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Capitoli 1-6-10-11-12-13-14-15-17-18-20-21-22-24-28-30-31

Capitolo 6:
vi sono 2 tipi di movimento:
- Vitali: esistono dalla nascita, come il sangue, respiro ecc
- Animale/volontario: parlare, ecc
L’immaginazione è il primo inizio del movimento volontario.
Capitolo 10:
Del potere, del pregio, della dignità, dell’onore e della disposizione:
Il Potere di un uomo sono i mezzi che ha al presente per ottenere qualche apparente bene futuro; esso è o
originario o strumentale.
Il potere naturale sono le facoltà corporee e mentali.
Poteri strumentali: mezzi e strumenti per acquisire più poteri.
Il potere più grande è quello che si compone dei poteri del maggior numero di uomini riuniti
consensualmente in una persona, naturale o civile. Il potere maggiore è dato dalle forze uniti di più
persone.

Capitolo 13:
Della condizione naturale dell’umanità per quanto concerne la sua felicità e la sua miseria:
Hobbes apre il capitolo asserendo che a parte qualche irrilevante differenza sul piano fisico e mentale, gli
uomini sono naturalmente tutti eguali; ovvero anche l’uomo più forte può essere soggiogato dal più debole
se furbescamente riesce a sottometterlo o si unisce ad altri contro di lui; allo stesso modo anche dal punto
di vista delle facoltà mentali gli uomini si equivalgono (pochissimi possiedono una conoscenza di tipo
scientifico). Un ulteriore prova dell’uguaglianza tra gli uomini è il fatto che ognuno di essi ha un’eccessiva
vanagloria della propria saggezza che considera superiore a quella degli altri uomini a meno che essi non
abbiano un’opinione simile o godano di buona reputazione. Da questa uguaglianza di capacità nasce
un’uguaglianza nella speranza di raggiungere i propri fini; essendo però i beni, in questa condizione
prepolitica descritta da Hobbes, limitati, gli uomini si trovano a competere per lo stesso fine, il cui
conseguimento non può altro che sancirsi con la distruzione o la sottomissione dell’altro. Oltre alla
compitazione, lo stato di natura è viziato dalla diffidenza: per paura di perdere ciò che hanno ottenuto, gli
uomini non hanno altra possibilità di attaccare d’anticipo; se infatti si assumesse un atteggiamento
difensivo anche l’uomo più ricco e dotato dei mezzi necessari per difendersi, potrebbe facilmente
soccombere. Ne risulta un esito paradossale: per salvaguardare la propria vita l’uomo deve assumere un
atteggiamento di dominio nei confronti del prossimo. Una terza componente che porta gli uomini a fare uso
della violenza è l’orgoglio o reputazione: premettendo che gli uomini non provano piacere nello stare in
compagnia (l’uomo quindi per Hobbes non è un animale socievole ma portato a vivere in solitudine alla
ricerca del proprio utile), se un uomo riuscisse ad assoggettarne altri dovrebbe sondare costantemente gli
umori dei suoi compagni, stroncando all’istante qualsiasi segno di disprezzo e di mancata stima nei suoi
confronti. Dunque ricapitolando sono tre le cause principali di contesa: 1) la rivalità; porta gli uomini ad
aggredire per trarne vantaggio, è il caso in cui si ricorre alla violenza per sottomettere altri uomini, donne,
bambini e bestiame; 2) la sicurezza; per difendere ciò che si è acquisito a seguito della prima aggressione; 3)
la reputazione; ogni comportamento, opinione o sorriso che viene interpretato dal conquistatore come
espressione di disistima e che quindi va punito. In assenza di un potere comune che tenga tutti gli uomini in
soggezione, ne deriva una condizione di guerra perpetua, ovvero che si ripresenta nel tempo. Tale
condizione impedisce agli uomini di dar sfogo alla loro creatività e al loro ingegno: in una stato di precarietà
come quello naturale non c’è società non c’è il giusto e l’ingiusto, non si conosce il mondo naturale, non si
sviluppano le arti ecc. Per coloro che diffidano di questa descrizione antropologica, Hobbes presenta un
esempio molto incalzante che dimostra come anche in una condizione di socialità l’uomo mantenga un
grado di diffidenza elevato verso i suoi simili: un uomo che si dirige verso un altro paese viaggia armato e
scortato, inoltre egli prima di andare a dormire, nonostante vi siano delle leggi e delle forze pubbliche a
tutela della sua incolumità e dei suoi beni, decide di sbarrare le porte delle sue abitazioni e chiudere i suoi
forzieri, dando prova della diffidenza che nutre anche per i suoi familiari. Hobbes ammette che questo suo
ricorso allo “stato di natura” è iperbolico, ma riconosce anche che tale descrizione del conflitto animalesco
tra gli uomini non è lontano da ciò che accade veramente in molti luoghi d’America e in Europa quando in
mancanza di un potere centrale forte, il popolo si divide in fazioni contrapposte dando origine alla guerra
civile (che per Hobbes rappresenta, come scritto nell’Introduzione, la morte dello Stato). In una condizione
di tutti contro tutti, le nozioni di giusto ed ingiusto perdono di significato; infatti, non vi è un corpus di leggi
che sancisca quale comportamento debba essere condannato e quale lodato. L’unico diritto (non scritto)
vigente all’interno dello stato di natura è il diritto di tutti su tutto; ovvero ciascun individuo ha il diritto di
appropriarsi di ciò che desidera con il metodo e i mezzi che ritiene necessari, per poi adoperarsi affinché
possa mantenere il più a lungo possibile ciò che ha ottenuto. L’uomo per mezzo delle passioni e della
ragione, ha la possibilità di uscire da tale stato di guerra: le passioni che inducono l’uomo alla pace sono la
paura della morte, il desiderio di quelle cose che sono necessarie a una vita piacevole e la speranza di
ottenerle con la propria operosità ingegnosa; mentre la ragione suggerisce opportune clausole di pace,
ovvero quelle “leggi naturali”, che portano gli uomini ad un accordo.

Capitolo 14:
Della prima e seconda legge naturale e dei contratti:
la prima e la seconda “legge di natura” e i “contratti” Il diritto naturale (Jus Naturale) è espressione della
libertà individuale; è il diritto all’autoconservazione di sé a cui l’uomo provvede liberamente con i mezzi e i
poteri necessari al conseguimento di tale fine. Mentre la legge di natura (Lex Naturalis) è un precetto che
proviene dalla ragione e ha il carattere dell’obbligazione; essa, infatti, proibisce ad un uomo di fare ciò che
distruggerebbe la sua vita o che gli toglierebbe i mezzi per conservarla. Nello stato prepolitico in cui ogni
uomo è lupo per l’altro, il diritto naturale, non avendo alcun carattere normativo, permette al soggetto di
desiderare ciò che vuole, con la conseguenza però della competitività con gli altri uomini. Ecco sorgere la
necessità di un precetto “naturale” che obblighi l’individuo alla tutela e alla conservazione della vita: la
prima legge naturale di cui parla Hobbes è quella che prevede la ricerca della pace e nel caso in cui essa non
sia ottenibile, l’allearsi e cercare tutti gli aiuti possibili al fine di difendere il proprio diritto alla vita. La
seconda legge afferma invece che si è disposti ad abbandonare il proprio diritto su tutto alienando parte
della propria libertà se anche gli altri contraenti sono disposti a fare lo stesso. Abbandonare un diritto
significa limitare la propria libertà. Un diritto viene deposto o attraverso una semplice rinuncia ad esso, o
per trasferimento ad un altro: attraverso una semplice rinuncia, quando non ci si preoccupa di sapere su chi
ricade il beneficio della rinuncia; per trasferimento, quando si “elegge” la persona o le persone a cui vada
tale beneficio (è un beneficio poiché quella persona a cui io ho alienato parte della mia libertà avrà meno
ostacoli nel realizzare il suo diritto su tutto). Una volta che si è trasferito o abbandonato un proprio diritto è
dovere del beneficiario non vanificare quell’atto volontario, ostacolando il soggetto ricevente; se avviene
ciò si compie per Hobbes un atto ingiusto, il quale ha lo stesso grado di assurdità che ha un’affermazione
illogica (in cui il conseguente smentisce l’antecedente). I segni che sanciscono l’accordo tra le parti sono le
parole o le azioni o entrambe (parole-azioni). Ogni volta che si rinuncia ad un proprio diritto lo si fa per il
conseguimento di un bene superiore che può essere ad esempio la promessa di protezione. Non tutti i
diritti sono alienabili, infatti, non si può cedere il proprio diritto alla vita; nessun uomo si lascia ferire o
peggio uccidere senza resistere e questo vale tanto nello stato naturale che in quello civile. Hobbes
definisce “contratto”: il trasferimento reciproco di un diritto; tale accordo contrattuale si instaura ad
esempio tra gli individui che decidono di uscire dallo stato di natura alienando reciprocamente il loro diritto
su tutto, in modo tale da favorire la formazione di uno Stato. Il patto, invece, prevede che uno dei due
contraenti alieni un suo diritto in virtù di un bene superiore come la protezione; questo è il rapporto che si
instaura tra il sovrano e i sudditi, dove i sudditi trasferendo il loro diritti (eccetto quello alla vita) al sovrano
(l’unico che può ancora vantare il diritto su tutto), chiedono a quest’ultimo difesa e sicurezza. Un’altra
caratteristica del patto è che esso è basato sulla fiducia: ovvero uno dei contraenti cede la cosa oggetto del
contratto e permette che l’altro adempia alla sua parte in un momento successivo; il rispetto di tale patto
viene chiamato mantenimento della promessa, mentre il suo mancato adempimento, violazione della
fiducia. Nel caso in cui il trasferimento di un diritto non è reciproco, ma solo uno delle due parti lo
trasferisce con la speranza di ottenere qualcosa in cambio, questo non è un contratto ma una donazione
libera o grazia. I segni che sanciscono un contratto sono espliciti o inferenziali: nel primo caso si
pronunciano formule al presente o al passato come: “io concedo” o “io ho ceduto”; se si utilizzano
espressioni riguardanti il futuro come: “io concederò” o “io darò”; ci troviamo di fronte a promesse. I segni
inferenziali si esplicano o con un silenzio assenso o con certe azioni. Nel contratto entrambi i contraenti
sono tenuti, anche nel caso di promessa futura, ad adempiere al trasferimento reciproco del diritto
(carattere obbligazionale del contratto), mentre in caso di donazione colui che dona un suo diritto non deve
aspettarsi niente in cambio. Se si stabilisce un patto, in cui nessuna delle parti è attualmente adempiente e
lo si fonda sulla fiducia reciproca, nella pura condizione naturale (che è una condizione di guerra di tutti
contro tutti) esso è nullo (visto che gli uomini sono naturalmente portati a perseguire il loro utile). Non è
invece nullo, se esiste un potere comune, posto al di sopra delle due parti, con un diritto e una forza
sufficienti per imporre l’adempimento. Gli accordi fatti “in coscienza” e fondati essenzialmente sullo
scambio reciproco della propria parola data, sono spesso soggetti, all’interno dello stato di natura, a non
essere rispettati; questo perché colui che per primo realizza la parola data, non ha alcuna certezza che
l’altro faccia lo stesso, essendo l’uomo antropologicamente guidato dalle sue passioni. Il problema non si
pone all’interno dello Stato civile dove il potere legittimamente istituito e riconosciuto, possiede la forza
coercitiva necessaria a rendere il patto tra i privati vincolante. Chi aliena un suo diritto, trasferisce al
destinatario anche i mezzi per goderne a pieno: pertanto nel caso dell’istituzione di un sovrano, gli individui
trasferendo il loro diritto su tutto a quell’unico uomo deputato al comando, essi si impegnano ad essere
collaborativi nei suoi confronti per ciò che concerne la nomina dei magistrati per l’amministrazione della
giustizia o l’imposizioni di tasse, per il mantenimento dell’esercito ecc.; tutti questi ed altri provvedimenti
fanno parte della legittima esercitazione del diritto da parte del sovrano. Con Dio si può venire a patti se
non con chi si dice essere tramite del volere divino. Ci si può liberare dai patti in due modi: o adempiendoli
o restituendo il diritto ricevuto (condono). I patti estorti col timore sono per Hobbes obbliganti nello stato
di natura: se devo compiere un servigio per avere salva la vita, non posso tirarmi indietro; in questo caso si
tratta di un contratto in cui chi adempie al servigio promesso ha salva la vita, mentre chi ha imposto con la
violenza tale azione ottiene quello che voleva. Un patto in cui io mi impegno a non difendermi dalla
violenza altrui è in qualsiasi condizione (naturale e civile) nullo; Hobbes ribadisce che il diritto alla vita è
inalienabile, infatti, è per avere salva la vita che gli uomini istituiscono un potere comune. Inoltre nello stato
di natura, nessuno può accusarsi (a meno che sia sicuro del perdono) poiché essendo ciascuno uomo
giudice di sé stesso, colui che si accusasse andrebbe contro i suoi interessi e si lancerebbe nelle braccia del
nemico; lo scenario cambia all’interno dello Stato civile, dove vi è la presenza di un giudice supremo
(ovvero il sovrano). All’interno dello Stato all’accusa segue la punizione; anche qui, essendo la punizione
una forma di violenza, mantiene il suo diritto a vender cara la vita (ovvero a resistere). Poiché le parole non
possiedono quel grado di forza sufficiente per rendere il patto vincolante, occorre far ricorso a due
espedienti: 1) il timore delle conseguenze derivanti dal mancato adempimento della parola data; 2) oppure
l’orgoglio che ne segue nel momento in cui ci si può vantare di essere un uomo di parola. Il timore ha due
fonti: una (ed è la più potente) è quella riguardante gli spiriti invisibili; l’altra è il potere della parte offesa
dal mancato adempimento del patto. Ciò che rende l’atto del giurare dei contraenti più stringente è quello
di ricorrere alla figura divina, ovvero di giurare in suo nome che si compierà quella o quell’altra azione.
Hobbes alla fine del capitolo afferma che se il patto è legittimo, anche senza giuramento, esso è vincolante
agli occhi di Dio.

Capitolo 15:
Delle altre leggi naturali:
le altre leggi di natura 3) la terza legge di natura prevede che gli uomini debbano mantenere fede ai patti
che hanno fatto. Malgrado nello stato di natura gli uomini siano giudici di loro stessi e delle loro azioni
(relativizzazione del giusto e dell’ingiusto), per Hobbes è ingiusto colui che infrange un patto mentre giusto
colui che adempie a ciò che ha promesso. In assenza di una coercitività, legittimata dal consenso popolare,
nessuno è fino in fondo vincolato al mantenimento del patto se non in “foro interno” (ovvero in coscienza)
della prima legge di natura: ossia il cercare la pace; se infatti tutti non mantenessero fede ai loro patti, si
cadrebbe in una condizione di guerra e di violenza che metterebbe a rischio la conservazione della vita a cui
tutti gli uomini tendono e che la prima legge di natura esorta a raggiungere con il conseguimento della
pace. È ingiusto colui che ricerca il proprio utile? Un’azione potrebbe essere considerata ingiusta ma non
contraria alla ragione individuale che ricerca il proprio vantaggio; dunque che rapporto c’è tra ragione e
giustizia? Per Hobbes la giustizia non è contraria alla ragione; infatti chi considera ragionevoli quelle azioni
che permettono agli individui di perseguire i loro fini nel non rispetto della libertà altrui o quelli che ancor
peggio dopo aver stipulato un patto ed aver ottenuto dall’altro contraente il diritto previsto, decidono di
sciogliere tale accordo con il massimo del beneficio, compiono per Hobbes un’azione ingiusta ed
irragionevole. Essi possono farsi scudo con il loro potere per avere salva la vita ma in una condizione come
quella naturale non si è mai troppo forti o potenti tanto da essere sicuri della propria incolumità. Il principio
che regge lo stringere alleanze prevede che le parti mantengano fede ai loro previ accordi in modo tale da
avere una maggiore possibilità di conservare il proprio, diritto alla vita. Per Hobbes coloro che infrangono i
patti non possono essere ammessi in una società come quella civile che si fonda sulla pace e la difesa.
Addirittura il filosofo inglese arriva ad asserire che la felicità del cielo si guadagna non infrangendo i patti
stabiliti. Il diritto di ribellione viene considerato da Hobbes contrario alla ragione; se infatti il potere sovrano
fosse soverchiato per mezzo di una ribellione ciò darebbe adito ad altri di acquisire la sovranità in questa
maniera e così via fino ad arrivare ad uno stato guerra (il riferimento polemico di Hobbes qui è molto
probabilmente il pensiero del “secondo” Beza). I nomi giusto ed ingiusto assumono un significato diverso a
seconda se sono attribuiti agli uomini o alle azioni: nel primo caso si parla di conformità o non conformità
dell’uomo ai costumi della ragione; nel secondo di conformità o meno tra le singole azioni. L’ingiustizia dei
costumi è la predisposizione o attitudine, senza che si sia ancora compiuta un’azione ingiusta verso
qualcuno, a far torto agli altri. Per contro l’ingiustizia presuppone uno specifico individuo oggetto del torto
e precisamente colui con il quale era stato fatto il patto. La giustizia delle azioni è divisa dagli scrittori,
afferma Hobbes, in commutativa e distributiva. La prima (quella commutativa) è intesa dal filosofo inglese
come la giustizia dei contraenti ovvero l’adempimento del patto nel comprare e vendere. La giustizia
distributiva è la giustizia dell’arbitro il quale definisce, essendo una figura terza disinteressata rispetto
all’oggetto della contesa, ciò che è giusto; egli nello sciogliere le contese ha il compito di distribuire a
ciascuno il suo in maniera equa. 4) La quarta legge di natura è quella riguardante la gratitudine: un uomo
che ottiene un beneficio per grazia (ovvero tramite donazione volontaria) deve impegnarsi, in modo tale da
non far pentire il donatore del suo gesto, a ripagare tale vantaggio. 5) La quinta è quella della compiacenza:
“ognuno deve sforzarsi di adattarsi agli altri”; ovvero per un pacifico quieto vivere gli uomini devono far
collimare i loro interessi e passioni con quelle degli altri venendo a compromessi. Gli insocievoli non
possono far parte di tale associazione politica poiché mal disposti a cercare la pace. 6) La sesta riguarda il
perdono: si devono perdonare gli uomini pentiti delle loro azioni disonorevoli commesse nel passato solo se
si ha la previa garanzia che non commetteranno gli stessi errori in futuro. Con il perdono si accorda la pace;
il non concedere perdono a coloro che danno garanzie è segno di avversione alla pace. 7) La settima
concerne la vendetta: gli uomini non devono rispondere al male con il male; la punizione deve essere
correttiva altrimenti si cade nella crudeltà 8) Nessuno deve manifestare con parole o azioni odio nei
confronti di qualcun altro; l’infrazione di questa legge è generalmente chiamata oltraggio. 9) Hobbes dopo
aver critico la teoria aristotelica delle disuguaglianze naturali (ovvero ci sono uomini nati per il governo
poiché più saggi ed altri inclini a servire poiché più forti fisicamente), ribadisce che nello stato di natura tutti
gli uomini sono eguali. Solo all’interno dell’istituzione statale, per mezzo delle leggi civili, nascono le
disuguaglianze. La nona legge di natura prevede che ciascuno tratti l’altro come uguale a sé per natura.
L’infrazione di questo precetto è la superbia. 10) Nessuno può accampare diritti esclusivi che precludano la
fruizione di un bene da parte degli altri. 11) Il giudice nominato per dirimere la contesa tra i privati deve
essere equo e dare a ciascuno ciò che merita 12) I beni non divisibili devono essere accessibili a tutti; in
caso contrario un bene deve essere diviso proporzionalmente tra gli aventi diritto. 13) Non tutti i beni
possono essere divisi o goduti in comune, in tal caso occorre far ricorso alla sorte la quale si divide a sua
volta in convenzionale e naturale. 14) Quella naturale è o la primogenitura o la priorità nell’acquisizione del
possesso; in tal caso questi beni indivisibili e non comuni devono essere aggiudicati al primo possessore.
15) Ai mediatori di pace devono essere concessi salvacondotti. 16) Le parti che fanno ricorso ad un arbitro
devono sottostare al suo giudizio. 17) Se tutti gli uomini fossero giudici di sé stessi, ognuno farebbe valere le
proprie ragioni e si arriverebbe ad una condizione inevitabile di conflitto; pertanto la diciassettesima legge
di natura prevede: nessuno è giudice di sé stesso 18) In nessuna causa deve essere chiamato un giudice che
oggettivamente tragga profitto nella vittoria di una delle due parti piuttosto che dell’altra. Nel caso si arrivi
ad una equipollenza di argomenti, il giudice ha il diritto di ascoltare dei testimoni in merito. I precetti
elencati si prefiggono la pace e la conservazione della vita, e di contro avversano la guerra e la violenza. Essi
possono essere ridotti, secondo Hobbes, nella formula evangelica: “non fare a un altro ciò che non vorresti
fosse fatto a te”; tale affermazione permette a chiunque, anche ai meno istruiti, di cogliere il senso delle
leggi di natura le quali sono eterne, immutabili e facili da osservare (basta infatti sforzarsi di applicarle).
Queste leggi naturali sono morali: al contrario dei moralisti classici i quali pur riconoscendo una serie di
virtù non ne riconoscono la bontà che consiste nel garantire una vita pacifica. Queste leggi naturali, anche
dette teoremi o dettami della ragione, non sono delle vere e proprie leggi dal momento che non vi è la
presenza di un potere coercitivo comune riconosciuto. Tuttavia se riconduciamo tali dettami della ragione
ai teoremi speculari presenti nella dottrina cristiana, è possibile chiamare propriamente “leggi” questi
precetti.

SECONDA PARTE: LO STATO


Capitolo diciassettesimo: cause, generazioni e definizioni di Stato
Hobbes ammette che gli uomini sono portati a rinunciare alla loro libertà e al loro istinto di dominio sugli
altri, per avere salva la vita. Quest’ultima, non può essere garantita all’interno dello stato di natura dove gli
uomini sono dominati dalle passioni; le leggi di natura sono principi razionali a cui ciascuno individuo dotato
di senno darebbe il suo assenso, il problema è che la stipulazione di patti che hanno come unica garanzia la
parola, li rende troppo facilmente soggetti a rottura; l’uomo è per Hobbes il teatro della tensione che si
viene ad instaurare tra le passioni e i principi razionali, tensione che rende il patto, al livello naturale,
incerto. Per superare questa condizione di scacco, occorre istituire un potere comune, lo Stato civile, che
tramite l’utilizzo della “spada” ovvero della paura della punizione rende i patti vincolanti. Così come allo
stato naturale le famiglie erano solite derubarsi reciprocamente e più beni riuscivano ad ottenere maggiore
era il loro onore, allo stesso modo lo Stato deve accrescere il suo onore espandendo i propri domini,
indebolendo gli Stati vicini con lo scopo di aumentare la sicurezza per i suoi cittadini. Hobbes riconosce
come Aristotele il fatto che le api e le formiche vivono socialmente fra loro e mostra come tali
organizzazioni siano diverse (e migliori) da quelle costituite dagli uomini: 1) gli uomini sono continuamente
in competizione fra di loro per l’onore e la dignità, mentre queste altre creature non lo sono; la
competizione fra gli uomini è il germe del conflitto. 2) Per queste creature il bene comune non differisce da
quello privato, pertanto quando compiono qualcosa per loro stesse in realtà di tale azione ne beneficia la
comunità; l’uomo, invece, se non dietro sottomissione, è portato a perseguire il proprio utile che molto
spesso corrisponde ad un danno per qualcun altro. 3) Le api ed altre creature simili non essendo dotate di
ragione sono meno inclini a criticare l’amministrazione della società, mentre gli uomini, essendo orgogliosi
e pieni di vanagloria, si ritengono sempre più saggi dei loro simili e per questo motivo tentano di riformare
o innovare la cosa pubblica; questo a lungo andare porta, secondo Hobbes, alla guerra civile. 4) Benché
queste creature siano dotate di forme di comunicazione con cui possono comunicare le loro affezioni, esse
non possiedono la varietà di espressioni che la parola consente all’uomo; essa se adoperata in maniera
retorica può avere per l’uomo un effetto distruttivo perché lo porta a confondere il bene con il male. 5) Le
api non avvertono il torto e il danno, e si accontentano di avere assicurati i loro agi fondamentali; nel caso
invece dell’uomo appena arriva nel pieno dell’agio, comincia a criticare colui o coloro che governano lo
Stato. 6) Infine (e punto più importante) il patto tra api è naturale, mentre quello tra gli uomini è artificiale
ovvero hanno bisogno di un potere comune che li assoggetti e che ne diriga le azioni verso il bene comune.
Gli uomini devono stipulare un patto per cui ciascuno si impegna a trasferire il proprio diritto su tutto e il
proprio governo su sé stesso, il proprio giudizio e la propria volontà, ad un’autorità comune che riunisca i
diversi autori sotto un solo corpo o persona che è appunto lo Stato. Questo corpo politico unico è il
Leviatano ossia quel dio mortale al quale si deve la pace e la difesa dei sudditi. Trasferendo tali diritti al
sovrano, i sudditi gli conferiscono anche la forza necessaria per compiere le azioni che egli riterrà utili per il
consolidamento della pace. Come si realizza questo potere sovrano? Secondo Hobbes in due modi: 1) o per
mezzo della forza naturale che esercita un padre nei confronti dei figli; questo si chiama Stato per
acquisizione 2) o quando gli uomini decidono volontariamente di sottomettersi a un certo uomo o a una
certa assemblea di uomini, avendo in cambio la garanzia di protezione; questo secondo Stato è chiamato
Stato per istituzione.
Capitolo 18:
i “diritti” dei sovrani per istituzione
Un Stato è istituito quando gli uomini concordano, ciascuno singolarmente con ciascun altro, che
qualunque sia l’uomo o l’assemblea di uomini, a cui verrà dato dalla maggioranza il diritto di incarnare la
persona di tutti loro (cioè a divenire loro rappresentante) ognuno (che abbia votato a favore o contro)
autorizzerà tutte le azioni e i giudizi di quell’uomo o di quell’assemblea di uomini alla stessa maniera che se
fossero propri, affinché i sudditi possano vivere in pace fra di loro ed essere protetti dagli altri uomini. Da
questa istituzione dello Stato derivano tutti i diritti e le facoltà di colui, o di coloro, a cui è conferito da parte
del popolo il potere sovrano. Hobbes elenca 12 diritti o facoltà proprie del sovrano: 1) I sudditi che
riconoscono come proprie le azioni e giudizi del sovrano, non possono stipulare un nuovo patto,
costituendo un nuovo sovrano, se non con il consenso di quello precedente. Hobbes polemicamente si rifà
alla dottrina calvinista e in particolare al concetto di “uomo della provvidenza” (Calvino credeva che si
potesse disobbedire al potere tirannico solo nel caso in cui un uomo sia eletto direttamente da Dio per
liberare un popolo assoggettato); questa pretesa di patto tra l’uomo e Dio è una menzogna adoperata per
giustificare un’azione ingiusta come quella della rottura di un patto precedentemente siglato. 2) Il sovrano
non è soggetto ad alcun patto con i sudditi, poiché o dovrebbe farlo con la totalità della moltitudine o con
ognuno di loro: il primo caso non è possibile poiché si presupporrebbe che la molteplicità degli uomini si
riunisse in unica persona quando ha già costituito come suo rappresentante il sovrano; quest’ultimo non
può nemmeno accordarsi singolarmente con ciascun individuo poiché non potrebbe tener fede
contemporaneamente a tutti i patti siglati. Inoltre se sudditi e sovrano fossero entrambi contraenti, nel
momento in cui vi fosse una contesa tra il sovrano e un suddito non vi sarebbe un giudice imparziale in
grado di risolvere tale controversia. 3) Dal momento che la maggioranza ha proclamato un sovrano, chi
prima dissentiva deve ora consentire con gli altri; in altre parole deve di buon grado ammettere come
proprie tutte le azioni che egli farà, o altrimenti essere distrutto. Nel momento in cui egli sia entrato nella
comunità si è anche tacitamente conformato alla maggioranza; se poi rifiutasse di riconoscere il sovrano
pur avendo i vantaggi che la costituzione dello Stato garantisce, egli agirebbe in contrasto con il patto e
dunque ingiustamente. 4) La volontà dei singoli viene a confluire nella volontà del sovrano; pertanto egli
non potrà agire contro i sudditi altrimenti agirebbe contro sé stesso. Il sovrano può commettere iniquità
(poiché anche egli è un uomo e come tutti gli uomini è soggetto alle passioni) ma non ingiustizia o torto in
senso proprio. 5) Nessun uomo che abbia il potere sovrano può essere giustamente messo a morte o in
qualche modo punito dai sudditi.
6) Il sovrano deve controllare le opinioni dei sudditi poiché ad esse seguiranno azioni conformi; se pertanto
si ha il controllo sulle opinioni si ha anche il controllo sulle rispettive azioni; ciò non va inteso come un atto
di censura repressiva ma come un tentativo da parte del sovrano di limitare le opinione contrapposte che
danno origine alla guerra civile (egli ha sempre il compito di garantire la pace e la sicurezza). 7) Al sovrano
spetta il compito di promulgare le leggi civili a cui i sudditi devono sottostare. Tra le norme che il sovrano
prescrive vi sono quelle che regolano la suddivisione dei beni che ciascuno può possedere e le azioni che
ciascuno può compiere senza essere molesto per qualcun altro. Grazie all’istituzione statale nasce la
proprietà concetto sconosciuto all’interno di una condizione prepolitica in cui ogni uomo avendo diritto su
tutto, in realtà, non possiede niente poiché tutto ciò che possiede gli può essere sottratto da un uomo più
forte o più furbo. 8) Al sovrano spetta il diritto di giudicatura ovvero di risolvere le controversie tra privati.
9) Egli, inoltre, possiede il diritto di fare la guerra o la pace con gli altri Stati. 10) Il decimo diritto o facoltà
riguarda la libertà di scelta che il sovrano ha nel nominare i consiglieri, i funzionari e i magistrati. 11) È
affidato alla sovranità il potere di ricompensare con ricchezze e onori, e di punire con punizioni, sia
corporali sia pecuniarie o con l’ignominia, ogni suddito in conformità ad una legge precedentemente
promulgata, oppure, in mancanza di leggi promulgate, egli giudicherà l’azione come sovversiva o utile a
secondo dell’effetto che essa avrà sugli altri sudditi. 12) Infine è il sovrano a stabilire l’ordine gerarchico che
prende piede all’interno della neo società civile; tali posizioni sociali devono essere riconosciute
reciprocamente dai sudditi. Questi diritti del sovrano sono indivisibili ed inalienabili; non è possibile
promulgare le leggi e farle rispettare senza avere il controllo delle milizie, allo stesso modo se si cede il
potere di riscuotere tributi diventa vano il potere militare. “Un regno diviso non può reggersi”; Hobbes
vede nella separazione dei poteri visibile ad esempio in Inghilterra, con al presenza del re, dei lord e della
Camera dei Comuni, il germe della guerra civile. Il sovrano può alienare i suoi poteri solo a seguito di una
rinuncia volontaria; i poteri e gli onori dei sudditi scompaiono davanti al potere sovrano. Hobbes si chiede
quale danno proviene ai sudditi dal loro essere soggetti ad un potere sovrano; la risposta che Hobbes dà a
questo quesito è che gli uomini sono destinati a venire a contatto con la miseria, ma le molestie che il
suddito subisce da parte del sovrano sono nulle se paragonate allo stato di paura e di instabilità che
comporta la guerra civile (ovvero all’assenza di un potere centrale forte). Inoltre essi non tengono conto
della condizione di dissoluzione degli uomini abbandonati a sé stessi, non assoggettati alle leggi e senza un
potere coercitivo (qui Hobbes si riferisce all’uomo nel suo stato prepolitico). Ne risulta da ciò che è
preferibile essere soggetti alle molestie del re piuttosto che vivere in una condizione di guerra civile o di
stato di natura.

Capitolo 21: dominio “paterno” e dominio “dispotico”


Dopo aver parlato dello Stato formatosi per “istituzione”, Hobbes passa a parlare di quello che si forma per
“acquisizione”. In quest’ultimo il potere sovrano viene acquisito da un individuo o da un’assemblea tramite
l’utilizzo della forza; gli uomini che decidono di sottomettersi a questa persona o gruppo di persone lo
fanno per paura della morte. Il dominio per istituzione differisce da quello per acquisizione per il fatto che
mentre nel primo caso si designa un sovrano o un’assemblea a causa della paura che ciascuno individuo
nutre nei confronti dell’altro suo simile, nel secondo, il timore degli uomini è rivolto nei confronti di colui
che li sottomette con la forza. In entrambi casi (sia nello Stato per acquisizione che in quello per istituzione)
i diritti della sovranità sono gli stessi (il sovrano per acquisizione ha diritto alla successione, a dichiarare la
guerra o la pace, a scegliere i consigliere e funzionari che lo aiuteranno nell’amministrazione della cosa
pubblica ecc.). Per Hobbes sono due i modi in cui il potere si acquisisce: per generazione e per conquista. Il
diritto di dominio per generazione viene detto “paterno” ed implica l’obbedienza dei figli nei confronti del
genitore; tale obbedienza deriva dal loro consenso o esplicitamente espresso o indirettamente manifestato.
Per permettere la generazione Dio ha voluto che concorrano sia l’uomo che la donna; pertanto due sono i
genitori, ma così come il popolo non può avere due padroni, così nemmeno i figli possono obbedire allo
stesso modo ad entrambi. In una condizione di mera natura in cui vi è l’assenza di vincoli contrattuali e di
leggi matrimoniali i figli devono obbedire alla madre, la quale provvede alla loro sopravvivenza nutrendoli.
Se però i figli vengono abbandonati dalla madre e trovati da qualcun altro che si occupa del loro
mantenimento, allora essi devono obbedienza a questo “altro”; poiché, essendo la preservazione della vita
il fine per il quale un uomo si sottomette a un altro, si suppone che ognuno prometta obbedienza a chi ha in
proprio potere di salvarlo o di distruggerlo. Se la madre è soggetta al padre allora il figlio deve obbedienza
al padre in caso contrario alla madre. Chi ha il dominio sul figlio ha il dominio su tutto ciò che a questo
appartiene. Il diritto di successione nel possesso del diritto paterno procede secondo le stesse norme che
regolano la “vita eterna” della monarchia (esposte nel capitolo precedente da Hobbes). Oltre al dominio
paterno vi è quello dispotico acquisito mediante conquista o vittoria in guerra; in esso il vincitore rivendica
il suo dominio sul vinto, che per evitare la morte si sottomette al suo nuovo padrone divenendo servo. Tale
assoggettamento non si basa però sulle parole ma su un patto; è il patto che conferisce al vincitore il diritto
di dominio sul vinto e non la vittoria in sé. Solo con la stipulazione del patto il vinto è servo, in caso
contrario ovvero in assenza di patti egli è semplicemente uno schiavo a cui è concesso di rompere tale
legame di soggezione. Il padrone possiede tutto quello che è del servo; quest’ultimo deve obbedire a
ciascuna richiesta del padrone in virtù del patto reciproco che li lega (il servo offre i suoi servigi al suo
padrone che promette di non privarlo della vita). Hobbes passa a parlare brevemente della differenza tra
Stato e famiglia: una famiglia, se non fa parte di uno Stato, è di per sé, quanto ai diritti di sovranità, una
piccola monarchia; solo che al contrario di uno Stato monarchico, essa ha più possibilità di essere
sottomessa e i suoi membri sono maggiormente portati, in caso di conflitto, ad agire come meglio credono
(non vi è nella famiglia, in caso di controversia una linea d’azione univoca). Nelle ultime pagine di questo
capitolo l’autore del “Leviatano”, vuole dimostrare come il diritto di dominio dei sovrani sia giustificato
all’interno delle Sacre Scritture; per fare ciò riporta alcuni passi del Vecchio e del Nuovo Testamento che
avvalorano la sua tesi. Dio stesso, per bocca di Samuele, dice: “Questo sarà il diritto del re che regnerà su di
voi (...) voi sarete suoi servi”. Cita altri passi che, secondo Hobbes, giustificano il primato militare del re, il
suo diritto di giudicatura, la sua capacità di discernere il bene dal male e quindi di essere in grado di
promulgare leggi giuste (così come chiesto da Salomone a Dio). A proposito della legittimità
dell’obbedienza paterna o dispotica, egli riporta due asserzioni di San Paolo: “Servi obbedite in tutto ai
vostri padroni” e “Figli obbedite in tutto ai vostri genitori”. Per giustificare la riscossione delle imposte si rifà
alla celebre affermazione: “Date a Cesare quel che è di Cesare”. Infine, Hobbes cita la “Genesi” e alcuni
passi in cui cui Adamo ed Eva vengono puniti per aver disobbedito al precetto divino che aveva loro proibito
di nutrirsi dei frutti dell’albero della conoscenza; questo episodio biblico può essere preso metaforicamente
per indicare le conseguenze che derivano a coloro che disobbediscono al loro padrone o sovrano.
Nonostante si possano immaginare gli sviluppi dannosi che derivano dal governo di un solo individuo, tale
forma politica è preferibile ad una condizione di instabilità rappresentata dalla guerra civile o dalla
perpetua guerra naturale. Gli unici grandi inconvenienti che si verificano in qualsiasi Stato sono quelli che
derivano dalla disobbedienza dei sudditi e l’infrazione di quei patti, dai quali lo Stato trae la propria
esistenza. Le nazioni i cui Stati hanno avuto una lunga durata e sono stati abbattuti solo da guerre esterne,
sono quelli in cui i sudditi non hanno mai messo in discussione il potere sovrano. L’arte di costruire e
conservare gli Stati consiste in certe regole, come l’aritmetica e la geometria, non nella pratica soltanto.
Capitolo ventunesimo: la libertà dei sudditi Libertà significa propriamente assenza di opposizione (per
“opposizione” Hobbes intende quegli impedimenti esterni che possono limitare la mia volontà e i miei
movimenti). La libertà può essere riferita sia a creature irrazionali e inanimate che a creature razionali. Un
uomo libero è colui che può accordare il suo ingegno e la sua forza alla sua volontà di fare senza alcun
impedimento esterno. Timore e libertà per il filosofo inglese sono compatibili; tutte le azioni che gli uomini
fanno, negli Stati, per timore della legge, sono azioni che coloro che le compiono avevano la libertà di non
fare. Anche la libertà e la necessità sono compatibili: ciascuna azione compiuta dall’uomo è frutto di una
libera scelta che però va contestualizzata necessariamente all’interno di una catena di cause di cui l’ultimo
anello è rappresentato da Dio (causa prima). La libertà dell’uomo nel fare quello che vuole, è accompagnata
dalla necessità di fare, né più né meno, quello che Dio vuole. Se non fosse così ovvero se volontà umana
derivasse da sé la necessità delle sue libere azioni, rischierebbe di essere in conflitto con quella divina.
Hobbes aggiunge che le leggi civili poste all’interno dello Stato non sono altro che catene artificiali, che
devono però, come detto in precedenza, accordarsi con la superiore legge divina la quale a sua volta è
conforme alla legge naturale. Il filosofo inglese dopo aver analizzato che cosa sia la libertà e i suoi legami,
passa a chiedersi quali siano le libertà dei sudditi: la loro libertà risiede prima di tutto in tutte quelle azioni
su cui la legge civile tace, ovvero tutti quei comportamenti che il sovrano non ha disciplinato tramite norme
come ad esempio la libertà di comprare e di vendere, di stipulare contratti tra privati, di scegliere la propria
dimore, la propria occupazione o l’istruzione che si vuole tramandare ai propri figli. Il sovrano non può
commettere ingiustizia o torto ai propri sudditi in quanto è espressione della loro volontà, egli inoltre è
suddito di Dio e perciò vincolato a osservare le leggi di natura (o leggi divine). Nel caso il sovrano metta a
morte un suddito innocente, egli dovrà rispondere di tale azione iniqua non davanti al suddito ucciso ma
davanti a Dio. La libertà di cui si fanno portavoce i filosofi Romani e Greci non è quella dei singoli individui
ma degli Stati, la quale non varia con il variare della forma di governo (i sudditi negli Stati democratici sono
soggetti alla legge allo stesso modo dei sudditi negli Stati monarchici). Testi come il “Politico” di Aristotele
non fanno che fomentare le sedizioni e la disobbedienza dei sudditi nei confronti del loro sovrano, infatti
essi confondono la libertà che gli è propria nello stato di natura con quella ostacolata dalle leggi civile nello
Stato. La sottomissione degli uomini, in uno Stato per istituzione, è volontaria e libera, pertanto non c’è
obbligazione che non sorga da un atto stesso che essi hanno compiuto. Sia lo Stato per acquisizione
(parentale e dispotico) che quello per istituzione sussistono in virtù di un patto e in entrambi ogni suddito
mantiene delle libertà e dei diritti inalienabili: 1) ogni uomo può rifiutarsi di obbedire al sovrano se questi
gli ordina di compiere azioni che potrebbero ledere il suo diritto alla vita (come uccidersi, ferirsi, non fare
uso di medicinali o di non nutrirsi). 2) Un uomo interrogato dal sovrano o da un suo funzionare, per un
crimine realmente commesso, non è vincolato a confessare poiché nessuno può essere obbligato per patto
ad accusare sé stesso. 3) Un patto che attenti la vita dei contraenti è da considerarsi nullo 4) Un uomo può
rifiutarsi di combattere (fermo restando che il sovrano possiede un diritto sufficiente a punire con la morte
il suo rifiuto), così come per paura può fuggire dal campo di battaglia e quindi disertare; nel primo caso si
tratta di un gesto codardo, nel secondo invece disonorevole, ma in entrambi i casi non è ingiusto. 5) Coloro
che si oppongono con la spada al potere sovrano compiono un atto ingiusto, ma nel caso in cui essi si
unissero per difendere la loro vita, non commetterebbero niente di illecito. 6) Il suddito ha diritto di
ricevere un giudizio retto ed imparziale, conforme a legge, sulla sua causa da parte del sovrano. 7)
L’obbligazione dei sudditi verso il sovrano è intesa a durare fintantoché dura il potere con cui egli è in grado
di proteggerli. Per nessun patto, infatti, si può abbandonare il diritto che gli uomini hanno, per natura di
proteggere sé stessi quando nessun altro può proteggerli (il fine dell’obbedienza è la protezione). 8) Se un
suddito viene fatto prigioniero in guerra, egli ha tutto il diritto, su concessione del sovrano straniero, di
assoggettarsi al vincitore per avere salva la vita. Se invece i “vinti” siano ridotti in prigionia, essi hanno tutto
il diritto di tentare la fuga e liberarsi dalle catene che li opprimono. Se un sovrano sottomesso in guerra si
assoggetta al vincitore, i suoi sudditi sono sciolti dalla loro precedente obbligazione e devono sottomettersi
al nuovo sovrano. Nel caso in cui, invece, il sovrano di uno Stato fosse fatto prigioniero da qualche potenza
straniera, il patto tra lui e i sudditi si manterrebbe con la peculiarità che quest’ultimi dovrebbero giurare
obbedienza ai magistrati già insediati al governo prima della prigionia del sovrano. Capitolo ventiduesimo,
ventitreesimo e ventiquattresimo Hobbes passa a parlare delle parti fisiche che compongono il dio
artificiale ovvero il corpo politico. Egli parte nella sua analisi con la nozione di “sistema” ovvero un insieme
di individui che perseguono un obiettivo comune; i sistemi possono essere di due tipi: corpi politici istituiti
dal potere sovrano; o sistemi privati, costituiti dai sudditi. A loro volta questi due sistemi possono essere
legali o illegali a seconda del fatto se essi assolvano correttamente o meno alle funzioni per cui sono stati
istituiti, o se rispettano o meno l’autore che li ha formati. Hobbes definisce i sistemi legali come i muscoli
del corpo politico, mentre i sistemi illegali i tumori dello Stato. Per l’amministrazione della cosa pubblica il
sovrano o l’assemblea avrà bisogno di una serie di figure che Hobbes definisce i nervi dello Stato ovvero i
pubblici ministri: a questi spetta il compito di occuparsi, su volontà del potere sovrano, dell’istruzione dei
cittadini, dell’organizzazione militare, dei rapporti con i paesi esteri, della sicurezza interna del paese, del
sistema contributivo di tassazione ecc. Nel capitolo ventiquattresimo Hobbes passa a parlare di una
divisione equa dei beni tra i cittadini, precisando prima di tutto che la proprietà nasce con il sorgere dello
Stato il quale, in forza del suo potere coercitivo, garantisce la difesa di ciò che ha in precedenza elargito ad
ogni suddito. Nello stato di natura ogni cosa appartiene a chi la prende e la conserva con la forza; il che non
è né proprietà, né comunanza ma incertezza. Nello Stato la distribuzione è governata da una serie di leggi,
la prima concerne la divisione della terra secondo quello che il sovrano riterrà essere conforme all’equità e
al bene comune. Lo Stato incarnato nella persona del sovrano o dell’assemblea, per Hobbes, non deve
essere titolare di una porzione di terra poiché egli è allo stesso tempo proprietario di tutte le terre
assegnate ai sudditi; infatti, se è vero che la proprietà impedisce a un suddito di sottrarre la terra ad un
altro, lo stesso non vale per il sovrano che non può essere escluso dall’uso della terra che egli stesso ha
sparito tra gli uomini. Per quanto riguarda l’organizzazione economica dello Stato, Hobbes dopo aver
espresso il suo giudizio sfavorevole sulle corporazioni di mercanti che generano un doppio monopolio
(nell’esportazione dei prodotti locali e nella vendita dei prodotti esteri), afferma nel capitolo
ventiquattresimo un controllo statale sia nei confronti dell’esportazione dei prodotti locali, sia un controllo
dei contratti e degli scambi commerciali tra privati. Proseguendo nella sua descrizione del “dio artificiale”,
egli sostiene che la circolazione del denaro corrisponde alla circolazione sanguigna dello Stato e che
pertanto la moneta nazionale deve essere tutelata e valere solo nei confini della patria, altrimenti
rischierebbe di perdere di valore. Le colonie di uno Stato rappresentano, invece, la progenie del corpo
politico: esse (le colonie) possono divenire indipendenti oppure divenire provincie dello Stato d’origine.

Capitolo 28: punizioni e ricompense


Definizione di punizione: è un male inflitto dall’autorità pubblica a colui che ha fatto, o omesso di fare,
qualcosa che la stessa autorità giudica essere una trasgressione della legge, affinché la volontà degli uomini
possa per mezzo di ciò essere meglio disposta all’obbedienza. Hobbes si chiede come tale punizione,
seppur inflitta dall’autorità sovrana in caso di mancato osservanza delle leggi, possa accordarsi con il
principio della naturale autodifesa di ciascun individuo di fronte alla violenza. Hobbes ha infatti affermato
nei capitoli precedenti, come un patto o contratto in cui uno dei due contraenti acconsente all’altro di
potergli togliere la vita senza opporre resistenza, sia da considerarsi nullo. Il diritto alla resistenza essendo
un precetto naturale non può essere alienato dai sudditi, i quali però trasferendo il loro diritto su tutto alla
figura del sovrano si affidano a tale autorità e al corpus di leggi da lui promulgate, per la conservazione
dell’ordine sociale e la sanzione delle ingiustizie tra privati. Il male inflitto dall’autorità sovrana può da
punizione legittima divenire punizione illegittima in determinati casi: a) se il la punizione è inflitta prima che
vi sia una sentenza definitiva che condanni l’imputato; b) i giudizi derivanti da un potere usurpato non sono
legittimi; c) un male inflitto senza che sia dato ai sudditi la possibilità di osservare le leggi, è da considerarsi
un atto ostile; d) avendo ciascuna azione politica lo scopo di generare un bene futuro, se il sovrano non
proporziona il reato commesso con la condanna assegnata (ovvero ad una trasgressione maggiore
conferisce una pena inferiore o viceversa ad una trasgressione minore conferisce una pena esagerata)
compie un atto ostile e controproducente; e) non si può imputare a qualcuno di aver trasgredito la legge, se
non vi è effettivamente una norma che regoli il comportamento degli uomini in quel caso specifico; f) un
male inflitto al rappresentante dello Stato non è una punizione ma un atto di ostilità; g) infine il male
commesso ad un nemico esterno allo Stato non può definirsi punizione, visto che tale individuo non fu mai
soggetto alla legge; dunque i mali da lui inferiti devono essere considerati come atti di ostilità. Vi sono due
tipi di punizioni: divine ed umane; quest’ultime a loro volta si dividono in: pene corporali, pecuniarie,
ignominia, incarceramento ed esilio. Le pene corporali si dividono in capitali e meno capitali: le prime
prevedono l’inflizione della morte, le seconde invece lesioni minori di natura non mortale. Punizioni
pecuniarie sono invece quelle che consistono nella privazione non solo di una somma di denaro, ma anche
di terre o degli altri beni che sono solitamente comprati e venduti con l’ausilio del denaro. L’ignominia: è la
sottrazione da parte dello Stato al colpevole dei titoli di cui era stato insignito in precedenza.
L’incarceramento prevede, invece, una limitazione della libertà di movimento del soggetto; esso assume
varie forme: dalla semplice reclusione al lavoro forzato. Inoltre vi sono due tipi di reclusioni: una custodia
cautelare in cui il soggetto viene imprigionato in attesa di giudizio e una reclusione definitiva per coloro che
invece sono stati condannati. Infine l’esilio prevede l’allontanamento dallo Stato di coloro che hanno
commesso in crimine trasgredendo la legge; Hobbes si mostra contrario a tale tipo di pena poiché un
esiliato non essendo più membro dello Stato che l’ha bandito, ne deviene nemico legittimo. Alla pena
dell’esilio va affiancata una pena pecuniaria di espropriazione dei beni del condannato. Tutte le punizioni
che coinvolgono innocenti sono contrarie alla legge di natura e devono essere accuratamente evitate
dall’autorità pubblica; infatti nessun bene può derivare allo Stato dalla punizione di un innocente. Qual è lo
scopo alla base delle pene inflitte ai propri sudditi dallo Stato dopo previa trasgressione delle leggi? Per
Hobbes lo scopo della punizione non è già la vendetta ma il terrore; occorre che i sudditi siano spinti
all’osservanza delle leggi. Ciò che il filosofo inglese non tollera è la ribellione, essa, infatti, non fa altro che
ricadere gli uomini in condizione di tutti contro tutti. Opposta alla punizione è la ricompensa, la quale può
essere data o come dono o per contratto. Quando è data per contratto si chiama retribuzione o stipendio,
ovvero si viene pagati per aver fornito un determinato servigio. Quando invece è data come dono, significa
che la ricompensa è il frutto di un atto di generosità di un soggetto che riconosce l’operato di un altro. Le
punizioni e le ricompense rappresentano per Hobbes i tendini che permettono il movimento alle membra e
alle articolazioni del Leviatano; dopo questo capitolo l’autore ci avvisa che parlerà di ciò che causa la
dissoluzione dello Stato e delle leggi naturali alle quali il sovrano è tenuto ad obbedire. Capitolo trentesimo:
“funzione” del rappresentante sovrano La funzione del sovrano (monarca o assemblea che sia) consiste nel
fine per il quale gli è stata affidata l’autorità pubblica, ovvero di procurare la sicurezza del popolo; egli non
può prescindere da ciò ed è obbligato in virtù della legge di natura (o divina) istituita da Dio (Re dei re). Il
sovrano deve farsi carico del benessere dei sudditi tramite l’ausilio dell’educazione pubblica e delle leggi. È,
infatti, in suo dovere quello di educare il popolo alle leggi vigenti all’interno dello Stato, in modo tale da
rendere consapevoli gli uomini di cosa sia giusto ed ingiusto fare, e in modo tale da evitare la proliferazione
di false opinioni, derivanti dall’ignoranza dei sudditi in materia di diritto positivo. Un altro dovere da cui non
può prescindere il sovrano è quello di non alienare parzialmente o integralmente quei diritti che sono
propri all’autorità sovrana; chi rinuncia ai mezzi rinuncia anche ai fini (cedendo parte dell’autorità sovrana
conferitagli dai sudditi, egli non può assolvere al suo compito primario, cioè garantire la sicurezza del
popolo). Così come la legge di natura costituisce una guida nelle deliberazioni del sovrano, allo stesso modo
essa rappresenta ciò che dà forza alle leggi positive a cui si ispira: pertanto se si ammette che l’infrangere
una promessa sia qualcosa di contrario ai dettami della ragione, allo stesso modo nel diritto positivo non si
può contemplare la ribellione che alto non è che il non adempimento da parte dei sudditi del patto in
precedenza stipulato. Bisogna educare gli uomini a non desiderare i governi dei paesi vicini: non importa se
ci si trova sotto un regime monarchico o democratico, l’importante è il grado di obbedienza che il popolo ha
nei confronti del suo rappresentante. Questo principio si accorda con il primo Comandamento: “non avrai
altri dèi davanti a me”. Bisogna evitare il fallace comportamento che conduce alcuni uomini ad ammirare
un persona che si considera “popolare”, piuttosto che il sovrano istituito. Tale precetto si accorda con il
secondo Comandamento (“non ti farai scultura né immagine di quello che è sù in cielo, né di quello che è
quaggiù sulla terra”). Non si deve parlare male del rappresentante, né contestare l’operato di quest’ultimo
o nominarlo irriverentemente. Questa dottrina, rinvia, per somiglianza, al terzo Comandamento (“non
pronuncerai inutilmente il nome Signore”). Il popolo ha diritto di ascoltare periodicamente l’esposizione dei
suoi doveri, la lettura e la spiegazione delle leggi positive e il sentirsi rammentare il nome dell’autorità che
le rende leggi. Analogamente a ciò, gli Ebrei avevano ogni sette giorni un “Sabbath”, in cui veniva lette le
leggi concesse da Dio a Mosè. I figli devono riconoscenza ai loro genitori, anche se, come nel caso
dell’istituzione dello Stato, l’autorità assoluta dai singoli padri si è trasferita al sovrano, il quale altro non è
che il reggente di un’unica famiglia che è appunto lo Stato. I sudditi che si assoggettano a tale corpo politico
devono lo stesso grado di obbedienza che un figlio deve a suo padre. Tale dottrina trova eco nel quinto
Comandamento. Inoltre, ogni sovrano dovrebbe preoccuparsi di far insegnare la giustizia, il che
(consistendo quest’ultima nel non togliere a nessuno ciò che è suo) equivale a preoccuparsi che agli uomini
si insegni a non privare con violenza o frode il prossimo di tutto ciò che grazie all’autorità sovrana gli
appartenga. Fra le cose che un uomo, quelle a lui più care sono innanzi tutto la vita e le membra; seguono
(per la maggior parte degli uomini) quelle che riguardano l’affetto coniugale e, dopo queste, le ricchezze e i
mezzi di sussistenza. A tutte queste cose fanno riferimento il sesto, settimo, ottavo e nono Comandamento.
Infine anche l’intenzione di voler compiere azioni malvagie costituisce ingiustizia. Questo è il senso del
decimo Comandamento. Hobbes passa a criticare le Università inglesi del suo tempo; le quali non educano
adeguatamente gli uomini. Le diseguaglianze nello stato politico, dal punto di vista dei diritti, sono tra il re e
i sudditi; così come il re non è che un rappresentante in terra del Re dei re (Dio), ai cui Comandamenti deve
accordare la sua prassi politica. Quando vengono stabilite imposte per la difesa dello Stato, tutti gli individui
devono contribuire egualmente nel finanziare gli eserciti; mentre nel caso le tasse siano rivolte ai consumi,
ognuno paga rispetto a quello che usa. Chi non è in grado di provvedere al proprio sostentamento deve
essere aiutato dall’autorità pubblica con leggi di assistenza statali. Alla cura del sovrano appartiene il fare
buone leggi: ovvero una legge che non sia ingiusta. Una buona legge è quella che è necessaria per il bene
del popolo e al tempo stessa perspicua. La legge non deve opprimere gli uomini, ma consentire ad essi di
realizzare le loro azioni nei limiti in cui queste non ledano chi le compie o altri. Non ci sono leggi istituite dal
sovrano che vanno contro l’interesse dei sudditi, infatti, non si può separare il bene del sovrano da quello
del popolo. È debole il sovrano che ha i sudditi debole. La perspicuità consiste nella chiarezza delle leggi;
ovvero occorre adottare poche parole in grado di evitare qualsiasi fraintendimento o interpretazione
ambigua. Il sovrano ha anche il compito di punire e ricompensare. Ora, poiché il fine della punizione, lungi
dall’essere la vendetta e lo sfogo della collera, è la correzione sia del delinquente sia, attraverso l’esempio
dato a quest’ultimo degli altri. Le punizioni più violente devono essere inflitte per quei crimini che mettono
maggiormente a rischio l’incolumità dei sudditi. Per ciò che concerne invece le ricompense, esse vengono
dispensate dal sovrano a coloro che hanno servito correttamente lo Stato; la ricompensa varia a seconda
dell’importanza del fine che si è portato a termine per il bene pubblico. Hobbes sostiene che i migliori
consiglieri statali sono quelli completamente disinteressati alla dinamiche di potere. Essi devono possedere
due caratteristiche fondamentali: conoscenze tecniche e un certo grado di esperienza pratica in merito al
loro campo di competenza. Alla fine del capitolo Hobbes parla della figura del comandante: egli deve farsi
rispettare dalle truppe e allo stesso tempo deve rispettare l’autorità sovrana. L’autorità pubblica
rappresenta una Corte di giustizia “artificiale” prodotta dagli uomini che l’hanno voluta; vi è però un’altra
Corte di giustizia naturale, presente nella coscienza di ciascun individuo, qui regna Dio le cui leggi si
configurano come “naturali” in quanto Egli è l’autore della natura e come leggi rispetto allo stesso Dio in
quanto Re dei re. Capitolo trentunesimo: il regno di Dio per natura Per una completa conoscenza dei doveri
civili manca soltanto di sapere quali siano le leggi divine; tale conoscenza è fondamentale poiché ci
permette di comprendere se il sovrano sta agendo conformemente o meno alla volontà divina. Tutti gli
uomini sono soggetti al “regno” di Dio, anche coloro che trascurano la fede, ma sono suoi sudditi solo
coloro che credono nella sua esistenza, tutti gli altri (atei, agnostici, scettici ecc.) sono suoi nemici. Dio
rende note le sue leggi in tre maniere: con i dettami della “ragione naturale”, con la “rivelazione”, e con la
“voce” di qualche “uomo” (eletto), al quale Dio conferisce la capacità di compiere miracoli. Ne deriva una
triplice parola divina: 1)razionale 2) sensibile e 3) profetica; a cui corrispondono tre strumenti che ci
permettono l’ascolto di ciascuna di queste parole: la retta ragione, il senso soprannaturale e la fede.
Quanto al senso soprannaturale, esso è un’ispirazione divina che si manifesta nei singoli individui in
maniera sempre diversa e personale. Per quanto riguarda invece la parola razionale e profetica: nella prima
Dio elargisce la sua parola per mezzo dei dettami della ragione che se ascoltati dall’uomo lo conducono
verso il bene ed il giusto; mentre la parola profetica fu concessa a Dio agli Ebrei (popolo eletto), sotto forma
di leggi positive (i Comandamenti) che Egli donò al profeta Mosè, il quale a sua volta le dispensò al popolo
ebraico. Le leggi divine non sono altro che quell’insieme di virtù morali e razionali presenti nelle menti di
tutti gli uomini e di cui Hobbes ha parlato nel capitolo XIV e XV (come l’equità, la giustizia, la misericordia,
l’umiltà ecc.). In queste ultime pagine della seconda parte l’autore si concentra su come dobbiamo onorare
Dio. I segni di onore sono diversi e si esplicitano o con atti interiori o con azioni concrete; inoltre bisogna
distinguere tra il culto naturale che si concretizza con atti morali come la generosità o la bontà e il culto
convenzionale ovvero quell’insieme di cerimoniali che vengono compiuti per chiedere aiuto (tramite la
preghiera) o ringraziare (tramite il ringraziamento) la divinità. Hobbes accenna anche all’attributo per
eccellenza che deve avere il Re dei re ovvero l’esistenza e ci dice che occorre evitare di conferire attributi o
figure finite a Dio, il quale è un essere infinito e causa del mondo.

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