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COME STUDIARE LE ORGANIZZAZIONI

CAPITOLO 1

MAX WEBER (1864 - 1920) È UNO DEI PADRI FONDATORI DELLA SOCIOLOGIA.

Il suo metodo di analisi può essere definito "COMPRENDENTE E ISTITUZIONALE".

- È comprendente perché l'oggetto di studio della sociologia è l'agire dotato di senso, che Weber
definisce come "l'atteggiamento umano a cui l'individuo che agisce attribuisce un suo senso
soggettivo in riferimento all'atteggiamento di altri individui".

 SCOPO DELLA RICERCA SOCIOLOGICA E’ FORNIRE UNA

"SPIEGAZIONE COMPRENDENTE" DELL'AGIRE UMANO DOTATO DI SENSO.

SPIEGARE vuol dire trovare le cause che si suppone abbiano provocato un dato agire e
COMPRENDERE vuol dire rendere evidente il senso che il soggetto ha dato al suo agire in rapporto a
quelle cause.

- È Istituzionale perché studia il terreno e le condizioni che permettono il sorgere di certe


istituzioni e l’influenza che queste ultime esercitano sulle persone. Gli uomini nel corso della
storia hanno costruito infinite forme di istituzioni sociali che riguardano tutte le sfere dell’agire
umano. Vi sono ad esempio istituzioni statali, politiche, giudiziarie, economiche, religiose e così
via.

A differenza di Marx che privilegia i rapporti economici di produzione, o di Freud che privilegia gli
impulsi libidici dell'individuo, Weber non privilegia un fattore particolare per spiegare l’agire
umano, piuttosto la sua attenzione è rivolta a studiare le infinite forme istituzionali apparse nel corso
della storia umana.

Lo studio riguarda sia i presupposti materiali, sociali, economici, culturali, religiosi che ne hanno
permesso la nascita, sia le obbligazioni normative che discendono da quelle istituzioni e le affinità che
possono esistere tra istituzioni in apparenza molto lontane tra di loro.
Un esempio classico al riguardo è la ricerca che Weber condusse sui rapporti tra spirito del capitalismo ed
etica protestante. Weber indicò nell'insieme delle convinzioni etiche e religiose di ispirazione calvinista
(rigore di costumi, vita attiva ed ordinata, propensione al risparmio) un elemento importante di
legittimazione dell'agire capitalistico ai suoi primordi.

 LO STRUMENTO FONDAMENTALE DI RICERCA PER WEBER È LA


COSTRUZIONE DI TIPI IDEALI OSSIA DI MODELLI CHE NON ESISTONO
NELLA REALTÀ MA SOLO NELLA MENTE DEL RICERCATORE.

PER COSTRUIRE UN TIPO IDEALE: il ricercatore osserva e seleziona fra tutti gli aspetti di una data
realtà gli elementi che gli appaiono i più significativi; trascura gli elementi che gli appaiono accidentali e
marginali; infine collega tra loro gli elementi selezionati, li accentua e coordina in un quadro che deve
essere coerente e privo di contraddizioni interne.
Il tipo ideale è dunque una forma pura che non si trova nella realtà concreta ma che serve come modello
orientativo per studiarla.
Il ricercatore osserva una specifica realtà e valuta in che misura essa si avvicina o si discosta da un certo
tipo ideale. In tal modo diventa possibile fare connessioni e confronti tra realtà differenti, stabilire quale
realtà è più vicina e quale è più lontana da un dato tipo ideale.
È PERÒ IMPORTANTE SOTTOLINEARE CHE IL TIPO IDEALE:

- Non nasce da medie statistiche ma è un concetto qualitativo costruito selezionando e


accentuando determinati aspetti della realtà osservata. Ne consegue che la capacità euristica di
ricerca del tipo ideale dipende dalla bravura del ricercatore;

- Non è un modello morale di condotta e non implica qualcosa che si possa desiderare. Non bisogna
dunque confondere un ideale etico con un modello ideale utile in una ricerca.

FORME PURE DI POTERE, LEGITTIMAZIONE E BUROCRAZIA.

Weber costruisce tipi ideali anche per lo studio del potere.


Egli definisce il POTERE come "la possibilità per specifici comandi di trovare obbedienza da parte di un
determinato gruppo di uomini".

Esso ha una natura relazionale e specifica:

- E' relazionale perché nasce dal rapporto tra chi comanda e chi accetta di obbedire.
- E' specifica perché bisogna sempre stabilire le circostanze, le condizioni e i limiti in cui un
rapporto di potere si instaura.

Il potere ha due proprietà fondamentali:

1. La prima è che quando viene esercitato in maniera continuativa richiede di essere legittimato,
ossia che i sottoposti lo accettino come legittimo.
2. La seconda proprietà è che per essere esercitato ogni potere legittimo ha bisogno di un apparato
amministrativo che faccia da tramite tra il capo e i sottoposti.

WEBER DISTINGUE 3 FORME O TIPI PURI DI POTERE LEGITTIMO: il potere carismatico, il


potere tradizionale e il potere legale.

- POTERE CARISMATICO: prende il nome da carisma (dono della grazia) e si fonda sulle
qualità eccezionali quasi sovraumane che i seguaci attribuiscono al loro capo.

Il potere carismatico porta a una dedizione di fede e di entusiasmo in un clima altamente emotivo.
Non è detto tuttavia che il potere carismatico sia durevole, perché ha bisogno di continue conferme da
dare ai seguaci (successi, vittorie), altrimenti minaccia di scomparire.

Weber sottolinea che, nella sua forma pura, il potere carismatico è irrazionale nel senso che manca di
regole precostituite ed è rivoluzionario perché rovescia il passato. Esso nasce da una rottura radicale con
le istituzioni vigenti e si afferma o come predicazione di un ordine nuovo o anche come ritorno alle
origini di una istituzione di cui si accusa la progressiva degenerazione nel corso del tempo.

L'apparato amministrativo del potere carismatico è rudimentale, formato da discepoli, uomini di


fiducia che sono a contatto diretto con il capo, a cui mostrano dedizione e fedeltà.

Tale potere si manifesta nella sua forma più pura nella sfera religiosa ma trova espressione anche nella
sfera politica di cui sono un esempio i grandi capi rivoluzionari e nella sfera economica di cui sono
esempio i grandi imprenditori.

Il rischio tipico del potere carismatico sta nel prolungarsi del suo esercizio e nella successione del capo.
Quando il capo muore o si ritira, il movimento si affievolisce causando una graduale trasformazione del
carisma in pratica quotidiana, ovvero ciò che Weber definisce routinizzazione del carisma, che finisce con
il trasformarlo in un potere burocratico o tradizionale.

- POTERE TRADIZIONALE: fonda la sua legittimità su ordinamenti antichi e percepiti come


esistenti da sempre. Il detentore del potere richiede obbedienza in virtù della dignità personale che
gli è attribuita dalla tradizione.

Tipico esempio di potere tradizionale è il sovrano che regna in base a un diritto di sangue, l’appartenenza
a una dinastia. Ma il potere tradizionale non si trova solamente nelle società antiche. Aspetti tradizionali
si possono trovare anche oggi, ad esempio nelle grandi dinastie di imprenditori e in tutti quei casi in cui
l’eredità o l’appartenenza a gruppi privilegiati giustificano l’esercizio di un potere.

L’apparato amministrativo è rappresentato dunque dai professionisti.

Nel potere tradizionale il criterio prevalente per assegnare cariche non è la competenza bensì
l’appartenenza ad un gruppo privilegiato.

Ma proprio questo criterio costituisce la sua debolezza in quanto esso è sempre minacciato dall'insorgere
del carisma di qualche capo locale che si ribella alla tradizione o al metodo in base al quale avviene la
scelta del capo.

- POTERE LEGALE: E’ così chiamato perché fonda la sua legittimità sulla presunzione che chi
comanda eserciti la carica in virtù di una nomina legale, che sia competente, e che i suoi comandi
siano conformi a un ordinamento razionalmente orientato a ottenere determinati scopi.

Si presume inoltre che l’ordinamento sia ispirato a criteri astratti e universali, applicabili in modo equo
a tutti i casi simili. Anche il detentore del potere legale è quindi tenuto a rispettare lo stesso ordinamento
impersonale che lui fa rispettare ai suoi sottoposti.

L'apparato amministrativo tipico del potere legale è la burocrazia che assume la sua forma più
completa nelle società moderne. Weber insiste sulla superiorità tecnica della burocrazia rispetto a
qualunque altra forma di gestione amministrativa.
Per capirne le ragioni bisogna introdurre due punti chiave.
1. Il primo è la distinzione che Weber traccia tra razionalità rispetto al valore e razionalità
rispetto allo scopo.
Il valore è qualcosa di eticamente buono, desiderabile in quanto tale, mentre lo scopo è qualcosa che uno
o più individui si prefiggono di raggiungere indipendentemente dal suo valore etico.
Weber non sostiene che la burocrazia sia orientata sempre verso dei valori ossia che i suoi scopi siano
sempre benefici e desiderabili.
Ciò che Weber sostiene è che la burocrazia grazie alla sua intrinseca razionalità è in quanto
STRUMENTO TECNICO superiore a qualsiasi tipo di amministrazione fino ad allora comparso nella
storia umana.

2. Il secondo punto è che Weber compie un confronto storico tra burocrazia e apparati
amministrativi precedenti (feudali, patrimoniali, patriarcali), e questo confronto è fatto in
termini di modello ideale.

Weber non nega che specifiche burocrazie possano essere inefficienti e corrotte, la sua attenzione è
rivolta ad esaminare le ragioni per cui un modello puro di burocrazia è superiore ad altri modelli puri di
amministrazione.
Weber vede nella burocratizzazione, un processo universale che accompagna la realizzazione di
qualsiasi progetto politico-sociale nel mondo contemporaneo.

MA IL POTERE BUROCRATICO HA UNA PARTICOLARITÀ.


 A differenza dei poteri carismatico e tradizionale, esso è ACEFALO (senza testa), ovvero
non ha dentro di sé le direttive supreme di natura politica che guidano le scelte di un paese
o di un’organizzazione.
La burocrazia è sempre un apparato al servizio di un potere politico e questo può
basarsi su varie forme di legittimazione: carismatica, tradizionale o razionale nel senso che
è conforme ai principi di uno Stato di diritto.
Il massimo responsabile di un apparato burocratico è il FUNZIONARIO che segue le
direttive di un capo politico. Ma mentre i capi politici cambiano a seconda delle vicende
politiche, i funzionari restano.
Ci sono casi come gli Stati uniti in cui con l’avvento del nuovo presidente cambia anche la
dirigenza amministrativa (il cosiddetto spoil system). Di conseguenza, tra capo politico e
funzionari dell’apparato si instaura un rapporto complesso, in cui ciascuno ha bisogno
dell'altro. Da un lato i funzionari hanno bisogno di direttive politiche per la loro azione, e
dall’altro il capo politico ha bisogno dei funzionari per avere informazioni e realizzare il
suo programma. Ma attuando i programmi voluti dai politici i funzionari li interpretano e li
adattano: possono attenuarli, ritardarli o sabotarli se comportano novità che essi reputano
contrarie ai loro interessi di ceto.
Il PARADOSSO è che quanto più un capo politico esercita un potere assoluto, tanto più
egli dipende dall’apparato burocratico per esercitarlo.
È questo che gli filtra le informazioni su che cosa si può fare e non fare, a quali costi, in
quanto tempo e così via.
Il problema è come evitare degenerazioni burocratiche nel funzionamento dello stato; ciò è
possibile impostando un rapporto corretto tra potere politico e potere burocratico.
Per Weber le maggiori probabilità di successo nel controllo dell’apparato burocratico si
hanno nei paesi dove esiste libertà di stampa e di denuncia, e dove si è formata una classe
politica non dilettante, cioè professionalizzata e quindi dotata di sufficienti conoscenze
tecniche e amministrative per controllare la macchina burocratica.

LA BUROCRAZIA TRA TIPO IDEALE E VARIANTI STORICHE

Weber delinea un modello ideale di burocrazia moderna intesa tanto come amministrazione pubblica
che come impresa privata. Le caratteristiche di tale modello possono essere riassunte in 10 punti:

1. FEDELTÀ DI UFFICIO: è previsto il dovere di obbedienza ai superiori in quanto detentori di un


ruolo formale e non in quanto specifiche persone. I superiori possono cambiare ma il dovere di
obbedienza rimane.
2. COMPETENZA DISCIPLINATA: a ogni dipendente sono affidati compiti specializzati e precisi
da svolgere secondo norme prestabilite che garantiscono il massimo di formalizzazione e
standardizzazione.

3. GERARCHIA DEGLI UFFICI: un rigido sistema di subordinazione dell'autorità con poteri di


direzione e controllo dei superiori sugli inferiori. La gerarchia è sia una struttura di governo
dall’alto al il basso che un canale di comunicazione dal basso in alto.

4. PREPARAZIONE SPECIALIZZATA: lavorare in una burocrazia richiede da un lato un corso di


studi predeterminato per acquisire le conoscenze necessarie allo svolgimento dei compiti e
dall’altro offre ai funzionari una posizione di prestigio sociale.

5. CONCORSI PUBBLICI: per entrare in una burocrazia o per passare a livelli superiori sono
previsti dei concorsi per valutare con criteri universalistici il merito dei concorrenti.

6. SVILUPPO DI UNA CARRIERA: si lavora in una burocrazia lungo tutto l’arco della vita attiva,
con la possibilità di ricoprire posizioni sempre più alte e più retribuite per motivi di merito e di
anzianità.

7. ATTIVITÀ A TEMPO PIENO: il lavoro in una burocrazia è svolto in modo continuativo e non
può essere un’attività secondaria o saltuaria.

8. SEGRETO DI UFFICIO: la burocrazia prevede la non divulgazione delle pratiche di ufficio e la


rigida separazione tra vita d’ufficio e ambito domestico.

9. STIPENDIO MONETARIO FISSO: pagato dall’amministrazione per cui si lavora. Nella


burocrazia pura non si ricevono compensi economici diretti dai clienti o dagli utenti
dell’amministrazione. Costoro pagano l’amministrazione che a sua volta provvede a stipendiare i
propri dipendenti.

10. NON POSSESSO DEGLI STRUMENTI DEL PROPRIO LAVORO DA PARTE DEI
DIPENDENTI: gli strumenti sono dati in dotazione dell'amministrazione e i dipendenti sono
tenuti a rendere conto del loro buon uso.
Lo scopo del modello è di valutare in che modo e in che misura specifiche burocrazie comparse nel
corso della storia umana si avvicinano o si discostano dalla forma pura.

FEDELTA’ DI UFFICIO – DISCOSTAMENTO DALLA REALTA’


Il burocrate puro immaginato da Weber è legittimato a dare ordini perché possiede un’autorità che gli
proviene dal suo ruolo formale.
Egli trae la sua autorevolezza soltanto dal fatto di rappresentare la legge e ogni atto del suo
comportamento è volto a confermare a se stesso e agli altri questa convinzione. Non sono previsti né
carisma né tradizione nella burocrazia pura perché vige solo la fedeltà di ufficio.

 MA: IN UNA ORGANIZZAZIONE BUROCRATICA SI PUÒ OBBEDIRE ANCHE


PER RAGIONI DIFFERENTI DA QUELLE INDICATE DA WEBER?

Uno spunto ci proviene da alcune riflessioni del sociologo israeliano, ETZIONI (1961) sul concetto di
carisma.
Etzioni osserva che il carisma non nasce solo dal rifiuto di un ordine preesistente, quindi fuori e contro le
istituzioni, ma può nascere anche dentro le istituzioni sull'onda del successo che il capo ottiene nell'opera
di rafforzarle e rinnovarle.
Inoltre Etzioni osserva che il carisma può non trovarsi al vertice dell’organizzazione ma a livelli
intermedi. Questo avviene tipicamente nelle organizzazioni professionali (come ospedali, scuole, istituti
di ricerca) dove non è richiesto che la direzione possieda carisma ma dove il carisma di un dato medico,
professore o scienziato porta prestigio e vantaggi economici. In questi casi l’obbedienza al professionista
carismatico si avvicina all’obbedienza razionale prevista nella burocrazia pura. L’elemento che la
contraddistingue è l’attaccamento emotivo che di norma i dipendenti nutrono per quel professionista, e
che nella burocrazia pura non è previsto. Il problema nasce quando il professionista carismatico è
sostituito, o caso ancora più grave, quando entra in contrasto con il vertice o con altre parti
dell’organizzazione. Scoppiano allora di conflitti interni che possono danneggiare l’intera organizzazione
e che richiedono interventi straordinari dall’alto.
Tuttavia i conflitti più laceranti, nota Etzioni, sono quelli che nascono in organizzazioni gerarchiche pure
come le Forze armate o la Chiesa cattolica. Queste organizzazioni ammettono solo un carisma di vertice,
per cui i carismi locali possono diventare fonte di tensioni e di contrasti, con l’esito estremo di
ammutinamenti e di rivolte nell’esercito, di eresie e di scismi nella Chiesa.
Un altro delicato problema si pone nelle carceri. Qui di norma l’apparato di custodia è formato in base a
criteri meramente burocratici, ma tra i detenuti vi sono spesso leader che hanno acquisito un carisma nella
loro carriera deviante (capimafia, capibanda) e che conservano un attivo appoggio negli ambienti
malavitosi esterni. Spesso l’ordine all’interno del carcere è garantito proprio dal silenzioso consenso di
questi leader che negoziano con la direzione un ambiguo modus vivendi fatto di complicità e di privilegi
nascosti.
Infine in una burocrazia possono essere presenti anche aspetti tradizionali. Vi è un agire tradizionale
quando dirigenti, funzionari o impiegati sono assunti e fanno carriera più in virtù della loro appartenenza
a un gruppo sociale che non per i loro meriti effettivi. Casi eclatanti sono le raccomandazioni e casi in cui
il cosiddetto figlio di papà supera spudoratamente un concorso che dovrebbe essere meritocratico e
universalista.
Bisogna però sottolineare come essere un figlio d’arte non necessariamente comporta una carriera fondata
soltanto sul privilegio di sangue, in genere il vantaggio è più sottile, legato alla socializzazione precoce in
una famiglia dove tutto favorisce quella vocazione professionale. In questi casi il criterio della razionalità
meritocratica ricomprende quello tradizionale dell’appartenenza, anche se questa ha fornito un vantaggio
di partenza.
Un’altra situazione in cui i criteri tradizionali si intrecciano a quelli razionali e meritocratici si ha nelle
carriere accademiche in cui un docente porta un proprio allievo in concorso. In molte società come quella
italiana la pratica appare legittima anche in virtù della affinità culturale e di ricerca che si è creata negli
anni tra senior e junior. Tuttavia esiste il sospetto che il docente favorisca il proprio allievo oltre il lecito,
a danno di altri candidati più meritevoli ma di diversa provenienza culturale. Per legittimare la scelta fatta
pesa anche il carisma del professore più anziano. Quello dell’università è un tipico caso che dimostra
quanto complessa e intessuta di interpretazioni ambivalenti possa essere un’analisi ispirata alle categorie
weberiane di razionalità, carisma e tradizione.

COMPETENZA DISCIPLINATA – DISCOSTAMENTO DALLA REALTA’


Weber delinea solo i tratti generali e comuni di una burocrazia pura, mentre la sociologia post-weberiana
sente l'esigenza di distinguere in base alla differente natura del lavoro svolto i diversi tipi di burocrazia.
GOULDNER (1954) osserva che il principio weberiano di competenza disciplinata si fonda su una
tensione che lo rende intrinsecamente instabile. La competenza contrasta con la disciplina.
Chi è preposto a un ruolo che richiede alta competenza e responsabilità si comporta con l’autonomia
derivante dalla padronanza delle conoscenze professionali necessarie. Ogni intervento esterno anche di
superiori gerarchici, tende a essere visto come un’interferenza che può minacciare quell’autonomia.
Tuttavia solo in casi estremi la scelta tra agire secondo la propria competenza e agire secondo le
indicazioni del superiore gerarchico diventa un dilemma drammatico.
La maggior parte delle burocrazie sono organizzate in modo da distinguere tra lavori di elevata
professionalità dove il principio di competenza è istituzionalmente riconosciuto come superiore al
principio di disciplina (giudici e medici) e lavori di scarso contenuto professionale dove il principio di
disciplina sovrasta su quello di competenza (impiegati in mansioni di routine e operai alla catena di
montaggio).
La tesi di Gouldner è che occorre passare dal modello unico weberiano di burocrazia a un MODELLO
DUALISTICO che distingue tra una burocrazia basata sul principio di competenza e un’altra basata
sul principio di disciplina.

Un altro modo di concettualizzare la differenza tra due burocrazie è quello suggerito da MINTZBERG
(1979) che distingue tra burocrazia professionale e burocrazia meccanica.
La prima comprende ruoli che richiedono vasti margini di discrezionalità e di iniziativa personale, la
seconda comprende mansioni ripetitive e standardizzate secondo procedure prestabilite, e ciò sia a livello
operaio che impiegatizio.
Su tutte e due le burocrazie l’organizzazione esercita dei controlli.
Mentre nella burocrazia professionale il controllo dell’organizzazione è esercitato sulla formazione
iniziale dei funzionari assunti dopo una verifica delle loro capacità e sui risultati che essi raggiungono
entro un certo periodo di tempo, nella burocrazia meccanica il controllo è esercitato sulle modalità di
prestazione del lavoro affidato.
Un originale criterio per valutare i differenti gradi di professionalità in seno a una organizzazione
burocratica è quello escogitato da JACQUES (1976).
Jacques osserva che quanto più un lavoro è ricco di contenuti discrezionali e di professionalità tanto più
lungo è il periodo massimo di tempo in cui un dipendente è autorizzato a prendere di sua iniziativa
decisioni che riguardano un dato ammontare di risorse appartenenti all’organizzazione. Dopo di che vi è
un controllo di merito sulle decisioni prese.
Il lavoro di un operaio di linea può essere controllato più volte nello stesso turno e pertanto ha
un’autonomia brevissima. Il lavoro di un caposquadra è controllato non più di una o due volte al mese e
pertanto gode di un tempo di autonomia intermedio. Il lavoro del direttore dello stabilimento è controllato
non più di due o tre volte all’anno fino a giungere al general manager il cui operato è normalmente
oggetto di valutazione e controllo da parte degli azionisti solo al termine della scadenza fiduciaria.
Il modello di Jaques ha il vantaggio di offrire una scala con livelli di professionalità crescente e quindi
permette di costruire un quadro più articolato di quello offerto dalla semplice polarizzazione tra
burocrazia meccanica e burocrazia professionale.
Inoltre esso consente anche di precisare che il concetto di burocrazia professionale non si limita alle
professioni colte (medico, professore, ingegnere) ma comprende tutti i lavori, anche manuali, che
richiedono una rilevante discrezionalità e abilità di mestiere nel loro esercizio.
Va però osservato che il modello di Jaques, elaborato negli anni 60, richiede una revisione. Oggi un
lavoro tecnicamente complesso è monitorato in permanenza per evitare il rischio di incidenti che
potrebbero essere catastrofici.
Dunque entra in crisi il presupposto di Jaques che esista una equivalenza tra responsabilità e autonomia.

Non si può infine trascurare il rapporto tra il processo di burocratizzazione descritto da Weber e
l’organizzazione scientifica del lavoro elaborata negli stessi anni da TAYLOR.

Se Weber vede nella razionalizzazione burocratica il processo distintivo della società moderna, la
taylorizzazione che investì le fabbriche nella prima metà del XX secolo si impone come l’espressione più
coerente ed estrema di quel processo.

In base al principio che per ogni problema esiste una sola soluzione ottimale (one best way) da trovare e
perseguire con criteri scientifici, tutto nella fabbrica venne sottoposto a misura, controllo, ordine,
programmazione minuziosa, specializzazione delle mansioni a tutti i livelli. Furono taylorizzati non solo
gli operai e impiegati ma gli stessi tecnici incaricati di taylorizzare le fabbriche subirono nel loro lavoro lo
stesso processo di programmazione standardizzata secondo procedure prestabilite.

Il taylorismo può essere giudicato come la manifestazione estrema di una burocrazia meccanica.

Il lavoro umano diventa una semplice appendice della macchina, all’operaio non era richiesto di pensare
ma soltanto di ubbidire eseguendo mansioni ridotte a pochi gesti e ripetitive.

Dal taylorismo originario ed estremo si passa a forme attenuate di taylorismo fino al cosiddetto
neotaylorismo informatizzato che oggi troviamo in tante produzioni a tecnologia avanzata.

Tuttavia in questi anni si assiste anche a un altro singolare fenomeno ossia il cosiddetto neotaylorismo
nei servizi. Esso è rinvenibile nell’organizzazione dei fast food come Mcdonal’s, nei call center dove
decine di addetti contattano i possibili utenti seguendo codici comunicativi predeterminati e perfino in
alcune professioni tradizionali quali medici, dentisti e legali.

GERARCHIA DI UFFICIO – DISCOSTAMENTO DALLA REALTÀ


Per Weber il burocrate puro è inserito in una gerarchia in cui occupa un grado preciso.
Ha dei superiori che gli danno delle direttive generali, dei pari grado con cui eventualmente ne discute e
degli inferiori a cui egli trasmette quelle direttive adattandole alle circostanze e alle loro competenze.
In un organizzazione burocratica comandi e controlli procedono sempre attraverso una gerarchia ma le
forme che questa può assumere sono innumerevoli.
Tra gli anni 30 e 50 la SCIENZA DEL MANAGEMENT ha esaminato e discusso le differenti forme
che può assumere una gerarchia. Ci sono gerarchie lunghe, corte, rigide, elastiche, con o senza staff.
Per comprendere la differenza tra le varie possibili soluzioni, basta immaginare un’organizzazione con
mille dipendenti e supporre che si possa scegliere tra raggrupparli in 100 squadre di 10 persone ciascuna o
in 10 squadre di 100 persone ciascuna.
Nella prima soluzione si ottiene un controllo molto capillare del lavoro di ogni dipendente ma al costo di
un lento e faticoso coordinamento. Nel secondo caso il coordinamento è rapido ed efficace ma il controllo
è quasi impossibile.
Quale delle due soluzioni è la migliore? La risposta è che non esiste un modello organizzativo migliore di
un altro ma a seconda dei tipi di compiti che un’organizzazione ha da svolgere si doterà di una
struttura organizzativa differente.
Questo tema è stato affrontato anche negli anni '60, '70 da un importante programma di ricerche
sociologiche, la cosiddetta SCUOLA DELLE CONTINGENZE.
La scuola di origine britannica, che prende questo perché sostiene che non esiste un modo unico e
ottimale (l’one best way teorizzato da Taylor) di costruire un’organizzazione, ma esistono tanti
diversi modi e la scelta ottimale dipende dalle circostanze o contingenze in cui l’organizzazione si
trova ad operare: settore e tipo di attività svolta, dimensioni, tecnologia, risorse ma soprattutto
l’ambiente.
L’AMBIENTE è stato studiato prendendo in considerazione un continuum su cui viene posizionata la
tranquillità o la turbolenza.
In un ambiente tranquillo gli eventi sono ordinari e ripetitivi e quindi prevedibili mentre in un ambiente
turbolento gli eventi sono sempre nuovi e imprevedibili e mettono in crisi la normale gestione di routine.
L’organizzazione più adatta a gestire un ambiente tranquillo è quella con una gerarchia lunga, confini
bene specificati delle competenze, procedure precise, controlli regolari, un lavoro prevalentemente
individuale, comunicazioni verticali dall’alto in basso e viceversa. Ai dipendenti si richiede ordine,
precisione, regolarità, predisposizione all’obbedienza. Se ci sono novità che esulano dalla routine la
consegna è di rivolgersi al superiore per avere disposizioni in merito, dato che non è previsto che i
dipendenti reagiscano di propria iniziativa.
Al contrario, per gestire un ambiente turbolento l’organizzazione più adatta è quella con una gerarchia
corta, la massima rapidità di comunicazione, di adattamento e di risposta, ruoli e ambiti non predefiniti,
apertura alle novità, disposizione all’apprendimento, attitudine a lavorare in team e capacità di iniziativa
sviluppando quelli che sono chiamati comportamenti esplorativi.
Un importante risultato di ricerca nella scuola delle contingenze è quello ottenuto da LAWRENCE E
LORSCH (1967), i quali scoprirono che all'interno di un organizzazione possono coesistere diverse
strutture. L’organizzazione può avere molteplici ambienti caratterizzati da diversi gradi di turbolenza.
In una ricerca condotta su alcune imprese produttrici di materie plastiche, essi scoprirono che l’ambiente
più tranquillo era quello di produzione, il più turbolento era l’ambiente di ricerca e sviluppo mentre a un
livello intermedio si collocava l’ambiente di produzione e vendita.
Per conciliare mondi così diversi tra loro, le imprese avevano istituito degli staff incaricati di assicurare
l’integrazione fra tutte le parti dell'organizzazione e che svolgessero una attività di interfaccia.
Un’altra soluzione escogitata per affrontare situazioni particolarmente complesse è la struttura a
matrice, così chiamata per via della sua struttura gerarchica verticale alla quale viene sovrapposta una
struttura che taglia orizzontalmente le divisioni gerarchiche.
Le linee orizzontali corrispondono ad altrettanti progetti da portare a termine in termini più o meno
lunghi e richiedono persone di competenza diversa provenienti dalle varie sezioni. I soggetti convolti si
trovano così a partecipare a due strutture aziendali, quella istituzionale da cui dipendono per l’attività
ordinaria e quella del progetto in cui svolgono dei compiti temporanei.
L'organizzazione a matrice offre il vantaggio di essere flessibile, articolata, polimorfa e destinata a
sciogliersi una volta che l'obiettivo è raggiunto.
Per avere successo essa richiede di superare le resistenze che possono nascere quando le strutture
tradizionali sono invitate a prestare persone e risorse per svolgere compiti non consueti.
Alcuni autori chiamano tale modello post-burocratico, in quanto fondato sulla comunicazione diffusa
e la responsabilità di gruppo per gestire problemi tecnici, sociali gestionali molto più complessi di quelli
esistenti al tempo di Weber.

PREPARAZIONE SPECIALIZZATA – DISCOSTAMENTO DALLA REALTA’


Il burocrate puro ha frequentato scuole, ottenuto titoli e seguito corsi di tirocinio e di perfezionamento
allo scopo di arrivare a una conoscenza approfondita di tutta la normativa dell’organizzazione,
indispensabile per svolgere in modo efficiente qualsiasi compito.
Negli anni 30 MERTON, uno dei principali esponenti del funzionalismo, attirò l'attenzione sul fatto che
la formazione professionale data ai funzionari del pubblico impiego poteva non essere adeguata e di
conseguenza degenerare in incapacità addestrata.
Il funzionario viene addestrato a una certa procedura nella presunzione che la realtà da affrontare rimanga
indefinitamente la stessa. Ma quando la realtà muta e si pongono problemi inediti, tutto l’apparato di
tecniche, abitudini, riferimenti a procedure o a decisioni precedenti viene messo in crisi.
L’addestramento troppo specifico a cui è stato sottoposto il funzionario si traduce in mancanza di
sufficiente duttilità nell’applicazione delle norme e quindi in un mancato perseguimento degli scopi per
cui l’organismo burocratico era stato creato.
Merton mette così in luce una concezione statica della cultura e delle competenze in quanto nella
società del tempo la preparazione tecnica e culturale acquisita prima di cominciare un determinato lavoro
era considerata un patrimonio sufficiente a svolgerlo per un tempo indeterminato.
Oggi la realtà è in continuo mutamento, basti pensare che nella professione medica basta un tempo di
sette anni per rendere obsoleto il quadro di conoscenze acquisite all’università.
Lo stesso avviene in tutti i campi investiti dall’innovazione tecnica e scientifica. Corsi di aggiornamento,
stage, seminari, partecipazione a convegni e a network elettronici sono ormai pratiche comuni per
chiunque intenda restare informato e competitivo.
Anche le burocrazie pubbliche, sono sempre più investite da innovazioni che obbligano a ripensare dalle
radici il modo di lavorare e di porsi in contatto con il pubblico, basti pensare all’ingresso dell’informatica
e alla rivoluzione in Italia portata dall’autocertificazione.
Concetti come formazione permanente, gestione delle risorse umane, learning organization circolano
ormai nel linguaggio comune e testimoniano la trasformazione avvenuta nel considerare il rapporto tra il
lavoro svolto e la preparazione specializzata per poterlo svolgere.

CONCORSI PUBBLICI CARRIERA E TEMPO PIENO.


Il burocrate puro entra nell'organizzazione vincendo un concorso pubblico. Da qui inizia una carriera che
si svolge lungo tutto l’arco della sua vita attiva, lavora a tempo pieno escludendo qualsiasi seconda
occupazione.
Secondo Weber il concorso pubblico è l’istituzione che più di ogni altra garantisce, in linea di principio,
equità di criteri nel giudicare i concorrenti e decidere quale è il più meritevole.
Oggi i concorsi non si limitano a regolare le assunzioni dall’esterno di nuove leve. Tanto nel settore
pubblico quanto in quello privato sono proliferati i concorsi interni banditi per decidere con criteri di
equità l’avanzamento di carriera del personale già assunto.
I concorsi interni sono un importante elemento per la creazione e la regolamentazione dei mercati interni
del lavoro.
Il mercato interno ha l’effetto di sancire legalmente che i già assunti in una data organizzazione hanno un
diritto di precedenza rispetto agli esterni nell’occupare determinate posizioni lavorative.

I mercati interni dunque se da un lato sono una fonte legale di ineguaglianza sociale, dall’altro lato
favoriscono la sicurezza di un impiego stabile e instillano nei dipendenti un senso di appartenenza
all’organizzazione.

Ma una caratteristica della società moderna è che insieme allo sviluppo dei mercati interni del lavoro si
diffonde anche una tendenza contraria ovvero una sempre maggiore precarietà dei rapporti di lavoro.

Viviamo in un’epoca dove si pratica e si celebra il lavoro flessibile. La letteratura distingue tre tipi diversi
di flessibilità:

• FUNZIONALE, è quella del lavoratore in grado di svolgere molti lavori e disponibile a trasferirsi in
sedi diverse della stessa impresa;

• FINANZIARIA, nasce dagli sforzi delle imprese di introdurre maggiore competizione individuale tra i
lavoratori, allo scopo di incentivare la produttività;

• NUMERICA, permette alle imprese di assumere e licenziare liberamente a seconda delle sue necessità.

L’effetto congiunto delle tre flessibilità ha creato negli ultimi decenni un doppio mercato del lavoro,
quello centrale occupato da lavoratori forti con elevate competenze professionali e con scarso rischio di
disoccupazione e quello periferico occupato da lavoratori deboli, poco qualificati e ad alto rischio di
disoccupazione.

A differenza della società esistente all’epoca di Weber, quando la maggiore differenza sociale passava tra
chi possiede i mezzi di produzione (borghesia) e chi non li possiede (proletariato) oggi una delle maggiori
differenze passa tra chi possiede un patrimonio di competenze professionali spendibili sul mercato del
lavoro e chi non lo possiede.

Anche l’impiego a tempo pieno, indicato da Weber come un tratto caratteristico della burocrazia pura,
conosce sempre maggiori eccezioni. Infatti da un lato aumenta la quota di coloro che svolgono un doppio
lavoro e dall’altro lato si diffondono lavori part-time.
SEGRETO DI UFFICIO E SEPARAZIONE TRA VITA PUBBLICA E VITA PRIVATA.

Il burocrate puro osserva scrupolosamente il segreto d’ufficio in quanto garanzia di autorevolezza e di


efficacia delle decisioni prese. Strettamente connessa al segreto è per Weber la separatezza tra la sfera
della vita pubblica e quella della vita privata. La discrezione domina in questa rigida divisione del tempo
quotidiano.

Oggi questo aspetto cambia e si possono individuare tre principali novità:

1. SVILUPPO DEI MASS MEDIA, impone una profonda revisione delle normative e delle
pratiche di tutela del segreto di ufficio. Per un verso si è affinato il concetto di segretezza,
pervenendo ad una definizione di vari gradi di riservatezza: notizie ufficiose, confidenziali,
riservate, segrete, top secret, con sanzioni proporzionali al grado di diffusione dell’informazione
da tenere protetta. Per un altro verso le stesse organizzazioni sono interessate a far trapelare
determinate notizie per creare climi di attesa, sondare il terreno di possibili interlocutori o
semplicemente per fare un favore a un giornale o una televisione in modo che nel futuro essi
ricambino il favore.

L’uso calcolato dell’informazione e lo sviluppo di stretti rapporti di interscambio con i mass


media è sempre più un aspetto strategico nella vita di un’organizzazione interessata a curare la sua
immagine pubblica. Di qui l’importanza che i suoi funzionari siano abili nel curare i rapporti con
la stampa, calcolando bene ciò che va annunciato apertamente e ciò che va tenuto segreto.

2. DIFFUSIONE DELL'INFORMATICA e la creazione di una rete mondiale di utenti


raggiungibili in pochi istanti. La facilità tecnica della comunicazione fa aumentare in modo
esponenziale il volume delle comunicazioni e abbassa la soglia di controllo sui contenuti che sono
comunicati. Va anche osservato che la rigorosa divisione tra casa e ufficio indicata da Weber
come garanzia di riservatezza ha perso quasi ogni efficacia di fonte allo sviluppo del telelavoro.
Ne deriva che la mancanza di vincoli spaziali e temporali porta il lavoratore all’alienazione con
assenza di un senso di appartenenza all’azienda.

3. MONDO DELLA PRODUZIONE E RIDEFINIZIONE DEL CONCETTO DI SEGRETO


INDUSTRIALE. Negli ultimi due secoli lo sviluppo della società industriale ha visto la più
rigorosa attenzione delle imprese affinché nulla trapelasse sui loro programmi e le loro
innovazioni. Avere una novità tecnica nel prodotto o nel processo poteva dare un vantaggio
decisivo nei confronti della concorrenza, e pertanto si comprende perché nel corso del tempo una
normativa di legge imponente sia stata prodotta per tutelarsi dai rischi dello spionaggio
industriale. Ma oggi l’innovazione è sempre più trasparente, aperta, disponibile e ciò porta a
ridefinire radicalmente il concetto di segreto industriale. Sempre meno il segreto è legato ad
aspetti hard i natura tecnico-produttiva e sempre più ad aspetti soft di marketing. È
sull’immaginario evocato dal prodotto che le imprese concorrenti si giocano la partita piuttosto
che sulle qualità intrinseche dei prodotti stessi, ormai largamente omogeneizzati.
STIPENDIO MONETARIO FISSO

Il burocrate puro percepisce dalla sua amministrazione uno stipendio regolare e costante che costituisce la
sua unica fonte di reddito da lavoro. È esclusa ogni forma di pagamento diretto delle sue prestazioni da
parte di cittadini che si rivolgono all’amministrazione. I cittadini pagano l'amministrazione in via diretta
(tasse, tariffe) o indiretta (tributi) e l’amministrazione provvede poi per conto proprio a remunerare i suoi
dipendenti.

La separazione tra retribuzione e costo del servizio è un tratto fondamentale di ogni organizzazione
burocratica e fa parte integrante di un moderno stato di diritto, dove un trattamento di favore in cambio di
un compenso diretto ai dipendenti dell’amministrazione si configura come un reato di corruzione o di
concussione.

Questo principio va integrato da un’altra importante considerazione ovvero che il carattere burocratico o
non burocratico di una prestazione lavorativa non dipende dal suo contenuto professionale, bensì dal
contesto istituzionale in cui essa si svolge. Il medico che esercita la professione in ospedale ha con i suoi
pazienti un rapporto burocratico (sotto il profilo amministrativo) ma poi ha con gli stessi pazienti un
rapporto professionale diretto nel caso che essi gli chiedano una visita presso il suo studio privato.

Esistono tuttavia mestieri e professioni in cui questo doppio status giuridico della prestazione non è
possibile o per ragioni materiali (ad esempio ferrovieri, piloti di aereo) o per divieti legali (ad esempio
poliziotti, finanzieri).

Esiste poi un’ampia gamma di lavori definibili come appartenenti alla sfera delle burocrazie ibride. Si
trovano tipicamente nell'impiego privato e sono quei lavori in cui il dipendente riceve dalla sua
amministrazione una retribuzione fissa, che però è solo una parte del suo reddito totale.

Un caso particolare di burocrazie ibride possono essere considerati i servizi dove esiste l'istituto della
mancia. Si tratta tipicamente di servizi personalizzati al cliente, svolti da dipendenti che pur svolgendo un
servizio formalmente previsto dal loro mansionario ottengono dal cliente una ricompensa aggiuntiva
informale. Come osserva WHYTE, la mancia ha uno statuto ambiguo. Da un lato sono date solo a
personale considerato di ceto inferiore (camerieri, fattorini ecc.) ma accumulandosi esse possono
diventare un reddito addirittura superiore dello stipendio percepito ed hanno un valore simbolico perché
segnalano a chi le percepisce che il suo servizio è stato apprezzato.

Dall’altro lato il suo carattere di elargizione arbitraria e indicativa di un rapporto esplicitamente disuguale
tra chi dà e chi riceve, ha spesso suggerito una razionalizzazione della mancia nell’istituto di un servizio
fisso e generalizzato da aggiungere al conto del cliente.

Le politiche retributive costituiscono un importante aspetto su cui esaminare le differenze tra le varie
organizzazioni burocratiche. In tali politiche è possibile individuare quattro dimensioni significative:

1. Il livello retributivo rispetto ai valori di mercato: politica in cui più le retribuzioni sono alte tanto
più l'organizzazione opta per una politica di eccellenza che le consente di selezionare gli elementi
migliori disponibili sul mercato del lavoro.
2. La curva retributiva nel tempo: politica di retribuzioni relativamente basse all'inizio della carriera
per poi alzarle col passare degli anni. Tale politica mira a incentivare la permanenza dei
dipendenti nella stessa organizzazione per l’intera durata della loro vita lavorativa.

3. L’ampiezza della differenza tra retribuzioni minime e massime : quanto è minore la differenza
tanto più l’organizzazione mostra tendenze egualitarie e viceversa quanto più è ampia tanto più è
marcata la differenza sociale tra vertice e base nell’organizzazione.

4. Incentivi monetari e/o simbolici: legati a parametri di produttività, efficienza, operosità, qualità
del prodotto o della prestazione.

NON POSSESSO DEGLI STRUMENTI DEL PROPRIO LAVORO

Il burocrate puro non possiede gli strumenti del proprio lavoro e usa unicamente quelli che gli sono messi
a disposizione dalla sua organizzazione.

Nell’era moderna la separazione tra proprietà e uso degli strumenti di lavoro è un dato obbligatorio e
scontato. La gestione burocratica che ne deriva comporta che i dipendenti eseguano un rendiconto
periodico dell’uso fatto degli strumenti a loro affidati in via fiduciaria.
Tuttavia è noto come la disponibilità degli strumenti offra l’opportunità di un loro utilizzo per scopi
privati. In molte organizzazioni l’uso personale di cancelleria, telefono, fax, automobile e altri beni è
tollerato entro certi limiti.
Il grado di tolleranza nell’uso privato delle risorse di un’organizzazione può dare informazioni utili sul
clima interno e sulle norme più o meno formalizzate di comportamento.

BARNARD

Dopo Weber lo sviluppo degli studi organizzativi avviene con la critica di quell’impianto teorico e la
discussione di problemi da esso non contemplati come il ruolo dei soggetti, le conseguenze inattese delle
loro strategie, i limiti della razionalità organizzativa e le dinamiche di potere.
Chester Barnard (1886 - 1961), pone le basi della moderna scienza dell’organizzazione.
Americano, alto dirigente della Bell Telephone company, dove lavorò per quasi 40 anni, Barnard
pubblicò nel 1938 "Le funzioni del dirigente".
Contro una visione puramente formale e razionale delle organizzazioni, egli sostiene che non è possibile
comprendere il loro funzionamento senza tener presenti i MOVENTI INDIVIDUALI che spingono gli
individui a partecipare alle organizzazioni stesse.
L’oggetto centrale della sua analisi è il rapporto che si stabilisce tra le organizzazioni e gli individui.
Il contesto storico influenza la sua analisi ed attraverso due punti che è possibile comprendere il suo
approccio.
1. Il primo è che negli anni in cui opera Barnard il capitalismo conosceva un grosso cambiamento
nel governo dell’impresa. Alla figura tradizionale del padrone, al tempo stesso proprietario e
dirigente, si stava sempre più sostituendo la figura del manager, professionista che dirige
l’impresa senza esserne proprietario.
Dallo schema dicotomico proprietà - dipendenti si passa allo schema tricotomico proprietà -
manager - dipendenti.
In questo schema i manager svolgono una funzione autonoma che non sempre coincide con il
volere della proprietà.
I manager sono tenuti a identificarsi con gli interessi dell’impresa tanto da apparire uomini
dell’organizzazione, ma questo impegno non porta all’annullamento della loro identità.
Al contrario, avere una personalità forte e indipendente è un requisito fondamentale per essere un
manager di successo.
Questa riflessione porta Barnard a constatare l’insufficienza di un approccio che non tenga conto
della componente umana.

2. Il secondo punto è che Barnard scrive in un’epoca in cui il pensiero manageriale comincia ad
essere investito dalla cosiddetta Scuola delle Relazioni Umane, che tra gli anni 20 e 30 dopo una
serie di ricerche ed esperimenti condotti da un gruppo di psicologi e sociologi presso l’impresa
Western Electric di Chicago arrivarono alla conclusione che i fattori psicosociologici come
l’armonia, il morale di gruppo, una supervisione amichevole e cordiale, il dialogo e
l’interessamento diretto alle persone e la comprensione dei loro problemi costituivano un potente
strumento di motivazione al lavoro, spesso più efficace del puro incentivo economico.
Quei fattori furono individuati come la sfera dei rapporti informali di cui il management deve
tenere conto per sopperire all’insufficienza dei soli rapporti formali.
La Scuola delle Relazioni Umane concepisce le organizzazioni come sistemi naturali, spontanei,
adattivi, influenzati dai soggetti che vi operano e dall'ambiente circostante.
Dunque alla visione dell’organizzazione come una macchina in cui le persone sono le rotelle degli
ingranaggi viene sostituita da una visione dell’organizzazione come un organismo le cui cellule
sono le persone e i gruppi che esse formano.

LA PARABOLA DEL MASSO: L'ORGANIZZAZIONE COME SISTEMA COOPERATIVO.


Il problema a cui Barnard cerca di dare risposta può essere così formulato: come è possibile che persone
tra loro estranee creino delle organizzazioni?
Per avviare il suo discorso Barnard ricorre a una parabola.
Parabola: un uomo che viaggia su una strada solitaria si imbatte in un masso che gli impedisce di
proseguire. Da solo non riesce a sgomberare la strada ed aspetta che arrivi qualcun'altro che debba passare
come lui in modo che gli sforzi di tutti riescano a spostare il masso.
Dove i limiti di una sola persona impediscono di raggiungere uno scopo, la cooperazione tra più persone
interessate al medesimo scopo riesce nell'intento.
Ma se il masso è talmente grande, le forze di quattro persone non bastano, di conseguenza esse dovranno
richiedere l’aiuto di una quinta persona. Supponiamo arrivi un contadino con un trattore, egli non ha un
interesse diretto ma all’offerta di ricevere una somma di denaro per spostare il masso, quest’ultimo
diventa anche il suo scopo.

Dalla parabola emergono 3 morali organizzative:

1. Ci insegna come e quando nasce un’organizzazione: un'organizzazione nasce quando ci sono


persone in grado di comunicare tra loro e collaborare per raggiungere uno scopo comune.

Questi sono i due elementi che Barnard si prefigge di combinare insieme, ovvero, l'elemento informale
rappresentato dalla comunicazione e l'elemento formale costituito dalla cooperazione. Organizzarsi
equivale a formare un sistema cooperativo per superare i limiti dei singoli.

Dunque l’organizzazione non consiste nella semplice somma dei singoli individui ma vi è in essa un quid
in più che nasce dalla cooperazione tra i suoi membri, è il cosiddetto coefficiente cooperativo che fa la
differenza tra una semplice aggregazione di persone scollegate tra loro e un’organizzazione volta a
raggiungere uno scopo.

2. Bisogna sempre distinguere tra gli scopi dell'organizzazione e i moventi personali: poiché
l’organizzazione è un sistema cooperativo, la partecipazione dei membri deve essere ottenuta
attraverso il consenso. Il problema fondamentale dei dirigenti è quindi come riuscire a mobilitare
un insieme di persone per uno scopo che non è loro, offrendo incentivi sufficienti a soddisfarli.

3. Distinzione ma anche intimo rapporto tra elementi formali e informali. Quando gli scopi
comuni si stabiliscono, nasce l'organizzazione e una volta formata al suo interno possono nascere
rapporti informali nuovi. Si instaura così un’osmosi tra livello formale e informale dei rapporti
umani. Bisogna però distinguere tra aspetti formali che riguardano il perseguimento degli scopi
per cui è nata l'organizzazione e aspetti informali che riguardano i rapporti tra i singoli membri
che ne fanno parte. I due aspetti non si escludono, al contrario l'aspetto formale non può esistere
senza quello informale e viceversa.

EFFICACIA ED EFFICIENZA. IL RAPPORTO TRA CONTRIBUTI, INCENTIVI E


PERSUASIONE

Barnard rifiuta tanto una fondazione puramente etica dell’ordine sociale, spiegato come interiorizzazione
da parte dei soggetti del sistema dei valori prevalenti, quanto una spiegazione puramente utilitaristica,
basata sul calcolo del tornaconto individuale.
Barnard addita una TERZA VIA capace di conciliare le esigenze dell’organizzazione con quelle dei
soggetti. La distinzione tra fini organizzativi e i moventi personali è la base su cui Barnard sviluppa la tesi
che ogni membro di un’organizzazione è dotato di una doppia personalità: una personalità organizzativa
e una personalità individuale.

La personalità organizzativa riguarda il modo in cui un individuo svolge le sue prestazioni, attinenti al suo
ruolo nell’organizzazione.

La personalità individuale riguarda invece i moventi dell’individuo, equilibrio che si instaura tra il suo
contributo all’organizzazione e i benefici che ne ricava.

Il rapporto tra le due personalità può essere profondamente diverso e problematico ed è proprio questo
uno dei punti intorno su cui ruota tutta la costruzione teorica di Barnard.

La distinzione tra fini dell’organizzazione e moventi personali porta Barnard ad individuare due diverse
dimensioni dell’azione organizzativa, che sono l’efficacia e l’efficienza.

L’efficacia misura il grado in cui l’organizzazione raggiunge i suoi obiettivi, mentre l’efficienza misura il
grado in cui i moventi personali di far parte di un’organizzazione sono soddisfatti ovvero il grado di
soddisfazione che i soggetti ricavano dal rapporto tra il contributo che essi percepiscono di dare
all’organizzazione e l’insieme delle ricompense morali e materiali che ne ricavano.

Efficacia ed efficienza non sono necessariamente connesse, ma il loro incrocio può dar luogo a quattro
diverse possibilità. Un’organizzazione può essere:

a) efficace ed efficiente, che è la situazione ottimale;

b) efficace ma non efficiente, quando raggiunge i suoi obiettivi ma non soddisfa i suoi membri;

c) non efficace ma efficiente, quando non raggiunge i suoi obiettivi ma soddisfa i membri;

d) né efficace né efficiente, che è la situazione peggiore.

Realizzare un sistema cooperativo efficiente ed efficace è un’operazione difficile e precaria.

La situazione più comune è quella in cui la ricerca congiunta di efficacia ed efficienza genera tensioni e
dilemmi, sicché la conciliazione tra i due termini è vista da Barnard come il problema fondamentale che
si pone alla direzione di qualsiasi organizzazione.

E’ nella prospettiva della precarietà della vita dell’organizzazione che Barnard elabora un modello da lui
chiamato L’ECONOMIA DEGLI INCENTIVI E DELLA PERSUASIONE.

Barnard scrive che le soddisfazioni nette che inducono un uomo a contribuire con i suoi sforzi a
un’organizzazione derivano dal confronto tra i vantaggi e gli svantaggi che questa comporta.

Se i benefici che il soggetto ritiene di ricevere superano i costi continuerà a partecipare e contribuire, in
caso contrario deciderà di lasciare l’organizzazione.
L’organizzazione ha due strumenti per assicurarsi gli sforzi necessari alla sua esistenza: il sistema degli
incentivi e della persuasione.

Gli incentivi sono fattori oggettivi che mirano a soddisfare le aspettative delle persone e possono essere
sia materiali che morali. Esempi di incentivi materiali sono la retribuzione, le opportunità di carriera, le
condizioni fisiche, l’ambiente sociale in cui si lavora. Tra gli incentivi morali invece possiamo citare il
prestigio di un’organizzazione, l’assenza di discriminazioni razziali, sociali o religiose.

Ma gli incentivi non sono sempre sufficienti a ottenere il contributo stabile delle persone.
L’organizzazione deve allora ricorrere alla persuasione.

Questa opera sul lato soggettivo del rapporto tra persone e organizzazione perché mira a cambiare i
desideri degli individui in modo che gli incentivi risultino adeguati. L’organizzazione quindi può
plasmare le persone in modo che aumenti in loro la disponibilità a collaborare.

Tra gli strumenti della persuasione Barnard annovera l’educazione personale.

LA FONDAZIONE SOGGETTIVA DEL VALORE E LA SOLVENZA DEL SISTEMA


COOPERATIVO

Nel modello di Barnard vanno sottolineati tre aspetti:

1. Il calcolo del rapporto tra costi e benefici non è mai puramente razionalistico: c’è molta
soggettività nella percezione del rapporto tra contributi – incentivi, un equilibrio soddisfacente per
una persona può non esserlo per un’altra. Entrano in gioco quelle che lui chiama le funzioni di
utilità dei singoli soggetti e che fanno riferimento alle loro propensioni ad esempio ci sono
persone più propense a rischiare, altre più propense a scelta di sicurezza e così via.

Le situazioni oggettive della realtà esterna come ad esempio l’opportunità di trovare altri impieghi
sul mercato del lavoro sono sempre filtrate attraverso la percezione soggettiva che ne hanno gli
individui.

2. Il modello di Barnard non ha solo validità economica e materiale, egli insiste


sull’importanza degli incentivi non materiali nelle organizzazioni di lavoro. Il denaro senza
distinzione, prestigio, posizione è inefficace. È raro che si possa anche temporaneamente usare
come stimolo un maggior guadagno se accompagnato da perdita di prestigio.

3. La solvibilità del sistema cooperativo nei confronti dei suoi membri. Come fa
un’organizzazione a non fallire se i membri si aspettano di ricevere da essa un contributo
superiore rispetto all’incentivo che essi le danno? Barnard sostiene che la disponibilità
complessiva di un'organizzazione non è la somma dei contributi dei singoli membri, ma è quella
somma moltiplicata per un certo coefficiente dovuto al fatto che l'organizzazione è un sistema
cooperativo. La cooperazione moltiplica il valore dei singoli contributi e permette
all’organizzazione di dare ai singoli membri più di quanto essi hanno dato.
Inoltre vi è una fondazione soggettiva del valore attribuito ai contributi dati e agli incentivi
ricevuti. L'enfasi di Barnard sugli incentivi non materiali gli permette di affrontare il problema
della solvibilità dell'organizzazione in termini non strettamente economici ma simbolici e morali.

ESERCIZIO DELL’AUTORITÀ
Per quanto possano essere intensi i moventi che inducono l’individuo a cooperare, Barnard ritiene
irrealistico pretendere che gli individui giungano a identificarsi completamente con l’organizzazione.
La sua tesi è che i dirigenti devono porsi un obiettivo praticabile, ossia gestire il rapporto tra contributi e
incentivi in modo tale che i sottoposti allarghino l’area della propria disponibilità a obbedire ai comandi
impartiti dai superiori. Espandere l’area di “indifferenza” intesa come area di disponibilità a eseguire
degli ordini è dunque l’obiettivo realistico che l’autorità deve cercare di ottenere dai suoi sottoposti.
Non è necessario sacrificare se stessi al lavoro, basta lavorare con senso del dovere e con professionalità.
Questa scelta realistica si accompagna al riconoscimento che gli individui hanno degli spazi privati, degli
interessi e delle lealtà molteplici e che quindi si sottraggono alla pretesa totalitaria di una sola
organizzazione, sia essa un luogo di lavoro o qualunque altra cosa.
Quanto più è estesa l’area di disponibilità dei dipendenti a eseguire degli ordini tanto più è efficace
l’autorità.

LE FUNZIONI DEL DIRIGENTE E LA SUA PERSONALITA'.

Stabilito che espandere l’area di disponibilità alla collaborazione da parte dei membri è il compito
principale dell’autorità in una organizzazione, Barnard passa a esaminare le specifiche funzioni che un
dirigente deve svolgere. Queste sono tre:

1. La prima e più importante caratteristica di un dirigente è ASSICURARE UN EFFICIENTE


SISTEMA DI COMUNICAZIONI: il dirigente non deve soltanto preoccuparsi che le
comunicazioni circolino ma deve anche costruire una struttura generale di ruoli e quindi collocarvi
le persone adatte a garantire il flusso delle comunicazioni. Costruire un efficiente sistema di
comunicazioni equivale a stabilire le premesse per un buon funzionamento dell’organizzazione.

2. La seconda funzione è GARANTIRE IL REGOLARE E COSTANTE AFFLUSSO DELLE


RISORSE necessarie al funzionamento dell'organizzazione.

Le risorse più importanti sono quelle umane, vale a dire i membri in rapporto cooperativo con
l'organizzazione. I membri non sono soltanto i soggetti interni alle organizzazioni come
dipendenti o iscritti ma chiunque abbia rapporti con essa come fornitori, clienti, azionisti.

3. La terza funzione è STABILIRE I FINI DELL'ORGANIZZAZIONE intesi come l'insieme


delle azioni in cui si verifica l'efficacia del sistema cooperativo. Barnard concepisce il fine di
un’organizzazione non come un atto di volontà solitaria che discende dall’alto ma come un
processo che coinvolge tutti i membri dell'organizzazione. I membri si mobilitano su obiettivi
sempre più specifici, fino al punto che definire lo scopo non è altro che specificare il lavoro che
c’è da fare. La determinazione del fine diventa così una funzione molto distribuita, di cui solo la
parte più generale è quella direttiva.

Concepire il fine dell’organizzazione come un processo diffuso che coinvolge tutto il sistema
cooperativo si collega al fatto che nella funzione del dirigente Barnard sottolinea molto di più
l’importanza degli aspetti comunicativi che non di quelli decisori. Un buon dirigente sceglie di
garantire l’equilibrio del sistema cooperativo attraverso atti discreti e poco visibili piuttosto che
decidere con atti di imperio.

Barnard ci presenta un "dirigente in grigio", poco propenso al protagonismo fatto di decisioni eclatanti,
consapevole che dirigere non è solo decidere ma comunicare, mediare, rappresentare, coordinare,
infondere motivazioni, e che dà importanza alle doti non logiche come l'intuito, la creatività, l'arte di
individuare subito dei nessi nascosti.
Dunque in contrasto con chi sostiene che per comandare occorrano spregiudicatezza e cinismo, Barnard
sottolinea che le doti di comando consistono in una complessità morale ovvero in una pluralità di codici
di comportamento che governano diverse sfere di rapporti sociali, sia pubblici che privati e in un senso di
responsabilità superiore alla media ossia una sorta di meta-codice che nei dilemmi morali garantisce la
coerenza a un principio.

Infine per un dirigente il senso di responsabilità può anche essere visto come l’espressione di una elevata
personalità organizzativa che si oppone agli inevitabili dubbi e tentennamenti che nascono dalla
personalità individuale ovvero un dualismo tra i fini dell’organizzazione e i moventi individuali.
Barnard individua nella capacità di mediare i contrasti che nascono da quel dualismo, la base su cui
legittimare il ruolo del leader.
CROZIER

Michel Crozier (1922 - vivente) di origine francese, è il fondatore nel suo paese di una fiorente scuola di
studi organizzativi e ha anche potentemente contribuito alla riforma dell'apparato amministrativo
francese.
Una frase è rivelatrice del suo pensiero: L’UOMO NON È SOLTANTO UN BRACCIO E NON È
SOLTANTO UN CUORE. L’UOMO È UNA MENTE, UN PROGETTO, UNA LIBERTÀ.
Egli sostiene che per capire il funzionamento di un'organizzazione, non basta l'approccio della scuola
classica che considerava i dipendenti come semplici esecutori di comandi gerarchici (il braccio) e non
bastano le Relazioni Umane che si limitano a sottolineare la psicologia e la sensibilità delle persone (il
cuore).
Bisogna tener presente la mente delle persone, riconoscere che esse sono capaci di pensare, di
progettare, di fare scelte non previste dall’organizzazione in cui agiscono.
Crozier completa il ragionamento iniziato da Barnard, il quale sottolinea la necessità di soddisfare i
moventi dei soggetti affinché contribuiscano a raggiungere gli scopi dell’organizzazione, sostenendo che i
soggetti sono capaci di sviluppare delle strategie all’interno dell’organizzazione.
I soggetti cioè negoziano la loro partecipazione cercando di tutelare quelli che reputano i propri interessi.
Inoltre Crozier osserva che la razionalità non appartiene soltanto alle organizzazioni perché anche i
soggetti hanno delle loro razionalità private che non solo non coincidono con quella dell’organizzazione
ma che possono portare a condotte non previste dall’organizzazione stessa. Di qui la possibilità che si
inneschino circoli viziosi, vale a dire dei processi degenerativi che al di là della volontà dei singoli
soggetti conducono le organizzazioni a disfunzioni e inconvenienti.
Connesso ai concetti di strategia e di circolo vizioso è quello di POTERE, definito da Crozier come la
capacità di controllare i margini di incertezza presenti nei propri rapporti con altri soggetti.
Nella realtà ci sono sempre situazioni non prevedibili e non è possibile ricondurre i soggetti a
comportamenti predeterminati come si trattasse di api di un alveare.
È in questi margini di imprevedibilità dei comportamenti umani che si annida il potere.
Dunque per Crozier le radici del potere si trovano in rapporti squilibrati di prevedibilità tra due o più
soggetti. In tutte le situazioni in cui un soggetto è in grado di prevedere le mosse altrui, nascondendo le
proprie, si può dire che egli si trova in un rapporto di potere favorevole rispetto agli altri interlocutori.
Da questa definizione discendono tre importanti conseguenze:
1) la prima è che il potere è cosa diversa dall’autorità formale, questa si connette al grado gerarchico
ricoperto in un’organizzazione ma non vi è necessariamente corrispondenza tra grado gerarchico e sfera
di potere. Se un inferiore gerarchico riesce a conservare dei margini di imprevedibilità nel modo in cui
compie il suo lavoro, Crozier sostiene che proprio su quei margini egli esercita un potere che sfugge al
controllo del suo superiore (un esempio tipico sono i tecnici che detengono un monopolio di conoscenze
sicché spesso sono loro a stabilire i tempi e i modi dei loro interventi e i superiori devono limitarsi a
prenderne atto).

2) la seconda conseguenza è che chi detiene un margine di incertezza nel suo comportamento agisce per
conservarlo mentre coloro che lo subiscono tentano di eliminarlo o di ridurlo il più possibile;

3) la terza conseguenza è che il risultato sistemico complessivo di queste strategie possono essere circoli
viziosi. La via dell’inferno, ama ripetere Crozier, è lastricata di buone intenzioni.

I CIRCOLI VIZIOSI DELLA BUROCRAZIA E LE INDICAZIONI PER IL SUO


CAMBIAMENTO.

Crozier ottenne fama internazionale con "Il fenomeno burocratico " (1963), il libro in cui presenta la
sua ricerca sul funzionamento di due amministrazioni statali, un istituto contabile presso il Ministero delle
Finanze e il Monopolio dei Tabacchi. Le due amministrazioni richiamavano per alcuni aspetti il modello
weberiano di burocrazia pure:

1. Erano amministrazioni acefale, le decisioni principali dipendevano da un potere politico esterno.


2. La dirigenza era nominata dal potere politico con criteri esclusivamente legali e burocratici.

3. La struttura era fortemente centralizzata, piramidale e gerarchica.

4. Tutto il funzionamento si ispirava a regole rigide precise e impersonali, a cui la dirigenza era
tenuta ad uniformarsi senza libertà interpretative e senza iniziative autonome.

5. Le retribuzioni e l'assegnazione dei compiti erano rigorosamente regolate secondo il criterio di


anzianità e l'impiego era garantito a vita.

Nonostante queste somiglianze, la burocrazia studiata da Crozier è diversa da quella descritta da Weber.
Weber infatti sottolinea la superiorità tecnica della burocrazia su qualunque altra forma di
amministrazione mentre Crozier ci offre l’immagine di una burocrazia lenta, pesante, poco efficiente e
incapace di innovazione.
Inoltre a differenza di Weber che costruisce un modello ideale (e idealizzato) di burocrazia, Crozier
svolge una ricerca empirica.
Nella sua ricerca, il fattore di scarsa efficienza è da ricercare nel fatto che le burocrazie da lui studiate non
operavano in condizioni di mercato. Esse pertanto non si ispiravano a criteri di profitto, non dovevano
competere con la concorrenza e non avvertivano il bisogno di innovarsi.
In assenza di sfide esterne, tutto procedeva secondo delle routine consolidate nel tempo.
Crozier in tale contesto trova un microcosmo bloccato, stratificato, senza conflitti espliciti e con poche
occasioni di comunicazione e di contatto sociale.
I dipendenti svolgevano il lavoro strettamente previsto dal regolamento, i vari strati gerarchici tendevano
ad isolarsi pur mantenendo rapporti formali e di cortesia, i contrasti aperti erano evitati e le critiche per le
disfunzioni degli uffici erano rivolte in modo impersonale contro la direzione generale, il regolamento e il
ministero. Lo stile di comando era al tempo stesso impersonale e autoritario, con scarsa efficienza
complessiva.
I dipendenti lavoravano in modo disciplinato e uniforme, ma l’insoddisfazione per una vita monotona e
priva di prospettive portava frustrazione e noia.
I meccanismi di difesa collettiva sfociavano negli operai di produzione in atteggiamenti soddisfatti e
aggressivi, fatti di ostilità verso le nuove tecnologie e di appello ideologico all'unità di classe con gli
operai di manutenzione per mantenere le cose come stavano. Quest’ultimi erano i più vantaggiati in
quanto traevano il loro margine di potere dalle conoscenze tecniche e dall'imprevedibilità dei guasti che
dovevano riparare.
I quadri intermedi erano invece la componente più frustrata, ridotti a semplici guardiani delle norme, privi
di discrezionalità nel disporre dei propri dipendenti e privi di vere competenze tecniche, essi reagivano
costruendo nicchie di piccoli favori per i loro dipendenti.
Crozier si domanda se in situazioni come queste è possibile il cambiamento. La risposta è negativa.
L’incapacità di cambiare è intrinseca al modo in cui una burocrazia è costruita.
Essa si presenta con un’amministrazione acefala, priva di strumenti per innovazione e con una cultura
ostile ai cambiamenti.
Per contrastare la rigidità e la formazione di circoli viziosi è necessario introdurre deleghe di
responsabilità, senza di queste, Crozier vede nel collasso l’unica possibilità di cambiamento.
CAPITOLO 3

ISTITUZIONALISMO
Il percorso intellettuale da Barnard a Crozier esaurisce le possibilità di analisi offerte dallo studio dei
rapporti diretti tra le organizzazioni e i soggetti. Per andare oltre e mettere a fuoco altri ordini di problemi
occorre uno sfondamento di quello schema concettuale, estenderlo ad altre variabili, considerare
fenomeni finora trascurati. E’ questa l’operazione compiuta dagli autori che adottano l’approccio
istituzionalista.
L’istituzionalismo è una scuola di pensiero molto ramificata, presente sia nelle scienze economiche che
in quelle politiche e sociali e cha ha il suo carattere comune nel rifiuto di vedere la società come il
semplice aggregato di individui orientati a massimizzare le proprie utilità secondo criteri di razionalità. Il
rifiuto si lega al fatto che l’istituzionalismo pone in primo piano i condizionamenti di ordine materiale e
simbolico che concrete istituzioni storiche (come lo Stato, la chiesa, la magistratura, l’università)
esercitano sugli orientamenti e sui comportamenti umani.
L’insieme di queste istituzioni costituisce l’ambiente sociale e culturale di cui bisogna tenere conto per
spiegare specifici comportamenti umani a livello sia individuale che collettivo.

PHILIP SELNICK
Philip Selznick (1919 - vivente), è considerato il padre fondatore dell’istituzionalismo classico.
Nel suo pensiero si possono individuare 3 aspetti principali:

1. Il funzionalismo in base al quale le organizzazioni sono concepite come sistemi sociali che per
sopravvivere devono soddisfare alcuni bisogni fondamentali.
2. L'enfasi sulle influenze che centri di potere esterno percepiti come istituzioni esercitano sulle
organizzazioni per indurle ad agire in conformità ai loro voleri

3. Il pessimismo dell'analisi che concepisce il mutamento organizzativo come il risultato di logiche


degenerative presenti nelle organizzazioni. Per sopravvivere esse accettano compromessi con le
istituzioni esterne, ma tali compromessi le allontanano dagli scopi originari per cui sono state
fondate.

Per comprendere la posizione di Selznick bisogna avere presenti due punti:


- Il primo è che Selznick scrive profondamente influenzato dal pensiero di Roberto Michels,
sociologo italiano che all’inizio del XX secolo aveva studiato la degenerazione del sistema di
rappresentanza nel partito socialdemocratico tedesco. Sebbene quel partito proclamasse più di
ogni altro di ispirarsi ai valori della democrazia, finì per anteporre la tutela del partito stesso
rispetto alla tutela dei valori per cui era nato.
- Il secondo punto da tenere presente è che l'oggetto di studio di Selznick, sono le organizzazioni
pubbliche o semipubbliche che per statuto sono tenute a perseguire determinati obiettivi di
interesse generale ma che poi, prese in una rete di influenze esterne, si allontanano da quegli
obiettivi.
Emerge come Selznick a differenza di Crozier non individua le origini del processo degenerativo le nelle
strategie dei singoli soggetti operanti all’interno delle organizzazioni bensì nell’azione di centri di
potere esterno.

Secondo Selznick l’organizzazione va vista come una struttura sociale concreta formata da soggetti che
agiscono come esseri umani totali e non soltanto come esecutori di ruoli assegnati, inoltre
l’organizzazione è inserita in un ambiente non neutro, che esercita su di essa delle pressioni
costringendola a continui adattamenti.

Ciò però porta ad un paradosso ovvero che le persone e l’ambiente esterno sono indispensabili affinché
l’organizzazione possa esistere ma al tempo stesso sono continue fonti di tensioni e dilemmi.

Tali considerazioni trovano riscontro nello studio che Selznick svolse negli anni 40 sulla Tennessee
Valley Authority.

La TVA era un ente voluto negli anni ’30 dal presidente Roosvelt nel quadro del New Deal, la politica di
intervento statale orientata a superare la crisi economica del 1929.

La TVA nasceva per realizzare un vasto programma di opere pubbliche nella valle del Tennessee nonché
per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni residenti in quel territorio.

Selznick riporta che Roosvelt volle che la TVA nascesse dotata di poteri pubblici ma con la flessibilità di
un’impresa privata. Oltre al compito di costruire dighe e centrali elettriche, alla TVA fu affidata la
produzione e la distribuzione a bassi prezzi di fertilizzanti chimici, l’assistenza tecnica ed economica agli
agricoltori della zona, la promozione di scuole professionali e di centri di vita sociale.

La TVA fu esentata da una serie di controlli amministrativi che avrebbero appesantito la sua azione, le fu
concesso uno stanziamento annuo e la possibilità di riutilizzare gli utili ricavati dalla vendita dell’energia
elettrica e dei prodotti chimici.

La TVA rappresentava un’iniziativa totalmente nuova nel panorama americano. Negli Stati uniti
prevaleva ancora l’orientamento liberistico dell’autonomia locale e del massimo contenimento degli
interventi federali nelle questioni interne degli stati. La TVA nacque così sotto il segno della polemica.
Gli oppositori obiettavano che il nuovo organismo combinando il potere dell’ente di stato con i vantaggi
dell’impresa privata costituiva un caso di concorrenza sleale nel sistema di libera impresa ed era un
pericolo per la democrazia locale.

La dirigenza della TVA dovette pertanto sviluppare una politica capace di superare le opposizioni
preconcette e di conquistare la fiducia degli enti locali. A tale scopo i dirigenti della TVA decisero di
decentrare i dipartimenti sul territorio coinvolgendo il più possibile gli enti locali, le associazioni
professionali, le comunità etniche, le università, le organizzazioni volontarie e tutti gli uffici statali e
federali disposti a cooperare.

La scelta appariva tanto più giusta in quanto conforme al credo politico americano delle Radici
dell'erba, ossia della democrazia dal basso nata nei paesi di frontiera in opposizione alle stanze fumose
della capitale.
La collaborazione con le istituzioni locali in nome degli interessi generali della popolazione divenne così
il manifesto idelogico della TVA.

Ma che cosa vuol dire realmente interessi della popolazione e istituzioni legate alla popolazione?

La risposta di Selznick è che sono solo delle astrazioni indeterminate, con una funzione ideologica di
copertura. Poiché nella società locale vi erano interessi sociali contrapposti, la TVA si trovò a dover
scegliere con chi schierarsi: o portare avanti un programma radicale di tutela degli strati più deboli ed
emarginati, oppure adottare un programma più cauto e conservatore che non provocasse l’ostitlità dei
maggiorenti locali. E siccome questi ultimi erano meglio rappresentati dei primi nelle associazioni locali,
ne conseguì che l’intenzione della TVA di soddisfare la domanda espressa attraverso i canali di
rappresentanza locali significò di fatto favorire i ceti privilegiati, determinando un crescente scostamento
dal suo orientamento originario attraverso l’utilizzo di giustificazioni ideologiche per far fronte alle
concrete esigenze dell'ambiente.

Questa ricerca fornisce a Selznick il materiale empirico di come funzionano le organizzazioni:

- Le persone interessate ad un dato scopo formano un’organizzazione che rappresenta lo strumento


per raggiungerlo.
- Quando nasce un’organizzazione ha bisogno di risorse per vivere ed espandersi e per farlo bisogna
dedicare energie, stringere accordi e se necessario scendere a compromessi

- Accade spesso che i centri di potere già presenti nel territorio esercitino delle pressioni per
condizionare l’azione

- A fronte di ciò, i dirigenti dell’organizzazione pur di farla sopravvivere scendono a patti,


attenuando la purezza del programma originario e ricorrono all’ideologia dell’organizzazione per
proclamare la fedeltà della loro azione e per giustificare le scelte compiute.

- Selznick però non mette in dubbio la buona fede dei dirigenti ma sottolinea i dilemmi in cui essi si
trovano per agire ovvero: tra il proseguire ad ogni costo e senza compromessi o la scelta di
scendere a patti con le pressioni esterne attraverso un processo di deviazione, scostamento o
tradimento dei fini per cui l’organizzazione è nata.

COOPTAZIONE FORMALE E INFORMALE

Entra qui in gioco l’istituto della cooptazione che Selznick definisce come "il processo di assorbimento
di nuovi elementi nella direzione di un'organizzazione, come mezzo per prevenire minacce alla sua
stabilità e alla sua esistenza".

Selznick distingue due tipi di cooptazione:

1. Vi è COOPTAZIONE FORMALE: quando un’organizzazione assorbe ufficialmente nuovi


elementi attraverso l'allargamento degli organi direttivi o la creazione di nuovi ruoli.
Tale cooptazione è necessaria quando il carattere legittimo di un ente viene contestato da una
componente rilevante della popolazione interessata oppure quando il bisogno di promuovere la
partecipazione di strati più larghi della popolazione suggerisce di concedere delle forme di
autogoverno.

La cooptazione formale può essere considerata come la risposta che l'organizzazione fornisce a
una situazione di difficoltà provocata dalla mancanza di consenso da parte della base. Essa non si
traduce però in un effettivo trasferimento di poteri in quanto l’invito a partecipare è simbolico.

Dunque l’organizzazione si non si propone di allargare la base decisionale ma la base sociale del
consenso sulle decisioni da prendere.

Un esempio di cooptazione formale sono le forme di partecipazione alla direzione aziendale che la
dirigenza d'impresa offre ai sindacati per corresponsabilizzarli in alcune scelte strategiche.

2. COOPTAZIONE INFORMALE O SOSTANZIALE: il suo scopo è quello di fronteggiare


delle minacce provenienti da centri di potere esterno, ciò può avvenire o inserendo alcuni
esponenti delle forze sfidanti negli organi decisionali o recependo le loro istanze.

Viene così salvaguardata la sopravvivenza dell’organizzazione, ma modificando il programma


originario.

I due tipi di cooptazione implicano un differente rapporto con l'ideologia ufficiale


dell'organizzazione. Nella cooptazione formale l’ideologia non viene contraddetta e trova
legittimazione nell'ideologia dell'organizzazione stessa mentre quella informale ne contraddice i
valori e gli orientamenti ideologici dichiarati.

La distinzione tra cooptazione formale e informale, è lo strumento con cui Selznick esamina le iniziative
palesi e i compromessi nascosti compiuti dalla TVA.

Nella TVA alle cooptazioni formali coerenti con il principio di democrazia si sovrapposero le cooptazioni
informali o sostanziali che ebbero l’effetto di condizionare la politica della TVA. Queste ultime
avvennero ad opera delle pressioni esercitate dai grandi proprietari terrieri e furono facilitate dalla
struttura decentrata della TVA.

Per motivi di lavoro i funzionari della TVA addetti all'agricoltura svilupparono intensi rapporti di
collaborazione con i proprietari terrieri che diventarono una specie di loro personale clientela
amministrativa. Tale rapporto clientelare per Selznick è una cooptazione nascosta.

Poco a poco quei rapporti riuscirono a far modificare l'indirizzo sociale del programma originario di
promozione e di assistenza dei piccoli contadini.

Dunque ci si può domandare “Cosa è rimasto del programma originario della TVA?”

Selznick risponde che bisogna distinguere tra la parte tecnica e parte sociale del programma.
Mentre la parte tecnica (rimboscamento, costruzione di dighe e di centrali elettriche, produzione di
fertilizzanti) fu compiuta secondo le previsioni, la parte sociale subì un sostanziale tradimento, con
l’abbandono degli obiettivi originali di sviluppo sociale.

ISTITUZIONI E FUNZIONI DELLA LEADERSHIP

In questo studio Selznick attenua il suo pessimismo e riconosce che non sempre un'organizzazione è
destinata a tradire gli obiettivi originari, ma può raggiungerli se diretta da una leadership efficace.

Egli distingue due tipi di organizzazioni:

1. Organizzazioni Strumentali: si limitano a svolgere servizi tecnici e in esse contano l'efficienza


amministrativa e le procedure razionali (un esempio sono le agenzie di raccolta dei rifiuti o dei
trasporti urbani).
2. Organizzazioni che chiama Istituzioni: capaci di progettualità politica, in cui conta definire e
proporre dei valori, avere un'identità e un progetto che le distingua dall'essere semplici strumenti
tecnici (un esempio è il governo di una città che si propone di attuare una politica).

Egli inoltre fa un ulteriore distinzione tra decisioni di routine e decisioni critiche. Le prime rientrano
nell'ordinaria amministrazione, riguardano le organizzazioni di servizio e possono essere giudicate in
termini di efficienza tecnica. Le seconde rientrano invece nella sfera della leadership perché riguardano la
definizione dei valori e degli scopi. Proprio questo è il tratto caratterizzante delle istituzioni perché per
definizione solo in queste ultime si esprime la volontà politica di mobilitarsi per definire degli scopi e per
raggiungerli.
Dunque la leadership è un'attività creativa che rende l'istituzione capace di prendere iniziative e si
manifesta in 4 funzioni fondamentali:

1. Definisce la missione e il ruolo dell'istituzione, ossia indica la prospettiva generale di azione


2. Incorpora lo scopo nell'istituzione, si impegna cioè a diffondere determinati modi di pensare e di
sentire in modo che tutti interiorizzino lo scopo dell’istituzione

3. Difende l'integrità istituzionale, ovvero tutela il patrimonio ideale dell’istituzione

4. Compone i conflitti interni, deve essere cioè capace di ottenere il consenso di entrambe le parti
svolgendo una buona mediazione.

Selznick indica tre principali rischi nell'esercizio della leadership:

1. Fuga nella tecnologia: quando in carenza di obiettivi strategici si concentra sull'acquisizione di


mezzi come se fossero un surrogato dei fini. Spesso la fuga nella tecnologia si accompagna a una
definizione non problematica dei fini, assunti come se fossero scontati o imposti dall’esterno.
2. L'opportunismo: quando si perseguono fini a breve termine, senza una visone di largo respiro.

3. L'utopismo: quando si perseguono obiettivi non raggiungibili in base a considerazioni puramente


ideologiche.

LE RICERCHE ISTITUZIONALISTE DI PRIMA MANIERA


L’opera di Selznick segnò profondamente gli indirizzi di ricerca della sociologia americana
dell’organizzazione.
Tra gli anni '50 e '60 comparvero numerose ricerche orientate ad esaminare lo scarto tra gli scopi originari
di specifiche organizzazioni e i cambiamenti intervenuti per adeguarsi alle pressioni di istituzioni operanti
nell'ambiente. Le organizzazioni esaminate erano per lo più associazioni filantropiche, ospedali, scuole,
tutte organizzazioni che dovendo dipendere in larga misura da sovvenzioni esterne erano particolarmente
esposte alle pressioni ambientali.
Alcuni esempi di ricerche ispirate al funzionalismo pessimista di Selznick sono:

1. Un’associazione nata per soccorrere immigrati indigenti cambiò poco per volta l’oggetto dei suoi
interventi fino a trasformarsi in un circolo ricreativo per gioventù proveniente da fuori città, ma
erano giovani di classe media originari di aree suburbane.
2. Un istituto di formazione professionale per giovani ciechi che per statuto avrebbe dovuto aiutarli a
inserirsi sul mercato del lavoro, trovò più conveniente indurli a lavorare indefinitamente
nell’istituto stesso perché in tal modo li impiegava a basso costo e senza perdere le sovvenzioni
previste.

3. Lo Junior College di un piccolo paese che proclamava di garantire l'accesso all'università, in realtà
era diventato, a causa del basso livello di preparazione dei suoi studenti, un mero dispensatore di
diplomi, senza alcuna reale speranza di ammissione all’università. Ma la truffa non era denunciata
da nessuno perché gli stessi studenti e le loro famiglie avevano interesse a far credere che il titolo
acquisito avesse valore sul mercato del lavoro.

4. Un ospedale che aveva accettato sovvenzioni private si vide richiedere dai donatori di dedicare i
fondi non alla ricerca ma a innovazioni tecnologiche di scarsa utilità che avrebbero dato pubblicità
all’ospedale e ai donatori stessi.

5. Sul funzionamento della giustizia negli USA, sebbene la legge proclami che i processi sono fatti
per accertare la verità, gli accusati che non avevano i mezzi per permettersi una difesa privata
erano inseriti in un meccanismo burocratico in cui gli stessi avvocati difensori di ufficio li
consigliavano di proclamarsi colpevoli in cambio di una riduzione della pena. Con questa tecnica i
processi erano estremamente svelti dando l’impressione di una macchina della giustizia rapida ed
efficiente.
6. Un caso in cui lo scostamento dagli scopi originari non pone in luce meccanismi degenerativi è la
ricerca sulle forze armate, da cui emerge che il passaggio dall’esercito sotto il controllo di una
burocrazia civile di nomina governativa provocò la progressiva emarginazione dei generali più
guerrafondai e favorì la crescita di una tecnostruttura militare molto più prudente nell’uso delle
armi.

Nel loro insieme le ricerche istituzionalistiche di prima maniera presentano alcuni tratti comuni:
- Un impianto discorsivo e olistico (olis = intero): gli autori svolgono ricerche qualitative
(interviste) per mostrare il progressivo allontanamento dagli obiettivi originali ed i racconti non
individuano specifiche variabili come fattori di cambiamento ma coprono tutto l’arco delle
vicende che anche in modo indiretto e inconsapevole hanno contribuito al cambiamento.
- L’enfasi sull’ambiente esterno: visto come un insieme di istituzioni capaci di condizionare le
scelte delle organizzazioni. Le pressioni non provengono necessariamente da enti potenzialmente
nemici dell’organizzazione ma possono essere esercitate da membri appartenenti alla stessa
organizzazione, i quali chiedono che per la sopravvivenza essa operi in modo più conforme a
interessi sociali consolidati o adeguandosi a criteri di mercato.

- Tanto le organizzazioni che subiscono pressioni quanto le istituzioni che le esercitano appaiono
dotate di una logica di azione che trascende le volontà dei singoli individui. Le ricerche
rappresentano le istituzioni come entità impersonali e oggettive che orientano l’azione degli
individui e delle organizzazioni senza bisogno di leadership o di strategie consapevoli. In questa
prospettiva il mercato appare una delle massime istituzioni di cui tenere conto per comprendere il
comportamento di organizzazioni con scopi in apparenza anche lontanissimi dalla sfera
economica.

LA SCUOLA NEOISTITUZIONALISTA
Il neo-istituzionalismo indica la continuità rispetto al passato ossia individua nelle istituzioni l'oggetto
primario di interesse, ma cambia il problema fondamentale a cui dare risposta: “per quale ragione
organizzazioni dello stesso tipo (ospedali, scuole, giornali, imprese) sono tutte così simili fra loro?”
La ridefinizione del problema comporta alcuni rilevanti cambiamenti nell’impianto concettuale rispetto al
vecchio istituzionalismo:
1. scompare il funzionalismo che portava a vedere le organizzazioni come sistemi organici con
bisogni primari da soddisfare per poter sopravvivere.
2. cade la centralità di un potere intenzionale e specifico volto a dominare le organizzazioni
esistenti e soprattutto quelle nuove.

3. scompare il pessimismo di principio che portava a vedere le organizzazioni come condannate a


tradire sempre gli propri scopi originari.

4. emerge una visione più articolata dei rapporti tra le organizzazioni sottoposte a una diffusa rete
di influenze reciproche che non sono sempre negative.

5. viene dato spazio ai processi cognitivi degli attori, vale a dire viene riconosciuta l'importanza
delle mappe mentali nella costruzione sociale della realtà.
JOHN MEYER E BRIAN ROWAN affrontano le tematiche neo-istituzionaliste proponendo il concetto
di isoformismo. Con tale concetto essi intendono descrivere le ragioni e i processi per cui le unità che
formano una data popolazione (che può essere di singoli individui ma anche di organizzazioni) sono
spinte ad assomigliare sempre più tra di loro ossia ciò che porta alla progressiva omogeneizzazione delle
varie componenti sociali.
Il concetto venne messo a punto a seguito di una ricerca sul sistema scolastico americano nel 1975 per
dimostrare l’importanza delle pressioni istituzionali nel fissare i criteri di valutazione
dell’insegnamento.
Dalla ricerca emergeva che data l'impossibilità di controllare l'effettiva efficacia dell'insegnamento sul
futuro professionale degli studenti, il sistema scolastico ha elaborato delle procedure sostitutive nella
presunzione che queste garantiscano l'efficacia dell'insegnamento. Insegnanti, allievi, contenuti didattici,
tipo e qualità delle scuole vengono valutati secondo precisi parametri.
Ma poiché la reale efficacia di quei parametri non potrà mai essere verificata in modo diretto, si deve
dedurre che essi rispecchiano soltanto le convinzioni socialmente prevalenti, su cosa sia l’efficacia
formativa. E dal momento che non sono supportate da prove empiriche, quelle convinzioni sono soltanto
un mito.
Dunque il criterio per valutare la qualità e l’efficacia di una scuola non è altro che il grado in cui essa si
conforma al cerimoniale delle procedure stabilite per onorare il mito di ciò che si ritiene sia la qualità e
l’efficienza dell’insegnamento. Quanto più alta è la conformità, tanto maggiori sono le probabilità della
scuola di ottenere sovvenzioni e riconoscimenti simbolici e che i suoi allievi al termine degli studi siano i
più richiesti sul mercato del lavoro.
Ne consegue che quanto più una scuola si conforma ai criteri prevalenti su cosa è l'istruzione, tanto più il
suo orientamento è giudicato giusto da parte delle istituzioni operanti nell'ambiente; e quanto più è
considerato giusto più viene premiato.
Successivamente Meyer e Rowan estendono la loro tesi proclamando che molte organizzazioni non
hanno criteri propri di razionalità e seguono criteri suggeriti dall'ambiente esterno, oppure hanno
criteri propri ma questi differiscono da quelli prevalenti nell'ambiente.
Da questa tesi ne deriva che l'oggetto principale di ricerca sono le pressioni che le istituzioni esercitano
sulle varie organizzazioni affinché si adeguino ai criteri della razionalità prevalenti, ossia come si
sviluppano i processi di isomorfismo.

Il messaggio di Meyer e Rowan è che siamo entrati in un mondo profondamente diverso dal passato. Un
tempo le organizzazioni nascevano per iniziativa dell’imprenditore e questi doveva avere sufficiente
spirito di intraprendenza, intuito e propensione al rischio per farsi largo da solo e arrivare al successo. Il
rischio era solo suo, così come soltanto suoi erano i criteri con cui guidare e organizzare l’impresa.

Oggi la società è sempre più popolata da istituzioni di ogni tipo (enti di governo, scuole, banche, mass
media) che nell’insieme stabiliscono un fitto reticolo di normative a cui le organizzazione devono
attenersi per avere riconoscimento e successo, tanto che oggi non è più possibile comprendere l’azione e
la stessa esistenza di singole organizzazioni se non si tengono in conto le pressioni ambientali (vale a dire
istituzionali) volte a farle nascere e operare in un certo modo.

Ma quali criteri governano lo sviluppo dei processi di isomorfismo? Meyer e Rowan li indicano in alcune
potenti regole istituzionali che fungono da miti razionalizzati.
L’espressione è un ossimoro che suggerisce l’idea di una credenza immaginaria resa plausibile da un
discorso logico. Essa indica delle regole che non si basano su prove empiriche ottenute con metodo
scientifico, ma che sono legittimate dalla convinzione di essere razionalmente efficaci o conformi a un
mandato legale. L’affermarsi di un mito razionalizzato favorisce la creazione di nuovi campi di attività
dove si scatena la corsa di vecchie e nuove organizzazioni per soddisfare il business alimentato dal mito
stesso (si pensi ad esempio al proliferare di società di consulenza aziendale e di formazione
professionale).

Ci sono due tipi di organizzazioni:

1. quelle che recepiscono dall'esterno i criteri di razionalità , sono organizzazioni prive di criteri
intrinseci per valutare l'efficienza (scuole, teatri, musei, chiese, associazioni di volontariato) e che
si basano sulla capacità di adeguarsi alle aspettative e alle esigenze cerimoniali prescritte da
istituzioni esterne.
2. quelle che hanno criteri propri che possono confliggere con quelli esterni , sono organizzazioni con
criteri autonomi percepiti come oggettivi nel valutare l'efficienza del loro processo produttivo
(imprese industriali).

POWELL DI MAGGIO. CAMPI ORGANIZZATIVI E TIPOLOGIA DELL'ISOMORFISMO.


Un importante approfondimento nello studio dei processi di isomorfismo è dato da POWELL (1949-
vivente) e DIMAGGIO (1951-vivente) in un articolo del 1983, in cui essi:

• Elaborano il concetto di campo organizzativo


• Osservano la presenza di tipi diversi di processo isomorfico

• Evidenziano come l’isomorfismo investa anche gli individui e non solo le organizzazioni

Powell e DiMaggio assumono la conclusione di Meyer e Rowan che le pressioni istituzionali spingono le
organizzazioni a diventare sempre più simili senza necessariamente diventare più efficienti. Ma il
problema che resta da spiegare sono le ragioni per cui questo fenomeno accade.

Essi trovano la risposta nel concetto di campo organizzativo definito come un insieme di organizzazioni e
di soggetti (imprese, fornitori, consumatori, agenzie di controllo) che nel loro complesso costituiscono
un’area riconosciuta di vita istituzionale. Dunque un campo organizzativo non è formato soltanto da unità
in concorrenza tra loro ma da una moltitudine di attori che in modo più o meno diretto e consapevole
concorrono a un processo di cambiamento, sia esso politico, culturale, economico o tecnologico.

Per la ricerca il concetto di campo organizzativo comporta tre conseguenze:

- Il concetto di organizzazione si estende fino a comprendere come è organizzato il campo


organizzativo formato da tanti differenti tipi di organizzazioni;
- Scompare la distinzione tra organizzazioni che subiscono pressioni e istituzioni che le esercitano;

- La ricerca sul cambiamento organizzativo diventa la ricostruzione di un intero pezzo di storia


della società in cui il cambiamento si è verificato.
Il secondo punto del contributo di Powell e Dimaggio è che l'isomorfismo varia a seconda delle modalità
e della velocità con cui si sviluppa.
Essi distinguono tre tipi di isomorfismo: coercitivo, mimetico e normativo.

1. L’ISOFORMISMO è COERCITIVO, quando l'organizzazione è sottoposta a pressioni esterne


che la obbligano a conformarsi (un esempio sono i vincoli di legge o le clausole contrattuali con
imprese più potenti).
2. L’ISOFORMISMO è MIMETICO, quando le organizzazioni iniziano spontaneamente processi
imitativi per fronteggiare l’incertezza dell’ambiente. L’imitazione agisce come un surrogato di
certezza secondo il tipico ragionamento per cui se tutti si comportano o agiscono in un dato modo
vuol dire che c’è una ragione ed è bene conformarsi (un esempio sono il crollo di Wall Street e la
crisi del ’29).

3. L’ISOFORMISMO è NORMATIVO, quando nasce da processi di professionalizzazione, ossia


quando i responsabili dell’organizzazione apprendono in centri specializzati nuovi metodi di
conduzione. La scelta della novità deriva dalla comprovata consapevolezza della superiorità delle
nuove pratiche rispetto alle vecchie (un esempio sono i processi isomorfici di selezione del
personale).

L’isomorfismo delle organizzazioni si riproduce in quello dei soggetti che diventano a loro volta
un potente fattore che rafforza l’isomorfismo normativo delle organizzazioni. Difatti alcuni
assumono in modo così profondo gli obiettivi dell’organizzazione in cui sono inseriti da farsene
promotori in prima persona, facilitando i processi isomorfici.

UNA RICERCA NEOISTITUZIONALISTA

La ricerca di Dimaggio sull'evoluzione dei musei d'arte negli stati Uniti tra il 1920 e il 1940 è
- Un tipico caso di isomorfismo normativo
- Che comportò la formazione di un nuovo campo organizzativo
- Che evidenzia come il processo isomorfico non sia pacifico e naturale ma denso di conflitti sociali

Egli inizia descrivendo il contrasto che si era aperto tra i fautori di due opposte concezioni del museo
d'arte, una conservatrice ed elitaria e un’altra riformista e democratica.

1. I conservatori sostenevano che i musei dovevano dedicarsi alla collezione di opere d'arte intese
come oggetti rari e antichi di indiscusso valore, essere destinati a una ristretta schiera di
intenditori, stare sotto il controllo dei donatori e degli specialisti d’arte ed essere collocati in
edifici eleganti e solenni.
2. I riformisti sostenevano invece che i musei dovevano esporre oggetti belli anche se non antichi,
impegnarsi nell'istruzione artistica di un vasto pubblico, essere sotto il controllo di professionisti
museali ed essere collocati in edifici semplici ed accessibili.

DiMaggio esamina le vicende che portarono il modello riformista ad essere vincente, e il suo racconto
mette in luce due aspetti principali.
Il primo è il contrasto che si venne a creare tra la forte crescita delle sovvenzioni da parte dei donatori
privati (favorevoli alla visione conservatrice) e l'aumento dell'influenza degli operatori museali favorevoli
invece alla concezione riformista dei musei. Tra gli anni 20 e 30 le sovvenzioni private passarono da due
milioni e mezzo di dollari a 18 milioni e il numero dei musei triplicò.
L'aumento del numero dei musei provocò degli effetti sociali a catena: non aumentarono soltanto i
visitatori dei musei, ma aumentò il numero delle facoltà di belle arti nelle università americane, e di
conseguenza il numero di esperti di gestione museale, di critici d’arte e di artisti laureati. A sua volta il
consolidamento dei corsi di belle arti sollecitò le università a sviluppare i rapporti con i musei dunque si
venne a creare una collaborazione tra musei e nuovi attori.
Tra gli effetti della crescita dei professionisti museali vi fu che essi cominciarono a chiedere aiuti
finanziari agli enti governativi, diminuendo così la dipendenza dei musei americani dal potere dei
mecenati privati.
Proprio l’aumentato impegno finanziario dei donatori privati per espandere la struttura museale americana
poneva la premessa per la crescita e l'istituzionalizzazione di una comunità di professionisti che intendeva
la funzione dei musei in maniera diametralmente opposta a quella dei donatori privati.
Il secondo aspetto sottolineato da Di Maggio è che il contrasto tra professionisti e donatori non si
manifestò all'interno dei musei, dove vigeva una forte gerarchia formale e dove i professionisti erano
attenti a conformarsi al volere dei donatori, ma avvenne al di fuori dei musei, nello sviluppo di una fitta
rete di organizzazioni parallele e di iniziative volte a sostenere la causa riformista. In quella rete che non
era governata da strutture gerarchiche ma dove valeva la competenza su basi egualitarie, i professionisti si
rilevarono particolarmente abili nel muoversi e nell’ottenere consensi alla loro visione dei musei.
Nel processo di istituzionalizzazione del professionismo museale, un ruolo decisivo fu svolto dalla
Carnegie Corporation, fondazione privata che grazie alla guida carismatica del suo presidente, Frederick
Keppel, prese una decisa posizione a favore della concezione riformista dei musei.
Attraverso donazioni ai musei e il finanziamento di una fitta rete di colleges of arts nelle università e di
associazioni professionali, contribuì alla creazione di un nuovo campo organizzativo formato da
organizzazioni dominate dagli staff museali e accademici fra cui scuole, associazioni professionali,
riviste, mostre itineranti.
Fondamentale in tale processo fu la costruzione di sedi decentrate dei musei che apparivano come
l'espressione più coerente e avanzata della concezione riformista, secondo cui per indurre a visitare i
musei bisognava portare l'arte in periferia presso il grande pubblico.
DiMaggio con la sua ricerca sui musei arriva alle conclusioni che:
- la diffusione dei musei fu guidata a livello nazionale da una rete di organizzazioni (il campo
organizzativo) create da attori che volevano modificare la struttura e la missione originaria del
museo
- le nuove forme organizzative del museo ricorsero come giustificazione culturale all'ideologia
progressista di democrazia e efficienza
- la creazione del campo organizzativo si intrecciò agli sforzi di coloro che lavoravano nei musei
per definire la propria professione e per aumentare la propria autorità

Infine DiMaggio rileva che nelle organizzazioni non di profitto, come i musei, il ruolo dei professionisti
amministrativi può essere molto potente e diffuso. Quando gli enti pubblici hanno uno scarso potere di
intervento, sono le comunità dei professionisti ad avere la massima opportunità di trasformarsi in potenti
campi di sovranità professionale.
CAPITOLO 5 

GLI APPROCCI MORBIDI

Gli approcci morbidi alle organizzazioni privilegiano gli aspetti culturali, simbolici, riflessivi e pongono
particolare attenzione al processo di attribuzione di senso che i soggetti attivano nell’interazione con le
organizzazioni stesse. Essi si diffondono negli anni ’70 in forza di due fattori:

- Il declino dei controlli puramente burocratici nelle imprese con il passaggio a strumenti più
raffinati di natura normativa, basati sulla interiorizzazione da parte dei dipendenti dei valori e
degli obiettivi dell’impresa per cui lavorano.
- La crescente insoddisfazione per lo studio dei soli aspetti strutturali delle organizzazioni, si
trattava in prevalenza della critica agli approcci di ispirazione contingentista secondo cui esiste
una connessione tra il grado di turbolenza dell’ambiente e la struttura ottimale
dell’organizzazione.

Sono due le principali contestazioni a tale approccio, la prima è che le scelte strategiche delle imprese non
potevano essere spiegate in base alle loro caratteristiche strutturali, ma dipendevano in larga misura dall’
azione strategica dei soggetti, la seconda contestazione è che le imprese operanti nello stesso settore, di
medesima ampiezza e con strutture organizzative comparabili rilevavano un'atmosfera
interna, motivazioni a partecipare e livelli di prestazione profondamente diversi.

In più negli stessi anni si diffondono i metodi di ricerca qualitativa come lo studio dei casi, l'osservazione
partecipante, l’etnografia e la ricostruzione di eventi significativi nella storia delle organizzazioni.
Gli approcci soft non caratterizzano una sola scuola di pensiero, ma sono condivisi da una molteplicità di
scuole, come l’interazionismo simbolico, il cognitivismo, la fenomenologia e l’etnometodologia. Tuttavia
è possibile individuare nell’asse oggetto-soggetto la dimensione concettuale lungo cui collocare i diversi
approcci.

Ad un estremo troviamo gli approcci oggettivisti o culturalisti, così chiamati perché partono dal
presupposto che le organizzazioni possiedono una propria cultura intesa come un giacimento che si è
progressivamente accumulato nel tempo, e che il suo studio sia la strada maestra per capire sia il
funzionamento delle organizzazioni stesse che il comportamento dei soggetti che ne fanno parte.

All'estremo opposto, troviamo gli approcci soggettivisti o interpretativi, così chiamati perché partono
dal presupposto che la realtà esterna sia soltanto una costruzione sociale risultante dal conferimento di
senso che i soggetti compiono nel flusso della loro esperienza.

EDGARD SCHEIN E IL CONCETTO DI CULTURA ORGANIZZATIVA.

Schein è l’esponente della versione più oggettivista del culturalismo.

La sua tesi fondamentale è che studiare un’organizzazione equivale a studiare la sua cultura.

Per Schein la cultura organizzativa è l'insieme coerente di assunti fondamentali che un dato gruppo ha
inventato, scoperto o sviluppato affrontando i suoi problemi di adattamento esterno e di integrazione
interna, e che hanno funzionato abbastanza bene da poter essere considerati validi, e perciò tali da poter
essere trasmessi ai nuovi membri come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a quei
problemi.

La conoscenza di una cultura organizzativa procede attraverso un’analisi che si sviluppa a differenti
livelli di profondità:

1) Al livello superficiale ci sono gli artefatti ossia i prodotti direttamente osservabili di una data
organizzazione (la sua architettura, l’arredamento, la tecnologia, il gergo, l’abbigliamento, la
mimica, i simboli, i rituali).
2) Al livello intermedio si trovano i valori espliciti dell'organizzazione. Siamo nella sfera dei
discorsi manifesti e accettati, che vengono creati e fatti circolare dalla leadership per rafforzare il
senso di appartenenza e solidarietà, individuare i pericoli e i nemici esterni, chiarire e legittimare
le scelte dell'organizzazione, creare consenso tra i membri. 
3) Al livello di fondo troviamo gli assunti di base. Sono quelle convinzioni profonde e inespresse,
date per scontate, di cui i membri non sono nemmeno del tutto consapevoli (percezioni, pensieri,
sentimenti).

Questo è il livello più importante per capire l'anima dell'organizzazione, le motivazioni profonde
delle azioni dei suoi membri e il modo in cui questi sono stati selezionati e plasmati.

COME SI FORMANO GLI ASSUNTI FONDAMENTALI DI UN’ORGANIZZAZIONE?

Per Schein una cultura si forma sempre in un gruppo formato da persone che hanno condiviso
problemi significativi e sviluppato delle soluzioni.

Più il gruppo è omogeneo, stabile, con lunghe e intense esperienze, più forte è la sua cultura, viceversa se
il gruppo è composto da persone con scarse esperienze comuni la sua cultura è debole. Dunque per
sviluppare una cultura comune il gruppo deve avere una storia comune.

Tutto ciò equivale a dire che una cultura non è fatta di idee astratte, ma di risposte a problemi concreti che
occorreva risolvere, inventando o scoprendo soluzioni che poi diventano oggetto di apprendimento da
parte dei nuovi membri del gruppo. La validità delle risposte non è data soltanto dalla loro efficacia nel
risolvere problemi pratici ma anche dal grado in cui riducono l'ansia dei membri che nasce quando non si
riesce a percepire un ordine o una coerenza interna.

Schein distingue due grandi categorie di problemi: i problemi di adattamento del gruppo all’ambiente
esterno e i problemi di adattamento del gruppo all’ambiente interno.

1. I problemi di adattamento del gruppo all'ambiente esterno riguardano gli obiettivi, le strategie
e i mezzi (per realizzare gli obiettivi) e la valutazione delle prestazioni. Su questi problemi occorre
un consenso minimo necessario pena la dissoluzione del gruppo.
2. I problemi di adattamento del gruppo all'ambiente interno riguardano la capacità del gruppo
interno all'organizzazione di funzionare come gruppo. Anche qui c'è un'esigenza di consenso, che
riguarda i criteri per includere ed escludere i membri, per distribuire il potere, per sviluppare
amicizia, per stabilire premi e punizioni.

Bisogna inoltre sottolineare come la cultura sia in formazione perenne in quanto è sempre in atto qualche
tipo di apprendimento circa il modo di rapportarsi con l’ambiente esterno e gestire gli affari interni.

Si crea così una tensione tra l’esigenza di conservare il patrimonio degli assunti formatisi con l’esperienza
precedente e l’esigenza di adattarli alle novità che li sfidano. La tensione tra conservazione e innovazione
è presente in ogni cultura organizzativa e spetta alla leadership gestirla.

Infine l’analisi della cultura organizzativa deve essere integrata da un approccio che metta a fuoco 3
aspetti:

• i processi di socializzazione dei nuovi membri, ossia come la cultura organizzativa viene trasmessa,
recepita e adattata;
• le risposte date a eventi critici nella storia dell’organizzazione, e questo perché quelle risposte formano
un patrimonio di ricordi che concorrono a formare l’identità collettiva dell’organizzazione;

• le anomalie o i tratti sorprendenti osservati man mano che la ricerca procede. Una cultura organizzativa
può essere messa meglio a fuoco se si esaminano le irregolarità, le devianze e le tensioni latenti che in
essa si producono;

Infine tutti questi elementi devono essere ricondotti al modo in cui viene esercitata la leadership. Per
Schein leadership e cultura non sono che due aspetti della medesima realtà: studiando la leadership di
un’organizzazione si studia la sua cultura e viceversa.

JOANNE MARTIN E LA PLURALITA' DELLE CULTURE ORGANIZZATIVE

La forza dell'opera di Schein sta nell'offrire un convincente strumento di analisi delle culture
organizzative. La debolezza del suo impianto teorico sta nel proporre una visione sostanzialmente olistica
e omogenea delle culture organizzative, come se queste fossero degli insiemi coerentemente connessi
nelle loro varie parti. Schein riconosce che nelle organizzazioni possono esistere degli aspetti subculturali
legati a particolari segmenti delle loro popolazioni interne.

Joanne Martin è una autrice che corregge la pretesa assolutistica del pensiero di Schein, non rifiuta quel
modello ma lo relativizza affiancando tre prospettive di analisi: attraverso il continuo passaggio dall'una
all'altra prospettiva è possibile pervenire a una conoscenza riflessiva delle organizzazioni che tiene
presente che quelle prospettive generano discorsi incompatibili tra loro. Le tre prospettive sono:

1. INTEGRATIVA: la cultura è fonte di armonia e consenso.


2. DIFFERENZIANTE: in un'organizzazione esistono diverse sub culture talvolta in conflitto tra
loro.

3. FRAMMENTARIA: in un'organizzazione non esistono culture ben definite ma una molteplicità


di punti di vista fluttuanti e ambigui.

Per capire come le tre prospettive possono coesistere bisogna tenere presente che: le tre prospettive non
rispecchiano situazioni oggettive differenti ma differenti interpretazioni soggettive, inoltre, il passaggio
attraverso le tre prospettive, proprio perché si escludono a vicenda, offre al ricercatore la possibilità di
una comprensione più profonda delle organizzazioni studiate. Per la Martin se ogni contesto culturale è
studiato abbastanza in profondità alcune cose appariranno coerenti e generatrici di consenso, altri nei
confini subculturali appariranno frammentati in uno stato perenne di flusso. La Martin per dare validità
alla sua tesi riporta una sua ricerca una ricerca su una grande impresa elettronica OTZU (potrebbe essere
IBM): tra i tanti argomenti la Martin seleziona tre principali questioni:

1. l'egualitarsmo di trattamento e opportunità di carriera offerto ai dipendenti.


2. l'atteggiamento del managment verso l'introduzione di innovazione

3. l'attenzione dell'impresa per il benessere fisico e mentale dei suoi dipendenti.

Analizza tali punti nelle tre prospettive.


Prospettiva Integrativa: per tutti e tre le questioni ricevono un giudizio rassicurante circa il clima
aziendale e la collaborazione tra managment e dipendenti, dipendenti partecipano agli utili dell'impresa,
hanno sicurezza di impiego, l'egualitarismo è salvaguardato anche negli usi quotidiani, parcheggi e mense
comuni ai dirigenti e dipendenti, l'innovazione è incoraggiata al fine di creare strutture organizzative
capaci di integrare sempre meglio produzione e marketing andando incontro alle richieste dei clienti. Da
qui il racconto integrativo dell'ordine aziendale, emergono aspetti di consenso, il cambiamento coinvolge
l'intera organizzazione, l'approccio integrativo riconosce l'esistenza di ambiguità e conflitti solo come
crisi temporanee superabili con nuovi ordini.

Prospettiva differenziante: L'impresa è un insieme di diverse popolazioni lavorative dotate ciascuna di


una subcultura, non esiste l'egualitarismo, gli ingegneri hanno privilegi, incentivi sono usati come mezzo
di pressione sui dipendenti, si decide in modo autoritario, la gioviale disponibilità dei manager è in realtà
solo uno strumento di controllo sui dipendenti, poche donne hanno posizioni di rilievo. L'innovazione è
perseguita non in modo omogeneo e ostacolato da barriere interne. Le subculture sono di vari strati etnici
e professionali.

Prospettiva frammentaria: la Martin si sente più vicina a questa prospettiva, qui si vanifica l'esistenza
di una omogenea cultura aziendale ma anche quella delle tante subculture perché caratteristica dell'intera
organizzazione sono la confusione e l'ambiguità. Opportunità di carriera, introduzione di incentivi,
politiche del personale e costumi di vita quotidiana sono regolati in modo incerto e casuale e
imprevedibile. Tale prospettiva sottolinea la casualità dei processi decisionali le anarchie organizzate,
flussi costanti e imprevedibili di cambiamento. 

Poiché le tre prospettive sono incommensurabili non è possibile fare delle sintesi ma bisogna cercare di
tenerle tutte presenti. Per adottare questo approccio multiprospettico bisogna abbandonare il presupposto
oggettivistico che una prospettiva sia più corretta delle altre due. Conosciamo le organizzazioni solo
attraverso le loro rappresentazioni discorsive.

GIDEON KUNDA: LA CULTURA AZIENDALE COME STRUMENTO DI CONTROLLO

Kunda, sociologo israeliano svolge una ricerca in chiave postmoderna sulla cultura aziendale su una
grande impresa aziendale la Tech (che sarebbe la digital). Il suo scopo è quello di spiegare in cosa
consiste quella cultura come viene trasmessa, inculcata ai dipendenti e come questi reagiscono. La sua è
una ricerca etnografica sulla cultura aziendale della Tech, la post modernità sta nella finezza con cui egli
indaga sui rapporti tra pressioni aziendali e personalità dei soggetti e poi l'autoanalisi che mette in
discussione se stesso e i suoi risultati di ricerca. Inizia osservando gli aspetti più manifesti (come Schein)
dell'ambiente di lavoro e dell'organizzazione aziendale e poi scende a livelli sempre più profondi.
Sottolinea le ambiguità dei dipendenti le loro personalità plurime (multiple self) motivo postmoderno
della sua analisi. Si pone il problema di capire le ragioni di quei discorsi, sono pronunciati dalle stesse
persone, e ci si chiede se proprio nella loro contraddittorietà esse non esprimano un faticoso equilibrio
esistenziale. Mentre Barnard indicava nel rapporto tra organizzazione e soggetti il problema centrale tanto
della pratica manageriale che dell'analisi organizzativa, un'organizzazione non può mai spingersi al punto
da richiedere l'annullamento della personalità dei suoi membri, ma essi manterranno sempre un quid
irriducibile che è alla base della loro personalità privata che non potrà mai identificarsi totalmente con la
personalità organizzativa. Barnard vedeva gli incentivi morali e culturali come fattore di coesione e di
collaborazione tra individui e organizzazione. Rispetto ai tempi di Barnard il controllo delle imprese sui
dipendenti è molto più sofisticato: c'è un controllo di terzo livello per distinguerlo dal controllo coercitivo
(primo livello) e da quello gerarchico (secondo livello), tale controllo è detto concertato per indicare che i
soggetti hanno interiorizzato talmente bene i codici aziendali da essere divenuti i più solerti controllori di
se stessi e dei propri colleghi di lavoro (questo è il terzo livello). E' diventato dunque una sorta di
controllo culturale dove l'impresa vuole plasmare la personalità dei suoi membri, nella convinzione che
solo la totale e appassionata identificazione con i valori e voleri dell'impresa stessa può portare a
interiorizzare disciplina e autocontrollo. Si reinterpreta Barnard in modo da abolire il confine tra il sé e
l'organizzazionein modo da far coincidere, secondo Kunda, gli interessi dell'azienda e quelli del
singolo.Kunda articola in tre parti l'esposizione della sua ricerca:

1. tratti distintivi della cultura Tech


2. rituali attraverso cui quella cultura viene diffusa e inculcata nei dipendenti

3. modo in cui i dipendenti la recepiscono e ai costi umani che ciò comporta.

IDEOLOGIA E RITUALI COMUNICATIVI DELLA CULTURA AZIENDALE

Per Kunda, l'ideologia è un sistema autoritario di significati che chi detiene il potere presenta
all'opinione pubblica come una mappa per leggere la realtà e comportarsi di conseguenza.
L'ideologia, può essere considerata come il sottoinsieme di una più vasta cultura che ne comprende
tutti gli aspetti che sono consapevolmente articolati in modo da proporre un'immagine schematica
dell'ordine sociale ed esercitare un'autorità. Kunda esamina alla Tech la presenza di una ideologia
aziendale, tale ideologia proclama che la Tech ha una cultura forte sottolinea che i dipendenti devono
farla propria se vogliono contribuire al successo dell'impresa e raggiungere anche il proprio successo
personale. Alcuni dei principi esposti in un documento interno di quella che alla Tech è ufficialmente
chiamata cultura aziendale sono: 

1. siamo una grande famiglia


2. le persone sono creative, lavorano sodo, sono in grado di autogestirsi ed imparare.

3. la verità e la qualità sono il risultato di una pluralità di punti di vista, della libertà di
iniziativa. 

Libertà individuale, imprenditorialità e soprattutto fare ciò che è giusto sono continuamente indicati come
i valori fondamentali della Tech. La Tech si aspetta che tutti i membri escogitino da se stessi il modo
migliore di fare il proprio lavoro, che decidano per conto proprio le iniziative che ritengono giuste per
l'impresa e che se ne assumano la responsabilità. Il mondo Tech tende a sovraccaricare le persone se
queste lo permettono, alla Tech si può fallire perché significa non riuscire soltanto a raggiungere un
obiettivo e quindi una sconfitta è superabile, anzi si apprende dai fallimenti per non ripeterli più, tanto è
vero che uno dei capisaldi della Tech è che non si licenzia no mai gli assunti, che se sbagliano vengono
per qualche tempo spostati, emarginati privati del potere precedente una sorta di umiliazione psicologica.
Anche se i controlli sembrano in apparenza blandi non lo sono, inoltre bisogna essere flessibili, burout,
carriera fai da te, perdere, affogare, nuotare etc. Le esperienze spiacevoli devono diventare oggetto di
continua comunicazione.

LA RISPOSTA DEI DIPENDENTI. LO SPETTRO DEL BURNOUT E LA SUA CULTURA

Per spiegare le reazioni dei dipendenti alla pressioni da parte dell'azienda, Kunda ricorre ai concetti della
presa di ruolo e di distanza dal ruolo elaborati da Goffman. Per Goffman nel continuo gioco tra presa di
ruolo e distanza dal ruolo si forma il senso del sé.   Il sé non è un'entità seminascosta dietro gli eventi, ma
una formula mutevole per gestire se stessi nel corso di tali eventi. La cultura stessa prescrive il tipo di
identità a cui non dobbiamo credere di appartenere per avere qualcosa da manifestare. Goffman ci avverte
che per capire i processi di socializzazione del soggetto non basta considerare i meccanismi integrativi
che spingono alla conformità di ruolo, come sosteneva il funzionamento classico. Bisogna anche
considerare i meccanismi che spingono le persone a distanziarsi dai ruoli prescritti perché è nel mutevole
equilibrio tra adesione e distanza che si crea la nostra personalità complessiva. kunda parte da questa
premessa per interpretare il comportamento dei dipendenti della Tech e per lui aderire al ruolo significa
sottomettersi alla definizione del proprio sé che dà l'impresa, ma l'adesione totale è considerata dagli
stessi dipendenti poco dignitosa. La stessa Tech vuole che le persone siano capaci di decidere da sole.
Kunda individua alla Tech tre modi di prendere le distanze dal proprio ruolo:

1. cinismo: demistificazione dell'ideologia aziendale.


2. analisi fredda e distaccata della Tech: i membri della Tech diventano studiosi della propria
organizzazione.

3. appellarsi al buon senso: corpo di conoscenze pratiche più utili della cultura.

La presa di distanza dal ruolo porta a reazioni emotive dette da Kunda rifiuto, chi lo prova dice di stare
alla Tech solo per ragioni strumentali, le reazioni emotive possono però essere semplicemente
strumentali, un mezzo per raggiungere i propri scopi, ma questo richiede un perfetto controllo di se stessi,
cosa molto difficile da raggiungere, incombe sempre il rischio del burn out (scoppiare) per l'eccesso
prolungato di attività, per lo stress dagli impegni, dalla pressione dei colleghi, il burn out provoca la
perdita del controllo di se stessi, è molto diffuso alla Tech. 

LE AMBIVALENZE DELLA CULTURA AZIENDALE

Kunda insiste sull'ambivalenza del lavoratore in Tech che è tanto più profonda quanto più alti sono
i ruoli ricoperti. Migliorano la loro posizione e aumenta il loro controllo normativo, rischiano di perdere
autonomia personale, la costruzione del sé diventa un incessante equilibrismo tra apparenza e realtà, i
membri interiorizzano il problema del controllo che è insito nell'organizzazione e il sé privato finisce per
diventare territorio conteso.

Per Kunda la tech non è un'organizzazione totale, stipendi e fring benefits sono buoni, i suoi membri
godono di tutte le libertà e le gratificazioni che la società capitalistica può offrire anche se sperimentano
la continua erosione dei confini della propria vita privata. Kunda, conclude il suo studio ponendosi il
problema più vasto dell'impatto che culture aziendali simili a quella della Tech possono avere
sull'intera società. Kunda pone l'inquietante problema che imprese troppo potenti possono nuocere alla
democrazia del paese, l'eccesso di conformità culturale (come per Ouchi) può portare all'atrofia del
dissenso e al potenziale conflitto con le garanzie dello stato di diritto. La sua ricerca può essere vista
come uno sviluppo delle riflessioni sul rapporto tra soggetti e organizzazioni. Le differenze con Roy
e Crozier:

1. Roy descrive astuzie e manovre di operai e manager in una vecchia fabbrica dove il conflitto
quotidiano è l'esperienza collettiva principale
2. Crozier indaga le microstrategie di piccoli burocrati in una amministrazione pubblica bloccata
dalla mancanza di mercato e di possibilità imprenditive. 

3. Tech: usa invece la cultura aziendale come dichiarato strumento di controllo e potere, dalla
prospettiva culturalista che ne deriva Kunda avverte che un capitalismo sviluppato con grandi
risorse finanziarie, tecnologiche, conoscitive e manageriali può pervenire a un controllo delle
persone più capillare e sottile rispetto al passato.

La ricerca di Kunda, può essere letta come un'analisi della fenomenologia, che scaturisce dallo scontro tra
il tentativo aziendale di colonizzare le coscienze e l'ambigua risposta umana che trova nell'ironia e
nell'autoanalisi le sole possibilità di resistenza.

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