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3) Kant e l’Illuminismo
Il tratto comune della cultura dei Lumi, che assunse in breve tempo una dimensione europea, si trova nel
rifiuto del principio di autorità (gli idola theatri di Bacone ma anche la Chiesa), in favore di un
atteggiamento mentale libero e autonomo, o, come suggeriva il filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-
1804), un atteggiamento adulto, consapevole e responsabile di sé. Si trova, ancora, nella fiducia della
ragione che permette di sottoporre a giudizio critico ogni problema (politico, economico, sociale, morale,
scientifico e religioso) facendo su di esso chiarezza. Il “tribunale della ragione”, istituito per valutare
ogni nostra conoscenza o giudizio di valore, deve liberare l’uomo dagli errori, dalle false credenze, dalla
superstizione, dall’ignoranza, dai pregiudizi, dalla tradizione e da tutte le altre forme di accettazione
passiva di pensieri, valori e istituzioni tramandate dalla tradizione in nome del principio di autorità.
Ma ecco la famosa frase di Kant, che rappresenta storicamente il manifesto dell’Illuminismo:
“L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve solo a se stesso. Minorità è
l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa
minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del
coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio
di servirti della tua intelligenza!” È questo il motto dell’Illuminismo”. “Sapere aude” è una famosa
esortazione latina che si traduce letteralmente con “osa sapere” ma il cui significato è “abbi il coraggio di
conoscere”.
4) Collegamenti
L’Umanesimo e il Rinascimento (etica attiva, laicizzazione del sapere, rifiuto dell’esaltazione della
trascendenza che mortifica l’uomo e nega la bellezza della vita terrena, critica al periodo medievale), la
rivoluzione scientifica (la ricerca scientifica impone la necessità di abbandonare i tradizionali schemi
interpretativi d’origine biblica o aristotelica, di ricorrere all’esperienza ma anche, con Bacone, di
liberarsi delle false credenze, della tradizione, della superstizione e dell’ignoranza) e il metodo cartesiano
con il suo esaltare il potere della ragione sia in ambito gnoseologico che morale e il suo sottoporre al
dubbio qualunque cosa prima di accettarla (la qual cosa si concretizzerà ne “tribunale della ragione”
kantiano)
7) Il “Cosmopolitismo”
Da “Kosmos” che vuol dire “mondo” e “Polìtes” che vuol dire cittadino, il cosmopolita pensa e agisce in
una prospettiva universale ed è aperto a tutte le culture e a tutti i Paesi. Contro le guerre e le opposizioni
fra le Nazioni, i filosofi ritengono di far parte di una “comunità mondiale della ragione” perpetuamente
in pace (Kant, ad esempio, scrisse un’opera di filosofia politica intitolata “Per la pace perpetua”).
Il Giusnaturalismo
Il Giusnaturalismo è una dottrina filosofico-giuridica che nasce con il “De jure belli ac pacis” del 1625 di
Ugo Grozio e continua nel XVIII secolo con il “Contratto sociale” del 1762 di Rousseau. Alla base di
questa dottrina c’è l’idea di uno stato di natura e il riconoscimento di norme di diritti naturali,
anteriori a ogni norma giuridica positiva stabilità da un’autorità. Il diritto naturale dovrebbe essere il
modello su cui formulare e giudicare le leggi positive. Il giusnaturalismo considera infatti lo Stato come
il prodotto di un patto tra gli individui, in vista della tutela dei diritti naturali. È necessario uscire dallo
stato di natura, perché solo il potere è capace di garantire la civile convivenza. Prima dello Stato esiste
solo una moltitudine dispersa di singoli individui ed è solo la stipula di un contratto, con cui gli
individui si sottomettono a un potere comune, a consentire la costituzione di una vera e propria comunità.
Sia Hobbes che Locke si ispirarono al giusnaturalismo, da cui ripresero l’idea fondamentale di uno stato
di natura, ovvero l’idea di una condizione originaria dell’uomo, anteriore alla costituzione di uno Stato.
Molte delle loro idee confluirono nel più importante movimento culturale e politico del Settecento:
l’Illuminismo.
Rousseau: critica gli Stati moderni che, istituendo, aumentando e legittimando le diseguaglianze (ricchi e
poveri, schiavi e liberi, potenti e deboli) invece di attenuarle, fanno dell’uomo (che sarebbe naturalmente
buono, secondo Rousseau, a differenza della visione pessimistica di Hobbes su di esso) un essere
bugiardo, meschino, vile e corrotto. Nello “stato di natura” l’uomo, sempre a differenza di quanto
pensava Hobbes, non viveva in uno stato “di guerra di tutti contro tutti” ma in uno stato di pacifica
felicità (collegamento con il mito del buon selvaggio che nacque in seguito alle scoperte geografiche) in
quanto veniva rispettato sia il diritto alla proprietà sia quello della naturale uguaglianza fra gli uomini. A
tal fine l’unica forma politica di governo adeguata è quella di uno Stato democratico e repubblicano,
fondato sulla sovranità popolare (Democrazia – da “Démos che vuol dire popolo e “Kràtos che vuol dire
potere). Ma per essere realmente sovrano il popolo deve esercitare direttamente il potere in assemblea e
non affidarlo a dei rappresentanti, che finiranno con il far prevalere la loro volontà particolare al posto di
quella di tutti (la forma, quindi, è quella della Democrazia diretta e non indiretta).
Montesquieu: contro gli abusi di potere e nella convinzione che venga prima l’individuo con i propri
diritti e poi lo Stato, egli propone “la divisione dei poteri” come di fatto già avveniva in Inghilterra con il
potere legislativo al Parlamento (diviso a sua volta fra una “Camera alta” – ossia la Camera dei Lords
che rappresentava l’aristocrazia - e una “Camera bassa” - ossia la Camera dei Comuni che
rappresentava la borghesia ), il potere esecutivo al Sovrano e quello giudiziario ad una Magistratura
completamente indipendente. L’Inghilterra rappresentava il classico esempio di Monarchia parlamentare.
Secondo Montesquieu, che ha una concezione pessimistica dell’uomo che vive in società, i tre poteri
devono essere attribuiti a organi separati perché: “Ogni uomo che ha potere è portato ad abusarne finché
non incontra dei limiti” e per arrestare questa “inarrestabile sete di dominio” è necessario che “il potere
arresti il potere”.
Voltaire: in aperto contrasto con il pensiero di Rousseau, è ostile alla democrazia popolare; il popolo,
essendo disomogeneo e ignorante, non è in grado di stabilire qual è il meglio per una Nazione (Scrisse in
proposito: “Io intendo per popolo la plebaglia che non ha che le proprie braccia per vivere. Dubito che
questa categoria di cittadini abbia il tempo o la capacità di istruirsi, morirebbero di fame prima di
diventare filosofi: mi sembra essenziale che siano dei pezzenti ignoranti. Se voi faceste fruttare come me
una tenuta, e aveste degli aratri, sareste del mio parere, non è la manovalanza che bisogna istruire ma il
borghese medio, l’abitante della città”). Egli, però, è contrario anche all’assolutismo monarchico e
dispotico tipico dell’antico regime. Quello che Voltaire vuole è una collaborazione fra sovrani e
philosophes (ossia delle menti colte e illuminate), quello che definiremo come “Dispotismo illuminato”.
Il sovrano ascolterà i consigli delle menti più illuminate e opererà con determinazione e autorità in nome
della felicità dei sudditi. Egli era deista e riteneva l’ateismo pericoloso dal punto di vista della
convivenza civile, in quanto sembrava negare qualsiasi fondamento morale comune all’umanità.
10) Pensiero economico: liberismo contro protezionismo
Contro il Mercantilismo, che prevedeva l’intervento dello Stato nelle questioni economiche per dare
sostegno all’economia nazionale e promuoverne lo sviluppo, nacque il Liberismo (attenzione a non
confondere il termine con “liberalismo”), ossia la convinzione che l’attività economica debba svilupparsi
fuori da ogni controllo e vincolo da parte dello Stato. I due principali esponenti furono Adam Smith,
nell’Inghilterra dove erano già iniziate quelle trasformazioni economiche che porteranno alla
“Rivoluzione industriale”, e Francois Quesnay, nella Francia ancora prevalentemente agricola.
Francois Quesnay: in una Francia che costruiva la propria economia ancora sull’agricoltura, egli
proclamò la “Fisiocrazia” (letteralmente “dominio della natura); la terra è fonte di ogni ricchezza
produttiva ma, affinché dia i suoi frutti, deve essere gestita attraverso l’organizzazione di grandi aziende
agricole, basate su metodi di conduzione razionali e moderni, sull’impiego di cospicui investimenti e di
efficienti macchinari. Inoltre deve esserci la libera circolazione dei prodotti e l’abolizione di ogni forma
di controllo e restrizione da parte dello Stato (come le dogane interne, le corporazioni, ecc.).
Adam Smith: l’economia risulta in grado di regolarsi da sola attraverso le semplici leggi di mercato,
ossia la legge della domanda e dell’offerta. Tale legge determina, da sola, l’oscillazione dei prezzi, delle
vendite, dei profitti e dei salari. È come se l’economia fosse governata da una “mano invisibile”, nel
senso che ognuno opera per il proprio tornaconto, ma questo si trasforma automaticamente in un
vantaggio per tutta la società. Lo stato deve lasciare totale libertà di iniziativa al singolo individuo il
quale, nel cercare di arricchire se stesso, porterà, senza volerlo, un incremento della ricchezza e del bene
comune e, quindi, ricchezza e prosperità per la Nazione di appartenenza. Lo Stato deve limitarsi a lasciar
fare e i meccanismi interni e naturali dell’economia garantiranno la crescita della ricchezza e la
diffusione del benessere. L’ottimismo di Smith si spiega perché in Inghilterra la produttività del lavoro
stava straordinariamente crescendo grazie alla sempre più diffusa utilizzazione delle macchine e alla
“divisione del lavoro”. Le leggi naturali di mercato riguardano anche la concorrenza: per battere la
concorrenza, infatti, bisogna vendere prodotti migliori a prezzi più bassi perché i compratori vogliono
spendere poco e avere prodotti di qualità. Per guadagnare di più, dunque, il produttore e il venditore sono
obbligati a fare gli interessi dei consumatori.
Il protezionismo, invece, era la politica economica inaugurata da Elisabetta I nell’Inghilterra nel 1500
(con il nome di mercantilismo) e applicata successivamente, nel 1600, dal ministro delle finanze
Colbert nella Francia di Luigi XIV (con il nome di colbertismo) che prevedeva l’intervento dello Stato
nell’economia. Tale politica ha come obiettivo l’ampliamento della ricchezza nazionale e ha le seguenti
caratteristiche:
1. Difesa della riserva monetaria e dei metalli preziosi: la ricchezza di una Nazione dipende
dall’abbondanza di moneta e di metalli preziosi e, quindi, bisogna impedire le importazioni
(comprando i prodotti all’estero, infatti, si impoverisce il proprio Stato a favore degli Stati stranieri) e
favorire le esportazioni (gli Stati stranieri acquistano i prodotti nazionali creando entrate monetarie
nelle casse dello Stato).
2. Per evitare le importazioni è necessario che lo Stato diventi autosufficiente, ossia che produca tutto
all’interno senza bisogno di dover acquistare all’estero. Per ottenere questo risultato lo Stato:
● Sovvenziona, favorisce, incentiva e finanzia la produzione di quei prodotti mancanti sul suolo
nazionale e che per questo motivo vengono compratati all’estero.
● Aumenta le tariffe doganali e le tasse sui prodotti stranieri.
● Elimina o diminuisce le tariffe doganali e le tasse sui prodotti nazionali.
● Elimina i pedaggi interni (che erano all’origine dell’innalzamento del prezzo sulle merci
prodotte all’interno della Nazione)
● Favorisce i rapporti interni e lo scambio interno di merci attraverso il miglioramento delle vie
di comunicazione
● Il miglioramento delle vie di comunicazione (via terra, via mare e via fiume) prevede la
costruzione, l’ampliamento e la manutenzione di strade, ponti e porti; la qual cosa determina
anche la nascita di nuovi posti di lavoro per la popolazione.