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THOMAS HOBBES

Nasce a Westport il 5 aprile 1588. Suo padre, Thomas, era un ministro anglicano, ma fu rimosso dal
suo incarico ed abbandonò la famiglia, che fu presa a carico dal fratello maggiore Francis. Studia,
inizialmente, nella scuola parrocchiale di Westport, poi alla scuola di Malmesbury, poi passò ad un
istituto privato, dove studia greco e latino. Nel 1603, grazie allo zio, entra al Magdalen Hall College
di Oxford, dove conseguirà nel 1608 il baccalaureato delle Arti. Nello stesso anno diviene
precettore di William Cavendish, con cui intraprese nel 1610 un grand tour, che lo portò in Francia
ed in Italia. A Parigi conobbe Gassendi e frequentò circoli libertini, mentre in Italia conobbe Galilei.
Nel 1640 si rifugia a Parigi per sottrarsi alle vicende drammatiche della guerra civile inglese, in cui
lui sostenne la monarchia, infatti divenne anche precettore del principe Carlo di Galles, figlio del re
Carlo 1°, nel 1646. A Parigi scrive le “Obiezioni sulle Meditazioni”, che conteneva tutte le critiche
e le obiezioni rivolte alla filosofia cartesiana, che fece arrivare al filosofo francese tramite padre
Mersenne. Nel 1651 si stabilisce nuovamente presso la famiglia Cavendish e si occupa delle critiche
e delle polemiche, tra cui quella del vescovo anglicano di Derry, Jhon Bramhall, contro il quale
difese le tesi sulla corporeità di Dio. Muore il 4 dicembre 1679, all’età di 91 anni a Hardwick Hall,
nel Derbyshire, in una delle dimore dei Cavendish.
La sua prima pubblicazione fu la traduzione inglese della “Guerra del Peloponneso” di Tucidide,
nel 1628. Scrive una trilogia in cui espone in modo sistematico il suo pensiero: “De cive” (Il
cittadino) nel 1642, “De corpore” (Il corpo) nel 1655 e “De homine” (L’uomo) nel 1658. La sua
opera più importante è il “Leviatano”, pubblicato nel 1651, grande classico dell’assolutismo
politico.
Tutti gli animali possiedono la ragione, in maniera però limitata, sanno appagare i propri desideri,
prevedono il futuro dall’esperienza passata. Ma l’uomo è capace di prevedere e progettare, sulla
base dell’esperienza passata siamo in grado di stabilire quale condotta seguire e come adoperare per
raggiungere i propri fini, questo è possibile perché siamo in grado di ragionare, che è possibile
grazie al linguaggio. Attraverso il linguaggio, disponiamo di parole, che sono strumenti che
adoperiamo per organizzare l’esperienza. Le parole sono utili, diversamente dalle concezioni
metafisiche ed innatiste che abbiamo precedentemente studiato, il concetto non ci serve a cogliere
l’essenza delle cose, le parole sono strumenti/segni e i concetti stessi sono semplicemente delle
generalizzazioni che ci consentono di usare il pensiero per governare l’esperienza. Concezione
simile a quella nominalista. Il ragionamento è un calcolo, quando ragioniamo sottraiamo o
addizioniamo concetti, un giudizio è l’addizione tra un soggetto ed un predicato. Come ci dice nel
suo trattato “De corpore”, in cui definisce l’uomo con l’addizione tra il concetto di razionale, corpo
ed animato. Come un sillogismo è un’addizione tra più giudizi, anche il ragionamento per Hobbes è
uno strumento di calcolo tra più concetti. Infatti la forma generale del ragionamento è quella di un
sillogismo ipotetico: se un qualcosa è uomo è anche animale. Se qualcosa è animale è anche corpo.
Se qualcosa è uomo, è anche corpo. Addizionando uomo+animale e poi animale+corpo, per la
proprietà transitiva si potrà addizionare anche uomo e corpo. Il sillogismo ci porta a conoscere le
cause delle cose, secondo Hobbes, la conoscenza è uno scire per causas (conoscere attraverso le
cause), conoscere che cos’è qualcosa conoscendone le cause. Una vera conoscenza deve andare
dalla causa all’effetto, secondo Hobbes, gli esseri umani possono conoscere soltanto ciò di cui sono
la causa, come pensava anche Giambattista Vico. Noi conosciamo la causa delle verità
matematiche, perché per Hobbes siamo noi che poniamo le basi/ le leggi della matematica, siamo
noi che essendo la causa delle realtà morali e politiche, possiamo conoscere le verità morali e
politiche, perché noi, assieme ai nostri comportamenti, ne siamo la causa. Le uniche scienze certe
sono quelle morali e politiche e quelle matematiche. Hobbes vuole costruire una scienza politica
che abbia i caratteri geometrici, matematici e la certezza delle conoscenze scientifiche.
Diversamente da Cartesio, da Galilei, da Bacone, non abbiamo una conoscenza altrettanto certa
delle cose fisiche, in quanto non ne siamo autori noi, ma Dio. Dei fenomeni naturali partiamo dal
fenomeno stesso, dall’effetto, per giungere alle cause. Dunque ne abbiamo una conoscenza non
certa, soltanto probabile. Hobbes è un sostenitore della concezione materialistica della realtà, cosa
che si deduce anche dalle obiezioni alle concezioni di Cartesio, solo il corpo esiste, per Hobbes
anche Dio sarebbe dotato di un corpo, in quanto qualcosa di incorporeo non può esistere. Tutto ciò
che esiste è corpi e tutto ciò che esiste e movimento dei corpi, anche le nostre sensazioni, quando
sentiamo le qualità sensibili di un oggetto, è perché quell’oggetto ha modificato il nostro corpo,
prodotto un movimento, una modificazione nei nostri organi di senso. Talvolta una eco di questo
movimento persiste nella nostra mente e ci ricordiamo delle cose che attraversano la nostra
immaginazione anche quando non sono presenti. Il ricordo non è altro che una residua vibrazione
che c’è nel mio corpo, prodotta da una sensazione effettiva e concreta che ha prodotto quell’oggetto
sul mio corpo. Anche la nostra anima è materiale, come per Democrito (anima costituita da atomi
più veloci).
Hobbes era un materialista anche sul piano etico, come in Spinoza, ma in tutt’altro contesto, non
esistono bene e male in astratto, non c’è una norma astratta che li distingua, non sono iscritti nella
natura delle cose, come per la concezione religiosa cattolica. Per Hobbes è bene ciò che serve
all’individuo, ciò che all’individuo piace e male ciò che non piace. È bene ciò che desideriamo, è
male ciò che odiamo. Ciò può avvenire soltanto nello stato di natura. Fino al momento in cui non
nasce lo Stato, di lì in poi, sarà lo stato a scegliere ciò che bene e ciò che è male. Si alternano nella
mente di un uomo desideri diversi, le cui azioni portano conseguenze negative e/o positive, stato di
deliberazione, stato che termina con l’atto della volontà, che decide di agire o non agire. Per Hobbes
non esiste un fine ultimo, se esistesse un fine ultimo e lo raggiungessimo, non esisterebbero più
desideri e quindi poi saremo vivi o morti? La vita è movimento e la morale è costituita da desideri
(Il desiderio è vita, come per il conatus di Spinoza), dunque sarebbe impossibile l’esistenza di un
fine ultimo. Inoltre l’uomo non è libero, simile a Spinoza, ma diverso contesto, la nostra azione è
determinata dall’insieme delle condizioni in cui si realizza. Siamo determinati, siamo condizionati,
siamo cause necessarie. Concezione che è fondamento di una scienza, se le persone fossero libere
non potrebbe esistere una scienza geometrica della politica, potrebbero agire in modo non causato,
imprevedibile.
Il pensiero politico di Hobbes si inserisce in una tradizione contrattualista e giusnaturalista. Una
prima formulazione di questa prospettiva contrattualistica vi è stata con l’olandese, padre del
giusnaturalismo, Ugo Grozio, nato nel 1583 e morto nel 1645. Autore di un’importante opera,
pubblicata nel 1625, “Il diritto della guerra e della pace”, in cui troviamo i medesimi concetti che
verranno poi ripresi e sviluppati da Hobbes, quello di contrattualismo e giusnaturalismo. Secondo
Grozio prima della formazione dello stato, della nascita delle leggi positive, vi è uno stato che si
chiama stato di natura, questa condizione per Grozio, diversamente da Hobbes, è caratterizzata da
uno diritto naturale, ius naturalis, questo diritto è un diritto razionale. Secondo questa concezione
tutti gli esseri umani hanno per natura alcuni diritti fondamentali, che sono inerenti alla loro stessa
ragione, come la libertà, il diritto alla vita, indipendenti da qualsiasi legge positiva o precetto
divino. Questa concezione si chiama giusnaturalismo, per cui prima della formazione di uno stato,
esiste uno stato di natura caratterizzato da delle leggi fondamentali, di cui ogni uomo è dotato. Lo
stato civile nasce, secondo Grozio, tramite un contratto, con cui formulano questa società civile e
riconoscono un sovrano a cui si sottomettono. A differenza della tradizione classica che vedeva la
società civile come un qualcosa di naturale, gli uomini non sono socievoli o politici per natura, idea
già intuita da Machiavelli, che aveva sostenuto che lo stato è una costruzione della ragione,
qualcosa che nasce dall’utilità degli esseri umani. Con Grozio, Hobbes e Locke questa concezione
viene formalizzata e sviluppata tramite i due concetti di giusnaturalismo e contrattualismo. Hobbes
vuole concepire una scienza politica che abbia il carattere geometrico della scienza naturale/fisica,
un vero e proprio geometrismo politico, fondato sulla necessità, questa necessità, in base a cui ogni
essere umano agisce, fa sì che si possa costruire in relazione alla politica una vera e propria scienza.
I postulati, sulla base dei quali viene costruita questa scienza, sono due. Il primo è la cupiditas
naturalis, desiderio naturale, ciascuno di noi, prima che nasca la società civile, è caratterizzato da
questo desiderio naturale di godere dei beni comuni, per soddisfare le nostre necessità. Questa
condizione rende lo stato di natura uno stato in cui tutti sono contro tutti, bellum omnium contra
omnes. Ma noi siamo caratterizzati, come enunciato nel secondo postulato, anche da una ratio
naturalis, una ragione naturale, che ci fa capire che la morte è il peggiore di tutti i mali e se
vogliamo tutelare la nostra vita, bisogna limitare il nostro desiderio naturale. Secondo Hobbes, la
nostra natura è caratterizzata dall’istinto, ognuno di noi tende soltanto a lottare per la propria
sopravvivenza. Nega l’esistenza di un amore naturale dell’uomo verso il suo simile, tutto ciò che
l’uomo fa, lo fa per il proprio tornaconto, siamo delle creature egoiste. La condizione che l’uomo
vive nello stato di natura è una condizione che, egoisticamente, non può sostenersi, in quanto
avendo tutti diritto su tutte le cose, si arriverebbe anche all’omicidio per garantire la propria
sopravvivenza. Questa condizione è una condizione in cui anche il più forte rischia, perché gli altri
associati riuscirebbero a prevalere su di lui. Per Grozio, nello stato di natura, gli esseri umani sono
già dotati di ragione, per Hobbes è uno stato puramente istintuale. Lo stato di natura per Hobbes è
una pura ipotesi teorica, che corrisponde nella realtà a qualche cosa, ci sono delle condizioni in cui
l’umanità sembra ricadere nello stato di natura o testimoniare l’esistenza di questo stato dominato
da pura violenza ed istinto, come per la guerra tra stati e l’anarchia. Secondo Hobbes, diversamente
da Grozio per cui nello stato di natura ci sono diritti naturali inviolabili, nello stato di natura non
esistono bene o male, non esistono leggi, condizioni in cui non vi è sviluppo delle arti e culturale e
commerciale, non vi è la tutela di nessun prodotto del lavoro. Questa condizione è così pericolosa
che gli esseri umani, dotati di ragione, decidono di uscire da questa stessa condizione per tutelare la
propria sopravvivenza. Nella ragione vi è una legge naturale, lex naturalis, una legge razionale che
dice che per riuscire a tutelare la propria sopravvivenza, si deve necessariamente limitare la nostra
libertà. La ragione è uno strumento di calcolo che ci fa comprendere che se noi continuiamo a
vivere secondo le leggi del diritto naturale, rischiamo di morire/ essere uccisi dagli altri. La ragione
ci propone 19 leggi, di cui le prime tre sono le più importanti. La prima legge è quella per cui la
ragione ci dice che se si vuole sopravvivere si deve ricercare la pace, se non può essere ottenuta si
devono utilizzare tutti gli ausili e i vantaggi della guerra, pax est quaerenda. La seconda legge è
quella per cui la ragione ci dice, per ottenere la pace, che non bisogna fare agli altri, ciò che non
vogliamo che capiti a noi, ius in omnia est retinendum. Bisogna dunque rinunciare a questo diritto
assoluto su tutto, possiamo rinunciare a questo solo se anche gli altri lo fanno. Questa legge infatti,
implica la terza che tutela il rispetto per i patti, pacta servanda sunt, bisogna stare ai patti, dunque
osservare l’accordo stipulato. Queste leggi sono strumenti che garantiscono la sopravvivenza degli
esseri viventi, si tratta di leggi prudenziali, ma è prudente seguire queste leggi prudenziali nello
stato di natura? No, sono valide ma non efficaci, perché per Hobbes gli esseri umani non riescono
ad uscire dallo stato di natura, se non attraverso la nascita dello stato. Cosa che può accadere tramite
un contratto, decidendo di conferire/trasferire tutti i nostri poteri a qualcun altro, che faccia
rispettare le leggi di natura e gli accordi/ i patti. Questa cessione dei propri diritti e poteri avviene
sulla base della paura per la propria vita, per paura di essere uccisi. C’è bisogno di un potere, che
tramite il timore o l’uso della forza, faccia sì che gli uomini non si comportano tra loro come
animali selvaggi. Questa è l’idea della fondazione dello stato assoluto. Questo sovrano, unico ad
avere poteri e diritti, identificato con il mostro biblico del leviatano/persona civile (mostro biblico,
simile ad un coccodrillo, descritto nel libro di Giobbe, come il più terribile delle creature terrestri,
terribile, ma benigno), che può essere un individuo o un’assemblea/parlamento/aristocrazia, appare
democratico ma non lo è, (anche se lui individua la monarchia assoluta, modello esemplare è Luigi
14esimo, come la forma di governo che risponde meglio ai requisiti di sovranità), Hobbes è un
assolutista, dunque che sia un individuo unico o un’assemblea deve essere assoluto, legibus
solutus, (AB SOLUTUS- SCIOLTO DA QUALSIASI VINCOLO), ha tutti i poteri. Il potere è,
inoltre, indivisibile, non può essere distribuito tra poteri diversi che si limitino a vicenda
(diversamente dalle concezioni di Montesquieu e Locke, potere assoluto, dunque privo di limiti
costituzionali, diversamente dal costituzionalismo di Locke). Il fondamento di questo stato è la
paura, nello stato di natura ognuno vivrebbe con il continuo terrore di poter morire, da questo
terrore ci possiamo salvare solo tramite un potere assoluto forte, che con la sua capacità di
coercizione obblighi tutti a rispettare la vita degli altri. Per essere sicuri che la nostra vita sia al
sicuro dobbiamo appellarci ad un sovrano, non ad un diritto naturale. Siccome in natura il sovrano
non esiste, il sovrano nasce da un patto tra gli esseri umani. La ragione ci spinge ad uscire dalla
condizione dello stato in cui tutti sono contro tutti, ciò avviene tramite un patto con cui gli esseri
umani cedono tutti i propri diritti (libertà, proprietà) ad un sovrano, a patto che il diritto alla vita non
venga mai violato, dunque il sovrano è l’unica persona la cui volontà prevale. Lo stato è come un
Dio mortale che protegge le nostre vite e la nostra sicurezza.
Secondo Hobbes il patto fondamentale che dà vita allo stato è un patto unilaterale, cioè tra gli
individui/gli esseri umani, tra i sudditi, ma non i sudditi del sovrano, il sovrano non partecipa a
questo patto. Il sovrano è fuori dal patto, dunque non vincolato alle regole del patto, nel mondo di
Hobbes il sovrano non deve neanche rispettare la legge, in quanto fuori dalla legge. Ed è inoltra
irreversibile, non si può tornare indietro, soltanto quando si cade nel disordine, il sovrano non
riesce più a proteggere il diritto alla vita e si cade nell’anarchia, ma ciò avviene quando il potere
stesso viene meno. Il giudizio sul bene e sul male appartiene allo stato, non c’è una morale prima
dello stato. Prima dello stato ciò che secondo Hobbes siamo legittimati a fare è perseguire la nostra
sopravvivenza, ad ogni costo. Anche l’etica/la morale nasce con la legge positiva, si parla di
giuspositivismo, che contrariamente al giusnaturalismo (viene prima il diritto naturale), che prevede
la prevaricazione del diritto positivo su quello naturale. Nel patto originario vi sono due aspetti il
pactum unionis, in cui gli individui si uniscono formando la società, mentre il pactum
subiectionis, con cui cediamo i nostri diritti al sovrano a cui ci assoggettiamo al sovrano. Per
quanto riguarda il giusnaturalismo, dunque Locke, questi due patti sono distinti, mentre per Hobbes,
per quanto riguarda il giuspositivismo, questi patti sono contemporanei, non c’è società senza stato.
Non c’è società senza potere assoluto.
Secondo Hobbes la chiesa è subordinata allo stato, in quanto ogni potere deve essere presente nel
cosiddetto leviatano. Come in effetti è accaduto anche dal punto di vista storico con Luigi 14esimo
e il gallicanesimo, ma anche i grandi totalitarismi, nel periodo del fascismo esisteva uno slogan
“Tutto nello stato, nulla contro lo stato, nulla fuori dallo stato”. Lo stato ingloba in sé anche
l’autorità religiosa e non potrebbe riconoscere un’autorità religiosa indipendente.

JOHN LOCKE
Locke è un pensatore inglese del '600, nasce a Wrington il 29 agosto del 1632. Studia ad Oxford,
dove consegue il titolo di maestro delle arti (1658). Occuperà la cattedra di studi naturali e
medicina, sempre ad Oxford, pur non avendo conseguito la laurea in queste materie. Ha un ruolo
anche politico, fu il collaboratore di una personalità di rilievo nella politica di questo tempo Lord
Shaftesbury. Quando la famiglia cade in disgrazia si ritirò in Franca, nel 1675. Partecipa in modo
attivo alle vicende politiche del '600, che portano alla 2a rivoluzione inglese, la Bloodless
Revolution, dunque al termine della dinastia degli Stuart sul trono inglese. Nel 1698, al seguito di
quest’ultima torna in patria dopo un esilio volontario in Olanda, poiché fu incolpato di alto
tradimento dopo essersi avvinato nuovamente alla famiglia Shaftesbury. Nel 1691 accetta di essere
ospite presso il castello di Oates di Sir Francis Masham. Per poi morire il 28 ottobre 1704. Locke è
uno dei pensatori di punta della visione liberale che si instaura con gli Orange.
Tra le sue opere più importanti troviamo: "il saggio sulla tolleranza" (1667), "il saggio sull'intelletto
umano" (1690, in cui viene presentata nel complesso la sua filosofia) e i “due trattati sul governo"
(1690, opera politica più importante).
Viene considerato il fondatore dell'empirismo. L’empirismo è quella concezione per cui la fonte e il
criterio di verifica di tutte le nostre conoscenze è l’esperienza. Locke riprende la tradizione inglese,
in particolar modo il pensiero di un autore della tarda scolastica, Guglielmo da Ockam, che mette in
discussione la metafisica tradizionale ed è uno dei fondatori del pensiero tradizione inglese,
pensiero per cui la conoscenza umana si fonda sull'esperienza. Pur essendo Locke uno studioso di
Cartesio, da cui riprende alcuni concetti e la terminologia, questo pensatore ha una concezione
contraria al filosofo francese, è lontano ed è un critico di qualsiasi innatismo e razionalismo, perché
è convinto che tutto ciò che noi conosciamo, lo possiamo conoscere soltanto tramite ľesperienza.
Prima dell'esperienza la nostra mente, dice Locke, è una tabula rasa. Difatti è un pensatore che
rovescia alcuni dei concetti fondamentali del cartesianesimo. Locke, per prima cosa, vuole stabilire
cosa si può realmente conoscere, perché alcune cose superano la nostra capacità conoscitiva. La
ragione è una guida attendibile per la nostra conoscenza, ma limitata, non è unica, non è infallibile,
non può ricavare le idee e i principi da sé stessa. La prima indagine che va fatta è quali siano i limiti
della nostra ragione? Concetto che troveremo poi anche in Kant, un'indagine sui limiti della ragione
umana. Locke stesso spiega, all'inizio del "saggio sull'intelletto umano", in un'epistola, utilizzata
come premessa, che durante una discussione tra amici, riguardo la filosofia pratica (etica/morale),
era sorto il problema prima di affrontare questi temi, di indagare sulle possibilità e sui limiti della
nostra ragione. Locke scopre, in questa ricerca, che tutto ciò che conosciamo deve essere costituito
in primis da idee semplici, che sono elementi che noi ricaviamo dall'esperienza, che non possiamo
trarre dalla nostra stessa ragione. Sulla base di questi elementi fondamentali si possono creare anche
idee complesse, ma il materiale del nostro sapere deve sempre derivare dall'esperienza. La nostra
prima fonte di conoscenza è ľesperienza, da questa ricaviamo due tipi di idee: le idee che
provengono dalle sensazioni del mondo esterno (idee di sensazione) e le idee che provengono
dall'esperienza del senso interno, dalla riflessione su noi stessi (idee di riflessione, sensazione,
pensiero, volontà, percezione, cose che conosciamo internamente). Queste sono idee semplici ed
escludono qualsiasi elemento innato, in quanto che se esistessero dovrebbero essere presenti anche
nei bambini e nei selvaggi, che non presentano il concetto di non contraddizione. Delle idee bisogna
essere consapevoli, i selvaggi e i bambini non presentano alcuna consapevolezza, sono
prevaricatori, pensano alla propria sopravvivenza, non hanno alcun principio morale innato. Alcuni
studiosi rispondevano dicendo che li possedevano, ma non sapevano parlare, ma nelle azioni lo si
può dedurre. Locke insiste che anche il concetto di Dio che si riteneva innato, come abbiamo visto
in Cartesio, secondo Locke non è vero in quanto esistono diverse concezioni di dio e ci sono persino
religioni che non concepiscono alcun dio. Le idee complesse, invece, sono il frutto della
composizione di più idee semplici, come ľidea di sostanza. Sono il frutto del lavoro del nostro
intelletto, ma presuppongono le idee semplici, che provengono necessariamente dall'esperienza.
Logicamente ciò vuole dire che anche queste, anche le idee complesse, provengono dall'esperienza.
Al massimo noi possiamo rielaborare ciò che conosciamo tramite ľespierenza, grande limite della
ragione umana. Fra le idee complesse troviamo: le idee di sostanza, le idee di modi e le idee di
relazioni. Quando noi vediamo una mela, pensiamo che ci sia un substratum su cui vengono poste le
sue qualità (il colore, la forma, il gusto ed il profumo), percepiamo le sue caratteristiche in realtà,
non la "mela", sento un certo sapore o odore, una certa forma e vedo un certo un colore. Noi siamo
abituati a percepire le manifestazioni di questa sostanza che è la mela. Locke dice che in realtà noi
percepiamo soltanto sensazioni, idee semplici distinte tra loro, la nostra mente mette insieme queste
diverse idee per abitudine, ma le nostre sensazioni non ci danno la mela. Cioè osservando la nostra
mente sempre determinate caratteristiche insieme, pensa che vi sia un substratum, una sostanza, che
secondo Locke esiste, ma è inconoscibile, diversamente da Hume, pensatore più radicale e coerente
per cui la sostanza non è soltanto inconoscibile, ma non esiste proprio. Essendo Locke un empirista,
è dunque anche un nominalista, cioè per Locke le idee generali sono soltanto dei segni, la
categorizzazione non viene meno, ma è puramente convenzionale (Come abbiamo già visto con
Hobbes). Le idee universali non sono delle essenze che noi conosciamo, sono semplicemente dei
segni/strumenti che noi utilizziamo per mettere insieme, che sulla base dell'esperienza, hanno delle
caratteristiche in comune. Le idee sono dunque delle rappresentazioni mentali, non delle essenze o
entità platoniche. Dio lo si può conoscere risalendo dagli effetti alle cause, tramite un ragionamento
simile a quello di Tommaso D'Aquino, ragionamento incoerente con il resto del suo pensiero, anche
se si risale a Dio dall'esperienza, dai suoi effetti, ciò non pone in me un'idea effettiva di Dio/una
traccia netta della sua esistenza, dell'esistenza di un Dio causa. Ci sono le cose nel mondo, ci deve
essere una causa di queste cose, perché nessuna di queste è autosufficiente, ed arrivo a Dio.
Diversamente da Hume che dice che non sono afferma che dio non esiste, ma che non esiste
neanche ľio, in quanto non si può fare esperienza realmente del proprio io. Sento le mie percezioni,
le mie volontà, il mio umore, ma non posso cogliere/conoscere l’io realmente. Ad esempio se
penso, faccio esperienza dei singoli pensieri, non del pensare, l’unica cosa di cui posso essere certo
è che penso, ho un pensiero, poi un altro e poi un altro ancora. Non posso dire certamente che possa
esistere un solo io e che questo esista. Noi, come soggetto, per Hume, siamo il complesso di idee
semplici. Per Hume non esistono certezze, per Locke esistono, ma sono poche. La conoscenza è un
accordo tra idee, la percezione di un accordo tra le idee. Locke è un empirista moderato, conserva
alcuni elementi di certezza, per Locke ci sono delle conoscenze certe. La prima conoscenza certa è
la conoscenza intuitiva dell’esistenza del nostro io, da questo punto di vista c’è quasi
un’argomentazione cartesiana. Siamo certi che l’io esista perché se pensiamo e ragioniamo, non
possiamo dubitare della nostra esistenza. Vi è poi una conoscenza dimostrativa certa, che avviene
attraverso prove, non è immediata (sento di pensare esisto), richiede una dimostrazione ed una serie
di passaggi. Questa conoscenza dimostrativa certa è la conoscenza di Dio, attraverso una prova
causale, una delle prove tomistiche, cioè nulla si produce dal nulla, siccome le cose esistono
saranno effetto di qualcos’altro, siccome non si può risalire all’infinito, vi deve essere un ente, un
dio, infinito e perfetto che è causa di tutte le cose. Concezione poco coerente col suo pensiero
generale.
Inoltre Locke, diversamente da Hume, ritiene certa l’esistenza delle cose al di fuori di noi, però
solo quando di esse abbiamo una sensazione attuale. Per conoscere bisogna anche avere fiducia
nelle nostre facoltà. Oltre a queste 3 conoscenze certe, abbiamo solo conoscenze probabili (hanno
valore, ma sono solo probabili. In Cartesio ci ritroviamo dinanzi a sole certezze, ma l’ambito della
conoscenza stessa è molto ristretto, cioè quello matematico e scientifico, persino la sua morale è
provvisoria, in quanto non trova delle certezze razionale su cui fondare la sua dottrina morale), in
cui conta la conformità con l’esperienza passata o la testimonianza di altri uomini. In Locke
abbiamo un vasto mondo di conoscenze probabili, concetto di conoscenza è meno forte. Diversa
dalla conoscenza certa troviamo la fede, che si fonda soltanto sulla rivelazione.
La conoscenza di Locke è una conoscenza che si fonda sull’esperienza, dunque non si può escludere
il presentarsi di un’esperienza successiva che confuti quella precedente. Concetto simile a quello
della scienza moderna. Questo è il motivo per cui l’empirismo rischia di portare ad una vera e
propria disgregazione delle basi della conoscenza, finanche quella scientifica, come succederà in
Hume, cosa che comprenderà Immanuel Kant, che studia all’accademia di Leibniz, ma è uno
studioso di Hume, per questo stesso motivo cerca di fondare nuovamente la conoscenza su una
grande sintesi di razionalismo.
Locke, come dice all’interno del “Saggio sull’intelletto umano”, la sua indagine sull’intelletto nasce
da problemi etici, pur non avendo mi scritto un’opera di etica, però per Locke l’etica deve essere
razionale, orientata al benessere pubblico. Dunque le regole dell’etica devono essere sottoposte alla
ragione, ma il benessere pubblico per Locke consiste nella creazione di uno stato liberale, cioè
uno stato che rispetta la libertà dei cittadini, personale, della proprietà, che rispetti le diverse fedi
religiose. Visione completamente rovesciata a quella di Hobbes, scrive “i due trattati sul governo”,
nel primo trattato (risposta al suo trattato “Patriarca o il potere naturale dei re”, pubblicato nel
1860), critica le tesi di un pensatore assolutista del suo tempo, Robert Filmer, assolutista diverso da
Hobbes, molto più tradizionale, pensa che l’origine del sovrano sia divina, potere del sovrano
assoluto di origine divina (dono divino, dio ha concesso il potere sovrano ad Adamo e tramite
Adamo il potere si trasmette per ereditarietà ai suoi figli), per Hobbes nasce con il patto. Nel
secondo dei suoi trattati espone il suo pensiero politico. Secondo Locke esiste una legge di natura,
che è la nostra stessa ragione, ritorno a Grozio. La nostra ragione ci dice che tutti possediamo
un’uguaglianza di diritti, si parla però di diritti reciproci, tutti siamo dotati di alcuni diritti
fondamentali (vita, proprietà e libertà, appartengono alla nostra ragione, sono inalienabili, non si
può rinunciare a questi diritti in quanto intrinsechi) che dobbiamo rispettare in noi stessi e negli
altri. Lo stato di natura è governato dalla legge di natura, è uno stato in cui tutti siamo uguali e
indipendenti, contrario di Hobbes. Anche se non ci troviamo nell’ipotesi pessimistica di Hobbes,
anche Locke immagina che questi diritti possano essere violati, nello stato di natura non si ha la
certezza che essi vengano da tutti rispettati. Gli uomini posseggono anche il diritto alla legittima
difesa ed alla giustizia, un diritto non illimitato, ma proporzionati (giudizi validi, ma potrebbero
essere violati). Ci troviamo in un sistema in cui facilmente si può cadere nella vendetta, dunque
questo stato di pace potrebbe divenire uno stato di guerra. Secondo Locke bisogna rinunciare a
qualcosa, non ai nostri diritti, ma al nostro diritto di esercitare la giustizia/difendere i propri diritti.
Lo stato nasce per rendere efficaci i nostri diritti, abbiamo bisogno di un’autorità terza di uno
sovrano che li faccia rispettare. È necessario uscire dallo stato di natura per rendere efficaci i nostri
diritti, uscendo dallo stato di natura non rinunciamo ai nostri diritti, tranne quello di farci giustizia
da soli, nasce un potere, che nasce con il nostro consenso e tramite un patto che avviene anche con
il sovrano, dunque anche il sovrano è vincolato al patto e soggetto alle leggi, non è
absolutus/assoluto.
Nel 1689 pubblica la “Lettera sulla tolleranza” in cui difende la libertà di coscienza. Per Locke stato
e chiesa sono due realtà differenti, che hanno interessi e fini diversi. Lo stato deve tutelare i beni
civili, la nostra vita, la nostra libertà e la nostra proprietà, mentre la chiesa ha come obbiettivo la
salvezza dell’anima, cosa che non ha nulla a che fare con il potere civile. Differenziazione già
presente nel Monarchia di Dante. Del resto il potere civile agisce attraverso la coercizione, cioè ci
costringe ad attenerci allo stato, mentre credere/avere fede è un atto di libertà, la salvezza
dell’anima richiede libertà. Non ha senso costringere qualcuno a credere e professare una religione,
non si può costringere qualcuno a salvarsi, la costrizione non ti porta alla salvezza. Diversa era la
concezione di Agostino. La tolleranza di Locke aveva un limite, giusta verso tutti tranne verso i
cattolici, i musulmani e gli atei. Gli atei perché se una persona non crede in Dio, non si sente tenuto
a rispettare i patti. Locke si mantiene legato alla tradizione, cosa che invece comprenderà un grande
pensatore francese del fine ‘600, Pierre devil, che è possibile anche una società di atei, che
rispettano la legge in nome di una legge generale, non perché esiste un dio. Poi per i cattolici e i
musulmani perché credono in un’autorità religiosa, chiesa o sultano, che sono allo stesso tempo
autorità civili. Locke è contrario ad ogni forma di fanatismo e superstizione, per cui le verità di fede
del cristianesimo non entrano in contrasto con le verità di ragione, per questo definisce questa
religione come “ragionevole”.

DAVID HUME
Autore insidioso, distrugge le basi della conoscenza umana e della scienza moderna della fisica
newtoniana. Kant dirà che Hume lo ha risvegliato dal sonno dogmatico.
Nasce il 26 aprile 1711 a Edimburgo, in Scozia, da una famiglia ricca ma non nobile. Rimane
orfano di padre a soli due anni. Nel 1725 frequenta l’Università di Edimburgo, studia
giurisprudenza. Cerca di fare l’avvocato a Bristol, ma dopo aver fallito, decise di recarsi a Parigi
dove rimase per tre anni (dal 1734 al 1737) e dove si dedica agli studi filosofici. Scrive in questo
periodo il “Trattato sulla natura umana”, pubblicato tra il 1739 e il 1740. Tornato in Inghilterra
pubblica nel 1742 la prima parte dei “Saggi morali e politici”. Tra il 1745 e il 1748 ebbe diversi
incarichi politici, nel ’48 pubblica la sua opera “Ricerca sull’intelletto umano”, mentre è a Londra.
Negli anni 60, a Parigi, entra in contatto con la filosofia cartesiano e gli ideali illuministi. Conosce
Jean-Jacques Rosseu, che ospita in Inghilterra, ma il filosofo francese aveva manie di persecuzione,
dunque finirono per trovarsi in conflitto. Muore il 25 agosto del 1776 ad Edimburgo.
Tra le sue opere più importanti ricordiamo il “Trattato sulla natura umana”, la “Ricerca
sull’intelletto umano” e la “Ricerca sui principi della morale” vuole elaborare una scienza della
natura su base sperimentale, una sorta di Newton della natura umana. Importante è il tema del
sentimento, in quanto secondo Hume se noi vogliamo comprendere la nostra conoscenza del
mondo, dobbiamo comprendere la natura umana, il soggetto umano. Discorso simile a quello di
Cartesio, solo che con Cartesio il soggetto umano è l’io, inteso come una ragione di tipo geometrico
e matematizzante, in Hume, molto più che dalla razionalità, è caratterizzato dal sentimento/istinto
ed abitudini. Il centro della conoscenza è la natura umana costituita da sentimenti e credenze.
Secondo Hume, come dice nel primo libro del “Trattato sulla natura umana”, la nostra conoscenza
si ferma al percepire, possiamo conoscere solo alcuni contenuti della mente, le percezioni, che si
dividono in due classi:
- Le impressioni, che sono più chiari, vivide ed evidenti
- Le idee, che sono immagine illanguidite, pallide, meno forti
Non possiamo avere nessuna immagine nella nostra mente che non sia prima un’impressione, cioè
abbiamo nella nostra mente solo cose di cui facciamo esperienza, o immagini di cose di cui
facciamo esperienza, oppure impressioni o idee che sono un composito di cose di cui facciamo
esperienza. Ma tutto proviene dall’esperienza. La realtà si riduce, per quello di cui noi conosciamo,
alle nostre idee attuali, cioè alle nostre percezioni attuali. Possiamo elaborare un’idea, ma non
possiamo farlo se non c’è un’impressione, quindi tutta la nostra conoscenza è legata all’esperienza
che facciamo. Questo vuol dire che, non soltanto non esistono concetti astratti/idee
generali/universali, ma soltanto idee/concetti individuali, assunte come segni di altre idee particolari
a esse simili, dunque idee legate alle esperienze sensibili. Concetto già visto con Locke.
Conosciamo solo ciò di cui facciamo esperienza, noi facciamo esperienza di esseri particolari, non
di concetti universali. Per abitudine poniamo sotto etichette generali tanti esseri/idee particolari,
qualcosa di psicologico. Con Hume la conoscenza è ridotta all’esperienza, tutto ciò che sembra
andare oltre l’esperienza è frutto delle nostre abitudini e credenza, dunque qualcosa di puramente
psicologico, l’esito dunque è lo scetticismo: la nostra conoscenza non ci consente di afferrare
qualcosa di vero/reale. Secondo Hume le idee e le impressioni, tramite l’immaginazione, una
“forza gentile” (gentle force), che è l’associazione, si possono mettere insieme, un meccanismo
psicologico, concetto simile in Wordsworth e David Harley. Forza impersonale, che funziona
secondo determinate regole, la nostra mente, quasi automaticamente, associa quelle impressioni che
incontriamo con una certa contiguità nel tempo e nello spazio, associamo le cose per somiglianza
o anche per causalità (in relazioni di causa-effetto). Ma è solo un meccanismo psicologico, infatti
Hume è un critico radicale del principio di causalità, cioè la base di tutta la scienza meccanicistica
(la fisica di Cartesio, Spinoza, che presuppongono un nesso causale, per Hume non c’è nulla che ci
dia una certezza su quello che noi chiamiamo principio di causalità, che è soltanto una nostra
credenza psicologica). Associamo fenomeni diversi per abitudine/credenza che non hanno nessun
fondamento nella realtà, dunque il principio di causalità non è un qualcosa di cui essere certi. Mina
l’impianto della scienza moderna, dice persino che noi non possiamo sapere se domani sorgerà il
sole. Noi per abitudine pensiamo che, essendo sempre successo, per abitudine sorgerà sempre. Ma
anche perché l’esperienza può dirci soltanto qualcosa del presente e del passato, non del futuro,
contando su presupposti fondati sull’uniformità della natura. Arriva persino all’affermare che non è
certo neanche che il pane un domani sarà capace di nutrirci. Secondo Hume noi abbiamo certezza
della relazione fra qualcosa se si tratta di pure idee, conoscenza analitica/puramente a priori, come
quelle matematiche/teoriche. Mentre invece per quanto riguarda le verità di fatto (matters of act),
cioè derivanti dall’esperienza ed in quanto mutevole, è sempre possibile il contrario di cui abbiamo
fatto esperienza fino ad ora e non sono fondate sul principio di non contraddizione. Sul piano logico
non è contraddittorio dire che il sole domani non sorgerà, ma che la somma degli angoli di un
triangolo è di 100 gradi, lo è. Dunque tra le conoscenze matematiche e quelle empiriche non vi è
una differenza di tipo quantitativo, ma di struttura/qualità. La matematica è una scienza a priori, di
pura ragione ed astratte.
Abbiamo l’abitudine/la convinzione che data una causa vi sia un effetto che abbiamo visto svariate
volte, ma ciò non ha alcun fondamento oggettivo, l’esperienza non ci mostra il nesso causale/la
necessità, ma soltanto il succedersi di eventi, vedo un fenomeno accadere dopo un altro, non vedo la
necessità nell’esperienza. Credo che sia necessario perché tante volte un’esperienza del genere e
allora si forma una convinzione puramente soggettiva. Non è possibile capire le cause o gli effetti di
un oggetto, senza farne esperienza o facendo esperienza di una testimonianza che lo afferma.
Anche la nostra credenza del mondo esterno è una semplice credenza, non significa che tutto ciò
che vediamo fuori di noi sia una finzione, cioè qualsiasi gioco della nostra immaginazione,
possiamo inventare con la nostra immaginazione ippogrifi, chimere. Le credenze, anche se
scopriamo che non sono fondate razionalmente, continuiamo a credere in esse, per istinto/abitudine.
Allo stesso modo ci sono delle credenze radicate nei nostri istinti ed abitudini, come la credenza
nell’esistenza continua delle cose, perché abbiamo l’esperienza normale di non vedere delle cose
per un po’ e poi di rivederle/ritrovarle, dunque che anche se una cosa non la vediamo, continua ad
esistere (frutto di un’abitudine). Questa convinzione porta alla credenza semi-filosofica/pseudo-
filosofica dell’esistenza delle cose fuori di noi. Già l’esistenza continua è criticata da Hume,
credenza che nasce da impressioni, che sono discontinue. Dunque la credenza che qualcosa esista al
di fuori di me è insensata, io vedo un oggetto nella mia mente, cosa mi dice che fuori dalla mia
mente continui ad esistere una determinata cosa? L’unica cosa di cui possiamo essere certi sono le
nostre percezioni, dunque noi abbiamo le percezioni di determinate cose, non la cosa in sé.
Hume afferma, inoltre, che l’io non è un’impressione, ma essendo presenti nella nostra mente una
serie di esperienze/impressioni/idee, penso che sotto queste cose vi sia un io/un soggetto, vi
dovrebbe essere un’impressione costante di questo io, che non esiste ed inoltre non si può neanche
fare esperienza dell’io. Hume analizza la credenza nell’unità e identità dell’io. Dunque l’io è un
fascio di percezioni che si susseguono nel tempo. In Hume troviamo la differenziazione tra ragione
e istinto, che verrà poi ripresa nell’800, in chiave romantica, abbiamo una soggettività che è
istinto/abitudine/feeling (sentire), più che ragione. Con Hume farà poi i conti Kant.
La morale di Hume si basa su una morale fondata su istinti ed emozioni, non su principi assoluti ed
astratti (non esiste un concetto di bene o giustizia assoluto), fondata sulla simpatia, che ci permette
di immedesimarci nel dolore e nel piacere altrui. Morale altruistica, non pessimistica/individualista
come Hobbes.

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