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ROBERT WOKLER – ROUSSEAU LA VITA DI UN CITTADINO DI GINEVRA E IL SUO TEMPO

Rousseau coltivò diversi interessi oltre alla politica. Fu un compositore molto ammirato,

e anche l’autore di un importante e dotto Dizionario della musica.

Molte delle sue opere giovanili più importanti trattavano delle arti, delle scienze e della

filosofia della storia, mentre negli ultimi anni Rousseau si entusiasmò soprattutto per la

botanica, a cui dedicò una serie di lettere che, tradotte, divennero un libro di testo molto

popolare in Inghilterra.

Egli nacque nel 1712 a Ginevra, una piccola regione calvinista circondata da grandi paesi

a prevalenza cattolica, in una zona montagnosa che le barriere naturali e la cultura

politica dei cittadini proteggevano dalle invasioni, e soprattutto una repubblica

circondata da ducati e monarchie.

Mentre Diderot, Voltaire e altri furono indotti dalla radicalità del loro impegno e dal

timore della censura a pubblicare anonimamente le proprie opere, Rousseau colse ogni

opportunità per firmarsi come Cittadino di Ginevra, e smise di farlo solo quando fu

convinto che i suoi compatrioti si erano irrimediabilmente traviati.

Nessun autore dell’illuminismo fu così ostile al corso preso dalla civiltà politica e allo

stesso tempo così orgoglioso della propria identità politica.

La madre di Rousseau morì subito dopo averlo dato alla luce, perciò la responsabilità

della sua educazione ricadde sul padre, un orologiaio dal temperamento romantico ed

irascibile, che gli insegnò l’amore per la natura e per i libri, specialmente i classici e i

testi di storia.

Sempre dal padre ereditò gran parte della zelante devozione verso il proprio luogo natale,

dove, gli avevano insegnato, tutti gli uomini sono uguali e regnano la gioia ed il cielo in

terra. Almeno due delle sue opere più importanti, la Lettera a d’Alembert sugli spettacoli

del 1748 e le Lettere scritte dalla montagna del 1764, furono dedicate in particolar modo
alla cultura e al sistema politico della sua città natale.

L’attaccamento al padre e alla città natale, tuttavia, non poterono compensare la perdita

della madre.

Quando aveva ancora quindi anni, Jean-Jacques fu presentato a una baronessa svizzera,

Madame de Warens. All’età di soli ventinove anni, Madame de Warens aveva fatto del

convertire rifugiati protestanti al cattolicesimo una specie di professione; anche

Rousseau venne introdotto nella sua casa e nel suo cuore un’intima ospitalità che ben si

accordava con il travolgente entusiasmo di lui.

Nei dieci anni successivi, prima ad Annecy, poi a Chambéry e, infine, nell’idilliaco ritiro

della valle di Les Charmettes, egli ne divenne l’amante e il discepolo.

Con la sua guida e qualche aiuto dai tutori e confessori di lei, Rousseau completò la

propria educazione, specialmente per quanto riguarda la filosofia e la letteratura

moderna, discipline che prima aveva studiato poco, oltre a cominciare a pensare alla

professione di scrittore.

Per tutto il tempo che furono amanti, e per il resto della vita, Rousseau chiamò Madame

de Warens maman, attribuendole quelle qualità di dolcezza, grazia e bellezza che, come

orfano, egli cercava in tutte le donne di cui avrebbe subito il fascino nel corso degli anni.

Thérèse Levasseur, con cui egli visse dal 1745 circa fino alla morte, e che infine sposò,

era una donna sotto molti aspetti meno attraente, e di gran lunga meno colta:

nonostante l’irresistibile e intatta freschezza, Thérèse non giunse mai a dominare i

sentimenti di Rousseau come aveva fatto Madame de Warens.

Alle due donne più importanti della sua vita Rousseau chiese innanzitutto cure materne,

oltre che gratificazione sessuale.

Proprio per questo non poté mai accettare di avere una propria famiglia e abbandonò i

cinque figli avuta da Thérèse alla sorte incerta degli orfanotrofi.


In seguito Rousseau dichiarò di essere stato troppo povero per potersi prendere cura

adeguatamente dei figli, ma che la sua condotta verso di loro lo riempiva di rimorso e di

vergogna.

Madame de Warens morì nell’estate del 1762 in povertà e abbandonata da Rousseau, che

era tutto preso dalla preoccupazione di salvarsi dopo che i suoi scritti erano stati messi

sotto accusa dalle autorità religiose e secolari sia francesi sia svizzere.

Il 12 aprile 1778, prima di morire, Rousseau scrisse una delle sue pagine più ispirate, la

decima delle Fantasticherie di un passeggiatore solitario, in cui rifletteva sul fatto che

quel giorno ricorrevano cinquant’anni dal primo incontro con Madame de Warens.

Verso i trent’anni Rousseau cominciò finalmente una vita indipendente, grazie a un

modesto reddito ricavato soprattutto dall’attività di precettore e dalla trascrizione di

partiture musicali.

In quest’epoca decise di conquistare Parigi con una commedia, Narciso.

Poco dopo il suo arrivo in città, nel 1741, strinse un’amicizia con Diderot, a lui vicino per

età, retaggio culturale e ambizione, che per quindi anni sarebbe stato il suo più intimo

compagno.

Quando Diderot e d’Alembert si associarono per pubblicare l’Encyclopédie, affidarono a

Rousseau la stesura di gran parte delle voci di argomento musicale, oltre alla voce

dedicata all’economia politica.

Nel 1749, in seguito alla pubblicazione della Lettera sui ciechi, Diderot fu sottoposto a un

breve periodo di detenzione nella prigione di Vincennes, e Rousseau andò a visitarlo

quasi ogni giorno, rivolgendo continue suppliche alle autorità per la liberazione del suo

amico. Un giorno, sulla strada che da Parigi lo conduceva a Vincennes, gli capitò di

leggere l’annuncio di un premio letterario bandito per la composizione di un saggio sulle

conseguenze del progresso delle scienze e delle arti sul genere umano.
Questo annuncio avrebbe mutato il corso della sua vita.

La permanenza di Rousseau a Parigi fu brevemente interrotta nel 1743-44 in occasione

del suo impiego come segretario dell’ambasciatore francese a Venezia.

Da giovane aveva infatti visitato Torino, dove aveva imparato l’italiano, e apprezzato la

musica italiana, che spesso ascoltava.

A Torino Rousseau trovò le splendide esecuzioni orchestrali che accompagnavano la

messa molto più attraenti degli austeri salmi che nelle chiese di Ginevra passavano per

musica, e a Venezia si entusiasmò anche per la musica profana e popolare, che colmava

i suoi sensi con melodie orecchiate non solo sul palcoscenico, ma anche nelle strade e

nelle taverne. In seguito, di ritorno a Parigi, egli avrebbe contrapposto l’opera italiana a

quella francese, ritenendo la lingua francese meno adatta all’espressione musicale e la

mancanza di una chiara linea melodica la cifra stilistica dell’opera francese, troppo

ingombra di ornamenti superficiali e abbellimenti armonici.

La Lettera sulla musica francese, del 1753, che costò a Rousseau l’impiccagione in effige

per via di sue considerazioni ritenute sediziose, si sarebbe rivelata una delle sue opere

più incendiarie e l’unica, secondo quanto si legge nelle Confessioni, che ha forse stroncato

una rivoluzione in Francia.

Nel 1752 Rousseau compose un’opera in stile italiano, L’indovino del villaggio.

Le sue prime idee sulla musica e sull’opera furono sviluppate dettagliatamente nel 1767,

quando Rousseau pubblicò il Dizionario della musica, in gran parte una rielaborazione

dei suoi articoli scritti per l’Encyclopédie, mentre nel Saggio sull’origine delle lingue, che

in ampia misura risale alla metà del secolo, collegò quelle idee con la propria filosofia

della storia, attribuendo una maggior vitalità musicale al latino classico rispetto al

francese del suo tempo, e anche maggior virtù e libertà ai cittadini delle antiche

repubbliche, che, secondo lui, esprimevano i propri sentimenti fraterni con canzoni dalla
struttura aperta, ormai non più diffuse fra i sudditi dei moderni governi monarchici.

Nelle Confessioni Rousseau ricorda anche di aver scoperto che tutto si legava intimamene

alla politica, e perciò da qualunque lato si affrontasse il problema, nessun popolo sarebbe

mai stato altro che quello che la natura del suo governo lo avrebbe fatto.

L’umanità non è naturalmente malvagia, di questo egli era convinto, ma troppo spesso lo

diventa sotto cattivi governi che generano corruzione.

Se tutto dipende dalla politica, allora il carattere retto e onesto dei suoi compatrioti

ginevrini da una parte e la corruzione morale della un tempo illustre repubblica

veneziana dall’altro dovevano essere ricondotti a una fonte comune.

Dopo la permanenza a Venezia e il ritorno a Parigi Rousseau era, dunque, in grado di

fare un confronto fra tre forme di governo molto diverse.

La prima opportunità per raccogliere le idee sul declino della cultura e sulle radici

politiche della corruzione gli venne fornita nel 1749, con la stesura del Discorso sulle

scienze e sulle arti, dove sostiene che mentre gli antenati erano forti, l’eccesso di lusso

alimentato dai lumi ci ha sottratto la vitalità e ci ha resi schiavi degli ornamenti della

cultura.

Il primo dei due Discorsi vinse il premio letterario per il quale era stato scritto, e lo

scalpore da esso suscitato trasformò Rousseau da ignoto uomo di lettere vicino alla

mezza età nel più celebre flagellatore della civiltà moderna.

Voltaire parlava n nome di molti uomini illuminati del suo tempo quando, nelle Lettere

filosofiche e altrove, poneva la virtù in rapporto ai progressi della cultura e della scienza,

e descriveva il progressivo miglioramento della condotta umana alla luce del lento

risveglio dell’Europa seguito ai secoli bui della superstizione e dell’ignoranza.

Con lo stesso spirito Diderot e d’Alembert avevano concepito la loro Encyclopédie.

Al contrario Rousseau sembrava esaltare i meriti di un’età dell’oro barbarica, rispetto alla
quale l’umanità era caduta e aveva perso la grazia a causa di una idolatrica sete di

sapere. In questo modo Rousseau dava l’impressione non solo di preferire la barberie alla

cultura, ma anche, sembrò ai contemporanei illuministi di aver dimenticato che la

Chiesa cattolica, principale fonte di miseria e disperazione nel loro mondo, traeva il suo

potere proprio da un misticismo dello stesso tipo, rafforzato dall’ignoranza dominante in

quel mondo antico di cui Rousseau tesseva le lodi.

Voltaire e i suoi seguaci attaccarono questa concezione dell’innocenza originaria, e

accusarono Rousseau di aver tradito la causa della riforma politica e religiosa della quale

avrebbe dovuto essere un sostenitore, in favore di un ritorno a un primitivo stato di

incolta stupidità.

Alla metà del secolo Rousseau si occupò soprattutto degli scritti sulla musica e delle

risposte ad alcune delle critiche rivolte al Discorso sulle scienze e sulle arti.

Nell’autunno del 1753 Rousseau si cimentò in una nuova e più sottile versione della sua

filosofia della storia, secondo la quale la ricerca dell’ineguaglianza è responsabile della

nostra corruzione morale più che il lusso, così come la principale causa del declino

umano risiede nelle relazioni di potere costruite attorno all’istituzione della proprietà

privata.

Nel Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza si sostiene che l’appropriazione

pubblicamente autorizzata della terra da parte di alcuni uomini a spese degli altri ha

portato alla creazione della società civile attraverso l’inganno e l’ingiustizia.

Questa tesi è presentata come una storia ipotetica della razza umana, nella quale

l’autore tenta di spiegare anche la genesi sociale della famiglia e dell’agricoltura, oltre a

dipingere l’origine delle diverse forme di governo a partire dall’ineguale distribuzione della

proprietà privata che è ad essa sottesa.

Un nuovo rilievo dato all’istituzione della proprietà privata come fonte principale della
corruzione morale, piuttosto che alla ricerca di cultura e di erudizione, costituisce una

sfida aperta a quello che Rousseau era giunto a individuare come il fondamento del

giusnaturalismo moderno, da Grozio e Hobbes a Pufendorf e Locke.

Il secondo Discorso esercitò una profonda influenza sullo sviluppo del pensiero europeo

in molteplici campi, ma inizialmente ebbe sui lettori un impatto meno forte di quanto

avessero avuto il Discorso sulla scienze e sulle arti e la Lettera sulla musica francese.

Dal punto di vista dei philosophes quest’opera confermava e accresceva il timore che

quanto argomentato nel primo Discorso esprimesse una credenza autentica dell’autore, e

che questi non potesse più essere considerato un sostenitore dei lumi e del progresso.

La necessità di separarsi da alcuni dei suoi vecchi amici apparve certamente chiara allo

stesso Rousseau che si era sempre sentito a disagio in mezzo ad atei e scettici.

Quando nel corso degli anni seguenti cominciò a contrarsi con i suoi amici, Rousseau

dichiarò che non ne avrebbe più potuto a lungo tollerare l’autocompiacimento morale.

Inizialmente egli progettò di ritornare a Ginevra, ma fu dissuaso dal trasferirsi lì

principalmente a causa della decisione di Voltaire di stabilirvisi egli stesso.

Perciò decise di accettare un ritiro campestre chiamato l’Ermitage, nella foresta di

Montmorency a nord di Parigi, offertogli da un’amica di Diderot, Madame d’Épinay, che

per un breve periodo fu la sua benefattrice e confidente più intima, anche se in seguito

ne sarebbe diventata la più fiera avversaria fra coloro che lo avevano conosciuto bene.

Quando nel 1756 Voltaire scrisse i saggi sul diritto naturale e sul terremoto di Lisbona

dell’anno precedente, in ci si prendeva gioco della stupidità di una cieca fede nella

provvidenza per cui tutto sarebbe come deve essere, Rousseau replicò, nella sua

cosiddetta Lettera sulla Provvidenza, che Dio non è responsabile del male, e che il mondo

della sofferenza umana compianto da Voltaire è stato creato soltanto dall’uomo.

Nel 1758 Rousseau era giunto a rompere praticamente tutte le relazioni con gli amici di
un tempo. Un anno prima d’Alembert aveva scritto un’importante voce su Ginevra per il

VII volume dell’Encyclopédie, in cui proponeva la creazione di un teatro in quella città

allo scopo di valorizzarne la cultura e, dunque, promuovere lo sviluppo morale dei suoi

cittadini. Rousseau si convinse che Voltaire aveva cospirato con d’Alembert nella stesura

di quell’articolo: concepì la Lettera a d’Alembert sugli spettacoli tanto per confutare

Voltaire, l’usurpatore del suo diritto di nascita, quanto per attaccare lo stesso d’Alembert.

Fu sempre nel periodo immediatamente successivo alla fuga da Parigi che Rousseau

scrisse Giulia, o La Nuova Eloisa, il romanzo più popolare del tardo Settecento francese.

La prefazione a La Nuova Eloisa si può considerare un poscritto alla Lettera a

d’Alembert, che nelle vere intenzioni di Rousseau era indirizzata a Voltaire.

Nello stesso periodo Rousseau finì di scrivere l’Emilio.

Il primo libro dell’Emilio apre con l’affermazione di un principio che sin dall’epoca del

ritiro all’Hermitage Rousseau considerò come il fondamento della propria filosofia: Tutte

le cose sono create buone da Dio, tutte degenerano tra le mani dell’uomo.

Il tema centrale dell’Emilio fu concepito come il piano di un’educazione conforme alla

Natura e non all’artificio, che permetta agli impulsi del bambino di svilupparsi ciascuno

a suo tempo, senza forzarli, dirigerli prematuramente o assoggettarli a un controllo

venuto dall’esterno attraverso i precetti o l’istruzione.

In quest’opera Rousseau descrive passo per passo la crescita spirituale dell’individuo.

Nel corso dello sviluppo delle facoltà del bambino, la regola che questi debba inizialmente

dipendere soltanto dalle cose e non dagli uomini offre una prospettiva educativa

completamente diversa da quella che nel passato ha condotto alla corruzione della razza

umana.

L’Emilio è la prima opera di Rousseau che indica la strada per una forma di indipendenza

raggiungibile dagli individui anche all’interno di una società corrotta, dalla cui stretta si
può ora intravedere una via di fuga, consistente nell’educare alla volontà di autonomia.

Secondo quanto riportato nelle Confessioni, la prima opera a cui Rousseau si dedicò nella

nuova casa fu il Contratto sociale.

I principi di un legittimo contratto sociale si comprendono forse meglio se si confrontano

con la disastrosa formula del patto descritto nel Discorso sull’origine e i fondamenti

nell’ineguaglianza.

Un simile contratto, se correttamente instaurato, non distrugge la libertà dei cittadini,

ma la attua, rendendoli uguali davanti alla legge invece che servi delle autorità politiche

stabilite.

Libertà e uguaglianza sono i due principi a cui dovrebbe mirare più che a ogni altra cosa

qualunque sistema legislativo: questo afferma Rousseau nel Contratto sociale.

Senza governo, afferma, le persone possono essere naturalmente libere nel senso di non

essere assoggettate alla volontà altrui, ma la loro libertà riguarda unicamente la

soddisfazione degli impulsi fisici.

Solo nella società politica, che per essere instaurata richiede l’abbandono della libertà

naturale, possiamo realizzare la libertà civile o quella morale, la prima delle quali ci fa

dipendere dall’insieme della comunità.

Mentre la seconda ci fa obbedire a leggi che esprimono la nostra volontà generale.

Lo Stato può servire come strumento di libertà soltanto se tutti i sudditi ne sono allo

stesso i sovrani, perché solo allora si può davvero dire che il popolo governa se stesso.

Dopo la pubblicazione del Contratto sociale, Rousseau stese nel 1765 un Progetto di

costituzione per la Corsica, e attorno al 1771 le Considerazioni sul governo di Polonia e

sulla sua progettata riforma, in entrambi i casi su invito dei primi cittadini di quei governi

appena nati, che lo invitavano a prestar loro servizio come legislatore.

Se la Corsica fosse sfuggita all’invasione e la Polonia alle divisioni interna, nel tardo
Settecento sarebbe stato possibile osservare l’applicazione del Contratto sociale alle

costituzioni di Stati realmente esistenti.

Il Contratto sociale era stato pensato per chiarire i fondamenti di un oggetto vicino, la

costituzione di Ginevra, e se egli era incorso nell’ira delle autorità ginevrine a lui

contemporanee era soltanto perché quella costituzione era stata tradita.

La parte del Contratto sociale che, Rousseau vivente, suscitò la maggiore collera nel

pubblico fu il penultimo capitolo, dedicato alla religione civile.

In questo viene sottolineata l’importanza del fondamento religioso, accanto a quello

politico, del senso di responsabilità civile per cui i cittadini attuano e amano il loro

dovere come una forma di fede patriottica, che li unisce in una comune devozione verso

una divinità onnipotente, benigna e tollerante.

Questo aspetto del suo pensiero pose Rousseau in conflitto con l’establishment religioso

e politico dei suoi tempi, e con molti dei suoi principali critici.

La sua espressa condanna del cristianesimo, descritto come la religione più adatta a un

governo tirannico, offese sia le autorità religiose sia quelle politiche.

In più nella Professione di fede del vicario contenuta nell’Emilio, che venne pubblicato

quasi contemporaneamente al Contratto sociale, Rousseau presentava la più eloquente

affermazione della propria filosofia della religione, la quale opponeva la religione naturale

a quella rivelata, e questo dispiacque ancor di più tanto alle autorità religiose quanto

quelle politiche.

Sia l’Emilio sia il Contratto sociale furono banditi a Parigi e messi al rogo a Ginevra.

Costretto a fuggire dalla prima e minacciato di arresto nella seconda, nel 1762 Rousseau

si ritrovò ad essere un latitante.

Nel maggio 1763, dal suo rifugio provvisorio a Môtiers, Rousseau ripudiò la sua

cittadinanza ginevrina.
Nel gennaio 1766 David Hume lo condusse personalmente in Inghilterra, dove Rousseau

rimase quasi diciotto mesi.

Tornato in Francia grazie alla promessa di desistere dalla pubblicazione dei suoi scritti,

trovava sollievo soltanto nella solitudine, nello studio della botanica e in una comunione

romantica con la Natura, come lui stesso racconta nella sua ultima opera maggiore, le

Fantasticherie di un passeggiatore solitario, che sarebbero apparse postume insieme con

la prima parte della Confessioni.

Nel 1778, poco dopo essere giunto nell’ennesimo rifugio, ospite del Marchese de Girardin

a Ermenonville nei pressi di Parigi, morì di apoplessia.

LA CULTURA, LA MUSICA E LA CORRUZIONE DEI COSTUMI

Nelle Confessioni Rousseau narra di essere rimasto fulminato dalla lettura dell’annuncio

pubblicato dall’Accademia di Digione sul Mercure de France dell’ottobre 1749, che

bandiva un concorso per il miglior saggio sul tema Se il progresso delle scienze e delle arti

abbia contribuito a corrompere o a purificare i costumi.

Eppure il Discorso sulle scienze e le arti, che di quella visione costituisce l’espressione più

immediata, finì per essere considerato da Rousseau uno dei peggiori fra i suoi scritti più

importanti.

Il tema centrale dell’opera è costituito dalla tesi secondo la quale la civiltà è stata la

rovina dell’umanità, così come la perfezione delle arti e delle scienze è andata di pari

passo con la corruzione dei costumi.

Prima che acquisissimo le capacità e le qualità dell’uomo acculturato, e prima che i

modelli di vita degli uomini venissero resi molli da falsi valori e bisogni fittizi, i loro

costumi erano rustici, ma naturali.

Con la nascita e la diffusione della conoscenza, tuttavia, l’originale purezza venne

progressivamente corrotta da gusti e maniere più raffinati, da uno schermo uniforme e


perfido di gentilezza, e da tutti i vili ornamenti della moda, finché l’originaria virtù degli

uomini non fu loro strappata con la forza di una marea al riflusso.

In principio gli unici ornamenti del mondo furono quelli scolpiti dalla Natura, in seguito

le civiltà rimaste più legate a essa furono quelle che si dimostrarono più vigorose e forti.

Arti e scienze, osserva Rousseau, non infondo agli individui coraggio o spirito patriottico;

al contrario, esse sottraggono all’uomo la devozione verso lo stato e la forza di preservarlo

dalle invasioni.

Tuttavia, il primo Discorso non spiega il perché di questo processo, limitandosi a

descrivere come le arti e le scienze siano le responsabili della decadenza morale

dell’uomo.

Da un lato, sostiene Rousseau, tutte le scienze sono nate dall’ozio, discendendo ogni

disciplina da vizi che nascono dalla pigrizia: l’astronomia dalla superstizione, la

geometria dall’avarizia, la fisica da una vana curiosità.

Dall’altro lato le arti sono dovunque alimentate dal lusso, che a sua volta nasce dall’ozio

e dalla vanità degli uomini.

Il lusso è presentato come un aspetto fondamentale, perché secondo Rousseau esso

prospera raramente in assenza delle scienze e delle arti, le quali non esistono mai senza

di esso.

In base a queste affermazioni, sembra che la dissoluzione della morale debba essere una

necessaria conseguenza del lusso che nasce dall’ozio, mentre la corruzione e la schiavitù

dell’uomo, che caratterizzano la storia di tutte le civiltà, vengono presentate come la

punizione degli sforzi orgogliosi che abbiamo fatto per uscire dallo stato ti felice ignoranza

in cui l’eterna saggezza ci aveva posti.

Sotto questo aspetto, il Discorso sulle scienze e sulle arti contiene una prima

fondamentale affermazione di filosofia della storia che Rousseau in seguito avrebbe


sviluppato come tema centrale della sua opera: l’apparente progresso culturale e sociale

umano non ci ha condotto che alla degradazione morale.

Nel primo Discorso questa filosofia della storia tuttavia appare ancora rudimentale ed

oscura, composta com’è di almeno tre distinte tesi circa il corso e le circostanze che ci

hanno trascinato verso la corruzione; primo, l’idea di un progressivo declino dell’umanità

a cominciare dall’innocenza del suo stato primitivo; secondo, l’affermazione che le nazioni

artisticamente e scientificamente sottosviluppate siano moralmente superiori alle loro

avversarie evolute; terzo, l’assunto che le grandi civiltà siano decadute sotto il peso del

proprio progresso culturale.

Nella parte finale dell’opera Rousseau si spinge fino ad affermare una nuova tesi,

secondo la quale la vera fonte delle nostre disgrazie non sono tanto le arti e le scienze in

quanto tali, ma piuttosto il loro abuso da parte di persone mediocri, e conclude il

discorso con l’osservazione che bisognerebbe affidare a grandi scienziati ed artisti il

compito di costruire monumenti per onorare la gloria dello spirito umano.

Quanto a noi, uomini volgari, non dovremmo aspirare ad altro che alle tenebre e alla

mediocrità alle quali siamo stati destinati.

Non è chiaro, inoltre, sotto quale forma lo sviluppo della cultura abbia contribuito al

declino dell’umanità. La tesi sembra sostenere semplicemente che il progresso delle arti

e delle scienze è responsabile del declino dei valori morali, ma Rousseau pare anche

supporre che le arti e le scienze siano nutrite dall’indolenza, dalla vanità, dal lusso a cui

tutti gli uomini aspirano e di cui solo alcuni riescono a usufruire.

La mancanza di originalità del primo Discorsi non è solo dovuta all’influenza di altre

opere di ispirazione simile, a cui Rousseau guardò come guida; il carattere poco originale

è dovuto prima di tutto al fatto che spesso le parole impiegate da Rousseau per esprimere

le proprie idee fondamentali sono le stesse degli autori che discute.


C’è almeno un passo del Discorso sulle scienze e sulle arti che è tratto da Lo spirito delle

leggi di Montesquieu, e una citazione senza indicazione dell’autore dal Discorso sulla

storia universale di Bossuet; ci sono, inoltre, molti passi tratti dalle Vite di Plutarco, e più

di quindici estratti dai Saggi di Montaigne; l’ultima riga dell’opera ricalca allo stesso

tempo brani di Plutarco e di Montaigne.

Nonostante il tono polemico e il carattere dell’argomentazione, il Discorso non è diretto

contro nessun’altra opera in particolare, e l’autore sembra essersi rivolto alle proprie

fonte più per ricapitolarle che per avvalorare le proprie idee.

Mentre nel Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza Rousseau si era

cimentato nella confutazione della maggior parte degli autori che vi vengono citati, nel

Discorso sulle scienze e le arti invece non fece altro che riflettere, forse soltanto in un

linguaggio più veemente del proprio, i disparati punti di vista già espressi dai suoi

predecessori.

I progressi di Rousseau come uomo di lettere comunque dovettero molto alla disputa

suscitata dal suo Discorso sulle scienze e le arti, che esplose immediatamente dopo la sua

pubblicazione e che imperversò per almeno tre anni.

Molti dei suoi avversari lo accusavano di non aver specificato in quale momento preciso

è iniziata la nostra decadenza morale, cosicché aveva dato l’impressione di preferire i

secoli di barbarie attraversati dall’Europa al rinascimento delle scienze che ne seguì;

alcuni condannavano le lacune dei suoi studi che lo avevano portato a fraintendere la

natura brutale dell’antico popolo sciita, o a trascurare il fatto che alcuni personaggi da

lui lodati avevano sostenuto che la letteratura rafforza la virtù e non che la svilisce.

A queste accuse Rousseau rispose ribadendo che il suo obiettivo era stato quello di

esporre una tesi generale circa la connessione fra lo sviluppo artistico e scientifico da un

lato e la decadenza morale dall’altro.


Nel Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza Rousseau sviluppò più a fondo

questo tema generale, spostando la propria attenzione dalle incorrotte civiltà del mondo

antico alla natura dell’uomo primitivo, a una condizione umana così lontana nel temo

che nessuna ricerca storica avrebbe potuto rivelarne veramente la realtà.

Dopo la pubblicazione del primo Discorso, Rousseau si interessò sempre più alle cause

ultime della decadenza umana e sempre meno alle sue manifestazioni particolari nelle

diverse culture.

Molti critici del primo Discorso accusarono Rousseau anche di resuscitare la nostalgica

chimera di un’antica età dell’oro, esistita nel mito e nella poesia, ma mai nella realtà.

A questa obiezione Rousseau replicò, in particolare nella risposta al Discorso sui vantaggi

delle arti e delle scienze di Charles Borde, affermando che l’idea di un’antica età dell’oro

non era un’illusione storica, ma un’astrazione filosofica, non più chimerica nella

sostanza di quanto non fosse necessaria per la comprensione e il benessere di noi stessi,

almeno tanto indispensabile quanto il concetto stesso di virtù.

In due opere nate dal primo Discorso, le Osservazioni di Jean-Jacques Rousseau di

Ginevra sulla risposta data al suo discorso indirizzate a re Stanislao di Polonia e la

prefazione al Narciso, Rousseau nota che un popolo, una volta corrotto, non può mai

ritornare a uno stato virtuoso; di ci rimase convinto per tutta la vita.

Soprattutto Rousseau si offese profondamente per l’insinuazione avanzata la prima volta

dal matematico e storico Joseph Gautier, secondo cui egli sarebbe divenuto un

sostenitore dell’ignoranza, convinto della necessità di sopprimere la cultura e bruciare le

librerie.

È ovvio, rispose Rousseau, che non dobbiamo far ripiombare l’Europa nella barbarie,

propugnando la distruzione di librerie, accademie e università e tanto meno

l’eliminazione della società stessa.


Il ritorno allo stato di natura non è possibile per l’uomo civilizzato più di quanto non lo

siano il recupero dell’innocenza o di una condizione estranea al vizio.

In seguito a queste obiezioni mosse al Discorso sulle scienze e le arti, Rousseau negli

scritti successivi avrebbe sempre sottolineato il fatto che un cittadino moralmente retto

deve cercare di trovare la sua strada in questo mondo, e non in qualche paradiso remoto

dell’immaginazione.

La ricerca della solitudine e della comunione con la Natura come alternativa, strada che

egli stesso scelse negli ultimi anni della sua esistenza, non era una strategia che

Rousseau raccomandasse ai sudditi disillusi degli stati moderni: egli volle sempre

mantenere chiaro che le sue idee non erano né utopiche né violente nelle loro

implicazioni.

Quando re Stanislao di Polonia criticò la teoria del legame fra virtù e ignoranza,

affermando che gli uomini privi di cultura osannati da Rousseau erano a volte più brutali

che benigni, egli ne convenne, e propose una distinzione fra due forme di ignoranza, delle

quali una è orribile e odiosa, e l’altra modesta e pura.

Ma senza un’ulteriore elaborazione questa risposta non era molto convincente, così nelle

opere successive Rousseau fu più cauto nell’attribuire l’innocenza morale degli uomini

primitivi alla mera mancanza di cultura.

Il filosofo Charles Borde sostenne che l’autore del Discorso sulle scienze e le arti era stato

poco saggio nel lodare il valore militare dei popoli incivili, le cui barbare conquiste

nascevano dall’ingiustizia più che dall’innocenza.

Rousseau fu subito d’accordo, riconoscendo che non siamo destinati dalla natura a

distruggerci l’un l’altro.

Rousseau trasse da alcune accuse spunti anche molto produttivi per lo sviluppo del suo

pensiero. Questo vale in particolare per le sue risposte alle affermazioni di re Stanislao e
di Borde, secondo i quali la decadenza umana è da attribuirsi a un eccesso di benessere,

piuttosto che di educazione, e per la sua risposta alla tesi di orde secondo cui il declino

delle nazioni potrebbe in fin dei conti dipendere soltanto da cause politiche.

Nelle Osservazioni Rousseau ammette che fattori come i costumi dei diversi popoli, il

clima, le leggi, l’economia e il governo concorrano su tutti alla formazione dei caratteri

morali di un popolo, dopo di che comincerà a occuparsi più direttamente dell’influenza

esercitata da quei fattori.

Nell’Ultima risposta a Borde, del 1752, Rousseau osserva che il lusso, prima condannato

come la causa principale della decadenza umana, è in gran parte una conseguenza del

declino dell’agricoltura nel ondo moderno.

Proprio in questo saggio, e poi nella prefazione al Narciso, Rousseau si interessa per la

prima volta alla nefasta influenza della proprietà privata.

In particolare, nell’Ultima risposta viene analizzato il concetto di possesso, oltre che la

brutale divisione della terra fra padroni e schiavi che deriva dalla sua applicazione

pratica, e questo soprattutto per confutare la tesi di Borde, secondo il quale gli uomini

erano feroci e aggressivi soprattutto già nello stato primitivo.

Rousseau si chiede in che cosa potessero consistere i vizi dei nostri antenati prima che

queste orribili parole, tuo e mio, fossero inventate.

Nella prefazione al Narciso Rousseau si sofferma sul fatto che le qualità morali dei

selvaggi sono nettamente superiori a quelle degli europei, perché i selvaggi sono esenti

dai vizi per noi abituali dell’avidità, dell’invidia e della dissimulazione, che nel mondo

civilizzato hanno portato gli uomini a disprezzarsi a vicenda e farsi nemici gli uni degli

altri.

Il termine proprietà, osserva Rousseau, non ha fra di loro quasi alcun senso, non

discutono mai di un interesse che li divida, nulla li spinge ad ingannarsi a vicenda.


In entrambi questi passi, diretti contro i critici del Discorso sulle scienze e le arti,

troviamo dunque le prime affermazioni importanti della testi che avrebbe poi esposto,

sotto forma di sfida nel Discorso sull’origine e in fondamenti dell’ineguaglianza.

Tutti i vizi degli uomini traggono la loro origine ultima non nella natura umana, ma nel

fatto che gli uomini sono mal governati.

Due anni dopo, nel Discorso sull’economia politica, Rousseau sarebbe tornato su questo

concetto, osservando che è certo che alla lunga i popoli sono ciò che il governo li fa

essere.

Quanto al contributo dato dal benessere e dalle ricchezze al declino morale dell’umanità.

In un breve testo su Il lusso, il commercio e le industrie egli riconosce che la cupidigia

umana è una manifestazione del desiderio di porsi al disopra dei propri vicini, così che

l’introduzione dell’oro negli affari fra uomini si è inevitabilmente associata

all’ineguaglianza della sua distribuzione, da cui sono nate la degenerazione della povertà

e l’umiliazione del povero da parte del ricco.

Ma persino quando riconosce il ruolo svolto dall’accumulazione delle ricchezze nella

corruzione morale del genere umano, Rousseau sostiene fermamente che non fu questa

la causa principale del nostro declino.

Al contrario, come dichiara nelle Osservazioni, ricchezze e povertà sono termini relativi,

che riflettono la misura dell’ineguaglianza sociale più di quanto la determino.

Rousseau propone ora al primo poto nell’ordine perverso della corruzione umana

l’ineguaglianza, seguita dalla ricchezza, la quale sua volta ha reso possibile lo sviluppo

del lusso e della pigrizia, che hanno fatto sorgere le arti, da un lato, e le scienze dall’altro.

Si tratta di una nuova versione della sua tesi, che pone le arti e le scienze per ultime.

Le ragioni di questo mutamento di posizione si possono trovare in parte nelle

Osservazioni e nella prefazione al Narciso, dove Rousseau afferma che sebbene il


progresso della cultura sia stato responsabile di una gran quantità di vizi, è

fondamentalmente il nostro desiderio di brillare grazie alla cultura, piuttosto che le opere

compiute dagli uomini eruditi, ciò che mina la morale nelle società civilizzate.

Perseguire la cultura sopra ogni altra cosa esprime la volontà di distinguersi dai propri

vicini e compatrioti, sostiene Rousseau, che in entrambi i testi sviluppa un breve

commento sul desiderio furioso di distinguersi.

Non è tanto l’amore per l’eccellenza, quanto la volontà di imporci al rispetto degli altri ciò

che ci spinge a produrre i manufatti e gli strumenti che caratterizzano le società

avanzate, così che la civiltà appare essere soltanto la realizzazione dei nostri tentativi di

instaurare una distribuzione ineguale dei pubblici onori.

La virtù morale non può esistere davvero, a meno che gli individui non abbiano talenti

pressappoco uguali.

L’unica salvaguardia dalla corruzione sarebbe stata l’uguaglianza originaria, ormai

irrimediabilmente perduta, che un tempo conservava la nostra innocenza ed era il

fondamento della virtù.

Perciò, l’ansia di distinguersi nelle scienze e nelle arti è la manifestazione di un

sentimento tanto artificiale quanto o è il desiderio di potere politico, un sentimento sul

quale Rousseau avrebbe riflettuto poco dopo nel suo Discorso sull’origine e i fondamenti

dell’ineguaglianza.

Nel 1753, nel pieno della Querelle des Bouffons, una controversia scoppiata attorno

all’opera di Pergolesi La sera padrona e all’opera buffa italiana in generale che divideva i

mecenati dell’Opéra di Parigi e la corte parigina in fazioni musicali, Rousseau pubblicò la

Lettera sulla musica francese, che suscitò una tempesta di proteste ancora peggiore di

quella provocata tra anni prima dal Discorso sulle scienze e le arti.

Nella Lettera, Rousseau sostiene che alcune lingue sono più adatte alla musica di altre,
per le loro vocali più dolci, le inflessioni più gentili, e per un uso più ponderato delle

figure retoriche.

Lingue come queste, e soprattutto l’italiano, si prestano a chiare intonazioni melodiche e

all’espressività canora. Altre lingue, come il francese, sono caratterizzate dalla mancanza

di volai sonore e da consonanti così aspre che è impossibile cantare melodie gradevoli in

queste lingue, il che costringe i compositori dei paesi sottoposti a questi limiti linguistici

ad abbellire la loro musica con il rumore stridente dell’accompagnamento armonico.

Un testo così provocatorio e osservazioni così offensive provocarono una vasta ondata di

condanne per l’affronto fatto da Rousseau al gusto del pubblico.

Nel 1781, all’interno del Saggio sull’origine delle lingue, Rousseau sostiene che le prime

lingue nacquero probabilmente nelle regioni meridionali del mondo, dove il clima è mite

e la terra fertile, ed ebbero presumibilmente un carattere ritmico e melodico, furono

formulate in poesia piuttosto che in prosa, cantate più che parlate, così che, in breve,

nelle prime articolazioni delle loro impulsive passioni i nostri antenati devono aver avuto

qualcosa di incantevole.

Le lingue che sorsero invece in un secondo tempo nelle inclementi condizioni del nord del

ondo verosimilmente espressero prima di tutto i bisogni degli uomini, piuttosto che le

loro passioni, e per questo furono meno sonore e più stridule.

Alla fine, con le invasioni barbariche e la conquista del Mediterraneo, il linguaggio

gutturale e staccato degli uomini del nord prevalse sulle morbide intonazioni che prima

erano servite a esprimere i sentimenti umani, e tutta la dolcezza, l’equilibrio, la grazia del

nostro linguaggio originario furono perdute.

La pronuncia melodica delle parole venne soppressa, e le proposizioni persero

progressivamente il loro incanto originario.

Sotto il peso del dominio barbarico e del lavoro agricolo, una prosa monotona prese il
posto dell’espressione poetica e melodiosa, e con l’emergere della prosa le lingue, in

particolare le forme primitive del francese, dell’inglese e del tedesco, divennero

prosatiche.

La musica, dall’altra parte, divenne priva di senso con la perdita della sua componente

semantica, di cui si era appropriata la prosa, e fu sviluppata ulteriormente solo

dall’invenzione gotica dell’armonia.

Sotto queste pressioni la musica divenne più strumentale che vocale, e il calcolo degli

intervalli armonici andò a sostituire la grazia delle inflessioni melodiche.

La prosa, dal canto suo, finì per essere elaborata nello scritto più che nel parlato, e non

fu più cominciata con la forza dell’espressione, ma solo con il rigore delle regole

grammaticali e con un preciso dizionario delle parole ammesse.

Rousseau intitolò l’ultimo capitolo del saggio Rapporti fra le lingue e i governi,

proclamando che le lingue che sono giunte a separarsi dalla musica sono nemiche della

libertà.

Le lingue dell’Europa moderna sono ormai adatte soltanto a discorsi da tenersi in circoli

chiusi, all’indole fatua di persone che sanno solo mormorare debolmente le une alle altre

con voci prive di inflessioni, e dunque di spirito e di passione.

Nel soccombere alla perdita dei caratteri musicali, il linguaggio è rimasto privo della forza

e chiarezza originaria, ormai ridotto a poco più che deboli mormorii emessi a individui

senza forza di carattere o di volontà.

Ma se ciò concerne l’aspetto individuale e privato delle lingue contemporanee, la loro

manifestazione pubblica è ancora più oppressiva, perché uomini che ne governano altri,

ma che non hanno nulla da dire, non possono fare molto di più, quando il popolo è

riunito, che gridare e predicare con formule eccessive e inintelligibili.

I proclami dei governanti e le suppliche dei preti manipolano continuamente la nostra


sensibilità e ci intontiscono; le arringhe e i contorti sermoni divulgati da ciarlatani

religiosi e laici sono divenuti la sola forma di oratoria popolare del mondo moderno.

Sia nel suo aspetto pubblico sia in quello privato, conclude Rousseau, il linguaggio

rispecchia fedelmente il profondo degrado in cui sono cadute le società moderne.

Il Saggio sull’origine delle lingue costituiva originariamente una sezione del Discorso

sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza, poi espunta perché troppo lunga e fuori

luogo in quel contesto, e in seguito, nel 1755, annessa ad uno studio sul Principio di

melodia scritto in risposta a Rameau, per poi essere ancora una volta espunta.

L’opposizione fra melodia e armonia costituisce un tema centrale della critica alla

filosofia della musica di Rameau, che Rousseau sviluppò in questo periodo della sua vita,

e che a sua volta era stata provocata dalle numerose opere in difesa del primato

dell’armonia sulla melodia che Rameau aveva prodotto, fra l’altro, proprio per criticare gli

articoli sulla musica scritti da Rousseau per l’Encyclopédie.

NATURA UMANA E SOCIETÀ CIVILE

Il Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza persegue un’analisi della civiltà e

dei suoi fronzoli, espressa con un ragionamento rigoroso e, per la prima volta, con l’uso

di un lessico politico e sociale che determina la nascita della filosofia della storia

rousseauiana nella sua forma matura.

Nella prima parte del Discorso, Rousseau sostiene che esistono due tipi di uguaglianza

tra gli uomini, una naturale o fisica, e, dunque, fuori dal nostro controllo, l’altra morale

o politica in quando dipendente dalle scelte umane.

Come i teorici del contratto sociale, Rousseau ritiene che le regole che distinguono gli

individui nella società possano affermassi solo tramite il loro consenso e, quindi, che le

ineguaglianze prodotte dalla natura si siano trasformate in ineguaglianze sociali soltanto

quando furono imposte dall’uomo.


Rousseau concepì il tema centrale del secondo Discorso come spiegazione del processo

che sottende una simile trasformazione della razza umana.

Poiché nel loro stato naturale gli uomini avevano fra loro soltanto contatti casuali e poco

frequenti, le più antiche differenze fra individui erano prive di conseguenze.

Invece, le ineguaglianze create dall’uomo determinano i caratteri dominanti di ogni

comunità.

Nella condizione originaria, gli uomini non avevano fra loro alcun tipo di relazione morale

e, non riconoscendo alcun dovere, non avevano né bisogno della compagna di altri

uomini né desiderio di colpirli. Con la nascita delle istituzioni sociali la loro debolezza

diventa vigliaccheria e la loro forza una minaccia per i vicini.

Le ineguaglianze sorte fra gli uomini nella società diventano stabili e prevalgono

determinate relazioni che costringono gli individui nelle catene della servitù e del

comando.

Al contrario, Hobbes, Pufendorf e Locke suppongono che in questo stato gli individui

abbiano forze e capacità uguali, e immaginano, come conseguenza di questa

uguaglianza, che ciascuno abbia paura dei suoi vicini e sia incapace di vivere in

sicurezza in mezzo a loro. Uomini che abbiano uguali capacità, sostiene Hobbes,

potrebbero perseguire gli stessi scopi solo a proprio rischio in quanto senza un potere

comune che li mantenga in soggezione si troverebbero in uno stato di guerra.

Hobbes suppone che per ottenere la pace gli uomini debbano stabilire in modo artificiale

un’autorità superiore in grado di proteggere ciascuno dal suo prossimo, in modo che i

pericolosi effetti dell’uguaglianza possano essere superati grazie alla sottomissione

dell’intera moltitudine all’autorità.

Così, mentre secondo Rousseau le ineguaglianze dello stato di natura sarebbero state del

tutto prive di significato per il genere umano, per Hobbes l’esistenza di una condizione di
uguaglianza in un mondo senza signori, è di fondamentale importanza e costituisce una

delle ragioni che rendono impossibile il raggiungimento della pace in quello stato.

Allo stesso modo, anche per Pufendorf gli uomini sarebbero vissuti originariamente in

una condizione di precaria uguaglianza.

D’accordo con Hobbes che gli uomini sono mossi dall’egoismo anziché dalla benevolenza,

obietta che nello stato di natura fossero alla mercé degli elementi e degli animali feroci,

uniti dalla fragilità e dal timore allo scopo di sopravvivere.

Questa era la teoria della socievolezza naturale di Pufendorf.

Tale socievolezza naturale avrebbe spinto gli uomini a formare comunità di crescente

complessità, spinti dalle capacità illimitata e dal desiderio insaziabile peculiari della

specie umana. Perciò, lo sviluppo dello stato civile, secondo Pufendorf, è più graduale di

quanto Hobbes avesse sostenuto, ma come lui ritiene che sia finalizzato a superare la

pericolosa instabilità propria della naturale condizione di uguaglianza attraverso

l’accettazione del dominio di un sovrano assoluto.

Anche per Locke sarebbe esistita una fondamentale uguaglianza tra gli uomini nella loro

condizione originaria, in cui ogni potere e ogni giurisdizione è reciproca, e avrebbe reso la

conservazione della proprietà in quello stato incerta.

Solo nella società civile la proprietà privata può essere salvaguardata e il diritto naturale

fatto valere.

I tre autori sembrano concordi nell’affermare che gli individui sono naturalmente

incapaci di sopravvivenza in assenza di un governo e che, dunque, deve essere sempre

istituito un potere artificiale per ridurre i pericoli che accompagnano la naturare

uguaglianza dell’umanità.

Dal punto di vista di Rousseau, l’autorità superiore concepita da Hobbes, Pufendorf e

Locke rafforzerebbe l’antagonismo che spinge gli individui l’uno contro l’altro.
Rousseau pensava che da nessuna opera di questi autori fosse possibile ricavare perché

nello stato di natura gli uomini avrebbero dovuto desiderare di essere protetti dai loro

vicini, ma che tuttavia dall’insieme dell’idee di questi autori si potesse ricavare una

spiegazione del come gli individui possano aver stabilito come legittime proprio quelle

relazioni fisse e determinare che creano differenze fra loro e che hanno corrotto la

società.

Opponendosi in particolare a Hobbes, Rousseau ammette che gli uomini abbiano

sviluppato tutti gli obblighi sociali al fine di proteggere le proprie vite e i propri possessi,

ma obietta che, poiché nello stato di natura essi non avrebbero potuto essere in guerra,

né avare alcuna proprietà, né alcuna ambizione di dominio o alcuna ragione di timore

reciproco, non è concepibile che in origine abbiano sentito il bisogno di quella protezione.

Nel Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza Rousseau ammette l’idea della

proprietà privata come primo fondamentale principio di obbligazione, sorto qualche

tempo dopo che gli uomini avevano cominciato a organizzarsi in comunità.

Pufendorf si ingannava nel credere che la naturale socievolezza spingesse gli uomini a

vivere insieme, perché la società stessa non è naturale, e dipende da un vocabolario di

segni convenzionali, cioè un linguaggio, che costituisce un contesto condiviso in cui va a

inscriversi ogni discorso intellegibile.

Ma il linguaggio, a sua volta, non potrebbe sorgere senza una società preesistente che gli

dia forma e assegni alle espressioni individuali un significato comunemente accettato.

Poiché il linguaggio presuppone la società non meno di quanto la società presupponga il

linguaggio, Rousseau conclude di non essere in grado di stabilire quale dei due sia

venuto per prima.

Nel Saggio sulla conoscenza umana del 1746, Condillac aveva correttamente compreso,

dal punto di vista di Rousseau, che nello stato primitivo dell’umanità non siano potuti
esistere linguaggi discorsivi, perché le abilità linguistiche si possono acquistare soltanto

con grandi sforzi e nel corso di un lungo apprendistato.

Come Rousseau, Condillac pensava che le prime forme di linguaggio degli uomini

dovessero essere semplici grida naturali.

Ma a differenza di Rousseau egli immaginava che queste espressioni spontanee fossero

rudimentali segni del pensiero, rappresentazioni delle iniziali associazioni di idee ei nostri

antenati.

Nel Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza Rousseau è in disaccordo con

questa tesi, e obietta che nel loro stato originario gli individui non abbiano potuto

cominciare a formulare pensieri senza un linguaggio, non più di quanto abbiano potuto

formare una società senza di esso.

In assenza sia della società sia del linguaggio, nello stato di natura anche l’istituzione del

diritto di proprietà sarebbe stata impossibile.

Nessuna rivendicazione di proprietà avrebbe potuto venire espressa o compresa da

uomini e donne, finché non fossero state prima stabilite le regole linguistiche della vita

sociale, perché senza qualche forma di linguaggio gli individui non potrebbero avere il

concetto di cosa appartenga a loro specificamente, né potrebbero cominciare a rispettare

alcunché che appartenga ad altri.

Anche se l’idea di un diritto esclusivo sulla terra poté nascere soltanto dopo che gli

uomini ebbero cominciato a stabilire solide relazioni gli uni con gli altri, secondo

Rousseau è d’importanza vitale che si riconosca come l’istituzione costruita attorno a

quest’idea sia il cuore di tutte le relazioni sociali successive.

Il primo che, dopo aver recintato un terreno, pensò di dire questo è mio, e trovò altri tanto

ingenui da credergli, fu il vero fondatore della società civile.

Se la società civile è stata inizialmente creata per giustificare i rapporti di proprietà, sono
stati questi stessi rapporti a dare origine alla guerra.

Poiché gli individui possono essere giunti a danneggiarsi l’un l’altro soltanto dopo aver

stabilito le relazioni di proprietà che li dividono, è chiaro che nel loro stato originario, in

cui la proprietà non esisteva, essi non avevano occasioni di fare ingiustizia a un altro o di

subirla.

Secondo Rousseau, il contratto sociale escogitato dagli uomini per rendere sicura la

proprietà privata non si sarebbe potuto stabilire nello stato di natura: sarebbe stato

invece un imbroglio perpetrato nella società dal ricco sul povero.

A un primo sguardo i termini di tale imbroglio sarebbero potuti sembrare plausibili, in

quanto connessi con l’imparziale dominio della legge e con la sicurezza di ciascuno, ma il

suo vero scopo sarebbe stato quello di stabilire l’ordine necessario a conservare i beni di

alcuni a spese di altri.

I poveri furono obbligati a rinunciare col loro consenso a partecipare al benessere goduto

dai proprietari cosicché, in cambio della pace e della protezione delle loro vite, tutti

corsero incontro alle loro catene, credendo di assicurarsi la libertà.

Dal punto di vista di Rousseau, dunque, le dottrine politiche di Hobbs, Pufendorf e Locke

servono solo a fornire una legittimazione dell’ineguaglianza morale degli uomini,

instaurando la legge e proteggendo con la forza di un’autorità istituita artificialmente

proprio le relazioni sociali antagonistiche che di fatto richiedono il controllo delle regole di

giustizia di una società civile.

L’errore di Hobbes, nota Rousseau nel Manoscritto di Ginevra, non è stato quello di

supporre uno stato di guerra fra gli uomini divenuti socievoli, ma credere che quello stato

fosse naturale, e non dovuto a vizi che in realtà, lungi dal dare origine alle società, ne

costituiscono il risultato.

Se Hobbes, Pufendorf e Locke non hanno compreso il vero significato dei propri
ragionamenti, secondo Rousseau, è soprattutto perché hanno aderito a concezioni errate

della natura umana.

Avendo attribuito all’uomo selvaggio un insieme di caratteristiche che può avere

acquisito soltanto in società e non avendo saputo distinguere le qualità sociali da quelle

naturali, essi hanno descritto la condotta e il comportamento umano originari con tratti

troppo grossolani, rivestiti di ciò che lo sviluppo dell’umanità vi ha aggiunto.

Essendosi proposi il compito di spiegare lo stato di natura non hanno esitato a trasporre

le proprie idee attraverso i secoli, come se gli uomini che vivevano isolati si trovassero in

mezzo ai loro vicini.

Peggio ancora, essi hanno proposto che alcuni tra i vizi più fatali del genere umano

fossero autorizzati dalla legge.

Nel Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza Rousseau immagina che i nostri

antenati selvaggi avessero due caratteristiche in comune con gli altri animali nello stato

di natura: primo, l’amour de soi, ovvero un impulso costante a preservare la propria vita,

secondo, la pitié, ovvero la compassione per le sofferenze degli altri membri della stessa

specie. Dall’accordo di questi due principi si possono derivare tutte le regole del diritto

naturale.

Nel secondo Discorso Rousseau rifiuta il fondamento giusnaturalistico della società.

Egli non accetta l’idea che gli esseri umani differiscano dagli animali in virtù del possesso

di qualità superiori o principi innati.

Così, in risposta alla questione posta a concorso dall’Accademia di Digione “Qual è

l’origine dell’ineguaglianza fra gli uomini e se essa sia autorizzata dalla legge” egli

risponde affermando, a conclusione del secondo Discorso, che è chiaramente contrario

alla legge di natura che un pugno d’uomini navighi nel superfluo mentre alla moltitudine

affamata manca il necessario.


L’ineguaglianza non è legittimata dal diritto naturale, perché il diritto naturale non detta

le regole della condotta umana nello stesso primigenio degli uomini.

La restante parte del secondo Discorso è costituita dal tentativo di spiegare su basi

diverse la genesi e la storia dell’ineguaglianza morale.

Hobbes aveva ipotizzato che per conservare la propria esistenza gli individui si fossero

trovati costretti a fronteggiare i tentativi perpetrati dagli altri per distruggerli, così che

nello stato di natura sarebbe stato impossibile per chiunque essere allo stesso tempo

compassionevole e al sicuro.

Per Rousseau, invece, prendersi cura in modo appropriato della propria persona non

esclude la possibilità di preoccuparsi per il benessere degli altri; al contrario, egli crede

che il desiderio spietato di stare al sicuro a danno di altri sorga proprio dalla vanità e dal

disprezzo che trasforma semplici estranei in nemici.

Quello concepito da Hobbes non era il vero amour de soi, quanto piuttosto l’amour

propre, la vanità, un sentimento puramente relativo e artificiale, che in società porta ogni

individuo a far caso più a se stesso che a chiunque altro.

Fin tanto che gli animali e gli uomini non sono addomesticati né civilizzati si

preoccupano di se stessi e sono benevoli verso gli altri, solo quando le persone diventano

moralmente corrotte si preoccupano di se stesse attraverso il confronto con gli altri,

desiderando di stare come o meglio di loro.

Nel vero stato di natura la vanità, o amour propre, non esisteva.

L’amore di sé e la compassione che condividevamo con tutte le altre creature erano

sufficienti ad assicurare la sopravvivenza umana.

Rousseau credeva anche, però, che l’umanità avesse una capacità ad essa peculiare:

quella di poter modificare la propria natura.

Tutte le altre specie animali hanno ricevuto dalla Natura gli istinti e le facoltà necessarie
per mantenerli in vita, gli esseri umani, invece, sono liberi e capaci di scegliere.

A differenza degli animali, che sono sempre schiavi dei propri appetiti, gli uomini sono

dotati di libero arbitri, o per lo meno hanno la naturale prospettiva di essere loro i

responsabili di come vivono.

Nel Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza Rousseau osserva a proposito

dell’uomo selvaggio che è soprattutto nella coscienza di questa libertà che si manifesta la

spiritualità della sua anima.

La razza umana si è sempre distinta dalle altre specie anche sotto un altro aspetto: essa

sola possiede l’attributo della perfettibilità, termine che con quest’opera Rousseau

introduce nella filosofia della storia e nella storia del pensiero politico.

Nella condizione originaria, l’uomo ha la capacità non solo di cambiare le proprie qualità

essenziali, ma anche di migliorarle.

Una volta acquisite abitudine che nessun altro animale potrebbe condividere, dipende

dall’uomo fare di queste un attributo permanente del suo carattere, e secondo Rousseau

gli uomini poterono dare inizio ad una storia di mutamenti proprio perché capaci di

rendere se stessi progressivamente più perfetti in quanto agenti morali, e non perché

semplicemente diversi dalle altre creature.

L’uomo, possedendo la facoltà di migliorare se stesso, è capace di perfezionare la propria

natura, ma contemporaneamente, grazie alla stessa facoltà che lo distingue dagli

animali, può compiere passi all’indietro verso il peggioramento di se stesso.

Perciò, conclude Rousseau, gli attributi umani della libertà e della perfettibilità, abbozzati

o latenti, sono ciò che ha reso possibile l’evoluzione storica della razza umana.

In base alla supposizione che in natura l’uomo sia molto più simile agli animali di quanto

pensino Hobbes, Locke e Pufendorf, Rousseau sostiene anche che la differenza fra l’uomo

selvaggio e quello civilizzato è per molti aspetti maggiore della differenza fra i selvaggi e
gli altri animali.

Rousseau sviluppa a fondo questa tesi, in contrasto con le idee elaborate al riguardo da

Buffon nella monumentale Storia naturale, la cui pubblicazione era iniziata nel 1749.

Nel Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza Rousseau si profonde in elogi di

questo capolavoro della scienza e delle letteratura, dal quale trae molti argomenti

illuminanti riguardo la storia della vita organica, l’individualità della specie prese come

un tutto, e soprattutto ai modelli di sviluppo della Natura.

Tuttavia, Rousseau prende le distanze da Buffon esattamente nel punto in cui la storia

naturale e la storia umana sembrerebbero convergere, e lo fa principalmente adottando

una prospettiva propria dello stesso Buffon sulla mutevolezza della specie umana, ma

che quest’ultimo non aveva voluto estendere allo studio dell’uomo.

Secondo Buffon la Natura ha stabilito uno iato incolmabile fra il regno umano e quello

animale, un salto qualitativo nella catena dell’essere, o scala naturale, che assicura la

superiorità del genere umano su tutti gli altri animali, data del possesso di una mente o

di un’anima.

Nel 1766, sulla base dei lavori di Edward Tyson, Buffon sviluppò questa tesi riguardo allo

scimpanzé, chiamati orang-utan.

Pur riconoscendo che dal punto di vista fisico gli orang-utan somigliano molto agli

uomini, Tyson e Buffon ribadivano che queste grandi scimmie non appartengono alla

razza umana, perché chiaramente prive delle facoltà umane della ragione e del

linguaggio.

La visione che Parsons che del processo di socializzazione evidenzia come tutti questi

sistemi siano connessi.

Alla nascita siamo semplici organismi con certi comportamenti, sviluppandoci solo come

individui raggiungiamo un'identità personale.


Per egli, l'individuo interiorizza i valori sociali, cioè fa propri i valori sociali del sistema

culturale desumendo da altri settori del sistema ciò che ci si aspetta da lui.

Quindi, egli apprende le aspettative riguardanti il proprio ruolo e diventa membro della

società a titolo pieno.

I valori derivano dal sistema culturale; le norme e le aspettative corrispondenti si

apprendono all'interno del sistema sociale; l'identità individuale proviene dal sistema di

personalità ed il corredo biologico deriva dall'organismo comportamentale, invece,

concorde sul fatto che la natura umana sia puramente spirituale, nel secondo Discorso

contesta sia le tesi di Buffon sia la loro applicazione agli orang-utan, affermando che la

diversità dei tipi umani attraverso il mondo porta a pensare che al termine di un lungo

periodo di sviluppo la nostra specie potrebbe aver subito metamorfosi ben più vistose dal

suo primo embrione i quelle presenti dovute alle variazioni di clima e di dieta.

Poiché il linguaggio non è più naturale per l’uomo di quanto lo sia la facoltà della ragione

della quale è espressione indicare il linguaggio dei popoli civilizzati come un prova della

subumanità degli orang-utan.

Questo errore, secondo Rousseau, è lo stesso compiuto da Hobbes, Pufendorf, Locke e

Condillac nel momento in cui hanno affermato che la manifestazione di un

comportamento complesso in società è una prova di umanità.

Le scimmie evidentemente non appartengono alla nostra razza, ipotizza Rousseau,

perché mancano della facoltà umana della perfettibilità.

Rousseau supponeva che l’orang-utan fosse una possibile varietà di uomo primitivo

basandosi sul fatto che questa creatura cammina eretta ed ha una forma simile a quella

degli esseri umani, zoologicamente distinta dalle piccole e grandi scimmie.

Il problema, riguardo a questi animali, è costituito proprio dalla questione del linguaggio:

ciò che a Rousseau interessa sottolineare contro Buffon è solo il fatto che, poiché il
linguaggio esprime una convenzione sociale e deve essere appreso, non possiamo

considerare gli animali che ci somigliano fisicamente ma non padroneggiano come noi un

linguaggio articolato, appartenenti per questa sola ragione a una specie del tutto diversa

dalla nostra.

L’ipotesi di Rousseau che specie apparentemente distinte possano essere geneticamente

simili o persino identiche aprì la prospettiva di una correlazione sequenziale fra gli anelli

della catena dell’essere, che finì per soppiantare proprio l’idea di fissità delle specie

condivisa da Rousseau, destinata ad essere sostituita con le idee di metamorfosi e di

trasformazione.

La descrizione del tutto congetturale che fece dell’orang-utan, definito come una specie di

selvaggio senza parola nello stato di natura, è, per una strana coincidenza, molto più

precisa dal punto di vista empirico di qualsiasi altra descrizione del comportamento di

questo animale compiuta nei successivi duecento anni.

Naturalmente, la perfettibilità dell’uomo primitivo nella sua condizione naturale non gli

assicurava il progresso morale, perché il vero sviluppo in questo senso dipende dalle

concrete scelte fatte da ciascun individuo nell’adottare le diverse istituzioni sociali e

politiche.

La perfettibilità umana garantisce soltanto la possibilità di mutamenti cumulativi in una

direzione o in un’altra, ed è altrettanto compatibile con la storia della degradazione

umana quanto potrebbe esserlo con la storia del progresso.

Secondo Rousseau, infatti, l’uomo ha fatto un cattivo uso della propria libertà rispetto ai

dati originari che ha in comune con gli animali: soppressi nel corso del proprio sviluppo

la pietà e l’amore di sé, l’uomo ha autodeterminato la propria degradazione.

Diventando gradualmente sempre più indipendenti dalla natura, i selvaggi divennero

sempre più dipendenti gli uni dagli altri, e l’originaria perfettibilità di ciascun individuo
fu esercitata in modo tale da risultare incompatibile con la sua libertà naturale, a causa

della scelta di diventare, in società, schiavi di nuove costrizioni che ci si autoimponeva.

La perfezione dell’individuo in realtà ha prodotto la decrepitezza della specie, conclude

Rousseau, e la nostra perfettibilità si è, quindi, rivelata la fonte di tutte le disgrazie

dell’uomo. Fu l’abuso delle capacità di migliorare se stessi, e non il diritto naturale, a

rendere possibile la trasformazione di semplici differenze fisiche in significative differenze

morali, e a giocare perciò il ruolo predominante nell’istituzione dell’ineguaglianza sociale.

In molti passi del secondo Discorso, così come nel nono capitolo del Saggio sull’origine

delle lingue, Rousseau sostiene che accidenti e catastrofi naturali come inondazioni,

eruzioni vulcaniche e terremoti abbiano portato in origine i selvaggi alla vicinanza

territoriale, forse dopo che gli sconvolgimenti del globo staccarono e tagliarono in isole

certe parti del continente.

Vivendo più vicini fra loro, i nostri antenati avrebbero smesso di condurre un’esistenza

nomade, e costruendo capanne e altri rifugi con strumenti inventati a quello scopo

avrebbero cominciato a stabilirsi e formare famiglie, inaugurando così la prima

rivoluzione della storia umana, e introducendo con questa un’embrionale idea di

proprietà privata.

Le distinzioni morali comuni in società furono stabilite dagli uomini, e non dalla Natura

o dal caso: l’ineguaglianza sociale non può essere sorta semplicemente dal vivere in

prossimità l’uno dell’altro.

L’ineguaglianza sorse invece, probabilmente, dal fatto che i selvaggi cominciarono ad

identificare i loro vicini, che avevano cominciato ad incontrare con inusuale frequenza.

Quando, nei loro primitivi, insediamenti, i nostri antenati si ritrovarono a vedere le stesse

persone giorno dopo giorno, essi probabilmente cominciarono a far caso alle qualità che

le distinguevano le une delle altre, e gradualmente a riconoscere, per esempio, quali fra
loro erano più forti, più abili, più eloquenti o più gentili.

In generale, si iniziarono a percepire le differenze di costituzione dovute alla Natura.

A sua volta, ciascun uomo cominciò a identificarsi alla luce delle qualità che gli altri

sembravano riconoscere come sue caratteristiche, a confrontarsi con persone che gli

divenivano sempre più familiari, e anche ad attribuire qualche significato alle differenze

che percepiva.

Così, nell’assegnare una valore a certe caratteristiche piuttosto che ad altre, i nostri

antenati trasformarono le variazioni naturali in distinzioni morali.

E rivolta la loro attenzione verso i talenti dei vicini, desiderarono anche essere ammirati

per le proprie abilità. Giunsero in questo modo ad invidiare o disprezzare le persone le

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