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HOBBES, LOCKE E ROSSEAU

Thomas Hobbes

Hobbes concepisce l’uomo come un essere corporeo dotato di una ragione calcolatrice e mosso da desideri
puramente egoistici. La sua indagine sulla natura umana differisce profondamente, ad esempio, dall’idea
che aveva Aristotele dell’uomo, in quanto il filosofo greco pensava che l’uomo fosse uno “Zòon Politikòon”,
cioè un animale sociale, un essere nato e ideato per essere collocato all’interno di una società.

Al contrario, Hobbes sostiene che l’uomo sia privo di qualsiasi istinto amorevole o solidale, ma che sia anzi
dominato esclusivamente dal bisogno e dal timore. Questi elementi caratterizzano il cosiddetto Stato di
Natura, ovvero la condizione umana pre-societaria.
A tal proposito, Hobbes parla di “Bellum Omnia contra omnes” cioè di “La guerra di tutti contro tutti”;
difatti, egli era convinto che questa fosse la condizione prevalente nello Stato di Natura, all’epoca degli
uomini preancestrali, poiché l’atteggiamento di ognuno nei confronti dei suoi simili è feroce e bestiale (da
qui: “Homo homini lupus” – “Ogni uomo è un lupo verso un altro uomo”).

In questa condizione caotica e conflittuale in cui tutti mirano esclusivamente alla propria conservazione,
non vi è alcun limite all’azione individuale, ciascuno fa ciò che desidera e per tale motivo prevale ed è
costante il tentativo di sopraffazione reciproca. La totale anarchia (cioè assenza di governo) fa avvertire
negli uomini il bisogno di una situazione pacifica. Tuttavia, va ricordato che questa pace sperata non nasce
da un desiderio nobile, quanto più da un desiderio egoistico di veder garantita la propria incolumità.

Il crescente bisogno di pace si tramuta quindi nella nascita di una proto-società dotata di leggi e regole che
possano garantire a tutti gli uomini la protezione personale tanto bramata. Per raggiungere un tale
obiettivo, è tuttavia necessario che i singoli rinuncino ad alcune libertà (come esercitare la violenza fisica
per appropriarsi dei beni di un altro) e al diritto egoistico su tutte le cose, di modo che la libertà sia
equamente distribuita e non vi siano ulteriori sopraffazioni o prevaricazioni.

La rinuncia implica l’uscita dallo Stato di Natura, per entrare nello Stato di Diritto. Gli uomini sono quindi
chiamati a sacrificare i propri istinti materiali per costruire una società politica civile, che prevede la
convergenza della volontà di tutti verso un obiettivo comune. È altresì necessario che il patto venga
rispettato da tutti.

La concezione della società teorizzata da Hobbes presenta però un problema di fondo: poiché la
cooperazione non è un tratto insito negli uomini, l’istinto di prevaricazione che li contraddistingue prevale
sempre. Perciò, il bene individuale e il benessere collettivo sono antitetici, sono agli antipodi e in qualche
modo si bilanciano, senza annullarsi (rimane quindi il rischio della prevaricazione sull’altro).

Oltre al patto di unione, Hobbes prevede anche un patto di sottomissione, attraverso cui gli uomini
conferiscono a un singolo individuo tutte quelle libertà di cui si sono privati. Il filosofo inglese chiama
questo sovrano “Leviatano” come il mostro marino biblico, poiché così come il mostro rappresenta un
potere e una forza enormi e spropositati, così il sovrano gode di un potere assoluto che racchiude in sé
tutte le libertà e i poteri di cui i singoli si sono privati.

Il sovrano avrà come unico compito quello di obbligare i sudditi con la forza a rispettare i patti e dovrà
rappresentare l’unico garante della pace e dell’incolumità. Inoltre, è importante che il sovrano non sia
soggetto al rispetto dei patti, in quanto essi sono stati stipulati dagli appartenenti al popolo e non tra questi
e il sovrano.
Si può quindi dire che il potere del sovrano ed egli stesso rimangano ancorati allo Stato di Natura e non
entrino mai, di fatto, nello Stato di Diritto. L’esercizio della volontà da parte del sovrano è totalmente libero
e svincolato, difatti è egli stesso a stabilire il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, ma non è ad essi vincolato.

Al leviatano, che Hobbes dice essere come un dio mortale, sono imposte soltanto due clausole:
- L’operare e scegliere ciò che è giusto per il popolo obbedendo unicamente alla ragione
- L’incolumità dei sudditi
Riguardo all’ultimo punto, Hobbes dice che, qualora un sovrano ordini ai propri sudditi di farsi male da soli
o di mettere a rischio la propria vita, essi possono rifiutarsi (ma non insorgere).
Infine, laddove il sovrano non legifera, i sudditi possono sentirsi liberi di agire a piacimento.

John Locke:

Qualche decennio dopo Hobbes, anche il filosofo inglese John Locke si interrogò sulle condizioni degli
uomini nello Stato di Natura. Al contrario di Hobbes però, Locke aveva una visione positiva dello Stato di
Natura, cioè non lo vedeva come un insieme di prevaricazioni e sopraffazioni, ma era altresì convinto che in
Stato di Natura gli uomini fosse illuminati dalla ragione e da Dio. Come conseguenza di ciò, l’uomo pre-
sociale era indotto a rispettare tre norme morali universali, tre diritti considerati inalienabili:
-Il diritto alla vita
-Il diritto alla libertà
-Il diritto alla proprietà

(Questa visione dell’uomo di Natura, visto come un essere dotato di un senso morale interiore più o meno
forte segna un avvicinamento verso quella concezione dell’uomo come un “buon selvaggio”, che nacque
dopo le prime colonizzazioni del 500/600 e venne poi ripresa da Rousseau).

La norma razionale sottesa ai tre diritti inalienabili stabilisce pertanto che la libertà individuale può
estendersi fino a che non lede la libertà altrui. Ciò che manca nello Stato di Natura è però proprio questa
garanzia del rispetto dei diritti da parte di tutti. Chiunque potrebbe infatti contravvenire alla norma, mosso
da istinti personali ed egoistici. Per tale motivo, anche Locke teorizza l’esistenza di due patti, che possano in
qualche modo risolvere la questione.

Il primo è il patto di unione, molto simile nella sua formulazione a quello di Hobbes. Infatti, anche Locke
parla di una rinuncia degli istinti materiali per costituire una società civile, segnando il passaggio dallo Stato
di Natura allo Stato di Diritto. Tuttavia, se è vero che anche in Locke i cittadini si mettono di comune
accordo per sottomettersi a un sovrano, non si può certo dire che i patti di sottomissione teorizzati dai due
filosofi siano simili.

La differenza principale sta nella concezione del sovrano stesso: se per Hobbes l’unico vincolo del sovrano
era quello di garantire l’incolumità dei sudditi, per Locke l’autorità ha il preciso compito di garantire e
perseguire, nel miglior modo possibile, gli obiettivi e il benessere della collettività.
Inoltre, l’autorità del sovrano è vincolata dal rispetto delle leggi, diversamente dal Leviatano, che è invece
posto al di sopra delle leggi che egli stesso promulga. L’autorità di Locke è inserita nello stato di diritto
esattamente come gli altri e, come tutti i sudditi, gli rimangono quei diritti ereditati dallo Stato di Natura, i
diritti inalienabili.

Il sovrano Locckiano deve quindi garantire tali diritti (vita, libertà, proprietà). Se lo Stato del contratto
sociale tradisse questi diritti, il popolo sarebbe legittimato a destituire il sovrano.
A differenza della formulazione Hobbesiana, l’unico diritto a cui i sudditi rinunciano sottomettendosi al
sovrano è quello di farsi giustizia da soli. Pertanto, il sovrano è garante del rispetto dei diritti ed esercita la
giustizia in nome dei sudditi e per i sudditi.
L’autorità non si configura più come un governo dispotico e assoluto, quanto più come un governo liberale.
Locke è quindi un teorico del liberalismo, che ha come suoi fondamenti:

-Il potere si fonda sul consenso dei cittadini


-Il potere non può essere esercitato in maniera arbitraria
-Il potere legislativo deve essere separato da quello esecutivo (il potere giudiziario è probabilmente inserito
all’interno del potere esecutivo)

I due poteri devono rimanere separati perché se le stesse persone che promulgano le leggi fossero anche
quelle che ricoprono il ruolo di farle rispettare, esse potrebbero autoesentarsi dal rispetto di quelle stesse
leggi. La separazione delle leggi si configura quindi anche come un limite al potere politico.

Jean-Jacques Rousseau

Nel 1755 Rousseau pubblica il “Discorso sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini”. In quest’opera,
Rousseau si domanda quale sia stato il fattore scatenante delle disuguaglianze su cui si fonda la società.
Il filosofo ginevrino era infatti convinto che nello Stato di Natura gli uomini fossero tutti uguali, e per loro
natura buoni, ma inseguito incattiviti dalla nascita di istituzioni e strutture sociali (pensiero diametralmente
opposto rispetto a Hobbes).

Rousseau parla del “Mito del buon selvaggio”, cioè egli è convinto che l’uomo preancestrale avesse pochi
bisogni essenziali e poco gli occorresse per soddisfarli. Nello Stato di Natura l’uomo è da solo, bada a se
stesso, sente solo i suoi veri bisogni ed è assente qualsiasi tipo di forma di trasmissione del sapere. Non vi è
una cultura condivisa, un’educazione generale, nessun tipo di progresso, poiché “l’arte moriva con
l’inventore”. Quest’ultima affermazione si contrappone fortemente con il pensiero illuminista che
sosteneva che il progresso della specie umana fosse un cammino costante. Rousseau invece ci dice che “la
specie era più vecchia, ma l’uomo restava sempre più fanciullo”, cioè l’uomo rimane sulla Terra come
specie animale e la abita per un breve tratto, ma non progredendo mai l’uomo viene immortalato nella sua
fanciullezza, in quanto ogni generazione è uguale alla precedente.

L’uomo nello Stato di Natura sperimenta due condizioni fondamentali:


- Ogni individuo sta per conto suo
- L’uguaglianza tra gli uomini

Ciò che è importante ricordare, è che per Rousseau lo Stato di Natura non rappresenta altro che un’ipotesi,
un esercizio mentale utile a mettere in luce le contraddizioni e gli aspetti negativi dello Stato di diritto. Il
discorso sulla disuguaglianza gli serve come tramite per portare i pregi dello Stato di Natura all’interno dello
Stato di Diritto. Egli afferma infatti che lo Stato di Natura non sia realmente mai esistito, ma sia soltanto uno
strumento per fare una breccia nell’immaginario comune.

Rousseau era convinto che la società nella quale era immerso fosse un’istituzionalizzazione della
disuguaglianza. Ciò rispecchia pienamente il pensiero del filosofo, che affermava che nel momento in cui gli
uomini cominciano a relazionarsi tra loro stabilmente (anche nella società preancestrale avvenivano dei
contatti, ma erano brevie insignificanti) vengono a evidenziarsi le differenze tra uno e l’altro, che a seconda
della situazione generano le disuguaglianze (visione opposta all’Illuminismo). Infatti, i più forti si accorgono
di poter soverchiare i più deboli, i più astuti di poter ingannare i più sprovveduti.
Nascono quindi il lavoro, la fatica, il guadagno, lo sfruttamento e il divario tra ricchi e poveri. I ricchi astuti e
forti iniziano a dominare gli altri e si comportano “come lupi”. In questa teorizzazione di Rousseau si
possono riscontrare alcuni elementi che verranno poi in seguito ripresi da Marx, come il discorso sulla
proprietà dei mezzi di produzione da parte dei ricchi ecc.
Al fine di limitare la violenza e i soprusi, gli uomini si uniscono e creano le leggi, senza accorgersi che in tal
modo perdono la loro libertà, ufficializzando e legittimando quella disuguaglianza che fino ad allora
avevano considerato ingiusta. A differenza di quanto visto con Hobbes e Locke, per Rousseau gli uomini
sono inconsapevoli del fatto che le leggi che creano siano in realtà un’istituzionalizzazione della
disuguaglianza. Per il filosofo ginevrino, uscire dallo Stato di Natura per entrare nello Stato di Diritto
equivale a fondare delle rigide classi sociali. Da quel momento in poi, gli uomini non sono più liberi, ma
assoggettati alla logica del lavoro, che è il prodotto aberrante della disuguaglianza. (È interessante notare
come la teorizzazione di Rousseau rimanga tutt’oggi: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul
lavoro”.

Rousseau non intende dire che sia necessario tornare a vivere come i selvaggi, ma afferma che sia di
fondamentale importanza che nella società moderna venga mantenuta e preservata quell’uguaglianza che
caratterizza lo Stato di Natura. Sarebbe infatti un paradosso se lo Stato di Diritto negasse un diritto
fondamentale già presente nello Stato di Natura.
L’obiettivo del filosofo ginevrino è quindi quello di elaborare una dottrina sociale al fine di modificare al
meglio la civiltà del suo tempo, prendendo come modello gli aspetti migliori dello Stato di Natura. A tal fine
scrive nel 1762 il “Contratto Sociale”.

All’interno dell’opera Rousseau sottolinea l’importanza del duplice compito che una società è chiamata a
svolgere: essa ha il compito sia di proteggere i cittadini, sia di garantire a ciascuno di essi la libertà di cui
godevano nello Stato di Natura.
I singoli si devono unire gli uni agli altri, ma non devono conferire i loro diritti a un sovrano, bensì alla
collettività. Come conseguenza, per Rousseau il sovrano non è più una singola persona, quanto la
collettività stessa, il popolo sovrano.

La libertà/volontà del singolo non viene indebolita, ma viene anzi rafforzata dalla fusione con le volontà/
libertà altrui. Lo Stato per Rousseau non è quindi altro che la rappresentazione della volontà generale, che
è nettamente diversa dalla volontà di tutti.

La volontà generale, al netto dell’egoismo, coglie gli obiettivi comuni, mentre la volontà di tutti risulta
essere la somma e la sovrapposizione degli egoismi individuali (la volontà di tutti potrebbe essere
ricondotta allo Stato di Natura).

Tuttavia, è lo stesso Rousseau a dire che il modello di Stato Ideale da lui teorizzato sia difficile da applicare
ai grandi Stati, in quanto non è facile far coincidere e trovare un equilibrio tra le varie volontà individuali in
favore di un’unica volontà generale. Lo Stato Ideale di Rousseau è quindi applicabile a piccole realtà, come
le città-stato greche, i cantoni svizzeri o la stessa Repubblica di Ginevra, da cui egli proveniva.

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