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I Tra Umanesimo e riforma: la fucina della grandezza

1.2 Ragioni di Stato

L’Inghilterra divenne una nazione protestante per motivi dinastici. Enrico voleva a tutti i costi
divorziare da Caterina d’Aragona, e voleva sposare Anna Bolena poichè la prima moglie non aveva
dato alla luce eredi maschi. Dopo il rifiuto del papa Clemente VII la corte di Enrico si divise in due
fazioni, una filocattolica con capo Caterina e l’altra filoluterana che aveva come capo Anna Bolena.
Con l’aiuto di Cromwell Enrico privò gradualmente il clero di tutti i diritti acquisiti nei secoli. Con
l’atto di sottomissione del clero nel 1531, esso perse ogni autorità spirituale e giuridica. Con l’atto
di supremazia nel 1534 Enrico si arrogò ogni diritto giurisdizionale sul suo paese, compreso quello
spirituale. Nacque così la Chiesa inglese, più avanti chiamata Anglicana. More fu rinchiuso nella
torre di Londra per essersi rifiutato di prestare giuramento all’atto di supremazia. Fu decapitato in
seguito nel 1535 per alto tradimento.

2. Poeti alla corte di Enrico: Skelton, Wyatt, Surrey

Thomas Wyatt fu il primo poeta inglese che importò la lirica italiana e latina in Inghilterra. Studiò a
Cambridge, fu cortigiano di Enrico e trascorse la maggior parte della sua vita all’estero come
ambasciatore in Spagna. Fu imprigionato per ben due volte nella torre di Londra: la prima nel 1536
a seguito di una lite con il duca Suffolk, la seconda nel 1541 perchè accusato di alto tradimento
durante la congiura di Anna Bolena che la condusse alla pena capitale, cavandosela entrambe le
volte ottenendo il perdono dal monarca. Della poesia italiana, Wyatt importò la disciplina formale
che mancava al verso medievale inglese, aiutandolo a separarsi gradualmente dalla musica. La rima
più comune della sua poesia è formata da tre quartine e un distico finale, diversa dunque dalla forma
del sonetto di Petrarca (ottava e sestina). Le traduzioni di Wyatt non sono piene trasposizioni
linguistiche. Si assiste cioè, come è stato detto da T. M. Greene, ad un processo di linearizzazione
dello schema circolare della poesia di Petrarca. Si passa da uno stato di meditazione sullo stato
irrimediabilmente infelice di un amore senza oggetto, al dialogo vivo e diretto con una donna non
fredda e distante come quella di Petrarca, bensì volubile e frivola e soprattutto presente. Tutto ciò
avvenne per l’importazione del mondo culturale e letterario petrarchesco in quello immensamente
diverso di Wyatt con modificazioni creative e soggettive. Non solo l’eros come elemento centrale
delle poesie di Wyatt ma anche la corte ed i suoi abitanti. Se il corpo dell’amata è vivo e presente,
altrettanto viva e presente è la politica di corte. Nella sua rielaborazione di “Una candida cerva” di
Petrarca, la famosa “Whoso List to Hunt”, l’eros è intimamente intrecciato con il potere,
concretissimo e vicino ad Enrico VIII. Il poeta è a caccia di una metaforica cerva, la quale ha un
collare rimandante alla proprietà di Cesare (un chiaro segno di ingiunzione contro ogni desiderio di
possesso). Non si tratta quindi di unna irraggiungibilità di tipo metafisico, né della natura stessa del
desiderio amoroso che non può fermarsi, né la fredda crudeltà dell’amata, bensì il fatto che
appartiene ad una persona più potente del poeta. Allusione ad Anna Bolena per la cerva, ad Enrico
VIII per Cesare. Il testo dimostra la duttilità di Wyatt nell’adattare il testo originale e prestigioso
alle circostanze presenti in corte. Alla cinica politica della corte, Wyatt dedica la sua poesia più
importante “They Flee from Me”.
Fu Henry Howard, conte di Surrey che per primo riconobbe il merito di Wyatt di aver rinnovato il
verso inglese attraverso l’uso ingegnoso del modello italiano. Surrey mise a punto la forma
definitiva del sonetto inglese che verrà usata da Sidney a Donne: tre quartine ed un distico finale.
Inoltre inventò l’endecasillabo sciolto, il famoso blank verse. Rispetto ai sonetti di Wyatt, quelli di
Surrey presentano una forma più regolare e musicale; il loro effetto, però, è meno vigoroso. Ma il
merito di Surrey sta nell’aver seguito l’esempio innovativo portato da Wyatt, nell’averlo
riconosciuto come precursore e modello. Né Wyatt né Surrey pubblicarono le loro poesie in vita
perché destinate al ristrettissimo pubblico di corte presso il quale circolavano. Furono pubblicate
solo in seguito in una raccolta voluta da Richard Tottel (Tottel’s Miscellany), la cui importanza non
sarà mai sottolineata abbastanza perché fu proprio questo libro a diffondere la poesia del
Rinascimento europeo al di fuori della corte.

3. Gli umanisti: educazione e traduzioni. Elyot e Ascham.

L’umanesimo segnò il recupero del sapere dell’antichità con la traduzione dei testi latini e greci. Il
disseppellimento avviene allo scopo di forgiare il presente alla luce dell’esempio del passato. Con
l’umanesimo nacque la filologia, la riflessione sulla lingua, sulla politica, sulla storia e sull’arte.
Molti sono i nomi noti degli esponenti di questo fenomeno intellettuale e culturale: Dante, Petrarca,
Boccaccio ecc. Uno degli aspetti costanti dell’umanesimo fu l’enfasi posta sulla pedagogia.
L’importanza attribuita all’educazione implicava la fiducia nella capacità del sapere di plasmare la
mente degli individui e di influire sulla formazione delle strutture sociali, tra cui saper governare e
sapersi comportare correttamente a corte. Per questo motivo molti umanisti furono i tutori di re ed
aristocratici. Thomas Elyott visse alla corte di Enrico VIII, al quale dedicò la sua opera più famosa
con lo scopo di dimostrare la dipendenza di un buon governo dalla formazione dei giovani della
classe dirigente. L’educazione delle classi più alte della società inglese venne gestita dagli studiosi
del sapere dell’antichità classica, contribuendo a formare dei principi morali. Questi ultimi
aiutarono a guidare le società europee nella transizione da un’organizzazione di tipo feudale allo
stato moderno. Per Elyott, il regno deve organizzarsi attorno alla figura del principe, unica fonte di
potere che può garantire la pace, ma deve essere guidato dal “windsom” ovvero la ragione e non dal
suo “will”, ovvero la sua volontà. L’utopia di Elyott è del tutto diversa da quella sofisticata di
Moore, ma divenne quella più difesa nel corso del Cinquecento. L’umanesimo ebbe inizio in Italia
perché quest’ultima era esattamente la terra sulla quale la cultura e la storia del mondo classico si
erano svolte. L’Inghilterra mancava quasi del tutto di un passato e di una cultura all’altezza di quelli
italiani. Il numero di traduzioni dal latino, dall’italiano e dal francese salì vertiginosamente nella
seconda metà del XVI secolo con Sir Thomas Hoby. Egli tradusse “Il libro del Cortegiano” di
Baldassarre Castiglione nel 1561 (The Book of the Courtyer) seguito da altre operedi fama
mondiale riportate fedelmente in lingua inglese da altri autori. Una simile invasione non lasciò
indifferente Roger Ascham che nel suo “ The Scholemaster” lanciò un attacco veemente contro la
cultura italiana importata in Inghilterra e mise in guardia dalla sua cattiva influenza che essa
esercitava sulle giovani menti inglesi. Tutto ciò avvenne per una paura smisurata che l’importazione
di così tanta cultura non avrebbe permesso alla fragile identità nazionale di decollare. In realtà il
vero bersaglio di Ascham è la vita di corte, piena di inganni e seduzioni. “The Scholemaster”
rappresenta una vera e propria svolta nazionalista nella pedagogia umanista inglese.

3.1 La stampa.

La stampa significò la drastica riduzione del prezzo del libro e la sua conseguente accessibilità ad
un numero sempre più vasto di lettori. In secondo luogo, strappò al clero e alla corte il monopolio
della cultura. Stampa e traduzione furono strettissimi alleati della trasmissione della cultura e del
suo rapidissimo rinnovamento. Il libro ora può essere considerato un costoso e prezioso oggetto,
quasi come un manufatto artistico, per pochi, oppure un semplice “in quarto” (fogli piegati due
volte che formavano otto pagine) per molti. Una volta venduto il manoscritto l’autore cedeva ogni
profitto a coloro che lo stampavano. In Inghilterra la stampa fu introdotta da William Caxton. A lui
si deve la pubblicazione del più importante romanzo arturiano inglese “Le Morte Darthur” di
Thomas Dalory. Il numero degli alfabetizzati crebbe in Inghilterra vistosamente: dal venti al
sessanta per cento nei primi trent’anni del secolo. La censura fu la triste contropartita dell’esplosiva
diffusione della parola scritta in una società che era stata per secoli organizzata sulla
alfabetizzazione della sola classe dirigente. Autori e stampatori dovevano sottostare a rigidissime
regole: qualsiasi cosa scritta doveva passare il vaglio dell’arcivescovo di Canterbury e del vescovo
di Londra oltre che del consiglio privato della Corona, la più alta autorità politica dopo il sovrano.
Oggetto principale della censura furono i testi di carattere religioso, ma anche quelli che
esprimevano un pensiero politico. Fu dunque a causa di quest’ultima che poeti, filosofi, e
drammaturghi del periodo, dovettero scrivere in maniera volutamente oscura e, facendo di necessità
virtù, usarono un linguaggio altamente metaforico e poetico.

4. I figli di Enrico: Edoardo, Maria, Elisabetta.

Enrico VIII morì nel 1547 lasciando il trono al figlio Edoardo VI avuto dalla sua terza moglie Jane
Seymour. Governando all’età di nove anni, sotto la guida del duca di Somerset per poi proseguire
con John Dudley, la riforma prese un aspetto radicale mai raggiunto con Enrico. L’obbligo del
celibato per i sacerdoti fu cancellato, le immagini nelle chiese furono distrutte e nuove terre furono
confiscate all’ordine religioso. Nel 1549 si ebbe il primo “Book of Common Prayer”, scritto in un
inglese semplice e sobrio dall’arcivescovo Cranmer, stabilendo la liturgia che doveva essere
osservata durante tutte le cerimonie religiose. Rivisto nel 1552 e nel 1558 in una progressiva chiave
protestante, è importante perché costituisce una vera e propria rivoluzione liturgica al pari di quela
messa in atto dal concilio di Trento. Ad esso si dovevano uniformare tutte le molteplici forme
devozionali, rituali e festive. Fu per la varietà sociale e per la tenacia della tradizione che la riforma
voluta da Edoardo non fu accettata di buon grado. Nella liturgia protestante non esistono diavoli o
santi. Infatti, sembra esser stata forgiata per un uomo medio, devoto ed intelligente. Quando il
giovane re morì nel 1553 gli successe la sorella Maria, figlia della cattolica Caterina d’Aragona.
Anch’essa fervente cattolica, Maria si circondò di consiglieri devoti piuttosto che di esperti. Il
primo atto politico fu quello di ricucire lo strappo con Roma e disfare le riforme religiose del padre
e del fratello. Tra il 1555 ed il 1558 mandò sul rogo circa 287 protestanti per eresia. Questa
persecuzione le valse il titolo di “Bloody Mary”. La sua corte e la sua politica estera furono molto
concentrate di forze reazionarie, sostenute da delegazioni spagnole. La perdita di Calais, ultimo
avamposto inglese in Francia, segnò la sua definitiva umiliazione. Maria non generò figli e morì nel
1558. Dopo i brevi ma turbolenti regni del padre e dei fratelli, Elisabetta fu salutata come novella
Debora, eroina biblica della giustizia e della pace. Elisabetta regnò per 45 anni, fino alla sua morte,
nel 1603, e il suo regno fu ricordato come uno dei più fortunati e pacifici della storia di Inghilterra.
Figlia della seconda moglie di Enrico, Elisabetta parlava francese, italiano e spagnolo e, soprattutto,
aveva un comando assoluto della propria lingua. Detestò la guerra, fu diffidente ad ogni
innovazione mantenendo un carattere cauto, parsimonioso e di stampo conservatore. Quando salì al
trono, all’età di venticinque anni, si trovò a dover governare un paese drasticamente diviso in una
minoranza di attivi e convinti protestanti ed una maggioranza di cattolici, non accontentando né gli
uni né gli altri. Nel 1570 ricevette la scomunica da papa Pio V per aver semplificato tutte le
strutture istituzionali della Chiesa cattolica. Elisabetta regnò in condizioni sfavorevoli: dalla
mancanza di un esercito che le impediva di affrontare le potenze europee, ai limiti del suo potere
posti dal Parlamento, all’assenza di un efficace sistema burocratico ed amministrativo, dovendo
inoltre tenere sotto controllo i complotti intentati contro di lei sia da parte dell’aristocrazia che dalle
potenze cattoliche (Spagna e Roma). E infine era una donna, figlia di un sovrano che l’aveva
ufficialmente dichiarata illegittima. Di tutti questi svantaggi Elisabetta riuscì a fare ottime virtù. La
questione cruciale sulla quale s’imperniò il culto d’amore per la regina fu il celibato. Elisabetta
rimase nubile e dichiarò infine di essere unica sposa della sua nazione. Fu celebrata come Astrea,
casta dea della giustizia, divenendo oggetto di poesie amorose nelle quali fu paragonata a Cinzia o
Diana o ad una petrarchesca dama crudele. Diventare la regina vergine, amata e venerata come
cinzia o Maria, fu il modo più astuto di affrontare la classe dirigente di un paese fondamentalmente
diffidente verso il sesso femminile. La sua fu la prima corte inglese che poté competere con quelle
europee in termini di produzioni teatrali e poetiche.
4.1 La corte. Castiglione e Puttenham.

La corte del Rinascimento costituiva la vita politica di un paese. Qui nasce ciò che viene chiamato
dai sociologi la “civiltà delle buone maniere”. La corte diventa la sede del nuovo ceto di artefici, di
segretari e consiglieri, artigiani ed artisti. Ha inizio ciò che viene chiamato Stato moderno, con la
sua burocrazia ed amministrazione centralizzate, con le sue leggi ed i suoi intrighi. Il libro più
diffuso sulla corte fu “Il libro del Cortegiano” di Castiglione del 1528 tradotto in inglese da Sir
Thomas Hoby. Castiglione stabilì, con l’aiuto del neoplatonismo fiorentino, i principi estetici e
morali del comportamento cortese, ruotando intorno a concetti di “sprezzatura” (nascondere lo
sforzo dell’artificio) e “affettazione” (mostrare lo sforzo dell’artificio) che distinguono lo stile del
vero aristocratico dal novellino. Il cortigiano ideale rinuncia alle esigenze del suo narcisismo detesta
lo sfarzo e l’esagerazione per far spazio al decoro e alla discrezione. Il manuale di condotta più noto
e più letto in Inghilterra fu “The Art of English Poesy” di George Puttenham del 1586. Diviso in tre
libri, nell’ultimo la figura cruciale del “decoro” è discussa in termini di comportamento cortese.
Mentre il libro di Castiglione cerca di disegnare il ritratto del cortigiano ideale all’interno della
corte ideale, quello di Puttenham si rivolge al poeta professionista che non appartiene al circolo
cortese e che usa la poetica come mezzo per entrarci. La “sprezzatura” di Castiglione diventa nel
trattato di Puttenham arte della dissimulazione, detta in termini poetici allegoria (dark conceit).
L’arte della poesia, del comportamento e della politica diventano a corte una cosa sola. Tutti i poeti
della corte di Elisabetta sono venuti a patti con questa retorica, osteggiandola, denunciandola,
discutendola o valorizzandola: da Sidney, passando per Spenser e Ralegh fino ad arrivare al celebre
drammaturgo William Shakespeare.

II La poesia elisabettiana

1 Sidney.

Philipp Sidney è divenuto il simbolo della corte elisabettiana. Paradossalmente lo divenne solo dopo
la sua morte per una ferita subita nelle Fiandre nel 1586, nella guerra che Elisabetta aveva
dichiarato agli spagnoli che occupavano i Paesi Bassi. Sidney, appena trentaduenne quando morì,
ricevette uno dei funerali più maestosi del tempo per un uomo del suo rango. Nelle centinaia di
elegie scritte in sua memoria, i poeti individuarono in Sidney il perfetto precursore della loro stessa
poesia. La morte prematura e patriottica di un poeta aristocratico fu colta come un’occasione ideale
per creare quel prestigioso passato letterario che la poesia inglese non aveva mai avuto. Cortigiano,
cavaliere, poeta, soldato caduto per la giusta causa, protettore delle lettere, incarnazione della
nobiltà vera, Sidney divenne il candidato ideale per la formazione di un mito nazionale. Nonostante
le sue credenziali aristocratiche, politiche e letterarie non divenne mai un favorito della regina, forse
perché partecipo fin troppo attivamente alla politica del suo tempo. Fu bandito da corte a causa di
una lettera scritta in risposta al negoziato nei primi anni Ottanta sul matrimonio della regina con il
figlio del duca d’Angiò. Studiò all’università di Oxford dove non si laureò. Negli anni Settanta partì
per la Francia e l’Italia e poi in missione diplomatica in Germania, inaugurando quello che in
seguito prese il nome di “grand tour”, il giro sul continente europeo che doveva coronare la perfetta
educazione del gentiluomo. Sidney fu certamente influenzato dalla tradizione italiana e latina che
assunse agilmente in tutte le sue opere: il primo canzoniere inglese, “Astrophil and Stella”, “The
Defence of Poetry” un trattato sulla poesia, e due romanzi, la cosiddetta “Old Arcadia” e “New
Arcadia”. Solo dopo la sua morte iniziarono a circolare in stampa. Pubblicata postuma nel 1595, la
“Defence of Poetry” è la più influente discussione sulla poesia mai scritta in Inghilterra (poesia
intesa come letteratura). Al contrario dei trattati italiani non ha un carattere normativo. Essa si
presenta come un’argomentazione che aspira a convincere il lettore della nobiltà della poesia sulla
base del suo passato antichissimo, della sua funzionalità sociale e del suo potere dio nobilitare
coloro che la proteggono. Per Sidney, solo il poeta “disdegnando di essere legato a ogni soggezione,
sollevato dal vigore della sua stessa invenzione, dà vita in effetti ad un’altra natura”. Benché si
presenti come una difesa della poesia, il trattato di Sidney è il primo tentativo inglese di definire i
suoi attributi specifici e di circoscrivere i limiti dentro quali stabilirne l’autonomia sia come
disciplina, sia dall’argomento, sia dal pubblico di lettori. La poesia per Sidney non ha un fine
pragmatico perché appartiene ad una dimensione che non ha nulla a che fare con la vita reale.

1.1 Le Arcadie e il romanzo pastorale.

Le due arcadie sfruttano la convenzione allegorica del genere pastorale di Teocrito e Virgilio,
riprese nel Quattrocento italiano. L’arcadia di Jacopo Sannazaro a cui Sidney fa pieno riferimento
sia nel titolo, sia nell’uso alternato di prosa e poesia, sia nel riadattamento di alcune famose liriche,
appartiene a questo periodo. Nell’antichità come nel rinascimento, il genere pastorale consiste
nell’ambientare una trama amorosa in un ideale sito naturale, il quale è esplicitamente contrapposto
a mondo politico della corte. Pur presentandosi come genere umile, il pastorale, come scrive
Puttenham, intende “sotto il velo di persone umili, e in discorsi rozzi insinuare ed alludere a fatti più
grandi e tali che non sarebbe stato prudente dischiudere in altre maniere”. Poiché la libertà di parola
era ancora lontana, il genere pastorale offrì al poeta un vasto repertorio di immagini dentro le quali
articolare il suo dissenso politico. La “Old Arcadia” è completamente immersa nel genere a cui
dichiara di appartenere, ma Sidney vi immette una trama romanzesca travolgente ed innovativa
presa dal romanzo greco e dal rinato romanzo cavalleresco. Si presenta come una tragicommedia in
cinque atti, in cui sono mescolati prosa e versi, con una doppia trama, una seria ed una comica.
Molto lieve e meno umoristica è la “New Arcadia”. Non una revisione della precedente pur
conservando i medesimi protagonisti ma con una trama ben diversa dal romanzo pastorale.
Quest’ultima si complica al tal punto da diventare oscura, i personaggi si moltiplicano fino a
diventare un centinaio, lo spazio nel quale le mille storie si svolgono va ben oltre l’ambiente
ristretto della corte. Soprattutto il tono complessivo del romanzo diventa serio e filosofico. Per
quanto diverse tra loro le due “Arcadie” sono romanzi sperimentali che prendono a prestito vari
pezzi della tradizione romanzesca latina, italiana e francese e li mescolano in maniera originale e
nuova. “Astrophil and Stella” è composta da 108 e undici canzoni che raccontano l’amore di
Astrophil, il cui nome gioca sul doppio senso di “amante delle stelle”, dal greco, e l’iniziale del
nome di Sidney (Phil), per Stella, che Sidney stesso in tre sonetti identifica come Penelope Rich. Il
carattere istrionico e teatrale conferisce al canzoniere uno stile arguto e appuntito, potendo assumere
anche toni tragici e seri.

2. Scrittori e mecenati.

La condizione del poeta rimase soggetta alla protezione finanziaria e sociale dell’aristocrazia.
Anche laddove egli possedeva mezzi finanziari e propri, l’idea che potesse impiegare interamente il
suo tempo nella professione di poeta era ineccepibile. Sidney fu ambasciatore e diplomatico, così
anche Chaucer, Wyatt ed il conte di Surrey. Spenser fu segretario di uomini di potere. Quello che
oggi chiamiamo autonomia della poesia, nel Cinquecento era ineccepibile. Le lodi sperticate che
troviamo nelle dediche al protettore di turno situate all’inizio di ogni opera letteraria dell’epoca
indicano proprio questa dipendenza dalla classe al potere. Il sistema di protezione degli artisti era
molto diffuso e coinvolgeva la corte, le grandi famiglie aristocratiche, o anche potenti uomini di
corte. Nota per la sua liberalità fu la famiglia Sidney. Altrettanto liberale fu Walter Ralegh che
mantenne finanziariamente per un periodo Edmund Spenser sostenendolo appassionatamente come
“poeta nuovo”. Non sempre però le cose andavano così bene.
3. Spenser.

Di tutt’altra origine rispetto a quella di Sidney fu il più grande poeta del regno di Elisabetta. Spenser
nacque a Londra nel 1552. Ancora diversamente da Sidney, Spenser fu costretto a mostrare il suo
talento come uomo di lettere allo scopo di ottenere incarichi nella carriera pubblica. Fu segretario di
uomini potenti come Young, vescovo di Rochester, e di de Wilton, Lord deputato dell’Irlanda. Morì
nel1599 a Londra e venne sepolto accanto Westminster accanto a Chaucer. La sua carriera politica
si ispira a quella di Virgilio che dai primi esperimenti nel genere umile pastorale prosegue per
quello più grandioso dell’epica. “The Shepheards Calendar”, una raccolta di dodici ecloghe (brevi
poesie pastorali sotto forma di un soliloquio o di un dialogo tra pastori) che segue dichiaratamente il
modello delle “Bucoliche” di Virgilio. Gli argomenti variano a seconda dell’ecloga (una per ogni
mese dell’anno) ma hanno generalmente a che fare con il mondo della corte. Ognuna di
quest’ultime inoltre è seguita da una glossa (un commento a margine) dove un anonimo E. K.
Fornisce spiegazioni sul lessico arcaico usato deliberatamente da Spenser per rendere omaggio a
Chaucer. Al contrario di Sidney, Spenser non rinnega il passato della poesia medievale inglese.
“The Shepheards Calendar” è dedicato a Sidney, ma da quella di Sidney la poesia di Spenser si
differenzia per il diverso uso delle fonti classiche e della poesia medievale inglese, ma anche per la
diversa posizione sociale. Se per il primo la poesia è una “vocazione non scelta”, per il secondo è
anche una professione. Se Sidney è un poeta aristocratico che invoca l’autonomia della poesia dal
potere, Spenser viene definito il primo poeta “nazionale” dell’Inghilterra che mette la sua poesia a
servizio della regina. E questo ci porta al capolavoro di Spenser interamente titolato e dedicato alla
regina stessa: “The Fairie Queene”, il primo poema epico inglese. L’epica è il genere che narra le
gesta che hanno fondato la cultura di un popolo. Situata tra il mito e la storia, l’epica forgia l’dentità
nazionale. Il progetto dell’opera prevedeva dodici libri, ma Spenser ne riuscì a scrivere solo sei. Il
numero iniziale era dovuto alle dodici virtù stabilite da Aristotele. I primi tre pubblicati nel 1590
trattano le virtù della Santità, della Temperanza e della Castità; gli ultimi tre pubblicati nel 1596,
dell’Amicizia, della Cortesia e della Giustizia, mentre l’ultimo incompiuto, avrebbe dovuto trattare
della Costanza. Inoltre, dodici era il numero dei giorni nei quali si celebrava l’ascensione al trono
della regina Elisabetta, la quale non compare solo nella dedica e nel titolo, ma è impersonata da
Gloriana, la regina delle fate, nel cui nome i vari cavalieri compiono le loro imprese. Lo scopo
generale di tutto il libro è quello di forgiare un gentiluomo o nobile a una virtuosa e gentile
disciplina.

3.1 Tra epica e romanzo.

Dunque, per la stessa ammissione di Spenser, “The Fairie Queene” è insieme epica e romanzo. In
quest’ultimo il centro ed il fine etico del poeta è Gloriana/Elisabetta intorno alla quale e per la quale
i dodici (ma poi sei) cavalieri mettono alla prova le altrettante virtù che rappresentano, nonostante le
poetiche del tempo imponevano che il poeta epico prendesse una struttura narrativa lineare. Ma
“The Fairie Queene” è anche un romanzo, perché le storie dei cavalieri avanzano per episodi come
un flusso senza fine, rispondendo alle aspettative di varietà, meraviglia e diletto del lettore. Spenser
riesce a conciliare il “profitto morale” dell’epica con il piacere del romanzo, la nobiltà del primo e
la popolarità del secondo.

3.2 La poesia.

Al di sopra di ogni adesione o ideologia per l’una o l’altra forma di governo della classe dirigente,
Spenser mette la sua concezione, alta ed esclusiva, della poesia. Nel terzo canto del sesto libro il
protagonista Calidore s’imbatte in un sito pastorale, allegoria di un mondo anti-cortese. Ma questo
luogo viene visto come una deviazione dal compito morale che consiste nell’uccidereuna bestia,
allegoria della calunnia. Calidore dopo essersi arrampicato sul monte Acidale assiste alla danza di
cento ninfe, al cui centro sono poste tre donne, le tre Grazie, figure riprese dall’antichità nel
Rinascimento. Uscito dal suo nascondiglio mette in fuga le damigelle e Colin Clout, colui che
intonava la melodia su cui danzavano le ninfe, spiega a Calidore la simbologia di questa scena. Esse
rappresentano le tre fasi della liberalità: offrire, accettare e restituire i benefici. Al centro delle tre
Grazie una donna rappresenta l’amore, o forse il potere di Elisabetta. Ma in questa scena Spenser
sembra chiaramente indicare che le Grazie, possono essere evocate solo dal suono suadente della
poesia (la musica di Clout).

3.3 Allegoria e magia.

Le imprese delle dame e dei cavalieri di Spenser si svolgono in scenari fiabeschi, foreste stregate e
castelli fatati, alberi magici e palazzi sontuosi, giardini lussureggianti e dimore incantate. Qui i
cavalieri incontrano diversi personaggi del mondo magico, ognuno dei quali potrebbe nascondere il
nemico, cioè il vizio corrispondente alla virtù a cui è intitolato il libro, perché nella terra delle fate
nulla significa una sola cosa, e ogni forma è soggetta al mutamento. Così, il cavaliere sottoposto
alla prova della sua virtù dovrà superare prima di tutto quella della comprensione dei segni che gli
si fanno incontro. Dalla loro interpretazione dipenderà la vittoria. Il poeta annuncia che il suo libro è
un’allegoria continua, e che dunque esso richiede una grande attenzione da parte del lettore.
L’allegoria non sarà mai univoca, e il lettore è invitato a sfogliare i suoi molteplici livelli: dal
letterale, allo storico, al politico, al filosofico ed al teologico. Il poema di Spenser è inoltre una
fucina proliferante di immagini. Ognuna nasce per dar luogo alla successiva nel ritmo melodioso
delle stanze. La straripante cascata di colori e di suoni che “The Fairie Queene” genera, rappresenta
uno degli omaggi più incantevoli ed emozionanti resi alla musica e alla visione che la parola scritta
è in grado di evocare.

3.4 Gli amoretti ed Epithalamion.

“Amoretti” è la raccolta di 89 sonetti che Spenser dedicò alla sua seconda moglie, Elizabeth Boyle.
L’omonimia del nome della moglie con quello della regina a cui aveva dedicato il suo grandioso
poema permetteva al poeta di ambigue giustapposizioni o nette contrapposizioni tra amore privato e
l’amore politico richiesto da Elisabetta. Ma “Amoretti”, al contrario di “Astrophil and Stella”,
racconta una vera storia d’amore il cui esito felice si riversa in “Epithalamion”, insieme al quale i
sonetti furono pubblicati nel 1595. Gli “Amoretti” contengono una grande varietà di momenti o
aspetti del desiderio amoroso ma mancano del distacco ironico che caratterizza il canzoniere di
Sidney. Non è un caso che in entrambi i componimenti, com’è stato osservato, Spenser non si
rivolge alla sua amata per sollecitare il suo amore, bensì ne parla in terza persona come se essa
rappresentasse la verità su cui meditare. Per Spenser i sonetti sonno un genere privato “low and
meane” (basso e umile) rispetto al grandioso stile del suo poema. Anche nella rigida struttura
formale del sonetto comandata dal ragionamento sillogistico, tuttavia, Spenser mantiene il verso
fluido e melodioso che ha reso celebre il suo poema.

4. La lirica degli anni Novanta: Daniel, Drayton, Campion, Davies, Mary contessa di
Pembroke.

Non furono i sonetti di Spenser che s’imposero come modello in quella che viene considerata la più
copiosa fioritura di sonettistica di tutta la storia della letteratura inglese. Dal 1591 al 1597, un
periodo iniziato dal canzoniere di Sidney, apparvero anche quelli di Samuel Daniel, “Delia” (1592),
50 sonetti, di Micheal Drayton, “Idea Mirrour” (1594), 51 sonetti, per nominare solo alcune delle
raccolte più significative. Alla produzione così torrenziale e così fugace di sequenze di sonetti, gli
studiosi hanno risposto con l’affermazione che il sonetto era diventato la forma poetica per
eccellenza del cortigiano elisabettiano. Ma l'analogia socioamorosa non spiega del tutto la
straordinaria produzione di lirica degli anni Novanta. Se infatti l'Inghilterra non ha avuto una vera e
propria questione sulla lingua, né alcuna discussione sui generi letterari, come la ebbe l’Italia, ne
ebbe certo una sulla rima. Oltre che per uno dei canzonieri piú belli degli anni Novanta (fatta
eccezione per quelli di Sidney, Spenser e Shakespeare), Samuel Daniel (1563-1619) è famoso per
una “Defence of Rhyme” (Difesa della rima, 1602) che scrisse in risposta a “Observations in the Art
of English Poesie” (Osservazioni sull'arte della poesia inglese, 1602) di Thomas Campion, poeta e
cortigiano, che caldeggiava l'uso del verso quantitativo della prestigiosa poesia greca e latina.
Volgare, infantile e barbara per Campion, la rima per Daniel è suono che delizia l'orecchio e aiuta la
memoria, è armonia che ogni lingua, qualsiasi sia la sua nazione, possiede per natura e per uso.
Basata sull'accento, piuttosto che sul numero, la rima è un'«eloquenza ereditata, propria del genere
umano e ha tante forme quante lingue o nazioni ci sono nel mondo, né può essere governata da
alcuna regola tirannica di una oziosa retorica più di quanto non possa l'uso e l'osservazione». Natura
e costume: Daniel difende la musicalità e l'energia del suono della lingua inglese (e di qualsiasi
altro vernacolo) contro l'imposizione astratta di regole che appartengono a un'altra lingua (quella
degli auctores dell'antichità) e un'altra civiltà non per proteggere la nazione inglese dalla perniciosa
influenza della cultura «straniera», bensì in nome dell'inevitabile destino che accomuna ogni
nazione, sia essa greca o barbara, turca o latina, irlandese o inglese, nella costruzione di una civiltà
propria e naturale. Danza, musica e poesia erano abilità che il cortigiano, ma anche tutti i membri
della casa reale e delle più illustri famiglie aristocratiche dovevano conoscere a menadito. La
consistente presenza di canzoni e danze nel teatro elisabettiano fa pensare, inoltre, che musica e
ballo fossero apprezzati, conosciuti e praticati non solo da raffinati cortigiani, ma da tutti gli
esponenti della società elisabettiana. Le canzoni di Ariel in “The Tempest” sono celebri, e i primi
passi dell'amore tra Romeo e Giulietta sono passi di danza al ballo dei Capuleti, per non parlare
della strana danza e della strana canzone eseguite da Antonio, Cesare e Enobarbo in “Antony and
Cleopatra”.

4.1 Musica sacra e poesia.

Il gusto per la musica non era riuscito a diminuire nemmeno dopo la disastrosa menomazione della
musica sacra durante i primi decenni della riforma. All’incrocio tra poesia, musica e religione si
situa la frenetica attività di traduzione dei salmi biblici in tutto il Cinquecento inglese.
Composizioni sacre dedicate per lo più alla lode di Dio, i salmi, scritti in forma poetica semplice,
destinati all’accompagnamento musicale, furono tradotti interamente da Coverdale durante i primi
anni della riforma ed inseriti nel “Book of Common Prayer”

III La prosa

1 Il “romanzo”: Gascoigne, Deloney, Nashe, Lily, Greene, Mary Wroth.

Raccontare in prosa storie inventate non era ancora diventato nel Cinquecento inglese (né europeo)
un modo di scrivere che potesse elevarsi né a livello di genere, né, tantomeno, a quello di poesia. In
prosa si scriveva essenzialmente per istituire, per polemizzare, per discutere, per tradurre, per
raccontare eventi storici, geografici, scientifici. Eppure, in questo secolo furono fatti i primi
esperimenti di un genere che avrà un successo duraturo. George Gaiscogne è l’autore di quello che
alcuni definiscono il primo romanzo inglese: “The adventures of Master F.J.”, fu pubblicato per la
prima volta in un’antologia che comprendeva le poesie ed i drammi di Gascoigne, successivamente
nella sua seconda edizione comprendeva una narrazione del tutto inventata senza alcun riferimento
storico, di carattere amoroso e con le azioni che si svolgono principalmente a corte. I protagonisti
dei brevi romanzi di Thomas Deloney non sono né cortigiani né gentiluomini, come dichiara
esplicitamente l’autore nella prefazione alla prima parte di “The Gentle Craft”. Essi fanno parte
della classe dei mercanti e degli artigiani di provincia, di cui Deloney elogia le virtù imprenditoriali
e lavorative. Thomas Nashe è lo scrittore più irriverente e polemico del regno di Elisabetta. Come i
protagonisti dei romanzi di Deloney, l’eroe del Romanzo di Nashe non è né un cortigiano né un
gentiluomo, ma un paggio di corte. “The Unfortunate Traveller” è il primo romanzo picaresco
inglese. Ma al contrario del picaro del famoso “Lazarillo de Tormes”, Wilton, il pprotagonista del
romanzo di Nashe, non è l’uomo cronicamente oppresso dalla fame né animato dalla rabbia di chi è
inevitabilmente escluso dalla società. Nashe sembra utilizzare questo espediente narrativo per
offrire, sottraendola alla censura, un’opinione libera e spregiudicata sugli eventi storici ed
intellettuali del tempo. Non altrettanto interessante dal punto di vista dell’intreccio narrativo è
“Euphues: The Anatomy of Wit” di John Lily. Il nome del protagonista Euphues ha un’etimologia
greca e significa “fornito di buone doti”. Peobabile è che Lily prendesse a prestito il nome ed il suo
significato da “The Scholemaster” dove Asham definisce Euphues come “colui che ha una buona
intelligenza che applica con la prontezza della volontà dell’erudizione e che avendo altre qualità
della mente e del corpo deve scrivere il sapere”. Non è per la sua trama, bensì per il suo stile passato
alla storia letteraria con il nome di “eufuismo” che l’opera ebbe un enorme successo. Si tratta di uno
stile involuto, caratterizzato da una elaborata struttura sintattica e da una straboccante ricchezza di
digressioni erudite. L’eufuismo divenne di gran moda tra i cortigiani della corte di Elisabetta, e
Shakespeare non mancò di prendersene gioco nello Henry IV, dove il suo più famoso personaggio
comico, Falstaff, finge di essere il re che impartisce lezioni morali al principe Hall, il futuro Enrico
V, adottando lo stile affettato di Euphues. Anche Robert Greene adottò lo stile di Lily nei suoi primi
romanzi. Come Nashe, Greene è un “university wit”, una intelligenza coltivata dall’università che
intende guadagnarsi da vivere attraverso la scrittura. I suoi romanzi maggiori si avvalgono della
mirabolante struttura narrativa del romanzo greco e delle trame sentimentali del romanzo pastorale.
Dello stile eufuistico si è detto spesso che fece uso Sidney nei suoi due romanzi, soprattutto nella
seconda “Arcadia”. Certo, il racconto della “New Arcadia” si snoda in una sintassi involuta e
artificiosa, ma non fu per il suo stile che il romanzo ebbe un successo strepitoso nell’immediato
futuro della letteratura inglese ed europea. La più notevole imitazione dei romanzi di Sidney fu
quella di Lady Mary Wroth, figlia del fratello di Sidney. “The Countess of Montgomery’s Urania”
fu la prima opera pubblicata da una donna in Inghilterra. Probabilmente a causa di allusioni troppo
vivaci a persone ed eventi della corte di Giacomo I, Wroth fu costretta a ritirare il romanzo dalla
circolazione. Alla maniera dell’Arcadia di Sidney, Urania accumula storie su storie enfatizzando gli
aspetti amorosi e cortesi che fungevano da metafore politiche.

2 Geografia: Hakluyt, Ralegh.

L’Inghilterra era rimasta fuori dalla conquista del Nuovo Mondo per tutta la prima metà del secolo.
Ma la sua posizione geografica divenne nel Cinquecento estremamente vantaggiosa. Rispetto alle
altre nazioni continentali, essa aveva una virtù naturale ineguagliabile: era un’isola. Ciò la rendeva
allo stesso tempo difficilmente attaccabile da parte delle altre potenze europee e morfologicamente
votata a diventare una potenza marittima. Richard Hakluyt, il primo ideologo dell’Impero
britannico, raccolse nella sua monumentale “The Principal Navigations, Voyages, Traffiques and
Discoveries of the English Nation” tutti i resoconti di viaggio degli esploratori e colonizzatori
inglesi. Egli si rese conto che la conoscenza geografica dell’America era divenuta politicamente ed
economicamente vitale per l’Inghilterra, e non esitò a procurarsi i segreti delle Indie occidentali
carpendoli occultamente al Portogallo ed alla Spagna, per portare a termine il progetto coloniale
voluto anche da Ralegh e permettere l’emancipazione economica dell’Inghilterra dalle altre potenze
europee. Raramente i racconti di viaggio presentavano una versione veritiera o imparziale delle
nuove terre. Lo sguardo europeo sul nuovo mondo era carico dei pregiudizi, religiosi o sociali, e
della immaginazione, classica o scientifica, che esso si portava dietro dal vecchio continente. Luogo
di meraviglie e di ogni sorta di stranezze esotiche, fu in ogni caso visto come un mondo da
addomesticare con la forza fisica o della persuasione. Walter Ralegh, di umili origini, fu il favorito
più orgoglioso e brillante di Elisabetta, famoso cortigiano per i suoi abiti sfarzosi e stravaganti,
poeta, storico, esploratore e colonizzatore, protettore di poeti e scienziati. Negli anni Ottanta
raccolse intorno a sé i migliori ingegni del regno – geografi, matematici, capitani di navi – per le
sue imprese oltreoceano. Tra questi il matematico Thomas Harriot che per primo puntò il
cannocchiale verso un cielo che non era più il chiuso firmamento tolemaico-cristiano e per questo
sospettato di ateismo. Scienza e teologia non andavano d’accordo nel clima fondamentalista dei
conflitti religiosi del XVI secolo, e l’amicizia con Harriot si ritorse contro Ralegh coinvolgendo
anch’egli nell’accusa di ateismo. Benché l’accusa potesse essere fondata, Ralegh fece sempre
professione di lealtà alla regina e di fede protestante nelle sue opere. Fu infatti in onore della regina
che battezzò la prima colonia inglese nel 1584: Virginia. Quando alla morte della regina nel 1603,
salì al trono Giacomo I e Ralegh fu rinchiuso nella torre di Londra con l’accusa di alto tradimento.
Qui scrisse la sua monumentale e ambiziosa opera “History of the World” nella quale medita, con
l’aiuto di un pensiero politico spesso preso in prestito da Machiavelli, sull’ascesa e la caduta degli
imperi. Nasce dunque alla fine del Cinquecento l’ideologia di dover sostenere l’espansione
coloniale dell’Impero. Le nuove terre rappresentavano per l’Inghilterra un’occasione sia per
costruire l’epica nazionale, sia per l’espansione economica dei ceti sociali più dinamici ed audaci.

IV Il Teatro.
1 A corte.

Uno degli effetti della Riforma fu la soppressione del teatro religioso. La sua estinzione fu lenta e
progressiva, e fu accompagnata dallo sviluppo di un genere teatrale che possiamo considerare laico,
l’interlude. Quest’ultimo prevedeva l’illustrazione drammatica di un breve episodio attraverso il
confronto tra un numero limitato di personaggi, spesso allegorici. Si può dire che l’interlude
comincia là dove la “morality” svanisce, rivolgendosi ad un pubblico colto. In alcune occasioni
prevale l’elemento comico, l’attenzione all’intrattenimento, ma spesso l’intento è esplicitamente
didattico. Anche in Inghilterra il teatro fu nei primi anni della Riforma asservito alla propaganda
religiosa. John Bale riuscì ad utilizzare l’interludio morale in chiave protestante e scrisse circa venti
drammi con argomenti prettamente anticattolici. “King Johan” (Re Giovanni) fu il primo dramma
con argomento storico, utilizzando la storia strumentalmente per fini politici presentando il re
Giovanni come vittima della prepotenza delle forze cattoliche e come precursore di Enrico VIII nel
liberare l’Inghilterra dalla tirannia di Roma. L’influenza di Plauto e Terenzio è invece evidente in
“Ralph Roister Doister” di Nicholas Udall e nell’anonima “Grammer Gurton’s Needle” (L’ago di
Grammer Gurton). Fu nelle università e nelle scuole dove i drammi venivano rappresentati dagli
studenti che si perfezionò la struttura del dramma inglese sulla scia del modello latino ed italiano.
Le tragedie di Seneca furono il modello del più notevole dei drammi della corte di Elisabetta scritto
da Thomas Norton e Thomas Sackville, “Gorboduc” nota anche come “The Tragedie of Ferrex and
Porrex”. La tragedia indaga sulle conseguenze politiche dell’abdicazione di Gorboduc e sulla guerra
civile che produce la mancanza di governo. L’intenzione didattica è esplicitamente dichiarata alla
fine del primo atto. La morte di Gorboduc, senza eredi, lascia la nazione nel caos: il monito alla
regina vergine è evidente. E tuttavia, non si esaurisce nella lezione ad Elisabetta il merito di
Gorboduc. Ogni atto è preceduto da una scena mimata che rappresenta in maniera efficace la paura
o il disordine generale dalla guerra civile. Quest’opera segnò certamente una svolta nella
drammaturgia elisabettiana. Il grande teatro che nacque nel regno di Elisabetta non ebbe né modelli
né rivali nel continente europeo.
2 In città.

Il teatro che si sviluppò in Inghilterra alla fine del XVI secolo fu certamente l’espressione culturale,
letteraria e linguistica più dirompente d’Europa. Non fu solo perché il suo maggiore esponente fu
William Shakespeare, ma perché esso riuscì a coinvolgere tutta la popolazione inglese: aristocratici,
artigiani, mercanti, la stessa Corona e naturalmente drammaturghi e attori. Le motivazioni per cui fu
quest’espressione artistica fu così ricca e universalmente nota sono molteplici: la principale riguarda
la popolazione di Londra, che crebbe esponenzialmente tra il Cinquecento ed il Seicento. Alla morte
di Shakespeare nel 1616, Londra era la più grande città d’Europa. Il numero dei londinesi crebbe
soprattutto grazie ad una costante e copiosa immigrazione dalla provincia e in misura minore dalle
nazioni limitrofe. Londra era diventata alla fine del XVI secolo intellettualmente effervescente sia
perché vi arrivarono fini intelletti in fuga dal continente tormentato dai conflitti religiosi, sia perché
essa si pose come centro di ricerca alternativo alle più rigide università di Oxford e Cambridge.
Prosperità economica, mobilità sociale, slancio intellettuale, varietà e quantità della popolazione
congiunti a una relativa stabilità politica e sociale furono condizioni cruciali per il successo del
teatro elisabettiano. Andare a teatro fu, tuttavia, un’attività ricreativa vigorosamente osteggiata dalle
autorità cittadine e da gruppi religiose. Il teatro elisabettiano fu ostacolato in primo luogo dal
sindaco di Londra. Responsabile dell’ordine pubblico, egli vedeva negli assembramenti di folla che
attiravano i teatri solo un potenziale pericolo di sedizioni. Gli altri grandi nemici del teatro furono i
moralisti e i religiosi, specialmente la piccola ma attivissima minoranza dei puritani. Riprendendo
una vecchia polemica, questi ultimi attaccarono il teatro perché scandalosamente immorale.
William Prynne, autore di uno dei più virulenti e lunghi libelli antiteatrali “Histrio-mastix or the
Scourge of Players” (Histrio-mastix, o il flagello degli autori), definisce il teatro come l’osceno di
Satana. Infine, per i puritani, il teatro somigliava troppo da vicino alle machiavelliche cerimonie
religiose dei nemici cattolici. Soprattutto la condanna colpiva il travestimento dei ragazzi che
recitavano i ruoli femminili (alle donne fu permesso di recitare solo nella seconda metà del
Seicento), non solo perché esso violava una proibizione biblica, ma perché sollecitava licenziosi
desideri erotici, sia eterosessuali che omosessuali. D’altro canto, le compagnie teatrali poterono
contare sulla protezione del governo di Elisabetta prima e di Giacomo poi, e dei più potenti
dell’aristocrazia, trasformandosi da compagnie itineranti a compagnie stabili. Ciò naturalmente
cambiò lo stato dell’attore, da girovago e vagabondo ad artigiano stanziale protetto dai potenti del
regno. La protezione del governo non fu però assoluta. In primo luogo, il Privy Council (il consiglio
privato della regina) aveva l’incarico di chiudere i teatri nel caso di un’epidemia di peste per evitare
ulteriori contagi. Inoltre, il Master of the Revels (un funzionario che aveva il compito di organizzare
le feste di corte) gradualmente venne ad assumere il ruolo di “censore”, per cui tutti i copioni
dovevano essere sottoposti al suo vaglio prima di venire messi in scena. Il Master of the Revels
aveva il compito di tagliare ogni riferimento a eventi o personaggi contemporanei che potesse avere
ripercussioni politiche, religiose o diplomatiche. La conseguenza di questa operazione fu che solo
alcune compagnie ricevettero la licenza di recitare, quelle cioè che avrebbero portato i loro drammi
a corte (l'espediente legale consisteva nel far passare lo spettacolo pubblico per una prova per lo
spettacolo di corte). I Lord Chamberlain's Men (la compagnia di Shakespeare), i Queen's Men, gli
Admiral's Men, e in seguito i King's Men (la compagnia protetta da Giacomo I, con la quale
Shakespeare lavorò dopo il 1603) furono le compagnie più importanti. In tutti gli anni Novanta la
struttura fisica del teatro fu per lo più quella di un grande anfiteatro di legno all’aperto
(generalmente poligonale) con al centro un palcoscenico quadrato (alto circa un metro e mezzo e
lungo dodici metri) che si protendeva in un’arena dove quasi metà del pubblico stava in piedi.
Questi spettatori, i più poveri, avevano il vantaggio di vedere da vicino gli attori e lo spettacolo dai
tre lati della piattaforma. Il Globe poteva ospitare fino a tremila spettatori con i
quali, data la loro prossimità e visibilità (lo spettacolo era dato alla luce del giorno, dalle due alle
cinque di pomeriggio), gli attori dovevano stabilire un rapporto molto più diretto e familiare di
quanto non accada oggi. La scenografia di questi primi teatri era dunque quasi
inesistente e gli attori dovevano contare sugli sfarzosi e stravaganti costumi (l'elemento più prezioso
e vitale del loro apparato scenico e anche quello più attaccato dai moralisti puritani) per creare
l'illusione della finzione, oltre che sulla volontà e il desiderio del pubblico di farsi, come gridavano i
puritani, «ingannare» o, come avrebbe detto Coleridge, di sospendere l'incredulità. Le compagnie
funzionavano come corporazioni commerciali i cui soci (impresari, affittuari del terreno, proprietari
del teatro o ogni altro finanziatore) possedevano quote di partecipazione, condividevano perdite e
profitti, commissionavano e sceglievano i drammi. Molti attori principali o drammaturghi
possedevano azioni. Shakespeare, per esempio, era socio dei King's Men. Non appartenevano
invece a lui, e a nessun altro drammaturgo, i “diritti d'autore” dei suoi drammi. I quali venivano
comprati dalle compagnie ed erano concepiti come dei semplici canovacci soggetti ai cambiamenti
richiesti dalla recitazione e dall'improvvisazione. La pubblicazione veniva in qualche modo
osteggiata dalla compagnia fin quando il dramma era nel repertorio per non affievolire l'interesse
del pubblico. Ma non era per la pubblicazione che i drammaturghi scrivevano le loro opere e, a
eccezione di Ben Jonson, nessuno si preoccupò mai del loro destino editoriale. Il dramma
aveva come scopo principale quello di piacere a un pubblico eccezionalmente eterogeneo che
comprendeva l'illetterato e l’erudito, il mendicante e il re, mescolati insieme in un solo luogo sul
quale in quel momento non gravava il peso di alcun ordine giuridico o sociale. Queste circostanze
speciali trasportavano per la durata dello spettacolo spettatori e attori fuori del tempo e della storia.

3 Kyd.

A Thomas Kyd è attribuita la paternità del teatro elisabettiano per il solo dramma che è arrivato fino
a noi. “The Spanish Tragedy” fu messa in scena al Rose nel 1592 e pubblicata anonima nello stesso
anno. Si tratta di una tragedia di vendetta, nella quale l’influenza senechiana è dichiarata
esplicitamente in alcune citazioni al tragediografo latino e dall’uso della sticomitia (dialoghi di un
verso per ciascun interlocutore). La tragedia di Kyd mira alla spettacolarità. All’azione ed alla
passione si adatta il tema della vendetta, nodo nevralgico intorno al quale ruota l’intera trama. Il
tema della vendetta si rivelerà denso di potenzialità per la costruzione di trame machiavelliche e
passioni estreme nella produzione dei drammi successivi (“Amleto” di Shakespeare riprende
proprio la tragedia di Kyd). L’utilizzo della finta follia ed il teatro nel teatro contribuirono a
conferire a Kyd e successivamente a Shakespeare, il merito di aver suscitato nel pubblico una sorta
di “mise en abime”, ovvero la consapevolezza che ciò che guardavano era finzione. Kyd fu il primo
drammaturgo del teatro popolare a scrivere in “blank verse” (pentametro giambico), ma fu subito
seguito dal “verso potente” di Christopher Marlowe.

4 Marlowe.

Marlowe, nato nel 1564, figlio di un calzolaio, vinse una borsa di studio per iscriversi all’università
di Cambridge, dove fu probabilmente notato e reclutato nei servizi segreti in un momento in cui si
erano moltiplicati i complotti dei paesi cattolici contro il regno di Elisabetta. Dopo una missione a
Reims, rientrò a Londra dove, oltre che lavorare per i servizi segreti, iniziò a scrivere per il teatro.
Sullo sfondo di questo critico momento politico che si deve situare l’assassinio di Marlowe nel
1593. Se l’omicidio fu velocemente licenziato dalle autorità si deve anche al ritratto di ateo
socialmente pericoloso e di libertino sessualmente depravato che un certo Richard Baines, equivoco
informatore della polizia, aveva riportato alle autorità. Certo Marlowe doveva avere in comune con
molti dei suoi contemporanei un temperamento litigioso ed irriverente. Ma furono i suoi drammi
clamorosamente coraggiosi che si presentarono ad avvalorare l’immagine di una esistenza
spericolata e ribelle che contribuì a fare di lui uno dei poeti più amati dai romantici. In pieno clima
trionfale per la sconfitta della Invincibile Armata, “Tamburlaine the Great” (Tamerlano il Grande),
suscitò un tale entusiasmo tra il pubblico elisabettiano che Marlowe ne dovette scrivere una seconda
parte. Il dramma racconta la storia eroica del pastore sciita Tamerlano che con i suoi soli meriti
assurge al rango di imperatore del mondo. A fargli modello fu il ritratto del tiranno Cesare della
“Pharsalia”. A partire dal protagonista, che appare dall’inizio alla fine dei due drammi sia ai suoi
nemici sia ai suoi amici sia al pubblico come una figura irresistibilmente carismatica, allo stesso
tempo spaventosa ed incantatrice. Le vittorie trionfanti di Tamerlano sui potenti nemici dovevano
far risuonare nelle orecchie del pubblico elisabettiano la vittoria appena conseguita sulla prepotente
Spagna nel 1588 e quella conquista del mondo che l’Inghilterra si accingeva a strapparle. Con “The
Tragical History of Doctor Faustus” lo spazio passa dal mondo intero allo studio di un personaggio
non meno ambizioso e non meno blasfemo di Tamerlano. Non si tratta questa volta di conquistare il
mondo, bensì una conoscenza infinita. Nel celebre monologo che apre il dramma, Faustus, studioso
avido e scontento, rifiuta il sapere accademico e la teologia cristiana di Wittemberg e si avventura
nei sentieri pericolosi della nuova scienza. E siccome la ricerca autonoma e libera della verità, era
da sempre stata in contraddizione con la teologia, che invece reclama obbedienza, ecco che Faustus,
assume le sembianze sinistre di un negromante. Dopo aver stipulato un patto con il diavolo
Mefistofele e avergli venduto l’anima in cambio della conoscenza dei cieli e della terra proibita
dalla dottrina cristiana, Faustus prova un momento di felice liberazione che assomiglia ad un
realizzato desiderio di onnipotenza. Prima di morire s’immerge nelle braccia della mitica Elena di
Troia in uno dei momenti più appassionati e poetici del dramma. Altrettanto solitario e anticristiano
ma tutt’altro che studioso è il perfido ebreo Barabas, protagonista di “The Jew of Malta”, un ricco e
avido mercante escluso dalla comunità politica di Malta, facile metafora della Londra mercantile.
Barabas inganna ed uccide con un certo piacere nemici ed amici, non risparmiando neanche sua
figlia. Finisce naturalmente male per Barabas, vittima dei suoi stessi stratagemmi, non solo perché
incarna la mostruosa avidità dell’insorgente capitalismo, ma anche perché rivela l’ipocrisia dei
cristiani che dichiarano di disprezzare l’oro di cui sono tanto avidi tanto quanto l’ebreo. L’intreccio
tra teologia e politica è evidente, e una analisi più attenta scopre velate allusioni alla cinica e
subdola politica dei servizi segreti. Al contrario dei suoi energici e ambiziosi predecessori, Edoardo
II, protagonista dell’omonima tragedia “Edward II”, è un re perdutamente innamorato,
ingiustamente passato alla storia come “re debole”. Caso unico nella storia della drammaturgia
elisabettiana, “Edward II” racconta la vicenda scabrosa (che Marlowe trovò nelle “Chronicles” di
Holinshed) di un re inglese del Trecento che perde il trono a causa di un amore doppiamente
trasgressivo per un uomo socialmente inferiore. La scena più straziante dell’intero dramma vede il
re chiuso in una fogna coperto di escrementi, tormentato fisicamente e mentalmente per poi essere
impalato, trasformando il re omosessuale nel martire di un’aristocrazia ottusa e guerrafondaia. Il
fatto stesso che “Edward II” non subì alcuna censura (al contrario del “Doctor Faustus”) dimostra
che l’omosessualità non veniva ritenuta un peccato capitale, e benché fosse condannata per motivi
religiosi, raramente veniva perseguitata sia socialmente che giuridicamente. L’amore che unisce
Edoardo e Gaveston ha le caratteristiche dell’amore greco che troviamo in “Hero and Leander” (Ero
e Leandro), uno dei più bei poemetti della fine del Cinquecento, riscoperta nelle “Heroides” di
Ovidio. Ero è la sensualissima e casta sacerdotessa del tempio di Venere. La bellezza di Leandro è
così assoluta da comprendere anche quella femminile: una caratteristica platonica di cui sarà dotato
anche il “fair youth” a cui Shakespeare dedicherà la maggior parte dei suoi sonetti.

5. Shakespeare.

William Shakespeare nacque a Stratford upon Avon il 23 aprile del 1564, lo stesso anno di
Marlowe. Frequentò la “grammar school” di Stratford. Nel 1582 sposò Anne Hathaway di otto anni
più vecchia di lui, da cui ebbe tre figli. Lasciò la sua cittadina natale per cercare fortuna a Londra,
trovandola subito. In “A Groatsworth of Wit” (Quattro soldi di arguzia), un “pamphlet” pubblicato
nel 1592, Robert Greene, preso da uno dei suoi non insoliti attacchi di invidia, descrive Shakespeare
come “una cornacchia venuta dal nulla, abbellita con le nostre piume”. Nei primi passi della sua
carriera Shakespeare lavorò come attore e dal 1594 cominciò a scrivere stabilmente per la
compagnia dei Lord Chamberlain’s Men che cambiò nome dal 1603 in King’s Men. Per queste
compagnie, Shakespeare scrisse almeno due drammi all’anno, ed insieme ai Lord Chamberlain’s
Men raccolse un capitale sufficiente per costruire nel 1599 un nuovo teatro a sud del Tamigi, il
Globe. Nessuno dei primi drammi di Shakespeare arrivati fino a noi esiste in manoscritto. Tuttavia
il testo canonico a cui si fa generalmente riferimento è il famoso “First Folio” pubblicato con
attenzione e cura da John Heminges e Henry Condell, due attori della compagnia di Shakespeare,
nel 1623. Questo elegante libro (gli “in folio” erano costituiti da grandi fogli piegati una volta che
formavano due pagine e quattro facciate) contiene tutti i drammi di Shakespeare ad eccezione ad
eccezione di “Pericles” e “The Two Noble Kinsmen”. Dei trentasei drammi pubblicati nell’in folio,
diciotto erano già apparsi durante la vita di Shakespeare in edizioni “in quarto”, più economici degli
in folio. A differenza della breve carriera di Marlowe, quella di Shakespeare si svolse in un arco di
tempo sufficientemente lungo da comprendere un verosimile, ancorché accidentato percorso
esistenziale ed intellettuale.

5.1 I drammi storici, o “history plays”.

Il confronto con i popolarissimi drammi di Kyd e Marlowe era inevitabile all’inizio degli anni
Novanta. Il gusto per il sensazionalismo e la competizione con Marlowe continua anche nei primi
drammi storici, la cosiddetta prima tetralogia composta dalle prime tre parti di “Henry VI” e
“Richard III”. Con l’intenzione di ricostruire la trama dinastica che si era dipanata fino al presente,
Shakespeare rielabora liberamente una notevole quantità di materiale storico derivato dalle
“Chronicles” inglesi e mette in scena con creatività ed immaginazione i conflitti nobiliari del
Quattrocento che avevano forgiato la storia politica dell’Inghilterra. L’interpretazione di
Shakespeare non è né lineare né celebrativa né provvidenziale. La storia di Enrico VI è mostrata
come una serie di eventi efferati e confusi, su cui non veglia nessun confortante sguardo dall’alto. I
personaggi che si stagliano sulle affollate scene della guerra delle Due Rose sembrano emergere
dall’essenza distillata del male. Le cruente lotte civili tra la casa di York e la casa di Lancaster
partoriranno quasi per naturale conseguenza la mostruosità deforme di Riccardo III, protagonista
omonimo della tragedia, uno dei villains più micidiali dei drammi shakespeariani. Figura dominante
di una tragedia più compatta stilisticamente e strutturalmente delle precedenti, il gobbo Riccardo,
duca di Gloucester, si fa strada sanguinosamente verso la Corona tramando e uccidendo chiunque si
ponga sulla sua strada. Se “Richard III” mette in scena l’energia diabolica del potere, “Richard II”
dà invece inizio ad una meditazione sulla legittimità della monarchia che seguirà con la cosiddetta
seconda tetralogia di cui fanno parte “King John”, le due parti di “Henry IV” e il più tardo “All is
True” o “Henry VIII”. Riprendendo la storia dello sfortunato re Riccardo II dalle “Chronicles” di
Holinshed, Shakespeare ritorna indietro nel tempo all’apparente ricerca di quella catena di eventi
che condurranno alla guerra delle Due Rose. Al centro del dramma, però, non ci sono più le feroci
trame politiche o le guerre dei clan aristocratici, ma la natura angosciata di un re complesso e
diviso, inizialmente descritto come irresponsabilmente inadeguato alla conduzione del regno. Non è
alle cause della perdita della corona, tuttavia, che si concentra Shakespeare, ma sull’effetto che essa
produce sulla identità di Riccardo spogliato della sua regalità e ridotto da corpo sacro a corpo
naturale. A Bolingbroke usurpatore ambizioso ed energico, Shakespeare assegna un ruolo
secondario in “Richard II”, ma al Bolingbroke divenuto Enrico IV dedica due interi drammi storici.
Le due parti di “Henry IV” proseguono una riflessione sulla legittimità della corona. Questa volta
non si tratta di mettere in luce la vulnerabilità del potere di fronte alla forza travolgente della storia,
ma di indagare nella formazione di un nuovo re. Perché protagonista dei due drammi non è tanto il
re che da loro il titolo, quanto il principe Hal, futuro Enrico V, il primo re-mito della nazione
inglese. La Storia con la lettera maiuscola è affiancata e parodiata dalla storia di Hal e dei suoi
amici scapestrati e senza mestiere, alla testa dei quali si distingue il grasso, sovrabbondante Falstaff,
il più celebre personaggio comico di Shakespeare. Conteso dai due stremi della gerarchia sociale, lo
scanzonato e mordace Hal, non si lascia del tutto coinvolgere dalla espansiva creaturalità dei suoi
futuri sudditi più poveri (incarnata dal corpo esageratamente grasso e onnipotente di Falstaff). Il
rapporto è solo apparentemente alla pari: il principe non mancherà di sottolineare la differenza di
grado tra lui e il “suo” popolo e dovrà infine tradire le loro attese e il loro genuino attaccamento alla
sua persona “naturale” in nome dell’ufficio pubblico che essa dovrà adempiere. Nella scena finale
della seconda parte dell’Enrico IV, il re appena incoronato ripudierà Falstaff e la sua vita giovanile.
L’obbedienza del principe alle richieste del padre sul letto di morte di assumere il comando della
nazione abbandonando i suoi amici e lo spirito antiautoritario che essi rappresentano, assicura la
continuità dinastica e l’ordine della monarchia, ma non può far dimenticare l’umorismo di Falstaff.
“Henry V” conclude trionfalmente il ciclo dedicato alla formazione del principe: il re-eroe della
nazione si è infine maturato liberandosi delle parti più basse di sé e del corpo sociale. Abbattute
tutte le divisioni interne ed ogni elemento di turbamento (compreso il povero Falstaff, infine
impiccato) l’Inghilterra si presenta nella efficace retorica del dramma come una nazione unita ed
eroica. Ma gli interessi del re sono fatti coincidere con quelli del popolo fino ad un certo punto. Il
dilemma sulla giustezza della guerra emerge costantemente nel dramma ed in particolare nel
famoso episodio in cui Enrico travestito attraversa di notte nel campo dei suoi soldati ignari della
identità del re il giorno prima della battaglia di Agincourt per conoscere da vicino il loro umore.
Nonostante dubbi e perplessità riesce a trascinare il suo esercito con l’ardore delle parole alla
vittoria finale con una perdita minima di vite inglesi. Un miracolo che non fa che confermare il
destino eletto della nazione.

5.2 Le commedie.

Se al centro dei drammi storici ci sono inevitabilmente il re ed il suolo inglese, protagoniste assolute
delle commedie sono le donne le cui storie si svolgono in diversi luoghi, realmente esistenti o tanto
immaginari quanto i boschi e le foreste incantate. Nelle prime commedie sono evidenti gli
esperimenti linguistici e non il comune dominio delle risorse del genere. Di squisita eleganza è “The
Two Gentleman of Verona”. La storia dei due amici Proteus e Valentine innamorati di Silvia, e di
Julia che insegue Proteus travestita da ragazzo ha molte fonti, a cominciare da “Euphues” di Lily,
del quale Shakespeare riprende anche lo stile sofisticato. Già da questa prima commedia
Shakespeare sembra mettere in chiaro che vizi e virtù sono facilmente ribaltabili e che spesso tocca
proprio al vizio di rivelare l’insipienza della virtù. Basata sui “Menaechmi” di Plauto che narra la
storia di due gemelli separati e ritrovati, “The Comedy of Errors” sfrutta tutti gli ingredienti della
commedia classica: lo scambio di persona favorito dalla somiglianza fisica dei gemelli, la moglie
bisbetica, la cortigiana sensuale e costosa, gli equivoci, una disastrosa confusione, il ritrovamento
finale. Il nucleo centrale di “The Taming of the Shrew” (la bisbetica domata) riprende un tema noto
nell’antichità quanto nel medioevo. È la storia del singolare tentativo riuscito di Petruchio di
domare Katherine trasformandola da recalcitrante ed intollerabile bisbetica in dolce e sottomessa
sposa. In queste commedie Shakespeare è ancora fortemente debitore delle sue fonti, a partire dai
temi, dal rispetto delle unità classiche, dal garbo stilistico, dalla simmetria della trama; ma tutti
questi elementi si ritroveranno nei drammi successive in forme inconsuete e sorprendenti capaci di
aprire nuovi significati o inquietanti interrogativi. Nella seconda metà degli anni Novanta le
commedie cominciano a guadagnare spessore e qualità. L’uso delle fonti letterarie e folkloriche in
“Midsummer Night’s Dream” è talmente originale che esse tendono a farsi dimenticare per fare
posto alla tenera liricità della commedia. Ambientata in una immaginaria Atene, la celebrazione
delle nozze di Teseo e di Ippolita viene interrotta dalle turbolenze amorose di quattro nobili ateniesi.
Poiché il nodo affettivo tra i quattro giovani non riesce a sciogliersi nella città dei padri e della
legge, essi si trasferiscono in un bosco incantato dove Oberon e Titania regnano, re delle ombre e
regina delle fate. Il succo di una violetta passata come un filtro di amore sugli occhi dei ragazzi
dormienti produce innamoramenti ciechi ed imprevedibili. Anche la regina Titania, reduce da una
lite con Oberon, al suo risveglio si innamora perdutamente di Bottom, attore di una strampalata
compagnia teatrale, al quale Puck, dispettoso folletto servo di Oberon, avrà fornito una testa
d’asino. Come a dire che l’amore è instabile e visionario come il sogno e che come il sogno può
tanto produrre l’avverarsi di un desiderio inseguito quanto scatenare l’emergere di passioni
inconfessate ed inquietanti. L’incredibile imbroglio si placa e tutto infine ritornerà in ordine. La
deliziosa quanto disastrosa rappresentazione della tragedia “Pyramus and Thisbe” da parte di una
maldestra compagnia di teatranti ribalta la posizione degli abitanti di Atene che da attori (passivi)
diventano critici attivi e benvolenti spettatori, invitando implicitamente il pubblico reale ad
assumere la stessa benevolmente ironia nei confronti dello spettacolo che hanno appena visto.
Di gran lunga più popolare fin dalle sue prime rappresentazioni, “Romeo and Juliet”, a causa del
suo finale tragico, è catalogata sotto la categoria “tragedies” nel “first folio”, anche se non è una
vera e propria tragedia, dato il suo argomento amoroso. Ma sembrerebbe che Shakespeare non
vedesse nessun altro esito possibile per un amore corrisposto e duraturo. A un amore così ansimante
e così accerchiato fanno da controcanto la prosaica comicità della nutrice e di Capuleti padre e
l’antiromanticismo di Mercuzio. Se i primi hanno la funzione rasserenante di allentare la tensione
con una terrena sessualità, o con un ruvido buonsenso, più complessa è invece la figura di
Mercuzio. Il più paradossale dei personaggi del dramma, possiede una lingua tagliente in grado di
raggelare la insipiente retorica di Romeo innamorato di Rosaline per poi lanciarsi in una delle più
appassionate tirate sulla “Queen Mab”, la regina dei sogni. Per il linguaggio provocatorio e
dissacrante, per gli scatti lirici, per la non troppo velata misoginia e per la morte casuale avvenauta
nel mezzo di un insensato litigio, Mercuzio sembra evocare il grande rivale di Shakespeare,
Christopher Marlowe. A “The Jew of Malta” di quest’ultimo, viene accostato “The Merchant of
Venice” (Il mercante di Venezia) per la presenza di due indimenticabili figure di Ebrei, il Barabas
marlowiano e Shylock. Il dramma è strutturato sulla base di due vicende che proseguono parallele
fino ad incontrarsi negli ultimi atti. Come il dramma di Marlowe, anche il Mercante di Venezia
mette a fuoco i mali del capitalismo insorgente: l’avidità, la spietata competitività, l’assoluta
moralità. Ma se Marlowe sembra preoccupato del rapporto tra il capitalismo e la politica estera del
governo, Shakespeare sposta il suo interesse sul rapporto su capitalismo e legge. La figura
dell’ebreo usuraio e miscredente poteva agevolmente assumere su di sè tutto ciò che il capitalismo
cristiano finge ipocritamente di rifiutare. Ma Shylock mette a dura prova la tenuta legislativa dello
Stato senza la quale esso ne verrebbe delegittimato e il capitalismo finirebbe per distruggere le sue
forze migliori. Anche “Much Ado About Nothing” ruota intorno a concetti di falso e vero, ma
questa volta è la calunnia al centro dell’intreccio. Ad essere calunniata è l’innocente Hero, figlia di
Leonato, che ospita nella sua casa di Messina Don Pedro, principe d’Aragona e Don John, suo
subdolo e astioso fratellastro. Quest’ultimo fa in modo che il conte Claudio, al seguito di Don
Pedro, e promesso sposo di Hero, crede che l’amata lo tradisca il giorno prima delle sue nozze,
inducendolo a ripudiarla. Dopo una lunga serie di equivoci e malintesi, l’inganno verrà svelato, e
Hero e Claudio convoleranno le giuste nozze. Quello della calunnia è un tema che ritornerà in
grande scala e con esiti tragici in Othello. Uno dei personaggi femminili più brillanti delle
commedie di Shakespeare è senza dubbio Rosalind, protagonista di “As you like it”. La commedia
racconta dell’amore tra Rosalind e Orlando. Gran parte dell’azione si svolge nella foresta di Arden
dove Orlando e Rosalind travestito da ragazzo dal nome di Ganimede si rifugiano, l’uno
all’insaputa dell’altra, per sfuggire alla persecuzione dell’insidiosa politica della corte. La foresta
acquista quindi le caratteristiche di un microcosmo pastorale. Shakespeare non si lascia sfuggire
l’occasione di smontare dall’interno i temi e le convenzioni del genere pastorale, attraverso due due
figure di matti a cui è concesso di parlare liberamente. Ma la vera protagonista
dell’antiromanticismo pastorale è proprio Rosalind travestita da Ganimede, che finge di recitare la
parte di Rosalind con l’intenzione di curare Orlando malato d’amore per la vera Rosalind. Rosalind
finge di essere Ganimede per poi fingere di essere Rosalind. È in questa veste che Rosalind può
permettersi di esprimersi con la stessa audace arguzia linguistica dei suoi saggi amici “matti”, e al
tempo stesso di manovrare con piglio autorevole i diversi intrecci amorosi che si dipanano nella
foresta, includendo il suo amore per Orlando. Viola, diversamente da Rosalind, protagonista di
“The Twelfth Night, or What You Will”, riesce ad ottenere il suo amato duca Orsino accettando
docilmente di indossare gli abiti di un paggio. Shakespeare concentra la sua attenzione su Viola,
tenera vittima del suo travestimento. Di lei, o meglio di lei nelle vesti di Cesario, s’innamora la
contessa Olivia, della quale è invece innamorato il duca Orsino a sua volta amato da Viola. Si tratts
di un consueto intreccio comico nel quale nessuno ama la persona giusta. Ma Shakespeare qui
aggiunge un nuovo elemento, Viola ha un gemello con il quale le somiglianze sono molte, creando
un nuovo scompiglio: vestita da paggio Viola è esattamente identica al fratello e ciò permette ad
Olivia di sposare Sebastian con la convinzione di unirsi a Cesario/Viola. L’inganno prospettico non
è solo uno scambio di persona, ma uno scambio di sessi: la differenza tra uomo e donna è
cancellata. Il gioco di Shakespeare sull'ambiguità dell'identità sessuale e sulla mobilità del desiderio
che ne deriva, non si esaurisce dentro lo spazio del teatro. Viola, Rosalind o Porzia, va ricordato,
erano impersonati da ragazzi travestiti da donne, adolescenti dalla «voce sottile [...] pura e
squillante, adatta a recitare una parte femminile». L'ambiguità del desiderio che essi sollecitavano,
tuonavano i puritani, continuava fuori della finzione. E forse avevano ragione.
Nel Folio del 1623 “Measure for Measure” (Misura per misura, 1604) è catalogata insieme alle
commedie, ma l'atmosfera fosca e chiusa della vicenda le ha guadagnato il titolo di dark comedy
(«commedia cupa») o di “problem play”, («dramma problematico»), insieme a “All's Well That
Ends Well” (Tutto è bene quel che finisce bene, I604) e Troilus and Cressida (Troilo e Cressida,
1602). Benché di lati oscuri non manchino anche le commedie piú evidentemente luminose, è
innegabile che “Measure for Measure” presenti una delle situazioni emotive piú conturbanti dei
drammi shakespeariani. A fronteggiarsi sulla scena sono le ragioni di un'austera legalità e quelle di
un'altrettanto austera castità, rappresentate rispettivamente da Angelo, supplente del duca di Vienna
Vincenzio, e la novizia Isabella, sorella di Claudio. Quest'ultimo viene spropositatamente
condannato a morte da Angelo per un peccato veniale come quello di aver messo incinta prima del
matrimonio la sua promessa sposa Juliet. L’inflessibilità della legge sembra però incrinarsi a causa
della stessa forza che ha generato il “peccato” di Claudio.
Angelo, sedotto dalla richiesta di grazia di Isabella, chiede la sua verginità in cambio della vita di
Claudio. Egli non mira al godimento, in quanto murato in una rigida repressione, ma Isabella
valuterà la sua castità più importante rispetto alla vita del fratello, condannandolo.
Questo scontro mette a nudo due patologie che si palesano in forma negata. Intervien quindi il duca,
l’unico lucido, il quale manovra i personaggi durante la seconda parte del dramma, come se fosse
una rappresentazione teatrale.

5.3 Le tragedie e il regicidio.

Il potere assoluto del sovrano che nei drammi storici era stato festeggiato e auspicato, diventa
argomento tragico dei drammi dei primi anni del Seicento. Tema prediletto delle tragedie di
Shakespeare è il regicidio. Con “Julius Caesar” Shakespeare si rivolge a una diversa fonte storica.
Non più le cronache inglesi ma le “Vite parallele” di Plutarco. La storia di Cesare, ucciso al culmine
del suo potere, rendeva possibile affrontare la dibattutissima questione della tirannia e della
legittimità del regicidio: un re è tiranno quando segue il suo capriccio e non la ragione, quando non
agisce per il bene del popolo. Il vero personaggio tragico nel dramma non è Cesare, ma Bruto,
costretto dalla falsa convinzione di agire per il bene di Roma unirsi all’assassinio del suo amato
Cesare. Il peso della colpa, confermata dallo sventolamento dell’ambizione dei congiurati e dal
disordine civico, non gli lascerà altra via che il suicidio. L’atmosfera cospiratoria e velenosa che
alita intorno all’assassinio di Cesare si trasforma in una atmosfera di vero e proprio terrore che
grava sul regicidio di “Macbeth”, e per un buon motivo: la tragedia non è quella di un congiurato
lacerato dal dubbio sulla legittimità e bontà della sua azione, ma di un’azione che parte con la
consapevolezza di essere illegittima e crudele. Scritto nei primi anni del regno di Giacomo I, narra
la storia di un re scozzese del Medioevo che uccide nel sonno il mite e virtuoso re Duncan allo
scopo di prenderne il posto. Macbeth è l’origine di una virulenta tempesta emotiva che si irradia al
centro della sua coscienza all’intero cosmo. Qui interno ed esterno diventano unico ed omogeneo
luogo abitato da terrificanti visioni, e la natura si popola degli stessi minacciosi fantasmi cui è
colma la coscienza colpevole del regicida: le streghe, il fantasma di Banquo. “Sleep no more” è la
voce che risuona la colpa del crimine e che incalza la complice e sterile Lady Macbeth fino al
suicidio. L’intero dramma è avvolto da un’oscurità per coprire l’orrido assassinio, interrotta solo in
alcuni punti dalla luce dei lampi o dal luccichio dell’arma del delitto che si materializza in una
scena. Il regicidio mette in moto una catena infinita di delitti che lungi dal far tacere la paura
persecutoria di Macbeth, ne aumentano geometricamente il volume. A riportare l’ordine è il figlio
di Duncan, venuto a vendicare il padre vilmente assassinato. Shakespeare aveva già affrontato il
tema del regicidio con “Hamlet”. Ma Amleto non è come il figlio di Duncan venuto a vendicare il
padre, tutt’altro. Al centro della tragedia sta proprio l’impossibilità del figlio di rimediare ai torti
subiti. A ciò nessun critico ha saputo dare una spiegazione da quando la tragedia è stata
rappresentata, eppure, a raccontarla, la trama di Amleto non è differente dalle consuete trame delle
tragedie di vendetta dell’epoca. La vicenda si svolge a Elsinore, in Danimarca. Il regicidio è
avvenuto prima che il testo abbia inizio e ci viene raccontato dalla stessa vittima, il cui fantasma si
presenta al figlio, Amleto. Dal fantasma che chiede vendetta si viene a sapere che il colpevole è il
fratello Claudio. Amleto si finge pazzo al fine di portare a termine il compito di vendetta del padre,
ripudiando l’amata Ofelia, uccidendone anche il padre e venendo allontanato e mandato in esilio in
Inghilterra, scampando al tentativo organizzato da Claudio per ucciderlo dopo averne suscitato i
sospetti per i suoi comportamenti bizzarri. La tragedia si conclude con una caotica carneficina:
Amleto, ritrovato in Danimarca, apprende che Ofelia si è suicidata e viene sfidato da Laerte a
duello, fratello di Ofelia; un duello truccato dato che la spada di Laerte era intrisa di veleno, ed in
questo ultimo scontro perdono la vita Claudio, Amleto, Laerte e Gertrude (neo-sposa di Claudio
dopo aver perso il precedente marito, non che padre di Amleto). Le azioni per un dramma passato
alla storia come il dramma della speculazione e della introspezione sono molte e tutte eccezionali.
Non è dalla pietà o dal terrore che lo spettatore è preso vedendo o leggendo la storia di Amleto, ma
dalla stessa passione esegetica che anima il protagonista. Dell’interiorità di Amleto sarà dato di
sapere attraverso i suoi soliloqui che non sarà meno colpevole degli abitanti della città. La sua colpa
sta nella mancanza di memoria. Il compito di ricordare il crimine riuscirà tremendamente difficile e
Amleto lascia che il peccato, divenuto sinonimo di malattia, venga alla luce da solo.

5.4 Tragedie e pathos.

Se il desiderio erotico viene suscitato dall’arguzia del linguaggio nelle spumeggianti commedie
degli anni Novanta, la passione delle tragedie è afasica, non riesce a trovare parole. È così che ha
inizio “King Lear”. Re Lear decide di abdicare e di cedere il regno alle tre figlie. Cordelia, la
prediletta, non rispetta le aspettative del padre e viene bandita dal regno. Le altre due figlie, Goneril
e Regan, appena ricevuta l’eredità del padre si adoperano per bandirlo ed ucciderlo. Parallela alla
storia di Lear è quella di Gloucester, che si fa ingannare dal figlio naturale Edmund sul conto del
figlio illegittimo Edgar, bandendolo dalla corte. Lear incontra Edgar in una brughiera, dove
l’orribile scena dell’accecamento di Gloucester per opera delle ingrate sorelle e dei loro mariti rende
concreta l’immagine del corrispondente accecamento di Lear. La finale riunione di Lear con
Cordelia accorsa a difendere il padre dalla furia delle due sorelle avviene troppo tardi. Cordelia
viene uccisa e Lear muore in una scena straziante sul corpo della figlia. Lear si presenta non tanto
come re che ha perduto il potere quanto come un vecchio padre incredulo di fronte alla progenie che
lo divora. Le due figlie, gelide e spietate, insieme al perfido Edmund, sono descritti tramite
l’incarnazione della natura più crudele e selvaggia, una natura indifferente alla quale viene
addebitato l’incontrollabile potere di partorire il male. Ma a suscitare la pietà dello spettatore su
Lear non è solo il male che si scatena su di lui ma ciò che lo origina: la tragica impossibilità a
riconoscere nel silenzio di Cordelia un amore troppo grande e forse troppo ombroso per esser detto.
L’emotività afasica della figlia è contrapposta a quella eloquente e furente del padre nelle scene
finali. Lontani dalla furia della natura selvaggia e vuota del male, Lear e Cordelia possono
ricongiungersi nella fantasia di un amore tenero, infantile e assoluto. In una prigione, però, e infine
nella morte. Mentre in “King Lear” troviamo molti personaggi malvagi, il male in “Othello” si
addensa in un’unica persona: Iago. Shakespeare fu coraggioso e originale a fare di un “moro” un
eroe tragico in un contesto in cui il nero veniva considerato come il colore del diavolo, della morte e
del peccato. Ma Otello è prima di tutto un valoroso guerriero, nobile servitore di Venezia, nemico
dei Turchi infedeli, soldato affascinante e romantico. Desdemona, donna bella, giovane e bianca,
resterà affascinata e sedotta dai racconti di viaggio di Otello, al punto da innamorarsene ed accettare
di sposarlo. Il loro matrimonio apparirà scandaloso e ribelle agli occhi della società veneziana,
frutto però di un amore romantico tra la civile ed europea Venezia e la cultura “barbara” orientale di
Otello. Ed è proprio qui che si insinua Iago. Alla trama di Iago vengono dedicati un numero di versi
di gran lunga più grande che al protagonista tragico. Iago riesce a rivoltare la situazione amorosa tra
i due, insinuando nella testa di Otello una plausibile storia di amore tra lei e Cassio, che
inizialmente viene “alleggerita” da Duncan, caro amico di Otello, il quale non riesce a vedere
questo male tra i due. L’eccezionale intelligenza di Iago fa emergere nell’integro Otello non le
radici di una remota e superstiziosa cultura, ma quelle bestiali della cultura di Iago stesso. Il
graduale sconvolgimento della mente di Otello e la persecuzione linguistica di Iago costituiscono il
vincolo psicopatico che unisce vittima e carnefice, in un certo senso unendo anche i due coniugi sul
letto che da talamo nuziale diviene la tomba della vittima Desdemona e del carnefice Otello.
“Anthony and Cleopatra” è la tragedia più travolgente e più “paradossale” di Shakespeare. Antonio,
Lepido e Ottaviano hanno formato un triumvirato dopo l’uccisione di Cesare. Qui troviamo un
fragoroso conflitto tra due incompatibili visioni della storia. Da una parte Cleopatra,
paradossalmente volgare e regale, lasciva ed imperiosa, corrotta e feconda, strega ed usignolo,
regina di un Egitto sensuale e fluido; dall’altra Ottaviano, rigido ed efficiente rappresentante di un
mondo ordinato, freddamente concreto; nel mezzo, Antonio, descritto con termini iperbolici ma non
privo di difetti, è legato alla regina del fertile Nilo da una passione che “supera la misura”. Questo
amore non ha nulla di romantico, gli attributi di entrambi i sessi vengono sia esaltati in termini
grandiosi, sia ridotti a capricci. La sconfitta dell’Egitto nella battaglia di Azio è scritta nella storia
come il suicidio dei due amanti. Quello che si perde ad Azio insieme con Antonio e Cleopatra è un
universo dilaniato da una immaginazione gigantesca capace di far nascere la vita dal fango.
Trattandosi di uno scontro, non è la storia a strutturare il dramma, ma una serie di scene che si
alternano tra Roma e l’Egitto. La passione che muove la tragedia in “Coriolanus” è l’orgoglio. Eroe
titanico e solitario, Coriolano è e colui che nel V secolo a. C. sconfigge i Volsci, nemici di Roma.
La gloria e l’onore ottenuti con la vittoria non sono tuttavia sufficienti a scagionarlo dall’accusa di
tirannia. Bandito dalla patria amata e difesa, si allea con il nemico per invadere la sua città natale
destinandosi consapevolmente alla morte. Coriolano è il contrario dell’uomo politico, ma la sua
integrità morale a cui non vuole rinunciare lo rende un personaggio ottuso e grande, folle e
pateticamente grandioso. A Volumnia, Shakespeare affida un ruolo sinistramente determinante nella
formazione del carattere e nella vicenda tragica del figlio. Al di là del conflitto tra dimensione
privata e quella pubblica, “Coriolanus” si presenta come tragedia austera nell’affrontare la relazione
tra carattere e destino nazionale.

5.5 Padri e figlie: i romances

Dal 1607 Shakespeare sembra imboccare radicalmente una nuova strada. I cosiddetti “romances”
ritornano, se così si può dire, alle tematiche delle commedie degli anni Novanta, ma l’asse
dell’interesse si sposta dai figli ai genitori, e più specificamente ai padri. “Pericles”, “The Winter’s
Tale”, “Cymbeline”, “The tempest” hanno in comune l’impianto fiabesco, un’ambientazione
fantastica, un rapporto turbato tra padri e figlie risolto grazie alla magia. L’esito delle storie è
sempre felice, con una decisa colorazione politica, mentre lo scontro tra le generazioni che nelle
tragedie non risparmia l’innovazione dei figli, è il frutto di una più complessa riflessione sul
passaggio della storia. Ciò è dovuto probabilmente alle mutate condizioni storiche sotto il regno di
Giacomo I. Proprio nel primo decennio del secolo, Giacomo metteva a punto la sua politica di
accordi internazionali attraverso i matrimoni dei figli.
Tra questi il dramma più ricco è sicuramente “The tempest”. Ambientato in un’isola deserta dove il
mago Prospero, duca di Milano è approdato con la figlia Miranda. L’isola non è del tutto spopolata,
infatti vi abitano lo spirito Ariel e Calibano. Il titolo fa riferimento alla tempesta che Prospero
suscita con la sua magia procurando il naufragio della nave dove si trovano Antonio, il fratello di
Prospero ed usurpatore del trono, e Alonso, il re di Napoli, con il figlio Ferdinando. Prospero
organizza un incontro amoroso tra quest’ultimo e Miranda, futuri sovrani di un regno unico tra
Napoli e Milano. Con il suo rappresentativo gruppo di abitanti locali e di personaggi arrivati da altri
paesi, l’isola di Prospero è un piccolo microcosmo sociale, simile alla corte di Giacomo I. Prospero
racconta all’inizio del dramma di aver perso il ducato perché distratto da studi segreti, quella magia
bianca. È la magia, dunque, il nuovo potere del principe. Il finale è lieto, ma non manca di note
stonate e cupe. Simmetricamente opposto allo spirito del luogo rappresentato da Ariel, Calibano è il
solo abitante dell’isola a cui Prospero rinuncia, rivendicando la sua isola e mettendo a dura prova
l’autorità di Prospero su di lui. Quindi l’isola viene vista dalla prospettiva di Calibano, come
metafora delle nuove terre che l’Inghilterra e l’Europa trovavano e di cui s’impossessavano senza
riguardo. Shakespeare però presenta Calibano come qualcosa di più del selvaggio maltrattato e
spodestato. C’è sempre un resto nella natura umana che è irriducibile ed immutabile.

5.6 La poesia.

Shakespeare non fu solo drammaturgo. Due poemetti dei primi anni Novanta segnano il debutto
nella stampa. “Venus and Adonis”, ispirato al decimo libro delle “Metamorfosi” di Ovidio, racconta
la storia di Venere e Adone, cambiando l’originale storia nella quale Adone ricambia i sentimenti
amorosi di Venere. Shakespeare, al contrario, lo trasforma in un in un adolescente acerbo che di
amore non ne vuole sapere. Venere cerca di farlo cedere innescando un lungo dialogo che
comprende anche spiegazioni metafisiche, culminando nella risposta di Adone che differenzia
l’amore con la libidine. Questa opposizione ritornerà anche nei “Sonnets”. Il poemetto termina
come nella leggenda: Adone muore durante la sua pericolosa caccia al cinghiale, ma mentre in
Ovidio Venere lo trasforma in cenere, in Shakespeare il corpo di Adone si dissolve e Venere
raccoglie il fiore che nasce al suo posto. “The Rape of Lucrece” (Lo stupro di Lucrezia), il secondo
poemetto firmato da Shakespeare, tratta di un argomento più serio del primo. Basato sui “Fasti” di
Ovidio, narra la storia realmente avvenuta nel 509 a. C. dello stupro della romana Lucrezia, moglie
di Collatino, da parte di Sesto Tarquinio. Tutta la trama approfondisce psicologicamente
l’aggressore e la vittima. È nei “Sonnets”, tuttavia, che la poesia di Shakespeare raggiunge il suo
più alto compimento. Pubblicati nel 1609, questi ultimi non hanno né la firma né la dedica di
Shakespeare. Per la mancata revisione autorizzata dall’autore sono sorti molti dubbi sull’ordine
della sequenza. Di 154 sonetti, i primi 126 sono dedicati ad un “fair youth”, i rimanenti fino al 152
sono dedicati a una “dark lady” e gli ultimi due a Cupido. All’interno del contesto socioculturale in
cui sono nati, i “Sonnets” si distinguono dagli altri per vari motivi: la maggior parte di loro non
sono destinati ad una donna ma ad un uomo; in secondo luogo, laddove si rivolgono ad una donna,
non ha le fattezze angeliche ma decisamente infernali. I primi diciassette non corteggiano il “fair
youth”, come sarebbe da convenzione, ma lo invitano a sposarsi e procreare. Il tema della
procreazione percorre tutta l’opera di Shakespeare, definendo la sterilità come il male peggiore. Nel
canzoniere il tema della progenie come mezzo per superare il breve corso temporale della vita
individuale è presto sostituito dal tema dell’arte. L’arte che sopravvive alla morte sembra innestarsi
“naturalmente” nel tema della “grande natura creatrice”. L’immagine del bel giovane può tanto
ripetersi nel volto del figlio generato dalla natura quanto nella “rima possente” creata dal poeta
capace di assicurare una memoria più duratura. Come a voler indicare che l’arte non si oppone alla
natura, ma ne fa parte e la supera. Da questo momento in poi il poeta entra in lotta con il lurido.
Dentro il grande tema del tempo e dell’arte il canzoniere si dipana modulando le molte note di una
storia d’amore. Shakespeare inoltre elaborerà un tema molto complesso, ovvero l’opposizione tra
arte ed artificio, tra vero e falso. Piuttosto che adulare e fingere, il poeta preferisce rimanere muto.
Tutt’altro che platonica e trascendentale è invece la donna bruna a cui sono dedicati i sonetti dal
127 al 152: lasciva, traditrice, incostante, la donna di Shakespeare è insieme il paradiso e l’inferno
dei sensi, e l’amore del poeta per lei è una febbre, un desiderio estremo, una malattia che lo rende
“frantic mad” (pazzo frenetico). Desiderio folle e mortale, la lussuria è un male inevitabile,
accomunando tutti gli uomini nel bene e nel male. I sonetti dedicati alla donna bruna cambiano
bruscamente il colore del canzoniere, dal biondo del “fair youth” al nero della “dark woman”, e la
lingua, che da platonica diventa aggressiva. Shakespeare, pur mantenendo la forma inglese ereditata
da Surrey di tre quartine ed un distico, quasi tutti i sonetti presentano una struttura logico-
argomentativa che li divide in una ottava, dove è svolta la prima parte dell’argomento, e una sestina,
dove viene introdotto un ragionamento oppositivo. Il distico finale raccoglie quasi sempre i
significati contrastanti presentati nelle prime due parti, riconciliandoli o mostrandone
l’inconciliabilità. Qui, come nel resto della sua opera, usa ogni tipo di linguaggio, oltre che
un’abbondanza metaforica e lessicale mai vista e rimasta insuperata.

6 Giacomo I: streghe e “masques”

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