche testimonianza iconica, ma che si combatte con le immagini almeno quanto con le
parole. In Scienza delle immagini Mitchell enfatizza il ruolo delle immagini della guerra come tessere
del perturbante storico di su cui l’impero occidentale e l’impero del terrore, con i rispettivi media, si
combattono. Il cuore dell’analisi è rappresentato dalla ricostruzione critica di ciò che le immagini fanno
e ci fanno fare, dunque la loro performatività politica. Le immagini sono un pezzo fondamentale per
avvicinare il campo di battaglia, che diventa ripetuto all’infinito, non soltanto dai media tradizionali ma
anche dagli schermi personali e portatili. La narrazione delle immagini perturba come qualcosa che
accade sotto gli occhi di tutte le persone. Tutti i tentativi di sterilizzare la guerra con la distanza e la
censura sono annullati attraverso le immagini che la rendono di nuovo umana e terrorizzante. Per
Mitchell, questo non significa né esaltare né censurare la potenza delle immagini nel discorso pubblico,
ma significa disegnare un continuum semantico che usa discorsi e figure e i rispettivi intrecci
(imagetext).
II.
Canoni dell’interpretazione
Capitolo terzo
Fine e risemantizzazione dell’arte. Gli spazi politici
1. La vicenda post-storica dell’arte
La fine hegeliana dell’arte è uno schema teorico dentro il quale si legge un rinnovamento radicale
dell’esperienza estetica. Esiste una vicenda post-storica dell’arte di cui l’ermeneutica filosofica ha il
merito di individuare i termini principali. Da una parte, il suo atto d’inizio: la crisi della coscienza
estetica, cioè il riconoscimento che molti fenomeni usualmente qualificati come arte sono nettamente
più complessi dell’idea kantiana di bello. Dall’altra, le sue possibili prospettive: autonomizzare

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l’immagine dal dominio della semplice immagine artistica consente di intercettare discussioni che
altrimenti non sarebbero facilmente traducibili in categoria filosofiche. In mezzo a questi due estremi si
apre uno spazio di approfondimento a sua volta molto ricco, che permette di leggere fenomeni artistici
specifici nella prospettiva di questa post-storia dell’arte. Il riferimento alle avanguardie è il più fecondo,
ma non è l’unico. Si pensi nuovamente alla connessione tra la fine hegeliana dell’arte e la fine
heideggeriana della metafisica, un’ipotesi a cui Gianni Vattimo dà fondamento. Dentro questo perimetro
si colloca un insieme di molti fenomeni, che è utile ricondurre ai loro riferimenti filosofici, primo tra tutti
Heidegger. Sotto questo profilo, è possibile tematizzare un’altra importante modificazione
dell’esperienza post-storica dell’arte, ovvero la rinnovata attenzione che si registra sul fronte della
produzione e della fruizione dell’arte monumentale.
2. L’«estetica» di Heidegger: dall’ontologia alla topologia
La riflessione di Heidegger sull’arte è tutta racchiusa nei tre decenni che vanno dalla pubblicazione del
saggio del 1935-36 sull’Origine dell’opera d’arte al seminario sull’Arte e lo spazio del 1969. Non è un
arco temporale breve, e le coordinate del “secondo” Heidegger sono mutevoli e ci sono interpreti che vi
leggono un’ulteriore rottura interna: se la svolta degli anni Trenta si apre con l’identificazione del
problema ontologico della verità dell’essere, emergerà gradualmente anche la questione topologica
della località dell’essere. La riflessione sull’arte è l’indice migliore lungo il quale ricostruire
quest’evoluzione. I trentatré anni che separano questi due interventi contengono alcuni tra i più
significativi sentieri interrotti del pensiero heideggeriano. In Fine della modernità, Vattimo parla di una
sorta di auto-distorcimento all’interno della filosofia heideggeriana. In riferimento a L’arte e lo spazio,
Vattimo sottolinea come le questioni topologiche non siano una semplice aggiunta all’estetica
dell’Origine dell’opera d’arte, bensì il principio per ripensare profondamente la fruizione dell’oggetto
artistico. Per capire questo bisogna naturalmente partire dall’Origine dell’opera d’arte, la cui domanda
di partenza riguarda ciò in base a cui l’opera d’arte può dirsi origine di qualcosa: è possibile che l’arte
costituisce un’origine? Dove e in qual modo sussiste l’arte? La risposta sta nell’idea che l’arte si collochi
al livello dell’apertura dell’ente nel suo essere, ovvero al livello del mondo che emerge sullo sfondo
di quel deposito chiuso di significati che è la terra. Il punto rilevante è l’emergere dei primi segni del
dualismo temporale-spaziale che governerà il pensiero di Heidegger. L'«estetica» heideggeriana
consente di cogliere questa doppia costellazione categoriale, ovvero l’arte come evento temporale e
come evento spaziale. Se Ereignis (evento) è la vera parola-chiave di Heidegger dagli anni Trenta, si
tratta di un termine che è metafora dell’essere come tempo e storia, anzi come temporalizzazione
e storicizzazione. L’Ereignis suscita però una seconda metaforica, fatta di nozioni connotate soprattutto
topologicamente. Il ruolo della topologia nel saggio del 1936 è chiarito da Jeff Malpas, uno dei nomi
centrali per costruire un percorso attorno alla riflessione heideggeriana. Il saggio sull’Origine dell’opera
d’arte è il testo nel quale, secondo Malpas, l’embrionalità della nozione di luogo che si trova in Essere e
tempo prende una forma riconoscibile. Se l’idea-guida di Essere e tempo è la volontà di articolare l’idea
fondamentale del nostro essere nel mondo come tema del nostro essere “situati”, il fallimento di quel
progetto si deve alla sua incapacità di elaborare in maniera adeguata i concetti spaziali e topologici che
entrano in gioco in quest’opera, concetti connessi al problema originario della situatività. Lette in una
prospettiva diversa di Essere e tempo, le nozioni di progetto, di senso e di comprensione avrebbero
potuto mettere capo a un’interpretazione dell’esistenza più connotata come il luogo all’interno del quale
si manifestano gli enti. L’originalità di Malpas nel panorama della ricezione heideggeriana sta nella
connessione che istituisce tra i limiti dell’analitica esistenziale, la svolta anti-umanista e il
topological turn. Malpas argomenta che il modo in cui Heidegger sviluppa la sua analisi dell’esser-ci
crea dei problemi perché rischia di sbilanciare l’autentica relazione tra esser-ci ed essere a favore
dell’esser-ci. Se Heidegger è costretto a interrompere il progetto, spostando il focus dal Dasein (esserci)
verso altre direzioni, ciò si deve al primato della temporalità su cui l’analitica esistenziale si fonda, un
primato che secondo Malpas lascia ampio adito a fraintendimenti di stampo soggettivistico. Una lettura
topologica del Dasein risulta invece resistente a tali fraintendimenti, tanto che quando il secondo

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Heidegger si scaglia contro il soggettivismo e le sue varianti lo fa a partire dal topologismo, la cui
caratteristica rilevante è il fatto di essere una forma di non-soggettivismo. La via alternativa che getta
una nuova luce sull’analitica esistenziale consiste nel ripensare il Dasein come un topos, come il luogo
della verità dell’essere. Secondo Malpas, tutto ciò traccia una linea di continuità nascosta con il saggio
sull’opera d’arte, dove l’interesse topologico si trova confinato nel riferimento alla lotta tra mondo e
terra, un conflitto in cui la terra fonda e radica l’opera d’arte. il che è vero non soltanto nel senso che
l’opera è collocata da qualche parte, ma anche nel senso per cui l’arte si ridefinisce come un dispositivo
di stabilità e di abitabilità. Il modello heideggeriano del tempio traduce proprio questa tesi, in
particolar modo nei riferimenti alla presenza divina nell’edificio. Heidegger scrive che l’esser-presente
di Dio è il dispiegamento e la delimitazione di una regione sacrale, e il tempio, in quanto opera d’arte,
raccoglie intorno a sé l’unità di quelle vie e di quei rapporti che delineano il corso dell’essere umano nel
suo destino, e, concludendo, dice che l’ampiezza dell’apertura di questi rapporti è il mondo di questo
popolo storico. La delimitazione, la disposizione, il raccogliere intorno a sé e l’unità di una comunità
storica fanno riferimento al luogo dell’esistenza e dei significati. Così Malpas può concludere che
l’arte, e quindi la verità, opera attraverso il rivelarsi concreto di un paesaggio o di un mondo specifico
che viene svelato grazie al fatto che l’opera sta concretamente in quel contesto.
3. Topologia e opera d’arte
Dopo gli anni Trenta, la nozione di luogo assumerà un’importanza crescente in Heidegger, tanto che sarà
lui stesso a richiamare presto l’esigenza di una topologia dell’essere. Nell’evoluzione dell’estetica
heideggeriana il vero fulcro del discorso sull’opera e la sua origine si trova nel saggio su L’arte e lo spazio,
dove il discorso sull’arte è un’analisi intorno al suo esser-cosa, ed è proprio in questa direzione che si
comprende la centralità della topologia. La tematica topologica emerge in quella relazione che
Heidegger definisce «fare-spazio», che è libera donazione di luoghi in cui i destini degli uomini che vi
abitano si realizzano nella felicità del possesso di una patria o nell’infelicità dell’esserne privi. Se nel
1936 Heidegger poteva parlare della verità che si mette in opera, ora la verità sembra dotata di una
particolare materialità, nel senso di qualcosa che occupa spazio, o addirittura di una certa corporeità.
La scultura, per esempio, è il farsi corpo della verità dell’Essere nella sua opera instaurante luoghi. Ci
sono poi alcuni elementi da enfatizzare. Il valore inaugurale dell’arte assume una concretezza e una
fisicità inattese. Jeff Malpas scrive che la collocazione di un singolo oggetto in un determinato spazio
configura immediatamente lo spazio intorno all’oggetto, che non appare più come un singolo spazio
indifferenziato ma come ciò in cui è collocato l’oggetto. Questa riconfigurazione dello spazio a partire
da un’opera è l’aspetto più interessante dell’estetica topologica heideggeriana: è un fare-spazio che
corrisponde alla funzione del luogo che raccoglie. Lo spazio, ora, diventa ciò a partire dal quale l’arte
accade. È peraltro possibile trovare nell’estetica topologica dell’ultimo Heidegger le tracce di una
rivalutazione che tocca forme artistiche il cui tratto principale è proprio la capacità di riconfigurare gli
spazi. Rispetto alla carica inaugurale posta in primo piano dall’Origine dell’opera d’arte, subentra ora
una fondazione che si concretizza come un lasciar libero o un lasciar accadere uno spazio autentico.
Si assiste a un capovolgimento dell’estetica dell’epoca della Kehre, un rovesciamento in base al quale
l’essenza dell’arte sta nel suo essere di sfondo. Secondo la prospettiva di Vattimo, il darsi dell’oggetto
artistico diviene un evento inapparente e marginale, di sfondo, non nel senso dell’irrilevanza ma nella
forma di una monumentalità che contribuisce a costituire lo sfondo della nostra esperienza, ma di per
sé resta oggetto di una percezione distratta.
4. Gerard Vilar: la precarietà estetica
Le analisi di Gerard Vilar sul tema della precarietà estetica sono molto interessanti per comprendere
quanto determinate misure, come la rivalutazione dell’ornamento e la spazialità, possano aiutare a
comprendere fenomeni artistici contemporanei. Le analisi di Vilar, per altro, lavorano in continuità con
alcuni temi estetici classici, in particolare hegeliani. Gli aspetti più rilevanti della precarietà estetica
condividono un riferimento esplicito alla fine hegeliana dell’arte. La precarietà è quel tipo di esistenza

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che l’arte sembra mantenere oggi, il mezzo attraverso il quale Vilar applica all’esperienza artistica
contemporanea la tesi di Hegel. Si tratta di un’applicazione che implica uno slittamento dalla nozione di
inattualità dell’arte all’analisi di fenomeni artistici che eccedono i confini tradizionali. Nelle pagine di
Vilar c’è una seconda conseguenza nel modo in cui la pratica artistica e la riflessione filosofica
entrano in dialogo, producendo una sorta di doppio cieco: non è soltanto la definizione di pratica
artistica a essere messa in discussione nei termini della rottura dei margini tra artistico e non-artistico,
ma è la stessa idea di riflessione a cambiare aspetto. Da una parte, l’idea che l’arte possa essere messa a
tema da un’ontologia della precarietà è indubitabile, ma questa tematizzazione diventa a sua volta una
forma di riflessione filosofica per la quale l’estetica della precarietà produce conseguenze sul modo
stesso di intendere la riflessione filosofica. È ciò che Vilar prova a formalizzare riferendosi al Gramsci-
Monument di Thomas Hirschhorn. Realizzato nel 2013 in un parco del Bronx, il Gramsci-Monument
è una struttura in legno grezzo che comprende uno spazio espositivo, un piccolo teatro, un’area internet
e un bar. Hirschhorn lo presenta come il risultato di una concezione diversa di arte pubblica, dedicata
a una fruizione da parte di un pubblico non interessato all’arte. Il Gramsci-Monument si presenta come
una struttura dedicata alla sperimentazione di forme di spazialità diverse, dense di significati sociali. Il
monumento è una sorta di performance che mette alla prova del pubblico nuovi spazi di incontro, i
quali affiorano dal monumento stesso. Con ciò, la nozione di monumento subisce un processo di
decostruzione: il monumento non è più un oggetto che aspira a essere permanente nel corso dei secoli,
ma è espressamente un prodotto che nasce con una data di scadenza, che lo terrà in vita fino all’autunno
del 2013. I significati sociali che il Gramsci-Monument assume, inoltre, fanno riferimento ad un
processo di risemantizzazione che l’artista produce al termine della storia dei monumenti classici. La
precarietà del Gramsci-Monument ha la caratteristica di presentare una performatività sociale che
esce dai limiti temporali del monumento tradizionale. Il punto di svolta sta nell’attribuzione di una
specifica performatività a un dispositivo monumentale che diviene addirittura performance
monumentale. L’arte monumentale diventa il medium di un progetto politico, aprendosi ad un luogo che
promuove l’analisi critica delle costruzioni sociali contemporanee. Secondo Vilar, le opere d’arte di
Hirschhorn intendono sottoporre il partecipante a stimoli, strumenti e soluzioni che ognuno elabora
all’interno della propria esperienza personale. I convegni programmati al Gramsci-Monument sono a
manifestazione più diretta di un’intenzione progettuale che è assolutamente politica. Il coinvolgimento
critico della cittadinanza funziona come un supplemento che muta il significato delle opere, ponendole
all’incrocio con la politica. Quella a cui Hirschhorn pensa è una sorta di alterazione dell’ontologia
dell’opera d’arte, che produce un’innovazione nella fruizione dello spazio pubblico e apre la strada a un
percorso critico condiviso da parte delle persone che lo abitano.
5. «Performance» e teoria
Conseguenze altrettanto importanti possono essere tratte dal punto di vista filosofico, tra cui l’idea che
l’arte possa diventare un medium per la comprensione. Nello slittamento da un’ontologia dell’oggetto
artistico tradizionale a un’ontologia della performance monumentale, l’arte assume il ruolo di un
dispositivo riflessivo, cioè di un luogo per pensare aspetti del nostro mondo. Vilar sostiene che ciò che
l’arte contemporanea mostra è l’impossibilità di separare l’opera d’arte dal discorso su di essa e a
partire da essa. In tal senso, la performance monumentale è un esempio emblematico di arte che si
ridurrebbe a nulla se non fosse accompagnata da una pratica sociale in grado di dare ragione alla sua
esistenza. Si può quindi giungere a due conclusioni principali: l’idea che l’arte sia una forma di teoria
performata e l’esclusione di qualsiasi riferimento alla verità in quest’intreccio tra arte e teoria. Tali
affermazioni estendono la loro pretesa di validità alla stessa filosofia: su questa base, Vilar sostiene che
la verità non è più un affare dell’arte né della filosofia, ed è la filosofia stessa, come l’arte, a considerarsi
un’impresa tormentata dalla precarietà. L’idea è che la riflessione non salvi l’arte: la filosofia non ha il
compito di sollevare la pratica artistica dalla sua dispersione nell’epoca della fine. Anzi, è l’arte dopo la
sua fine a trascinare con sé la riflessione determinandone un mutamento essenziale.

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Capitolo quarto
Prassi e teoria
1. L’ermeneutica come teoria della razionalità pratica
Se rispetto al significato politico di alcune forme di arte contemporanea occorre parlare di teoria
performata, è proprio il lessico della theoria a richiedere un ripensamento. Vilar identifica nell’arte un
fenomeno di potenziale rottura della ragione metafisica: una rottura che si fa portatrice di istanze di
libertà radicale, innovazione, incommensurabilità, irriducibilità, inclassificabilità. Vilar qualifica come
ragione senza fondamento questa serie di istanze che spezzano la razionalità metafisica. Sotto questo
profilo, l’ermeneutica filosofica contemporanea diventa anche una specifica teoria della razionalità
pratica. La ridefinizione del rapporto tra theoria e praxis è visibile lungo tutto l’arco del dibattito
ermeneutico-filosofico, da Heidegger fino, persino, alla cosiddetta crisi dell’ermeneutica. La stessa crisi
dell’ermeneutica è rappresentata come l’incapacità di misurare le conseguenze di un determinato
paradigma teorico (il primato dell’interpretazione sulla verità) sul piano storico-sociale (quello della
prassi). Questo riconosce all’ermeneutica filosofica di giocare un ruolo nella messa in discussione delle
definizioni rispettive dei due ambiti. Anche sul piano metafilosofico, le dispute degli ultimi due decenni
sull’ermeneutica sembrano riguardare in maniera ampia la relazione tra theoria e praxis. Per meglio
dire, sembrano prendere le mosse dal rovesciamento di questo nesso: un ambito specifico del pratico
(sostenibilità etico-politica delle teorie) è lo snodo nel quale la discussione deve essere decisa. Se si
considera la discussione italiana sul realismo e sull’antirealismo, nessuna delle due posizioni sembra
rivendicare di essere più vera della posizione opposta, ma semplicemente più sostenibile nelle proprie
conseguenze etico-politiche, più responsabile sul piano della prassi. Ammesso che in filosofia ci sia
ancora lo spazio per articolare teorie della razionalità, tale spazio coincide con l’esercizio di contesti
specifici di applicabilità della theoria. Il nesso tra i due ambiti non è quindi un aspetto qualsiasi, ma è il
luogo nel quale quel sistema sta o cade. Intesa in questo senso, la praxis non è una determinazione delle
cosiddette filosofie seconde, cioè non tocca l’applicazione extra-teorica di un sistema già dato; la praxis
è l’esercizio stesso della teoria, l’esercizio della filosofia come teoria.
2. Reiner Schürmann: la prassi prima della teoria
Il modo in cui Schürmann interpreta il pensiero heideggeriano è considerato tra i più originali per
l’enfasi posta sul ripensamento della theoria a partire dalla praxis. Schürmann qualifica la metafisica
occidentale come la storia di diversi modi in cui la filosofia ha pensato, organizzato e talvolta
progettato realtà muovendo da un principio primo. La metafisica è la storia delle archai: dal fluido di
Talete al numero dei pitagorici, ogni filosofia porta con sé la forma che le imprime il proprio principio,
principio che non regge soltanto la realtà ma il pensiero stesso. Per comprendere il senso del discorso
di Schürmann, si pensi alle analisi che Heidegger dedica alla tecnica come caratteristica fondante della
modernità compiuta: la tecnica è la manifestazione concreta dell’attitudine teoretica a gerarchizzare
gli enti e il pensiero. Per Heidegger la metafisica è la capacità di gerarchizzare gli enti e di disporne
indefinitamente; per questo motivo, l’ipotesi della fine della metafisica porta con sé un altro pensare, un
altro agire e un altro stare al mondo. La rilettura che Schürmann dedica ai testi heideggeriani sulla
tecnica è tutta volta ad articolare questa ipotesi. L’obiettivo di Schürmann è ripercorrere l’ipotesi
heideggeriana della fine della metafisica enfatizzandone la rottura che comporta rispetto al modello
delle archai: che cosa significa agire e che cosa significa pensare fuori dallo schema fondazionale della
metafisica? L’orizzonte disegnato da una domanda del genere è piuttosto chiaro. La metafisica
occidentale crede che, posto un fondamento teorico ultimo, tutto ne discenda, tanto nell’essere quanto
nell’agire (archai). All’opposto, l’ipotesi di una fine del regime delle archai mette in discussione quel
modello, dubitando innanzitutto della sua struttura, ossia dell’idea che la praxis si radichi nel pensiero
e ne derivi. Da qui il riferimento all’agire anarchico, privato di una fondazione che ne garantisca la
legittimità e il funzionamento. L’anarchia di cui parla il titolo del volume Dai principi all’anarchia
(1982), ovvero l’assenza di principi metafisici ultimi, può diventare tema del pensiero soltanto

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l’acquisizione di una particolare disposizione esistenziale, cioè facendo del pensiero non un primum, ma
un secundum. Per la lettura che Schürmann dà dello Heidegger post-metafisico, il termine anarchia ha
il significato di invertire lo schema di derivazione tra theoria e praxis. La cancellazione dello schema
metafisico è così radicale che la derivazione della prassi dai principi della teoria finisce per essere
capovolta. La dimensione pratico-concreta dell’esistenza diventa determinante per la conquista del
pensiero post-metafisico. Anche l’agire, privato di un fondamento razionale a cui rendere conto, non
soltanto si scopre anarchico, ma diventa la condizione stessa dell’anarchia del pensiero: smettendo
di essere la conseguenza pratica di criteri stabiliti speculativamente, l’agire si trasforma nella condizione
di possibilità del pensiero. L’ipotesi della svolta fa subentrare al dispositivo fondazionalista «essere, ergo
pensiero, ergo azione» un atteggiamento connotato come meditante. È meditante quella disposizione
del pensiero e dell’azione che si svolge in accordo con il senso dell’essere, con la sua temporalità
originaria. Solo la sintonia esistenziale con la mancanza di fondamento può rompere lo scenario della
tecnica moderna, soltanto l’agire senza principi rende possibile la rinuncia alla metafisica. La metafisica
non si confuta da sé, ma richiede un cambio di sguardo che è innanzitutto un affare della prassi concreta
dell’esistenza. Per fare un passo al di là della metafisica, l’assenza di un fondamento ontologico e
assiologico va assunta come principio di liberazione da qualsiasi visione/azione di stampo universale,
è necessaria la priorità del pratico sul pensiero. Al di là della sua radicalità, Schürmann ha il merito di
portare a galla un tratto rilevante e condiviso all’interno della tradizione continentale novecentesca, che
si potrebbe definire il tratto pragmatico dell’ermeneutica filosofica: nell’ermeneutica filosofica, la
verità o falsità di una teoria si fa nei contesti pratici in cui si applica, il che equivale a sostenere che
l’ermeneutica filosofica è già sempre là fuori, non solo nello spazio della discussione pubblica ma anche
in quello del fare e dell’agire in comune.
3. La prassi che costruisce regole
È necessario approfondire cosa implichi l’idea di una prassi non regolata da principi teorici. Capovolgere
il modello della filosofia implica che si sospenda il regime dell’arché in quanto oggetto di pensiero
(concetto, idea, etc) e che lo si sottoponga a una condizione della prassi. La prassi, meglio della teoria, è
un ambito di relazioni mutevoli nei confronti delle regole, è il luogo della libertà. Il linguaggio, ad
esempio, è tra i dispositivi nei quali più facilmente si legge la presenza di una prassi che precede la
formalizzazione teorica. La storia del linguistic turn è molto articolata, ma qui interessa un momento
specifico di questa storia, che tocca il problema della regola e della sua sospensione. Il linguaggio non è
soltanto lo strumento con il quale la filosofia argomenta, ma è un insieme complesso di regole. Tra i nomi
di riferimento dell’ermeneutica filosofica, è Paul Ricoeur a enfatizzare questa doppia faccia del
linguaggio, facendo coincidere i confini della riflessione filosofica con quella di una grande filosofia sul
linguaggio. Il linguaggio, secondo Ricoeur, è ciò che abbiamo più immediatamente sotto mano se
dobbiamo pensare a un insieme complesso di regole. Questa è la scena primaria dell’ermeneutica
filosofica: l’ermeneutica, intesa come un sistema filosofico, lavora attraverso uno strumento regolato
che si chiama linguaggio. In quanto disciplina che si occupa della comprensione, dell’interpretazione e
della razionalità, l’ermeneutica filosofica è innanzitutto una filosofia che mette a tema il linguaggio come
sistema di regole. La regola, la sua istituzione e il suo uso possono essere identificati come uno dei
fuochi principali dell’ermeneutica filosofica. C’è da aggiungere, però, che l’insieme delle regole
linguistiche non configura mai un sistema chiuso: la scena delle regole linguistiche ha uno sfondo
diverso da sé, rappresentato dalla loro evoluzione storica, ossia dal fatto di essere regole che un tempo
non lo erano e che un giorno non lo saranno più. Qui si gioca l’importante partita dell’invenzione e della
violazione che la prassi linguistica porta con sé. L’ermeneutica è lo strumento in grado di leggere le
continuità e le discontinuità all’interno di un codice tramandato, è lo strumento capace di mettere a tema
quell’intreccio tra il mantenimento e la violazione che ogni codice di regole produce nel suo stesso uso.
Nel caso del linguaggio, il fenomeno è evidente in tutti i processi in cui il codice è oggetto di
riadattamento all’interno di un contesto nuovo, adattamento che si produce principalmente attraverso
l’uso di metafore. Nei saggi contenuti nella Metafora viva (1975), Ricoeur traccia un percorso da

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Aristotele in poi, il cui momento di svolta sta nei due iniziatori della rinascita metaforica contemporanea,
Ivor A. Richards e Max Black. Sulla loro linea, Ricoeur contesta la tradizionale riduzione dei dispositivi
metaforici e ne sottolinea la portata filosofica. Tale portata è di natura ontologica: innovare il
linguaggio attraverso il ricorso alla metafora significa aprire prospettive sul mondo altrimenti
inaccessibili, significa far vedere cose nuove. La base del discorso di Ricoeur è aristotelica (il paradigma
metaforico è un dispositivo che innova la visione), ma il connubio di Aristotele con la rinascita
novecentesca della metafora può produrre un risultato molto originale. Per Ricoeur, la potenza visiva
del discorso metaforico si fonda su una sorta di errore categoriale. Dato un codice linguistico, il suo
stesso esercizio concreto implica un’innovazione che altera la regola data, riadatta il codice al contesto,
apre lo spazio a una nuova codificazione. Le metafore vive sono il risultato della pratica linguistica che,
violando determinate regole referenziali, produce un significato nuovo. La metafora funzione nella
misura in cui sia una violazione di regola che è a sua volta sottoposta a regole, la prima delle quali è
il mantenimento delle condizioni di comprensibilità. La prassi metaforica infrange regole, costruendo
predicazioni insolite e sbagliate dal punto di vista letterale (esempio: Marco non è mai un leone), ma
l’errore categoriale è sottoposto al vincolo di preservare una relazione con il mondo di cui parla:
dev’essere un errore calcolato ai fini della comprensione. Quest’analisi dei fenomeni di metaforizzazione
è una buona approssimazione del funzionamento dei dispositivi di razionalità adattiva. Si potrebbe dire
che la razionalità, prima di essere l’applicazione di regole a casi, è la violazione di tali regole per
adattarsi a casi non previsti. Circoscrivere questa riflessione all’ermeneutica filosofica consente di
problematizzare quei fenomeni che in altre tradizioni filosofiche rischiano di essere sottodeterminati,
primo tra tutti il rapporto tra la teoria e la prassi. Individuare nella prassi il luogo in cui si decide nella
teoria significa attribuire all’ambito pratico il ruolo di principio delle regole. Inoltre, includere nella
prassi che decide la teoria dispositivi di violazione della regola permette di leggere il rapporto tra
theoria e praxis in senso adattivo e performativo, come quell’insieme di relazioni e di contesti in cui
l’uscita da un ordine categoriale è un delicato equilibrio tra innovazione e conservazione. La theoria
come sistema di regole non funziona perché non rende conto della complessità dell’esperienza del fare
teoria.
Capitolo quinto
Il cinema sociale
1. Decostruire e ricostruire le regole. Il cinema di Jean Vigo
Il caso del Gramsci-Monument è un buon esempio di vedere in atto la ridefinizione tra theoria e praxis,
ma non ci si può accontentare della categoria di performance monumentale. In questo caso, infatti, lo
stravolgimento delle regole e l’inversione tra la teoria e la prassi sono pensati espressamente
dall’artista, ma non assunti come oggetto di rappresentazione. Per incontrare un caso del genere bisogna
guardare al cinema di Jean Vigo, che, tra gli anni Venti e gli anni Trenta, assume il ruolo di erede
immediato delle avanguardie francesi del decennio appena concluso. La poetica di Vigo ha il suo
presupposto nell’idea che i linguaggi cinematografici siano ancora debolmente canonizzati e che la
sperimentazione sia quindi la loro cifra più evidente. Nel breve saggio Vers un cinéma social (1930),
che assume i tratti di un manifesto teorico, Jean Vigo scrive che «con il pretesto che il cinema è nato ieri,
noi con il cinema giochiamo al “bebè”, come quel papà che bamboleggia col suo bimbo per farsi capire
meglio da lui»: è il punto di partenza più utile dal quale tornare a riflettere sul suo cinema. È un
documento importante sia sul piano critico, avendo il merito di collocare l’opera di Vigo all’interno del
cinema, sia sul piano filosofico, contenendo una serie di elementi interessanti per coglierne l’immagine
complessiva. Il rilievo di Vigo nello sviluppo dell’arte cinematografica riguarda il passaggio dall’infanzia
del cinema alla sua età adulta, in cui giocano un ruolo fondamentale l’avvento del sonoro e la
sperimentazione del cinema d’avanguardia. Ciò che interessa qui è il rapporto organico che si
istituisce tra la dimensione tecnica e il significato teorico del suo realismo poetico. In questo testo, il
confronto con i temi dell’avanguardia storica si fa serrato. Il suo discorso è tutto giocato sulla polemica
contro un uso del linguaggio filmico che Vigo giudica immaturo, ovvero quel bamboleggiare con il
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cinema. Bamboleggiare con il cinema vuol dire scegliere la tecnica per la tecnica, ossia enfatizzare le
possibilità meccaniche e percettive senza preoccuparsi della loro messa in discussione più profonda. Il
cinema che Vigo ha in mente ne è l’esatto opposto. Contro ad un cinema puramente tecnico, Vigo
immagina la strada di un cinema sociale che parli della società e dei suoi rapporti con gli individui, che
possa consentire allo spettatore di assistere al processo di un certo mondo. La differenza tra l’una e
l’altra forma non è un contrasto tra tecniche diverse, ma è un’alternativa tra la tecnica per la tecnica da
una parte e la tecnica per i contenuti dall’altra. La poetica vigoliana si regge tutta su un’inclinazione a
favore dei contenuti. Il cinema di Vigo, naturalmente, non può essere qualificato soltanto in base a una
scelta stilistica. Il richiamo alle avanguardie entra in gioco proprio a questo livello. Uno degli interpreti
più lucidi della poetica di Vigo è Corrado Terzi, il quale sottolinea che, all’epoca delle riprese di À propos
de Nice, il cinema documentario era ancora una tendenza del movimento d’avanguardia, e che Vigo si
ritrova dunque a doversi confrontare con tale tradizione. Il modo in cui Vigo la considera e la critica,
tuttavia, si focalizza in particolare sull’aspetto autoreferenziale di questa sperimentazione. Da qui il
rifiuto del cinéma pur e di tutte le tendenze estetizzanti, che hanno nei giochi con la tecnica la loro
espressione esemplare. Ciò che il cinema di Vigo pensa non è soltanto un rifiuto dell’avanguardia in sé,
ma l’individuazione di nuove aperture che salvino la funzione positiva di quelle poetica. Per Vigo, si può
dire che tutto il percorso dell’avanguardia storica abbia dotato i registi di un vasto repertorio di
linguaggi, che rischia però di risolversi in una netta impasse se non si apre in direzioni diverse da quelle
intellettualistiche della sperimentazione.
2. Il cinema ontologico
Ammiratore sincero del surrealismo cinematografico, Vigo ritiene che i linguaggi del surrealismo siano
più un insieme di possibilità da sfruttare che non risultati ai quali fermarsi, possibilità che devono essere
portate nel mondo, tra le strade. La preferenza di Vigo nei confronti di contenuti a tema sociale non è
sufficiente a definire lo specifico di film come À propos de Nice o Zéro de conduite: la critica sociale, in
effetti, è già presente in quell’avanguardia cinematografica rispetto alla quale Vigo vuole segnare
un’innovazione. L’elemento in più che emerge, semmai, è l’impossibilità di scindere questo proposito
dall’apertura di cui si diceva e che si potrebbe qualificare come ontologica. Si può dire che il cinema di
Vigo sia innanzitutto un cinema ontologico, la cui funzione critica si basa sulla capacità di costruire
mondi. È questo elemento in più a fare la differenza rispetto ai tentativi precedenti. Riflettere sulle
caratteristiche proprie del cinema di Vigo, nella sua singolare collocazione «dentro e fuori»
dall’avanguardia, implica un passaggio preliminare che consiste nel discutere in che senso la
sperimentazione tecnica e il rapporto con il mondo (la carica ontologica) rappresentino i due poli di una
tensione interna al fenomeno dell’avanguardia. La categoria della rivoluzione (dei canoni, del ruolo
dell’artista, della concezione dell’opera d’arte) non coglie lo specifico delle avanguardie e rischia semmai
di dare un’immagine imprecisa e inattendibile del fenomeno. La radicalità del fenomeno delle
avanguardie, prima di stravolgere le altre dimensioni contestuali dell’opera, come l’artista o il rapporto
con il mercato, tocca il dispositivo essenziale dell’arte come rappresentazione. La ricerca dei linguaggi
dell’avanguardia include a tutti gli effetti una potenzialità costruttiva che contiene tutti i presupposti
per un’operazione istitutiva di una nuova realtà. Si pensi all’avanguardia espressionista e
all’astrattismo. L’espressionismo nasce come tentativo di attingere alla verità profonda delle cose, ma
questa volontà, in polemica con le compromissioni di stampo impressionista, prende sempre più la
strada di una produzione di mondo. Mario de Micheli, nel suo volume sulle Avanguardie artistiche
del Novecento (1959), identifica questa tendenza come una capacità quasi demiurgica dell’artista. È
questo il senso, ad esempio, dell’astrattismo, in cui l’artista ambisce a inserirsi nelle forze creative della
natura, in modo tale che, attraverso l’artista, la natura possa generare nuovi mondi. In tal senso, è
particolarmente significativo il caso dell’arte russa e della sua relazione la realtà politica. L’arte si
colloca sempre, per inclusione o esclusione, in rapporto con gli eventi storico-politici: la politicità o
l’impoliticità della sua poetica è la domanda di partenza a cui l’artista deve rispondere. È come se
l’avanguardia russa finisse per riconoscere come imprescindibile l’orizzonte delle vicende storiche. Se

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l’avanguardia russa è politica, o se viceversa è impolitica se non antipolitica, ciò si deve al modo in cui i
suoi diversi indirizzi scelgono di darsi la portata ontologica. L’avanguardia russa restituisce un quadro
secondo cui la ricerca tecnica, se interpretata in chiave ontologica, ha nella progettualità politica il
proprio nodo che, per adesione o rifiuto, garantisce all’artista un’oggettualità. Ci si domanda dunque se
questo schema, che lega la sperimentazione all’impegno o al disimpegno politico, si possa applicare
altrove. Ci sono buone ragioni per considerare il cinema di Vigo come un tipico esempio del modo in cui
la ricerca tecnica è declinata a favore di esigenze che modificano il rapporto tra l’arte e il mondo.
3. La costruzione del mondo in À propos de Nice
Il primo elemento significativo delle opere di Vigo è la scelta dell’ambientazione, che per Vigo ha già
il senso di una critica sociale nei confronti delle realtà poste sotto la cinepresa. Nel caso di À propos de
Nice, Nizza è la città dei contrasti: allo splendore dei luoghi del turismo invernale fa da contrappunto il
sapore decadente delle abitudini e dell’umanità “vecchia” che la popola. Il collegio di Zéro de conduite,
invece, è il luogo della segregazione, nel quale si aprono come squarci frammenti di libertà che
l’istituzione educativa reprime. In entrambi i casi, la banalità del contesto fa da sfondo al discorso filmico
di Vigo, che assume un rilievo anche maggiore, fino a diventare una sorta di meta-questione interna al
film. La stessa adozione, in À propos de Nice, del solo registro del documentario accentua questo
principio: privo di intreccio e di una definizione dei personaggi, il documentario mette totalmente in
carico alla tecnica la possibilità di conservare un’intenzionalità e un senso specifici, che in contesti più
narrativi sarebbero garantiti dallo svolgimento della vicenda. Vigo declina le caratteristiche di questo
documentario innanzitutto per differenza, dichiarando che ciò che distingue questo documentario
sociale dal documentario normale e dai cinegiornali d’attualità è l’esistenza in esso del punto di vista
dell’autore, che difende con chiarezza. Questa rivendicazione del punto di vista del regista dipende dal
modo in cui la cinepresa verrà utilizzata e puntata su ciò che deve essere considerato come “documento”.
Per raggiungere questo obiettivo, il personaggio dovrà essere colto di sorpresa dall’obiettivo. I due
ingredienti che danno il senso del documentario sono, per Vigo, da un lato la spontaneità dei
personaggi, e dall’altro lo sforzo tecnico della regia. Il modo in cui le due componenti si connettono è
profondamente legato alla sensibilità avanguardistica: ciò non accade per via di esclusione, come se si
trattasse, tramite inquadrature e montaggi, di tagliare l’origine casuale dei diversi elementi coinvolti,
ma il montaggio ha invece il compito di dire la verità su ciò che avviene sotto l’occhio della camera, di
conservare tecnicamente una completa fedeltà al modo in cui personaggi e situazioni si presentano alla
regia. L’uso specifico del montaggio fa di À propos de Nice un collage di casualità sapientemente
selezionate. Oltre all’uso estensivo del montaggi, c’è anche un ricorso continuo alle tecniche
dell’accelerazione e del ralenti. Rimane però da stabilire quali siano queste finalità e in che senso Vigo
compia un’operazione diversa da quella dell’avanguardia cinematografica. la posta in gioco più
immediata è rappresentata dalle opposizioni che si producono tra le diverse facce di Nizza, opposizioni
che, in un primo momento, potrebbero apparire come una contrapposizione tra il mondo artefatto
(quello dei frequentatori della Promenade) e il mondo vero (la Nizza popolare). In realtà, l’estensione
delle possibilità tecniche ereditate dall’avanguardia consente alla regia di giustapporre non una realtà
costruita e una realtà vera, ma due costruzioni diverse della realtà, due contesti di mondo dotati
ciascuno della propria consistenza e dei propri indici di complessità. È quanto riconferma lo stesso
codice di stile al quale ricorrono le riprese e il montaggio. Si tratta di un codice che non fa differenza
tra i due mondi in cui si svolge l’azione. Per comprendere questo passaggio, si pensi al trattamento che
subisce una figura topica del film. Il carnevale di Nizza è il tema narrativo lungo il quale si esibisce la
vena critico-sociale di Vigo: le maschere di cartapesta sono vistose quanto i frequentatori della
Promenade. Il carnevale è la metafore-principe di À propos de Nice, il dispositivo che svela il
meccanismo segreto che fa significare tutto il resto: le due città sono lo scenario di un grande carnevale,
nel quale le cose e le persone esistono solo nella misura in cui siano in grado di recitare ciascuno la
propria parte. Nizza finisce per essere la giustapposizione di due entità costruite e parimenti fittizie.
Quando Vigo insiste sulla differenza tra il punto di vista documentato e i cinegiornali, intende anche

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che, se i cinegiornali si pensano come successioni oggettive, il documentario sociale è invece
l’espressione di una prospettiva specifica.
4. La distruzione della regola in Zéro de conduite
In À propos de Nice, la poetica di Vigo ha dunque una funzione ontologica in quanto costruisce mondi
anziché limitarsi a offrire strumenti per conoscerli. Lo stesso principio si trova in Zéro de conduite, la
storia di un gruppo di adolescenti che frequentano un collegio, i quali, dopo l’ennesima punizione,
iniziano a organizzare una ribellione, prima nella forma di una trama segreta tra tre collegiali – Bruel,
Caussat e Colin – e poi in una serie di sollevazioni più plateali, che culminano il giorno della festa del
collegio, quando dal tetto della scuola gli insorti scagliano sulle autorità presenti una pioggia di rifiuti.
Tra i personaggi più incisivi della storia, oltre ai tre studenti e al sorvegliante Pète-Sac, bisogna ricordare
Tabard, prima sbeffeggiato e infine accettato dai ribelli al punto da diventare la figura centrale della
rivolta; Huguet, il giovane precettore impacciato, poi complice della rivolta; il rettore affetto da nanismo,
su cui si concentra la satira contro l’istituzione scolastica; l’insegnante di chimica, la cui ambigui
attenzione nei confronti di Tabard scatenerà l’ultima punizione e la rivolta finale. L’elemento che
attraversa tutto l’intreccio come un ritornello è di tutt’altra natura e ha poco a che fare con il succedersi
dei personaggi: si tratta della natura intrinsecamente regolata che assumono i diversi ambienti e
contesti nei quali la trama si snoda. Ogni singolo episodio, ogni squarcio che il montaggio mette assieme,
è un contesto di cose, persone e azioni che si costruisce intorno a codici di norme. L’elemento meno
scontato del discorso è che la stessa tendenza alla codificazione caratterizza anche i luoghi nei quali
nasce e si sviluppa la ribellione dei collegiali, cioè la sovversione delle regole del collegio. Ciò che
determina l’interesse nei confronti del film è il fatto che la regola come tale subisce una riscrittura, che
la snatura e ne muta il segno ma che non la cancella né abolisce. Questo avviene in due modi
complementari per Vigo: innanzitutto, al codice dell’istituzione collegiale si sostituisce
immediatamente il codice dei ribelli che ridefinisce la struttura esistente delle relazioni; in secondo
luogo, questa sostituzione avviene second uno specifico codice della violazione, grazie al quale la
vicenda può proseguire e giungere a compimento. La regola dell’istituzione è una sorta di duplicazione
che, anziché sospenderla, la riproduce al livello para-istituzionale o neo-istituzionale dei ribelli.
Esemplare in tal senso è la scena in cui i ragazzi sono convocati da Pète-Sac per aver violato la norma
del silenzio notturno. La scena si svolge con tutte le caratteristiche dell’equivoco, a partire dal fatto che
il sorvegliante convoca Dupont e al suo cospetto arrivano invece Bruel, Caussat e Colin. I ragazzi non
rispondono al richiamo con la regola imposta, ma con un’altra regola, quella della sostituzione del
malcapitato con i tre ragazzi che si sottopongono alla punizione prevista dal codice dell’istituzione. È
questa una sovrapposizione tra regole e contro-regole che prosegue per tutto l’episodio, anche
quando Bruel, pur non avendo ottenuto il permesso per andare in bagno, vi si reca ugualmente, senza
che Pète-Sac se ne accorga, tanto che al termine della punizione invita i tre a tornare a letto mentre da
tempo i ragazzi sono rimasti solo in due. Fin dall’inizio, quello delle autorità e quello degli studenti sono
due mondi dotati ciascuno della propria regola e capaci di procedere in parallelo. Il senso di
straniamento dovuto al gioco delle regole contrapposte si fa via via più evidente per tutto il film. È
quanto avviene per esempio attraverso Huguet, il precettore impacciato che attinge a entrambi gli
universi della regola e finisce per essere considerato anormale da entrambi i mondi. Sono i momenti
clou della rivolta, comunque, a portare a compimento il processo di duplicazione del meccanismo della
regola. È il caso di Caussat e Colin che, convocati in parlatorio, imitano il codice di cortesia degli adulti,
ed è anche ciò che accade quando Tabard sancisce il proprio ingresso nel gruppo degli insorti con uno
scambio simbolico di cioccolata, medium che istituzionalizza il riconoscimento sociale tra i ragazzi.
Quando poi la sollevazione si accende, è di nuovo un codice minuzioso a presiedere alle azioni dei
rivoltosi. Nel dormitorio, Tabard dichiara la guerra e mostra fiero il vessillo da issare sul tetto del
collegio. Tutta la scena si svolge con i ragazzi vestiti da notte (come se fosse un uniforme) e con Tabard
che brandisce il codice regolamentare dei rivoltosi, declamato come un autentico patto tra i congiurati.
È ancora Tabard a guidare la battaglia dei cuscini, battaglia che si conclude con una processione dei

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rivoltosi e con lo scherzo, la mattina seguente, contro Pète-Sac, legato al letto. Il patto del dormitorio e
lo scherzo sono la premessa per lo contro finale, che avviene durante la festa con le autorità. È qui che
Vigo si diverte a mettere in scena il fondamento assente delle regole degli adulti. È il caso della lunga
serie di omaggi tra i rappresentanti delle autorità, ma è, soprattutto, il caso del palco d’onore nel quale
si trovano seduti, gli uni a fianco agli altri, i rappresentanti del potere e una serie di fantocci dalle
espressioni improbabili. È il momento in cui, dai tetti del collegio, parte l’attacco dei quattro rivoltosi,
che iniziano il lancio degli oggetti sugli ospiti e sui fantocci. Il codice della festa è così definitivamente
violato. Queste scene finali danno la sintesi più efficace dell’ideologia di Zéro de conduite e della
sovrapposizione che essa mette in opera tra la violazione delle regole e le regole della violazione.
Zéro de conduite diventa in tutto e per tutto una dichiarazione di poetica in forma di film, una sorta di
cinema sul cinema: ancor prima che come fonte di ispirazione per lo sviluppo della vicenda, il principio
della violazione regolata è valido per il modo in cui la poetica vigoliana si rapporta con l’avanguardia
cinematografica e con il suo stravolgimento delle forme. Zéro de conduite consente di determinate in
modo definitivo quello che, del rapporto tra Vigo e le avanguardie, resta in ombra nelle dichiarazioni
esplicite dell’autore. Essere dentro e fuori l’avanguardia, nel suo caso, significa soprattutto che
l’approccio anarchico ma regolato che si vede all’opera con i quattro rifletti del film corrisponde in tutto
al modo in cui Vigo stesso usa la rivoluzione artistica delle avanguardie, piegando la sovversione dei
codici tradizionali al compito di veicolare un discorso sul funzionamento delle regole. Così, le tecniche
del cinema d’avanguardia non si limitano per Vigo a disarticolare la rappresentazione, ma sono rivolte
a un compito più alto, quello di ridefinire i modi della rappresentazione. In Zéro de conduite, l’idea di
una poetica orientata in senso ontologico trova il suo criterio fondamentale nella regola: è mondo quel
contesto di significati organizzato in base a codici normativi, siano essi istituzionali o rivoluzionari.
Qualsiasi rivoluzione dei codici sembra non poterne prescinderne fino in fondo. L’impegno politico di
Vigo è un obiettivo al quale il cinema si piega attraverso un processo complesso che fa della costruzione
di mondi regolati un momento irrinunciabile.
Capitolo sesto
La regola della violazione. Una lettura dell’avanguardia storica
1. L’avanguardia storica: un movimento filosofico?
Un fattore di grandissima rilevanza dell’avanguardia storica riguarda quell’aspetto che l’ha resa
interlocutrice ideale della riflessione filosofica, ovvero l’esplosione dei manifesti. Su questa base, la
filosofia del secondo Novecento considera le prime avanguardie come un movimento essenzialmente
filosofico. Ciò naturalmente non significa isolare nel Novecento filosofico un movimento specifico con
quel nome, ma significa considerare la portata e le conseguenze di talune intuizioni teoriche
d’avanguardia. Sostenere che ci sia qualcosa di filosofico nelle prime avanguardie impone di riportare
la questione ad alcune emergenze specifiche, per evitare di perderne di vista l’originalità. Il primo
aspetto da tenere presente è di principio. Se nella valutazione della filosoficità delle avanguardie sono
in gioco le coordinate teoriche e le pratiche concrete a cui gli artisti danno corso, va allora rimarcata
la particolarità per cui questi due elementi paiono inscindibili. Parlare di manifesti non significa solo
riferirsi alla loro diffusione straordinaria rispetto al passato, ma anche alla loro uscita dai confini della
theoria: in molti casi, le riflessioni dell’artista d’avanguardia attorno alla sua attività smettono di essere
un supplemento teorico al fare artistico ed iniziano ad avere la meglio sulla stessa produzione delle
opere. In Poesia e ontologia, il centro del discorso di Vattimo è il capovolgimento del rapporto tra le
poetiche e la poiesis (“creazione”) artistica delle avanguardie: un capovolgimento di natura sia
quantitativa, sia, soprattutto, qualitativa, nel senso dell’istituzione di una nuova relazione tra il fare e
il pensare, nella quale le opere sono soltanto provvisori esempi della poetica. Vattimo richiama la
categoria dello spirito dell’avanguardia per descrivere quella sorta di onda lunga che nell’Europa di
inizio secolo travalica i confini dell’arte e permea la sensibilità culturale di generazioni. L’uso della tesi
di Vattimo è duplice. Da una parte, si tratta di riflettere sui contenuti specifici che le poetiche
d’avanguardia portano all’attenzione della cultura europea della Novecento; dall’altra, rimane
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condivisibile l’idea che il capovolgimento metodologico espresso da questi manifesti ponga una serie di
problemi che nessuna filosofia abbandonerebbe volentieri alla riflessione immanente del poeta o
dell’artista. Sono le stesse poetiche d’avanguardia a diventare di per sé un problema filosofico,
soprattutto per il modo in cui puntano a prendere il sopravvento sulla produzione artistica concreta. Si
può coniugare avanguardie e filosofie in molti modi e chiamando in causa molti nomi, tra cui Nietzsche
con la sua nozione di malattia storica. La malattia storica nietzschiana coincide con l’incapacità, da
parte delle forme culturali e spirituali del presente, di manifestare la propria carica produttiva, a
causa dell’attenzione sempre più totalizzante alle forme tramandate del passato. La storia diventa così
la riproduzione di realtà già date, anziché la libera costruzione di prospettive nuove. Questa è la
situazione in cui opera anche l’avanguardia storica: un contesto nel quale i linguaggi canonici appaiono
così ispessiti dell’influenza dei propri modelli da essere condannati alla ripetizione di quegli stessi
archetipi, precludendo l’innovazione. La rivoluzione delle avanguardie primonovecentesche è
innanzitutto la sistematica sconfessione dell’idea che quella realtà, quei linguaggi e quella tradizione
siano gli unici possibili. Ciò che non funziona, secondo le poetiche d’avanguardia, è il tramandato in
quanto tale, l’idea stessa di un tramandarsi lineare di forme canonizzabili. È come se le poetiche
d’avanguardia dicessero che non si può più vivere la ripetizione del passato in quanto si è compreso che
in quella ripetizione non ci sono più né la vita, né l’arte.
2. Contro l’autonomia dell’arte
Si può dire che la filosofia e l’ermeneutica contemporanea cerchino nell’avanguardia storica la conferma
dell’insufficienza di un’estetica costruita sullo schema del disinteresse, cioè dell’arte come attività
separata dalle altre facoltà umane. Si tratta di un panorama molto ampio di filosofie dell’arte: Kant e i
neokantismi, un certo romanticismo tedesco, il positivismo, l’estetica marxista, le filosofie della
Einfühlung e il neoidealismo italiano. Nei suoi diversi indirizzi, l’estetica dopo Kant si caratterizza per
una programmatica esclusione dalla quale l’arte può salvarsi soltanto a condizione di spogliarsi di
quella specificità che avrebbe dovuto paradossalmente garantirle un ruolo definito tra le attività umane.
La cosiddetta autonomia dell’estetico è anche il modo per estinguerne la portata generale. Di contro,
capovolgere questo destino di marginalizzazione implica ripensare il rapporto dell’arte con il mondo,
cioè la sua portata ontologica, categoria sotto la quale si raccolgono i dispositivi referenziali alla realtà
e i rimandi alla condizione generale del mondo. L’opera e il mondo diventano i due poli principali di
una concezione non-autonoma dell’arte. Nel caso dell’ermeneutica filosofica, la base di tali
considerazioni sta nella concezione heideggeriana dell’arte come messa in opera della verità. Una
concezione che qualifica come derivata la nozione tradizionale della verità come corrispondenza, della
quale conferma la validità a partire da una definizione più originaria dello svelamento. L’aletheia è
l’apertura della verità. È verità l’orizzonte nel quale c’è essere, anziché nulla; è verità il luogo nel quale
gli enti semplicemente presenti si mostrano. Questo non invalida la nozione di corrispondenza, ma la
riporta a contesti ontologici dentro i quali gli enunciati potranno dirsi veri o falsi. Pensare la verità come
apertura significa che se qualcosa è vero, lo è dentro un orizzonte contestuale, e che questo orizzonte è
l’aletheia (ciò dentro cui si pensa, si parla, si costruiscono significati). Sono questi i termini nei quali
l’ermeneutica può rivendicare all’arte un impegno ontologico. Che cosa tutto ciò ha a che fare con la
riflessione e la produzione dell’artista d’avanguardia? C’è davvero nell’avanguardia una rivendicazione
di natura ontologica per il fatto artistico? Si tratta di una scelta consapevole o è semplicemente
un’interpretazione ex post sovrascritta al fenomeno?
3. Impegno ontologico e impegno politico
È bene concentrarsi sull’alternativa più evidente che si apre di fronte alle ricostruzioni filosofiche delle
poetiche d’avanguardia, ovvero l’oscillazione tra le interpretazioni di tipo gnoseologico e le letture
strettamente ontologiche. Leggere le avanguardie primonovecentesche in chiave gnoseologica significa
sostenere che la loro sperimentazione tecnica sia tutta orientata a costruire una relazione con il reale
differente dalla conoscenza empirica. Secondo le interpretazioni gnoseologiche, l’intenzione filosofica

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dell’avanguardia storica è muoversi al di sotto della superficie delle cose, per catturare ciò che la
conoscenza empirica – e la rappresentazione mimetica, che la traduce in arte – non è in grado di cogliere.
La lettura gnoseologica dell’avanguardia primonovecentesca enfatizza l’incremento di leggibilità o
visibilità che l’artista si propone di raggiungere nei confronti dell’essenza delle cose. Questo genere di
letture trascura però un aspetto fondamentale di molte poetiche d’avanguardia, ovvero il fatto che molto
spesso il tecnicismo e lo sperimentalismo abbiano in realtà come obiettivo quello di riorientare
l’espressione in una chiave che non ha più come proprio fulcro il mondo come oggetto da conoscere.
L’ipotesi ontologica si occupa di questa questione: ad accomunare ampi settori della prima
avanguardia sembra esserci infatti la ricerca di una fondazione del mondo ex novo, attraverso modelli
artistici che rinunciano all’oggettività ponendo accanto al mondo reale un nuovo mondo. Tali poetiche
non vogliono più avere nulla a che fare con la mimesi, e vogliono piuttosto incidere sull’essere stesso
delle cose. L’opera d’arte diventa un mondo a sé, un contenuto nuovo, originale, una nuova forma
dell’essere. Si spiega in questi termini la preferenza per la nozione di arte concreta, anziché astratta. È
una scelta che, anziché contraddire il significato della categoria di astrattismo, ne coglie più
propriamente l’ispirazione: è arte concreta quella che, non ispirandosi alla realtà naturale, non è tanto
il risultato di un’astrazione in senso stretto, quanto piuttosto la proposta di una nuova realtà.
L’opposizione tra arte mimetica e arte concreta è uno dei nuclei su cui si gioca la novità delle prime
avanguardie, anche nei casi in cui tale dualismo non è discusso esplicitamente. Il riferimento principale
è senz’altro l’astrattismo russo, nel quale emerge il vero discrimine del concretismo, ovvero la carica
politico-ideologica. Il riferimento alla progettualità politica è il sintomo più esplicito dell’impegno
ontologico delle avanguardie: un impegno a costruire la realtà, che si fa così concreto da divenire
principio di un’esplicita militanza ideale. Su questo, l’astrattismo russo non ha quasi mai una posizione
univoca. Si pensi al rifiuto di ogni tendenza sociale o materialistica di Kazimir Malevič, e, dall’altro lato,
allo stesso Kandinskij, che ritiene che l’arte abbia un oggetto se e solo se è politica. Questa seconda
posizione, di tipo progettuale e politica, è pregnante dal punto di vista filosofico per la chiarezza con
cui declina in senso ontologico la carica ideologica delle avanguardie russe. Si è detto che non è
possibile trasferire in modo diretto questa centralità dell’impegno ontologico a tutte le avanguardie
primo-novecentesche, ma si può probabilmente usare la questione come chiave di lettura per le altre
espressioni dell’avanguardia, fuori dal contesto russo. Sul versante espressivo, è evidente che, se esiste
un momento della storia dell’arte in cui le scansioni tra le arti figurative e altri ambiti risultano destituite
di valore, questo è proprio il caso delle avanguardie: si pensi al nesso inscindibile tra la riflessione sulla
pittura e gli sviluppi dell’architettura, ben testimoniata dall’esperienza del Bauhaus di Walter Gropius.
Questo fatto segnala già la presenza di un’opzione trans-genere in queste poetiche, che non hanno mai
fatto della differenza tra i mezzi un elemento definitorio della loro natura profonda. Inoltre, è chiaro che
un elemento tipico e innovativo di tali poetiche è il tratto di internazionalità che le caratterizza e che
trova un’espressione senza precedenti: sia per i motivi contestuali (la guerra, lo sviluppo delle
comunicazioni), sia per il compito epocale che l’avanguardia storica si attribuisce, una scansione del
fenomeno su base nazionale rischia di perderne l’immagine complessiva.
4. Forzare i limiti del dicibile
L’esplosione dei manifesti fa riferimento alla necessità di trovare strade nuove rispetto al ruolo che le
poetiche tradizionali attribuivano all’arte e alla letteratura. Questa ricerca del nuovo ha, tra i propri
campi d’applicazione, anche il rapporto tra il mondo dell’opera e il mondo del reale, al quale l’artista si
impone di fare riferimento in termini diversi rispetto a quanto indicato dalla tradizione l’ipotesi che si è
formalizzata per spiegare questa novità radicale è che si possa leggere il nuovo orientamento delle
poetiche d’avanguardia ricorrendo alle categorie che una parte significativa della filosofia europea del
Novecento ha messo in campo, per mano di autori come Martin Heidegger. Per quanto un legame
generalizzato tra questo ripensamento delle estetiche novecentesche e il fenomeno delle avanguardie
non sia attestabile, è convincente l’ipotesi di coloro che riconoscono un’analogia molto stretta tra le
estetiche ontologiche e la volontà polemica delle poetiche d’avanguardia: analogia che la carica

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tecnicista di tali poetiche non fa che confermare, nel senso di elevare a problema il rapporto tra opera
e mondo, nei diversi significati – anche politici – che il termine mondo può assumere. Il riferimento al
plurilinguismo delle avanguardie (nei due sensi dell’ibridazione tra le tecniche espressive e della
mescolanza tra le lingue nazionali) può diventare un ulteriore tassello a favore della lettura ontologica.
Ciò che si può fare sul piano filosofico è chiarire che cosa derivi dall’investimento che tali poetiche fanno
sul fronte delle sperimentazioni espressive: si può tentare una sorta di teoria della referenza dei
linguaggi d’avanguardia, che spieghi come la sperimentazione possa aprire un canale nei confronti del
mondo e possa costruire significati. Per restare nell’ambito ermeneutico-filosofico, singolari elementi di
affinità si trovano nella categoria con cui Paul Ricoeur qualifica la referenza nell’ambito linguistico della
metaforizzazione. Si tratta della véhémence ontologique. Il modello teorico di Ricoeur ha nella
sperimentazione linguistica il suo baricentro. L’operazione di metaforizzazione («Marco è un leone) non
può essere ricondotta alla referenza descrittiva, se non tradendo il suo significato (Marco non è
realmente un leone) e il suo valore estetico (la piacevolezza che la metafora suscita). La
metaforizzazione riesce purtuttavia a significare qualcosa: in ciò risiede il suo valore referenziale. La
metafora è il tipico caso di un’espressione linguistica alla quale è negata una referenza diretta al mondo,
per lasciar spazio a un’altra modalità di riferimento, che in questo caso è il rimando a caratteristiche
più profonde. L’obiettivo di Ricoeur è quello di spiegare in che modo esista una capacità descrittiva del
mondo che si affianca a quella più immediata basata sul significato letterale delle parole. Nel discorso di
Ricoeur, naturalmente, vi è molto di più di questo. Il presupposto di Ricoeur sta nella possibilità di fare
una distinzione tra l’ambito linguistico dell’innovazione (metafore vive) e l’ambito della
conservazione (metafore consolidate e morte). Nel modello di Ricoeur, l’innovazione linguistica è
vincolata alla capacità di dotare il linguaggio di una valenza ontologica: è nel contesto dell’espressione
linguistica innovativa, più che in quella consolidata, che si mette in luce la capacità, da parte del
linguaggio, di configurare sperimentalmente una referenza. È proprio l’ambito delle metafore vive a
porre il problema del valore ontologico dell’espressione linguistica. È il processo vivo della
metaforizzazione a mettere in gioco le risorse e i limiti di una teoria della referenza. Ciò che si realizza
nelle metafore è la sovrapposizione di un’iniziale impertinenza semantica tra soggetto e predicato che
si fa produttrice di un significato nuovo. Un certo tipo di predicazione, afferente a un ambito semantico
preciso, è fatta slittare verso possibilità di sintesi con soggetti che di per sé le sarebbero estranei. Sotto
i presupposti di Ricoeur, lo slittamento della pertinenza semantica (da «uomo coraggioso» a «leone»,
nell’esempio «Marco è un leone») è l’effetto del processo di predicazione impertinente: se la
predicazione contiene un conflitto in termini, la metafora si attiva a partire dall’effetto di comprensione
che il conflitto provoca, quando cioè la tensione lessicale è pilotata verso la risoluzione. Anziché essere
una convenzione presupposta all’uso dei termini, il processo di metaforizzazione è interamente una
questione di comprensione e di interpretazione. A questo punto, il fulcro consiste nel verificare se il
funzionamento del linguaggio metaforico aiuti a chiarire alcuni aspetti della sperimentazione ontologica
delle prime avanguardie. Il riferimento di Ricoeur alla véhémence ontologique è il punto di d’appoggio
per spiegare in che senso la metafora non incida soltanto sulla comprensione del mondo, ma anche sul
mondo della comprensione. Il mondo a cui si riferisce l’enunciato metaforico è più complesso del mondo
a cui si riferisce l’enunciato letterale. Il mondo metaforico include tutte le infinite variazioni che il
linguaggio figurato costruire sul linguaggio letterale. La véhémence ontologique è la capacità di aprirsi
a mondi possibili che derivano da variazioni controllate rispetto alla struttura del mondo alla cui
comprensione siamo abituati. Gli elementi che avvicinano il caso della metafora alle prime avanguardie
riguardano il modo in cui la violenza contro i significato letterali si produce. Lo schema teorico della
metafora di Ricoeur può essere un buono strumento per confermare e riorientare la lettura ontologica
delle avanguardie, soprattutto se ci si concentra sul momento della sospensione del significato dato e
sulla modalità attraverso cui tale sospensione consente al significato metaforico di farsi strada. È questo
il nucleo del problema. Il rifiuto della descrizione riguarda molto da vicino la carica sovversiva di
una poetica come quella d’avanguardia. In particolare, consente di mettere a tema l’ambiguità tra la
deflagrazione delle regole e la necessità costantemente ribadita di formalizzare questa deflagrazione in
manifesti. Che cosa sono i manifesti se non il tentativo di normare la violazione stessa? Il ricorso alla
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nozione di véhémence ontologique non è privo di significato rispetto alla possibilità di giudicare o meno
la riuscita delle opere nel campo delle avanguardie. L’analogia con il modello della metafora sembra
contenere un criterio intrinsecamente normativo che consente di prevedere l’esito della
metaforizzazione. Ciò che accomuna un dispositivo linguistico ben noto, come la metaforizzazione, e una
scelta stilistica precisa e circoscritta, come le prime avanguardie, è il difficile rapporto di
proporzionalità inversa che vige tra l’innovazione di stili, mezzi, linguaggi e la loro comprensibilità.
Anche per le avanguardie resta vero che lo stravolgimento del canone si fa regola, cioè che la rivoluzione
artistica si sottopone sempre al criterio dell’errore calcolato, fuori dal quale resta spazio soltanto per gli
effetti di una sperimentazione che rischierebbe di non significare più nulla.
5. La violazione regolata
Nel caso dell’avanguardia storica, è chiaro che i canone messo da parte è quello che garantisce più
facilmente n significato (una referenza al mondo) all’espressione artistica, ovvero il canone realista.
Per quale via, allora, lo stravolgimento di questo canone si garantisce comunque un significato, una
véhémence ontologique? La risposta sta in qualcosa di molto simile a quello che Ricoeur dice dei
dispositivi metaforici, la cui possibilità di affermare qualcosa sulla realtà si scontra con la costituzione
apparente di tale modalità espressiva. Nel passaggio in cui un’espressione perde la sua capacità
descrittiva (Marco non è realmente un leone) prima di recuperare un’altra funzione di riferimento al
mondo (Marco è metaforicamente un leone), non si produce solo una rottura con il mondo, ma si registra
anche una chiusura del linguaggio su se stesso, senza la quale non si genererebbero il recupero della
referenza e l’incremento estetico rispetto al linguaggio descrittivo. Se la metafora è tanto più efficace
quanto maggiore è la rottura con la letteralità, ciò avviene perché grazie a ciò l’espressone attinge a un
serbatoio che accresce al tempo stesso il senso e la nuova capacità referenziale. Questa fase di
autocentratura del senso corrisponde alla sospensione la nuova modalità referenziale impone
sospendendo quella precedente. Dello dell’innovazione linguistica è un riferimento al mondo più
complesso, che si costruisce solo per tappe successive, ed è una processualità che va a buon fine se non
perde la possibilità di una referenza rinnovata. È quindi un’innovazione che in un primo momento
rinuncia al mondo, per poi ritornarvi attraverso un percorso differente. Si tratta di un modello simile a
quello che Ricoeur chiama teoria della mimesis e che, pur non essendo sviluppato in relazione alle
avanguardie, contiene elementi utili a chiarire conclusivamente la questione. Di questo modello ci
interessa soprattutto l’insistenza sulla nozione di mise en intrigue (l’intreccio) come strumento in
grado di produrre il riferimento: il racconto di finzione è una forma di imitazione del mondo grazie alle
funzioni referenziali di tipo immaginativo prodotte dall’intreccio; solo grazie alla costruzione
dell’intreccio il racconto dice qualcosa sul mondo. La mise en intrigue, come la metaforizzazione, è un
processo di sintesi che costruisce riferimenti al mondo più complessi di quelli rappresentati dalla pura
descrizione del dato. L’espressione artistica è un’opera nella misura in cui è un’attività sintetica in grado
di rigenerare riferimenti al mondo. È così nel caso del ricorso a mezzi espressivi diversi che, non
descrivendo realisticamente il mondo, lo metaforizzano in opere, ovvero in intrighi, che confermano o
sospendono i canoni artistici tramandati. In questo contesto, il supplemento di senso che si riconosce a
una mise en intrigue artistica sta nel fatto che la violazione del consueto ci appare comunque regolata.
Si tratta di rifare il mondo, inventando regole e violazioni di regole che consentono di costruirlo in modo
sempre più diverso, con l’aggiunta dell’espressione artistico-letteraria intesa come finzione. Sotto gli
stessi presupposti, l’opera d’arte è da leggersi come fictio, dove questa nozione identifica la categoria in
cui trovano posto tutti i dispositivi di costruzione della referenza. La prospettiva ontologica coglie in
pieno ciò che è in gioco nell’opera come fictio: l’espressione artistica è a tutti gli effetti una finzione vera
(una finzione che dice il vero) solo in quanto sia una vera finzione, ossia quel fingere che fingendo
inventa un mondo. In tale finzione/invenzione è in gioco un’operazione referenziale che, modificando
la comprensione del reale, modifica il reale stesso. Il paradosso delle avanguardie, quello della regola
nuova da seguire per stravolgere la regola vecchia, si spiega così: una violazione dichiarata e
programmatica ha tuttavia un criterio invalicabile, che consiste nella pretesa di aprire un mondo tutto

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è lecito nello stravolgimento del canone tramandato, purché ciò serva a costruire un orizzonte di mondo
differente. L’avanguardia funzione se la distruzione delle forme è funzionale a un obiettivo più
rivoluzionario: quello di creare mondi.

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